Ferrara, italiana di 32 anni pestata a sangue e rapinata da 5 africani: ecco come l’hanno ridotta (foto)

non è violenza, mica è come obbligare all’ascolto della lettura di un volantino…meno male che il prete pacifista di un’altra località organizza corsi di pugilato.

Niente solidarietà, per favore, sarebbe alimentare l’odio.
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FERRARA – Un altro episodio di inaudita violenza nel quartiere Gad: la vittima è una ragazza italiana di 35 anni massacrata da cinque immigrati di colore per un bottino di 500 euro, il suo stipendio.
Picchiata e rapinata da cinque individui mentre tornava da una sera con le amiche e si dirigeva verso la casa del fratello.
Emergono ulteriori dettagli sul grave fatto di violenza ai danni di una ragazza di 32 anni, Sandra Maestri, avvenuto giovedì notte, verso le 21,45 in zona Gad, più precisamente in piazza XXIV maggio.
Secondo quanto riferito alla polizia, la ragazza stava andando a casa del fratello dopo aver trascorso un’oretta in compagnia di alcune amiche in un’enoteca. Ma, giunta in piazza XXIV maggio, è stata accerchiata e picchiata, sia al volto che all’addome, da cinque individui di colore che poi sono scappati, portandole via la borsetta.
La stessa borsetta che la 32enne ha riferito di aver ritrovato più tardi, prima di andare in questura a sporgere denuncia, aperta e adagiata su una panchina, con a fianco il suo portafogli, anch’esso aperto a svuotato dei 500 euro che il padre le aveva consegnato in serata come compenso per l’attività lavorativa al mercato ortofrutticolo del giovedì, nell’anello dell’Acquedotto. Non è chiaro se gli aggressori fossero a conoscenza di questo fatto e abbiano agito pianificando la rapina o se se abbiano scelto la vittima a caso.
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Una volta arrivata in questura gli operatori della polizia hanno immediatamente allertato i soccorsi vedendo le ferite ancora visibilmente sanguinanti. La ragazza è stata portata al pronto soccorso dove è stata medicata (e in seguito dimessa con prognosi di 7 giorni) e lì è stata raccolta la denuncia.

Dai camerieri ai fattorini, quei mestieri da schiavi da 4 euro l’ora

la splendida democrazia che va difesa dalla bruta “ondata nera”, siamo o no nel migliore dei mondi possibile? Per fortuna che ci pensano i difensori dei deboli a lottare tanto tanto tanto per migliorare le condizioni di vita, si vedono i risultati.

Torino – Li chiamano lavori “low cost”, però sono low cost solo per i datori di lavoro. Per migliaia di persone in tutt’Italia si tratta di mestieri faticosi e pagati male, malissimo. Una top ten di occupazioni da incubo, messa assieme da La Stampa-Il Secolo XIX incrociando ultimi studi ufficiali, dati sui minimi di settore, interviste con sindacati e lavoratori. Sono i «settori con retribuzione media annua più bassa» censiti a novembre dall’Inps. È la «paga minima oraria di settore in Italia», secondo le medie dei vari contratti del settore elaborate su dati Istat-Fls (per esempio, operaio manifatturiero 9,47 euro l’ora, lavoratore edile 8,55). Ne è uscita la fotografia di un mondo con poche regole e ancora meno tutele.
Non esiste un salario minimo stabilito per legge, solo la contrattazione collettiva. Che però spesso viene aggirata. E anche gli stessi contratti sono una giungla: con i braccianti agricoli la paga cambia da provincia a provincia. «Almeno il 12 % dei lavoratori sono sottopagati rispetto ai minimi orari di settore», sostiene Andrea Garnero, economista dell’Ocse. E questo stando solo nell’alveo dei contratti “regolari”. Agricoltura, ristorazione, alberghiero, attività sportive e culturali sono i settori più spremuti. Ma chi sono questi lavoratori a prezzi stracciati, nuovi schiavi del cosiddetto “turbocapitalismo”? Li trovi al ristorante come lavapiatti o in casa, come fattorini. Macinano chilometri in bici o sul furgone, spesso con contratti atipici, o con contratti regolari sulla carta ma di fatto svuotati nella pratica. Sbarcare il lunario è una impresa. Sia Marco, cameriere di catering, sia Enrico, fattorino in bici, valgono meno di 7 euro l’ora. E non c’è capacità o conoscenza che tenga.
Anche chi fa un lavoro delicato come Dario, educatore in subappalto dai servizi sociali del Comune di Milano, non si muove dai mille euro al mese. Non solo perché la paga è bassa. Ma perché a volte è basso il numero di ore svolto. Oppure sono riconosciute meno ore di quelle effettivamente impiegate. O peggio, nel caso di Luca, postino privato in Veneto, bisogna tagliare metà dello stipendio per mettere la benzina necessaria a consegnare 15 mila buste al mese. «Non c’è solo il nero per pagare di meno – prosegue Garnero – Ci sono canali più sottili: basta non riconoscere mezz’ora di straordinario tutti i giorni». E poi ci sono tanti trucchi per aggirare controlli e contratti. Enrico, 30 anni, è un rider milanese di Deliveroo, il servizio a domicilio di pizza e kebab recapitato esclusivamente in bici. «Ho un contratto di collaborazione da 5 mila euro all’anno. Per tutti noi vale la stessa paga: 5,60 euro l’ora più un incentivo di 1,20 per ogni consegna. Tutto lordo. Anche la promessa di aprire la partita Iva per fare più consegne è un bluff: nei momenti di calma, la mattina o il pomeriggio, non vieni pagato». Nonostante decine di chilometri macinati, Enrico per ottobre ha incassato 450 euro. E se cade, si infortuna, si ammala o rompe la bici, sono solo problemi suoi. Salta il turno e le consegne le fa un altro. Nell’era della disintermediazione spinta ognuno fa da sé e non c’è nessun legame tra chi compra online, chi vende e chi consegna mobili o vestiti.
A rimanere intatta è solo la fatica di chi carica, scarica milioni di confezioni. In Italia l’85% delle merci viaggia ancora su gomma. Il livello uno di questa filiera di ordini-deposito-consegna è il facchino. Come G., arrivato a Roma dal Corno d’Africa, che sposta colli anche fino a 12 ore al giorno nei magazzini di un discount. Un lavoro pesante, che spacca la schiena e le gambe. Sulla carta ha un contratto regolare, la paga oraria è di circa 8,50 euro, ma nel cedolino a fine mese le ore si “asciugano” da 210 a 140. Alla fine si mette in tasca circa mille euro. «Cinque anni fa si stava meglio. Ora non ti pagano più nemmeno le ferie. E se non ti sta bene, ti dicono di cercarti altro».«Il mancato pagamento delle ore fatte e il non rispetto dei minimi contrattuali sono pratiche sempre più diffuse», commenta Alberto Violante dei SiCobas. Il passo successivo è nelle mani degli stakanovisti del volante, con carico e scarico compreso nel viaggio. Feriale o festivo non conta.
Così quelli come Luis, autista peruviano trapiantato a Brescia, si sono ingegnati. «Passo più tempo in cabina che a casa e quando tra la fine del turno e l’inizio del successivo sono troppo lontano o stanco dormo in cabina». In genere questi ritmi li tengono solo i camionisti dei Tir che però devono sottostare a periodi di break obbligatori. Invece per i cosiddetti “padroncini” quelle regole non valgono: lavorano in conto terzi e devono correre il più possibile. L’economia che rallenta li costringe ad accelerare: più consegne, più ore al volante, più pericoli. «Non esiste lo straordinario e ogni mese arrivo a 1.400 euro. Ma quanta fatica: se voglio vedere la mia fidanzata la devo portare in cabina con me». Anche per Luca l’ufficio è la strada. È un postino dei tempi moderni: inizia alle 6 del mattino, ha una pausa di 30 minuti e finisce alle 8, dal lunedì al venerdì. Il sabato fino alle tre. Fanno sessantadue ore a settimana.
Quasi il doppio del postino di Stato, mentre lui è in subappalto in Veneto per un operatore privato che distribuisce corrispondenza sotto i 20 grammi di peso grazie alla liberalizzazione. Un mercato di circa 2000 titolari di licenza dentro i quali si nascondono miriadi di società che fanno contratti “fantasiosi”, come racconta Luca: «Nella busta paga risulta che mi pagano a ore, però in realtà è cottimo: per ogni busta prendo da 5 a 8 centesimi». La differenza la fa la densità abitativa della zona assegnata. Così se incassa 1.100 euro, deve sottrarre le spese di benzina, caselli e costi della propria auto.
Dopo quasi 15mila buste infilate in 15 mila cassette non arriva a 600 euro al mese. Marco è uno studente di 22 anni che ogni tanto fa il cameriere. «Un catering “estremo” il mio: mi trovo con gli altri, partiamo in macchina e non sappiamo dove ci manderanno. Tutto il tempo del viaggio è gratis. E capita in un week-end di macinare centinaia di chilometri: da Milano a Modena la mattina, Lodi la sera e il giorno dopo sul lago di Como». Tutto per 6 euro l’ora con contratto in ritenuta d’acconto. E alla prima busta paga gli vengono trattenuti anche 20 euro per la cravatta nera obbligatoria. Per i periodi di massimo sforzo, settembre e dicembre, quando tutti vogliono sposarsi o organizzare una cena aziendale, a Marco arrivano fino a 70 “chiamate” in 30 giorni.
Un tour de force di andata-montaggio-evento-smontaggio-ritorno ripetuto a ritmi forsennati ogni 10 ore. Spesso non ha neppure il tempo di fare la barba e viene multato con una decurtazione di 10 euro. Illegale, ma accettata da tutti come un segno di nonnismo. «Dalla stanchezza mi è capitato di addormentarmi in bagno. Fuori mi aspettava il maître di sala che cronometrava la mia assenza dai tavoli». L’agricoltura resta il settore dove i lavoratori sono più torchiati. E non solo i braccianti immigrati, vittime di caporalato. Anche operaie agricole come Francesca, 50 anni, che si alza all’alba per raccogliere ciliegie o uva tutto il giorno in Puglia.
Sulla busta paga dovrebbe avere 52 euro a giornata, per 6 ore lavorative, ma di fatto ne riceve 28, se va bene 30, meno di 5 euro l’ora. Alla fine raccoglie mille euro. «Siamo tante donne in questo settore, e se ne approfittano, sanno che non abbiamo scelta». «Il minimo contrattuale per sei ore e trenta al giorno dovrebbe partire dai 40-42 lordi», commenta Giovanni Mininni, segretario nazionale Flai-Cgil. «Ma viene aggirato, non solo al Sud». Al di fuori di aziende medio-grandi, anche i piccoli imprenditori si ritrovano a tirare la cinghia, schiacciati da un mercato al ribasso. «Per alcune varietà di riso nell’ultimo anno abbiamo visto una riduzione dei prezzi del 50 per cento», commenta Emilio Cardazzi, produttore milanese con due dipendenti fissi e due stagionali. «La concorrenza di riso asiatico, che non paga dazi e può usare prodotti chimici che qui sono stati vietati, sta diventando molto pesante».
Elena invece è una addetta alle pulizie nel Lazio. Ha un contratto che molti le invidierebbero: dipendente a tempo indeterminato, settore appalti pubblici per le caserme. Ha una paga oraria di 7,58 euro: «Non così male», commenta. Eppure a casa a fine mese porta solo 300 euro. Come è possibile? Il problema è il monte ore. Solo 10 alla settimana, divise su tre giorni. «Prima ne facevo almeno 20, poi negli ultimi anni abbiamo subito un drastico taglio». L’orario di lavoro “liquido” è un problema anche per Dario, educatore in una cooperativa che si aggiudica i bandi del Comune di Milano. Passa quasi più tempo in metro e bus che negli interventi veri e propri: disagio giovanile e progetti legati al bullismo. Tutti gli spostamenti non sono retribuiti ma è facile arrivare a 50 ore a settimana (partendo da un contratto da 20) a 8 euro l’ora. Per tenersi aggiornato insegna all’università. Lo stipendio non si schioda: mille euro tondi.
«Spesso esco di casa la mattina presto, torno la sera tardi. Mangio dove capita per arrivare in tempo dagli utenti che seguo. Pur vivendo insieme, incrocio la mia ragazza solo nel week-end: spesso quando torno lei già dorme. A me fare l’educatore piace, non lo cambierei». Il salario è un’equazione al contrario: più importante il ruolo meno si incassa. Racconta Olga, badante romana: «Mi è capitato di sentirmi dire fai compagnia a mia nonna, vai e ti corichi. Sono 500 euro al mese». Peccato che il contratto preveda un minimo mensile di 966 euro a 6,70 l’ora. In questo mondo, dove la maggior parte sono donne dell’Est Europa che lasciano le famiglie per accudire anziani, si leggono anche offerte indecenti: «Cerco badante, dovrà cucinare a pranzo, fare compagnia e la ragazza dovrà essere “predisposta”. Ha 81 anni ma è molto “attivo”. Pochi perbenismi e moralismi».
Carola Frediani Michele Sasso 04 dicembre 2017

530 operai FCA liquidati con un sms: le vere fake news sono di Marchionne e Renzi

la bellissima democrazia che ingrassa ELITES, COSCHE E BANCHIERI, ovvio che vada difesa dai populisti, pure “neri”…

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Vi ricordate Renzi e Marchinne promettere 1800 assunzioni l’anno scorso?
Ecco era una fake news. Una di quelle fake news che pesa sulla vita delle persone e per questo non interessa alla grande stampa.
 
Una bufala talmente grande che addirittura abbiamo oggi notizia del contrario, vale a dire di 530 operai dello stabilimenti Fca di Cassino che sono stati liquidati…. con un messaggino sul cellulare. Non c’è certo da meravigliarsi: nel regime del renzismo e di Marchionne, sui parametri di Unione Europea e zona euro, questa è la considerazione per lavoro e lavoratori.  “Il tuo contratto per il momento cessa. Ci aggiorniamo per ulteriori novità”, questa l’unica comunicazione ricevuta dagli operai che da qualche mese lavoravano nel nuovo stabilimento Fca inaugurato lo scorso anno dall’ad Sergio Marchionne e dall’allora ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. A darne notizia è L’huffington Post che pubblica anche il testo del sms.
 
Un sms di poche righe sul cellulare: “Il tuo contratto cessa, ci aggiorniamo”. È così che 530 operai interinali dello stabilimento Fca di Cassino hanno appreso che dal giorno successivo non si sarebbero più recati in fabbrica. Non se l’aspettavano, le premesse erano ben altre e risalivano esattamente all’anno prima, quando l’allora premier Matteo Renzi e l’amministratore delegato di Fca Sergio Marchionne avevano annunciato 1800 nuove assunzioni per lo stabilimento di Cassino entro il 2018. Ma in un anno tante cose sono cambiate, il referendum costituzionale bussava alla porta ed era obbligo spargere ottimismo a piene mani: “Sono
4300 i lavoratori dell’Alfa di Cassino e altri 1800 saranno assunti nei prossimi 18 mesi – disse Renzi il 24 novembre 2016 – Facile lamentarsi, dire che va tutto male, criticare soltanto. Cassino ci dimostra una volta di più che l’Italia va avanti quando vincono quelli che provano a cambiare, non quelli che vogliono solo bloccare”. Le assunzioni sono partite a marzo di quest’anno per 830 nuovi dipendenti con contratti di somministrazione. Il primo passo, secondo gli operai, nel percorso all’interno dell’azienda. Il mercato del lavoro è quello che è, niente pretese eccessive e la stabilizzazione arriverà col tempo, pensavano gli operai. Quindi i primi quattro mesi, a luglio la proroga di altri quattro. Fino al 31 ottobre. Poi arriva un sms sul telefonino di 530 degli 830 neoassunti: “Per il momento il tuo contratto cessa. Ci aggiorniamo per ulteriori novità”.
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HUFFPOST
 
Il mittente è il somministratore, ovvero la società (anche chiamate agenzie interinali) che cerca i lavoratori per conto dell’utilizzatore, Fca. Tecnicamente, quindi, non si può parlare di licenziamento, trattandosi di lavoro somministrato, ma la sostanza è la stessa a fronte delle promesse fatte e poi non mantenute. E lo stesso Renzi, in tour a Ciociaria con il trenino democratico “Destinazione Italia” solo una settimana fa è dovuto tornare sull’argomento assicurando che “ci faremo sentire” ma sottolineando al tempo stesso che prima “lì c’era un’azienda in cassa integrazione a zero ore”.

IL SALUTO DEL SOVRANISTA E MI PERDONI L’ANTISOVRANISTA BOLDRINI E LA CONTIGUA “ZANZARA” (RADIO 24), IMPEGNATI NELLA SACRA BATTAGLIA A ME E A TUTTI GLI ALTRI MALMOSTOSI FARABUTTI FAKENEWSISTI DELLA RETE. E PERDONI ANCHE GIACOMO LEOPARDI… A DOPO.

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2017/12/il-saluto-del-sovranista-e-mi-perdoni.html

MONDOCANE

SABATO 9 DICEMBRE 2017

Nel salutarvi mi tocca fare, per una volta, ciò che fanno quasi tutti i facebookisti: evitare di raccontare cose che potrebbero essere utili agli altri sapere e alluvionare invece le loro pagine di sollecitazioni al “ma il chissenefrega non ce lo metti?” Almeno per qualche riga iniziale vi devo scassare le gonadi con una cazzatina personale. Che però è la spiegazione del fatto che per un po’ io, pur non privandomi della vostra interlocuzione, vi alleggerirò di miei interventi. Un chirurgo, spero dalle mani sapienti e dal bisturi pietoso, mi dovrà rammendare la spalla scassata da una caduta di motocross e poi lasciata andare in progressivo spappolamento. Uscirò come nuovo, uomo bionico, ma per una mesata dovrò rinunciare a malmenare tastiera e mouse. Ecco, mi sono messo sullo stesso piano di chi vi allieta la giornata con l’imprescindibile comunicazione al colto e all’inclita che “la buona dormita m’ha fatta svegliare lieta come una libellula in volo sul laghetto di ninfee”. O che “la tisana nuova non m’ha fatto affatto cagare”.

Siccome io, come molti di voi blogger, twitter e facebookisti, sono produttore accanito e inveterato di false notizie, in questo ultimo  – pro tempore – intervento voglio fare ammenda e dare spazio, e schierarmi accanto, a coloro che la sacrosanta battaglia contro gli hater (odiatori), falsari e complottisti, la conducono con sommo disprezzo del pericolo e in difesa delle bocche della verità che ci istruiscono e ci spiegano le cose del mondo a partire dall’informazione democratica, istituzionale, professionale, quella, appunto, degli MSM (mainstream media). Ieri venerdì ho avuto di nuovo l’onore di essere chiamato in diretta da uno di questi MSM, la trasmissione “La Zanzara” di Radio 24. Programmino definito da quelli che dalla Zanzara sono stati pizzicati e, spesso, svergognati, “teppista, ignorante, stupido, provocatore, la faccia subumana di Radio Rai”. Non è vero. Pensate, trattandosi della questione di Gerusalemme che il Fior di Zucca ha concordato essere capitale unica e indivisibile di Israele, alla mia obiezione che Gerusalemme fu semmai capitale degli ebrei soltanto per i 50 anni dei regni di David e Salomone, inventati dai fantasisti redattori della Bibbia, la coppia dal pungiglione della verità, Crociani da Roma, Parenzo da casa sua a Tel Aviv, mi hanno ridotto all’impotenza berciando, ma con proprietà di argomenti, che sostenevo Hamas terrorista e giudicavo lo Stato d’Israele criminale.

Che dire, davanti a tanta documentata argomentazione. Passiamo alle sfere più elevate degli SMS, quelle nobilitate dalla presenza e firma della terza carica dello Stato, la nobildonna, cui va riconosciuto il merito di aver aperto le cataratte per le quali va passando il rimedio demografico al nostro calo delle nascite e l’adeguamento del tasso di schiavitù alle nostre esigenze produttive di hamburger e pomodori. Mettendo a profitto della solidarietà umana il meccanismo dei vasi comunicanti, dove nulla si crea e nulla si distrugge, sperimentato e provato da Lavoisier, Laura Boldrini, da responsabile UNHCR, è stata tra i primi a svuotare il Sud del mondo a vantaggio del riempimento del Sud d’Europa. Non è  l’unico suo merito; chissà cosa sarebbe passato nella disattenzione dei nostri governanti, se la presidente della Camera non avesse posto rimedio alla degenerazione dei lavori parlamentari con ghigliottine, canguri e altre limitazioni alle intemperanze dei 5 Stelle.

Boldrini e Soros, santi subito

Ha provato la sua nobilitade con l’appassionata aderenza allo Zeitgeist (si può anche dire vernacolarmente “trend”) che caratterizza la nostra superiore civiltà non lasciandosi sfuggire nessuna delle campagne SMS che sostengono e promuovono i valori delle democrazie occidentali. L’hanno vista alla testa e in vetta alle schiere combattenti, novella Marianna nel quadro di Delacroix, contro gli haters calunniatori delle Ong sorosiane salvavite nel Mediterraneo, contro gli uomini ontologicamente e in toto stupratori e molestatori, da Gheddafi, Mladic o Assad all’ultimo regista accusato da una vegliarda, oggi, ma infastidita nel primo dopoguerra, contro i naziskin che hanno disseppellito il corpo del Fuhrer, gli hanno insufflato nuova vita, lo hanno moltiplicato per partenogenesi e lo stanno installando nei luoghi supremi della governance occidentale ( *).  E vessillifera di  tante altre battaglie, proprio tutte, miranti a corazzare uno status quo costato alle nostre confraternite, legali o meno, tanta fatica costruire.

(*) C’e  chi azzarda una calunnia come quella secondo cui, quanto Trump gonfia a bue il ranocchio nordcoreano per dar modo agli armieri di ingrossare il budget del Pentagono oltre i 1000 miliardi attuali (più di tutti gli altri bilanci messi insieme, 15 volte quello russo), tanto i nazisti 2.0 in cravatta e risvoltino pompano i (loro) virgulti in bomber e cranio rasato (vedi la chiassata e megacontrochiassata ipocrita sul lago di Como), per dare alla loro macelleria sociale, militarista e culturale la scudo dell’antifascismo. Ovviamente pure fake news, no?

Acchiapparli da piccoli per masticarli bene.

Memorabile l’episodio che ha visto questa pasionaria delle verità dettate da un impeccabile, ufficialmente sanzionato, senso comune, piombare su un liceo romano brandendo le tavole della legge. Nella fattispecie, il Decalogo della  lotta alle Fake Newsda imparare a memoria e con il quale poi vivisezionare le bufale del  Corriere, di Repubblica, della Stampa, di TG1,2,3,5…Ops, ma che dico, la tastiera mi ha preso la mano: le bufale della rete nelle sue varie, degenerate forme. 

I ragazzi del Liceo in questione stavano già tralignando perché occupati a solidarizzare con quei compagni  scapestrati del Virgilio che credevano vittime di enorme bufalona per cui la minaccia alla loro storica scuola veniva dalle coppie che si accoppiavano nei cessi, dagli Spada che gestivano lo spaccio di coca nell’aula dell’informatica, dagli scambisti che si davano alla pazza gioia in soffitta, e non dal palazzinaro che già operava negli spazi lì accanto e aveva gettato l’occhio rapace sullo storico edificio nella zona a più alto costo per m2 di Roma. Al sopraggiungere impetuoso della Boldrini, per un attimo gli era sembrato che quella che si avventava su di loro fosse la strega del Mago di Oz e che la loro identità ne sarebbe rimasta compromessa per sempre.

Invece no. Si dovettero ricredere. La strega apparve nelle sue giuste vesti di fata buona che preserva da fake news e ogni sorta di puttanate strumentali tese a ostacolare il progresso dei ragazzi verso la maturazione civica e, grazie ad essa, l’ingresso nel mondo del vero e del giusto. Il mondo di Laura Boldrini.

Il mondo della Boldrini

Un mondo dove ogni cosa torna al suoi posto, nell’ordine costituito che infami haters e, comunque, gente pretenziosa che si costruisce le verità a partire da quello che crede di vedere e capire, insistono a voler mettere in discussione. Un mondo, per esempio, in cui George Soros paga le Ong in mare perché i migranti non vedono l’ora di lasciare casa, terra, paese, famiglia, per farsi assimilare alle stirpi migliori, comunque più bianche e non miscredenti. Dove, recentissima, secondo un intelletto tra i più qualificati del nostro tempo, vicepresidente ai tempi in cui Washington riduceva in brandelli sette paesi, il pifferaio di Mosca è riuscito, non solo a impedire la vittoria inquestionabile di Hillary, cara al “manifesto”, non solo a comprarsi a suon di rubli Di Maio e Salvini, ma addirittura a trascinare gratis 20 milioni di italiani a votare NO a un referendum dal quale l’Italia avrebbe potuto uscire più bella e più superba che pria. Annientando perfino l’ambasciatore obamiano Philips che, sommessamente, aveva detto che se gli italiani non avessero votato SI, non avrebbero più visto un dollaro di investimenti. E anche Obama che, tanto per non intromettersi, alla vigilia di quel voto aveva celebrato l’imminente SI ospitando Renzi e altri sguatteri italiani alla Casa Bianca.

E ancora, il mondo della pulzella di Montecitorio è quello in cui non la trimurti Israele-Usa-vampiti del Golfo, bensì l’astuto Assad ha creato l’Isis perché faccia a pezzi il suo paese che gli stava sulle palle. Israele è l’unico Stato democratico del Medioriente e quello meno razzista dell’universo mondo. Il potente Kim Jong Un minaccia gli innocenti e del tutto innocuiamericani. George Soros è un filantropo che non ha dato 5 milioni di dollari ai nazisti del battaglione Azov per fare il colpo di Stato, ma li ha versati nelle casse della Ong che accoglie rifugiati russi; del resto garantiscono i baci della Bonino. Renzi ci ha regalato 1 milione di posti di lavoro, mica un milione di inseguitori di tre ore di lavoro la settimana. Il vero pericolo che sovrasta l’umanità non è mica il pupazzo manovrato dai bunker del Pentagono e della Lockheed Martin (F35) per far sfracelli dove risulta opportuno al complesso militar-industrale, sono coloro che arricciano il naso quando Big Pharma fa avvertire dalla Lorenzin che senza 10 vaccini al neonato moriremo tutti di morbillo o brufoli. 

E chi oggi rappresenta l’apice della civiltà, del progresso, della giustizia sociale, dei cinque o sei generi esistenti, del femminismo, dell’ecologia? Sono i curdi di Rojava e se per tutto questo toccava fare un po’ di pulizia etnica e bruciare villaggi arabi, incistare mezza dozzina di basi Usa in Siria, soddisfare la voglia di Israele di frantumare tutti i suoi dintorni, che cosa è tutto questo rispetto alle esaltanti interviste del “manifesto” alle donne combattenti curde?

Un mondo, questo della Boldrini, che viene da lontano e vanta un cursus honorum lungo secoli, millenni. Il vero inizio è quello di Costantino, quando decise che quelle dei pagani erano tutte fake news alle quali tagliare la testa. Dove l’Iraq doveva essere polverizzato dato che Saddam poteva colpire Londra in 5 minuti con le sue armi di distruzione di massa; dove la Libia doveva essere sminuzzata e Gheddafi sventrato, dato che stava bombardando la sua gente e – Save the Children –  iniettando Viagra ai suoi soldati perché meglio stuprassero le figlie della Libia. Dove San Padre Pio aveva le stimmate e, avendo giustamente picchiato i socialisti insieme a quelli con il fez, poi faceva altri miracoli. Dove l’Unione Europea e la consorella Nato sono state fatte da Spinelli e Cia per farci godere la migliore delle democrazie, i migliori diritti umani, sociali, di pace e uguaglianza. Dove toglierci sovranità e autodeterminazione significava liberarci da oneri e incombenze troppo gravosi. Che se ne facciano carico gli esperti supra partes di Bruxelles, le lobby che li consigliano per il meglio, Mr. Mario Draghi che li mantiene sui dritti binari di Goldman Sachs, Rothschild, Bilderberg e, tutto sommato, anche  della ditta di Francesco Primo.

Patria Grande. Anche piccola.

Per noi che siamo partiti col piede sbagliato, prede e diffusori di fake news, non c’è rimedio. Che Boldrini abbia pietà. E’ vero, abbiamo il marchio del sovranismo. Ce lo hanno inflitto un po’ Seneca, un po’ Dante, un po’ Guicciardini un po’ Italo Svevo, un po’ Michelangelo e un po’ Manzoni. Un po’ i partigiani e un po’ Leopardi.  E ce lo teniamo. Come coloro, e nel loro nome, con i quali lo abbiamo condiviso nella Cuba d’un tempo, in Palestina, Eritrea, Irlanda, Algeria, Bolivia, Iraq, Siria, Libia, tra i popoli che nella patria hanno riconosciuto se stessi,  il conflitto tra padroni e subalterni, chi è venuto prima di loro e gli ha consegnato cultura, lingua non prevaricata e inquinata, progetto sociale e storico,  in tutte le nazioni costituitesi e ricostituitesi dopo i saccheggi e gli squartamenti coloniali e la cui sopravvivenza è attaccata alla loro sovranità, come il bambino al capezzolo della madre e alla mano del padre. Eppoi, se lo diceva Leopardi già quasi due secoli fa….

La Boldrini ha qualcosa da ridire? O di sovranità gradisce solo quella dei potenti e sopraffattori?

Lodo che si distornino gl’italiani dal cieco amore
e imitazione delle cose straniere,
e molto più che si richiamino e s’invitino
a servirsi e a considerare le proprie;
lodo che si proccuri ridestare in loro
quello spirito nazionale,
senza cui non v’è stata mai grandezza a questo mondo,
non solo grandezza nazionale, 
ma appena grandezza individuale;
ma non posso lodare che le nostre cose presenti,
e parlando di studi,
la nostra presente letteratura,
la massima parte de’ nostri scrittori, ec. ec.
si celebrino, si esaltino tutto giorno
quasi superiori a tutti i sommi stranieri,
quando sono inferiori agli ultimi:
che ci si propongano per modelli;
e che alla fine quasi ci s’inculchi di seguire
quella strada in cui ci troviamo.
Se noi dobbiamo risvegliarci una volta,
e riprendere lo spirito di nazione,
il primo nostro moto dev’essere,
non la superbia né la stima delle nostre cose presenti,
ma la vergogna. E questa ci deve spronare
a cangiare strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa.
Senza ciò non faremo mai nulla.
Commemorare le nostre glorie passate, 
è stimolo alla virtù,
ma mentire e fingere le presenti è conforto all’ignavia,
e argomento di rimanersi contenti
in questa vilissima condizione.
Oltre che questo serve ancora ad alimentare
e confermare e mantenere quella miseria di giudizio,
e mancanza d’ogni arte e critica,
di cui lagnavasi l’Alfieri (nella sua Vita)
rispetto all’Italia, e che oggidì
è così evidente per la continua esperienza
sì delle grandi scempiaggini lodate,
sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre)
o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.

Giacomo Leopardi, Zibaldone (24 Marzo 1821) [pagine 865-866]

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 22:46

WHAT THE GLOBALIZED AND NEOLIBERALIZED IMPERIALISM ?

Bibeau.robert@videotron.ca    Éditeur.   http://www.les7duquebec.com

 6.12.2017

THE ARTICLE IS AVAILABLE ON THE WEBMAGAZINE:

http://www.les7duquebec.com/7-au-front/quest-ce-que-limperialisme-mondialise-et-neoliberalise/

The offending article.

Last week, our editorial focused on the actualization of Marxist political economy

 http://www.les7duquebec.com/7-au-front/current-date-materialisme-dialectique-ou-le-marxisme-au-xxie -century/

A Marxist economist took us to task to give us a lesson in communist political economy.

The end of competitive capitalism and opulent stock market.

First, our critic proposes a quote from Lenin, the master of the analysis of modern imperialism. For Lenin, the stock market, an instrument of emerging, liberal, free-market capitalism, was destined to disappear or to radically change its vocation. 

Lenin wrote: “In other words, the old capitalism, the capitalism of free competition, with this absolutely indispensable regulator that was for him the Stock Exchange, disappears forever. A new capitalism succeeds it, which includes clear elements of transition, a sort of mixture between free competition and monopoly” (Imperialism, the Supreme Stage of Capitalism, p.43 Beijing Edition).

Lenin makes two mistakes here. On the one hand, the old capitalism, that of the fierce competition between small independent producers, does not disappear, it is transformed, and the competition between giant monopoly actors is exacerbated, and becomes warlike – titanic – as gigantic as the tentacles of these gargantuan multinational conglomerates. Lenin’s second mistake, it seems clear today that the 

stock market does not disappear from the capitalist economic horizon, but on the contrary its mission and action become more complex as the economy in general, and especially its financial reflection, develops and extends covering the entire neoliberal capitalist world. Worse, from now on all economic crises find their amplifying echoes.

The phase of imperialist expansion through its multiform capital.

Let’s reiterate what we wrote last week, contrary to what Lenin claimed in his famous volume, the capitalist mode of production, which was just beginning its imperialist upward phase, had not finished of developing all the productive forces that it was large enough to value – that is to say, the centralizing neoliberal capitalism had not finished of accumulating capital to be valued according to a continuous, well-known monetary cycle. The archaic state of the Russian, Chinese, Indian, African and East Asian feudal economies of this inter-war period should have sufficed to convince the Soviet revolutionary that he anticipated the historical developments. (2)

Our communist criticism adds and affirms: “This is consistent with Marxism, the financial capital is interested only in credit, its function is to develop indebtedness, because it is just from indebtedness that it gets its profit, he wants only money to make money, namely A = A’ and nothing else interests the banker, the speculator, the financial capitalist “(3).

From the appearance to the nature of the contradictions.

In the economic and political life there is the appearance of things, for example, the evanescence of banking, financial and stock exchange operations and there is the concrete reality of the production – processing – marketing of goods and services called goods. Marx has demonstrated that in the capitalist economy money = capital = does not produce money (A = A ‘= A). No initial capital (means of production), no production, no goods and no market value, no credit to lend, and no profit or interest to share. The interest on loans is nothing more than a drain that the money capital makes on the capital-means of production and on the marketed merchandise capital during the cycle of circulation – wider reproduction – of the general social capital, one being the nature of the phenomenon and the other its monetary or capitalistic reflection.

Let’s go further with our fellow traveler. He writes: “According to Bibeau, since Lenin we know that the industrial  – commercial and banking capital has merged on the stock exchange to form only a single international capital, the hegemonic globalized financial capital . This synthesis of Lenin is fanciful to say the least, explains our criticism. For Marx, the financial capital stems not from the merger, but from the separation between (industrial and commercial) capital and loan capital, embryo of the “autonomous” credit-loan system and the public limited company. At its origins, the financial Capital is born by industrial and commercial Capital. At first, it only handles specialized technical operations for industrial and commercial capitalists. But in doing so, these technical movements become “autonomous” and become the function of a particular capital = the financial Capital.. The total capital is divided up in the process of circulation in order to carry out integrating operations for the whole capital“(4).

Specialization and integration.

To understand the economic transformation that took place between the emerging phase of commercial and industrial capitalism and the phase of globalized neoliberal financial capitalism, which the Marxist-Leninists call modern imperialism, we must revisit the process of creationcirculation and distribution of the value. Thus, in the preceding quotation we find the terms “fusion, separation, splitting, specialization and integration”.

Globalized production, globalized finance.

The object of the capitalist mode of production is to organize the production of goods and services for the enlarged reproduction of the human species. To achieve this, the capitalist mode of production has been structured into a real sphere of material production and its reflection, the virtual capitalistic sphere. As the material sphere is constantly expanding (geographically, to all continents), specializing and becoming ever more complex (technically and scientifically), the virtual capital sphere has had to do the same. Since the productive capital must make a longer and more complex industrial and commercial reproduction cycle for its valuation, the virtual monetary capital has been forced to do the same and extend its scope of activity to the world; to intensify its operations and to specialize them and thus to split them according to the functions demanded by production and marketing so as to integrate-encompass the whole process of material circulation (merchandise) and virtual circulation into a functional and expansionist whole. This explains the natural evolution of emerging capitalism and competition towards capitalism in the competitive imperialist phase and the development of what some call “financial capital“, which is the name given to monetarized and globalized capital corresponding to a globalized economy.

Integrated systematically.

All these real-material resources-and their monetary-virtual reflection-are so well integrated that if a form of material capital (industrial, for example) does not play its role adequately by not valuing all the productive capital available, by not producing enough surplus value (only source of capital wealth) this automatically leads to compensatory phenomena in the fields of virtual monetary capital such as

quantitative easing operations – QE” or furthermore; a lowering interest rates to facilitate the access to credit to artificially maintain the consumption; or downwards the stock market speculation against deficient assets in favor of artificial speculative assets; or else the price rises in order to reduce the purchasing power of workers and actually reduce the value of labor-intensive goods … etc. the tips and tricks of the capitalists are innumerable, but all lead to the same crisis of overproduction or under-consumption in relation to the productive capacities of the capitalist mode of production in the imperialist phase.

It is at the moment when the relations of production hinder the development of the social productive forces that a mode of production gradually slips towards its replacement, no longer fulfilling the mission that saw it born. Under the capitalist mode of production in the imperialist phase, the signal of this imminent end is given to us by the incapacity of capital to value itself, that is, to generate enough surplus value to satisfy all the capitalist, private or nationalized (state), having a specific role to play in the wider reproduction of society.

Please note that it is totally useless on the part of anti-globalists, reformists, monetarists, tax experts and leftists of all kinds to whine for the state officials and political minions at the service of the rich to set up this or that measure of austerity or this or that program of investment and development, the bourgeois state will do it anyway in the vain hope of saving this moribund mode of production.

Conclusion.

The imperialist phase of a mode of production corresponds to the phase of expansion of this mode of production until this mode of production has reached the maximum of the capacities of development of its productive social forces; a zenith from which it can only collapse under the repeated blows of its internal contradictions which materialize by the incapacity of its social relations of production to ensure the development of its social means of production, since the system, not fulfilling more its historic mission, engages on its decline.

To grow and accumulate, capital must flow. At each stage of the extended reproductive cycle of real material capital corresponds with a form of virtual money supply that should reflect the physical capital in circulation. It is the approach of separation-specialization of financial capital that is integrated into the entire cycle of circulation ensuring the valuation-reproduction. Unlike vulgar economists, monetarists or tax experts, we know that a reflection cannot acquire “autonomy” of functioning and that if the virtual reflection of material-real capital comes to wander it will only conceal the contradictions of the system, by delaying the implosion and by amplifying the impact. Thus, when Nixon repudiated the obligation of parity between the gold and the leaded dollar, he released the credit thus offering a respite to the Atlantic imperialism on borrowed time.

For the capitalist mode of production, in the supreme imperialist phase, the obvious signs of collapse are showed in various forms such as material crises of overproduction; monetary and / or stock market crises, where virtual monetary capital – financial-integrated and unproductive – attempts to capture a larger portion of the surplus value, thus sterilizing the productive material capital, which Marx called the rise of the organic composition of capital leading to the downward trend in the profit rate.

The proletarian class must know these financial mechanisms in order to anticipate their disruption and disintegration, not to remedy and reform them, but to bring them to their peak and make them burst in the most hurry (5).

  1. Bibeau the systemic crisis of capitalism.
  2. http://www.les7duquebec.com/7-au-front/actualisation-du-materialisme-dialectique-ou-le-marxisme-au-xxie-siecle/
  3. http://www.les7duquebec.com/7-au-front/actualisation-du-materialisme-dialectique-ou-le-marxisme-au-xxie-siecle/
  4. http://www.les7duquebec.com/7-au-front/actualisation-du-materialisme-dialectique-ou-le-marxisme-au-xxie-siecle/

Traduction   by  Claudio Buttinelli.  Roma

Bibeau.robert@videotron.ca

Éditeur du webmagazine  http://www.les7duquebec.com

THE SURGE OF IRAN AS MAJOR REGIONAL GEOPOLITICAL POWER SEEN FROM THE USA: ‘IRAN RESHAPES THE MIDDLE EAST’ (GEORGES FRIEDMAN)

LUC MICHEL (ЛЮК МИШЕЛЬ) & EODE/

Luc MICHEL pour EODE/

Quotidien géopolitique – Geopolitical Daily/

2017 12 08/

1510673829268

The surge of iran seen from the usa :

Georges Friedman (former boss of Stratfor, now “Geopolitical Futures”) has done a long developpment of the surge of the Iranian power in the Middle-East seen with the american point of view, issued first on ‘Geopolitical Futures’ …

What Friedman said ?

“The Middle East has a new and radically different shape. For the moment, Iran has been freed to assert itself. But it still has a long way to go to assert significant power. Apart from the United States, it faces a potential coalition of Saudi Arabia, Israel and Turkey. Each has its weaknesses, but Iran does too, and together they can manage the problem and probably will. Don’t forget the Sunni jihadists, either. Defeated in the guise of IS, they have merely dispersed, not surrendered. And Iran has been their enemy. Thus the Iranian surge must be placed in context. It has changed the dynamic of the Middle East, but it remains vulnerable.”

Document:

“IRAN RESHAPES THE MIDDLE EAST”

(GEORGES FRIEDMAN, GEOPOLITICAL FUTURE, NOV 29, 2017)

EXCERPT 1/ THE IRANIAN SURGE (IRAQ, SYRIA, LEBANON, YEMEN):

“Iran has always seen itself as being in competition with the Arab states for domination of the Persian Gulf. Its ambitions were put on hold in the late 1980s, at the end of an eight-year war with Iraq that cost Iran more than a million casualties. The war ended in a military draw, but strategically it blocked Iran’s hopes for expanding its power westward. The war against the Islamic State, particularly in Iraq, has opened that door again (…) The primary burden of the fighting in Iraq fell on the Iraqi army, coupled with several Shiite militias, which fought a long battle of attrition to defeat IS. Embedded in the Iraqi army, and in direct control of the militias, were Iranian advisers. The United States had advisers and troops there too, but the Iranians were far more effective at gaining influence in the predominantly Shiite army. The U.S. reluctantly accepted this state of affairs – it needed IS defeated, but it didn’t want to absorb the casualties that would result from the long, grinding battle that was required. Instead, the U.S. relied on airstrikes.

There obviously had to be some degree of coordination among the Iraqi forces and militias – enough, at least, to prevent fratricide. That means there had to be some coordination with Iranian advisers, who were effectively commanding some units of the Iraqi army. How much coordination is unclear, but IS was defeated in the end, and Iran was left in control of at least a significant portion of the military force in Iraq. Given Iran’s influence and presence around Basra in southern Iraq, the Iranians are in a powerful position inside Iraq, with no major forces in position to contain them. And they are free to send more forces into Iraq if they wish.

Iran is also in a strong position in Syria. Together, Iran and Russia have prevented the collapse of the Assad government. Lebanon’s Hezbollah has been deeply involved in the fighting in Syria, with a large number of Iranian officers deployed with it, and Iranian forces are scattered in support of Assad’s Syrian army. The Russians are already discussing an endgame in which Assad regains the parts of Syria he lost. Whether that happens or not, the pressure is off the Assad regime now. Moreover, Russia has already said it plans to reduce its presence in Syria, which leaves the Iranians as the primary influence on the Syrians, deepening a relationship that existed even before the civil war broke out.

Yemen is another area of Iranian strength. In Yemen, bordering Saudi Arabia to the south, the Iranians are supporting the Shiite Houthi rebels. As the Houthis grew stronger in recent years, Saudi Arabia, the United Arab Emirates and others launched airstrikes against them. The airstrikes failed to defeat the Houthis, and now they’re even more powerful. A missile was fired from Yemen toward Riyadh early this month. It was allegedly an Iranian-made missile, and a warning to the Saudis to get out of Yemen.

It is important not to overstate Iran’s strength. It is clearly influential, and the door to more power is open, but Iran is not yet positioned to exert decisive military force in the Middle East. At the same time, Iran’s achievements shouldn’t be understated either. It is the most influential power in Iraq and has a significant number of forces there. It more or less controls the most powerful military force in Lebanon and has limited capabilities in Syria. It also has at least advisers in Yemen. Finally, Iran has even made inroads in Saudi Arabia’s sphere of influence. Qatar’s relationship with Iran is part of the reason it has been boycotted by much of the Arab world.”

EXCERPT 2/ “SAUDI ARABIA IS CURRENTLY THE GREATEST THREAT TO IRAN’S AMBITIONS”:

“Saudi Arabia is currently the greatest threat to Iran’s ambitions. In the 1960s, when the Shah of Iran was still in control, Iran fought a war against the Saudis in Oman. Their relationship remained hostile after the Iranian revolution. Part of the issue is religion: Saudi Arabia is the heartland of Sunni Islam, Iran of Shiite Islam. But there are deeper issues.

The first is oil. The domination of oil resources by the Saudis and related principalities on the west coast of the Persian Gulf created a perpetual threat to Iran because of the military power it bought. In addition, U.S. guarantees to Saudi Arabia intended to assure the flow of oil supplies from the Persian Gulf gave the Saudis an invulnerability that their own military force couldn’t provide. At the moment, Saudi Arabia is facing extreme difficulties. The decline in the price of oil has created economic and political problems for Riyadh, which has always used its oil wealth to maintain stability. The introduction of a 32-year-old crown prince, and his decision to arrest some of the key figures in the kingdom, creates a level of internal instability that is unpredictable.

Given this domestic situation, Saudi Arabia’s ability to protect itself from Iran is unclear. The Saudis have already demonstrated the limits of their air power in Yemen. The historical expectation was that first the British, then the Americans, would guarantee their national security. But that was when the Persian Gulf was an indispensable supplier of the world’s oil. The price of oil is down, but as important, the sources of oil have multiplied, along with producers’ eagerness to sell it. Saudi oil is simply not that important anymore.”

EXCERPT 3/ RIYAD-TEL AVIV GEOPOLITICAL AXIS:

“The Saudis have been reaching out to the Israelis. Israel can certainly provide military hardware. But the fact is that Israel could be facing its own threat from Iran, and its military is actually relatively small and isn’t designed for large-scale foreign deployments. Because of the size of its force, Israel can’t sustain extended, high-attrition warfare of the sort Iran endured in the 1980s. So the Iranians can threaten Israel with the one strategy that is most dangerous to it: a war of attrition. It’s a distant possibility but one that Israel must consider. Simply put, Israel can’t promise Saudi Arabia much more than materiel, no matter what the Saudis offer in return, and materiel is the one thing the Saudis have in abundance already.”

EXCERPT 4/ TURKEY VS IRAN:

“The greatest long-term threat to Iran’s interests, however, is Turkey. The Turks face a fundamental geopolitical question. When the Iranians were relatively confined, Turkey was able to focus on domestic affairs, not venturing deeply into Syria or Iraq. But now, Turkey must decide whether it can live with Iran as the major regional power, or it must assert its own claims on the region. Turkey, by geography and inherent military capability, can block Iran if it chooses to make the effort and take the risk, but at the moment it is working with Iran, particularly on Kurdish issues. Eventually, Turkey will have to choose between the Kurdish issue and the broad strategic issue. Part of that will be determined by the U.S. position on various Kurdish factions and the U.S. vision for dealing with Iran.”

EXCERPT 5/ “A TEST OF U.S. DISENGAGEMENT”?

“The U.S. is capable of containing Iran but only with a substantial force. The U.S. has been at war since 2001. At this point, it doesn’t have a clear strategy for the Middle East. In Iraq, the American approach has been to block both Sunnis and Shiites from dominating the country – while reducing the number of U.S. forces present. This left it in the position of having to rely on forces controlled or influenced by Iran to defeat the Islamic State. In Syria, U.S. strategy has been to create a proxy force to overthrow Assad. That has failed. American guarantees to Saudi Arabia and Israel are still in place, but what they mean at this point is unclear. Israel has no need for direct U.S. involvement except under the most extreme war-of-attrition scenario. As for the Saudis, the guarantee the U.S. gave and delivered on during Desert Storm was a very different situation. Oil prices and supply being what they are, it’s not clear what that guarantee is worth.

The U.S. is not configured to deal with the new reality – one that it helped create by invading Iraq and then leaving it, and by supporting the Arab Spring in Syria, which turned into a disaster. These U.S. policies led to the rise of IS, and the fight against IS in turn opened the door to Iran in Iraq and, to a lesser extent, in Syria. Washington has been obsessed with Iranian nuclear capabilities and didn’t anticipate that Iran’s conventional capability and political influence would turn out to be more effective. At this point, it’s not clear what the American interest is in the region and what price it’s prepared to pay to pursue it.”

(The post “Iran Reshapes the Middle East” appeared first on Geopolitical Futures)

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Mantova, mamma licenziata: “Non so perché, ora non ho nemmeno 250 euro al mese”

eccoli i valori democratici e costituzionali tanto minacciati. Ecco come si tutelano le donne.

MANTOVA. La notizia cruda, telegrafica è da indignazione istantanea: mamma licenziata durante il congedo parentale per accudire il figlio di due anni gravemente disabile. Barbarie. Ma l’indignazione da sola non basta a raccontare la storia di Veronica, del marito Viktor, del piccolo Nikolas e della sorella Natasha. Il nodo di rabbia e sconcerto si stringe di fronte alla serenità di questa famiglia così speciale e così normale. Così tenace nella costruzione e nella difesa della sua quotidianità. «Non mi stupisco del licenziamento, l’azienda per cui ho lavorato dieci anni della mia vita è capace di queste cose» scandisce Veronica. Più disincanto che rassegnazione. No, la mamma di Nikolas non lascerà correre, si è rivolta al sindacato (la Uil) e, assistita dagli avvocati Marco Carra e Nunzia Zeida, il 13 dicembre sarà in aula, davanti al giudice del lavoro, per pretendere il reintegro.
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Succede ogni giorno. La cronaca recente è piena di mamme licenziate e lavoratori messi alla porta per cinque minuti di pausa di troppo (leggi box). È la faccia deteriore del mercato, il suo profilo più brutto e cattivo. Spietato. Il riverbero arriva fino a Castiglione Mantovano, frazione di Roverbella, dove Veronica Piras vive con la sua famiglia: l’appartamento è al piano terra, c’è una rampa azzurra e oltre l’uscio sei subito dentro casa. Nikolas è steso sopra un cuscino, la testa girata verso la tv che trasmette i cartoni animati, il corpo allacciato alle macchine da fili e tubi. Nikolas, che il 22 dicembre spegnerà tre candeline, è malato di Sma, atrofia muscolare spinale, una bestiaccia feroce che aggredisce il corpo, sfilacciando nervi e muscoli, ma non frena lo sviluppo della mente. Una malattia genetica che obbliga a un’assistenza continua.
La diagnosi arriva al terzo mese di vita di Nikolas, per sua mamma, però, i problemi cominciano quando lui è ancora in pancia. L’azienda vorrebbe spremerla finché può, come per la prima gravidanza, posticipandole il congedo obbligatorio, ma il lavoro è duro: per la società Consulmarketing, con sede a Milano, Veronica gira i supermercati delle province di Mantova, Brescia, Cremona, e spesso sconfina in Trentino. Si occupa di rilevamento prezzi per indagini di mercato, deve leggere con un terminale i codici a barre dei prodotti negli scaffali.
All’inizio, quand’era inquadrata come collaboratrice coordinata e continuativa, riusciva a portare a casa fino a 1.800 euro al mese. Poi, nel 2013, quando la Fornero cancella i cococo, viene assunta a tempo indeterminato, e la paga si asciuga a 800 euro. L’azienda vorrebbe tenerla al lavoro fino all’ultimo, ma un certificato medico attesta che la gravidanza è a rischio e Veronica può starsene a casa. Ignara che da lì a pochi mesi il mondo le franerà addosso e lei dovrà imparare a rimetterne assieme i pezzi secondo una disposizione nuova. Esauriti i cinque mesi obbligatori, la legge le consente di assistere Nikolas per altri tre anni, al 30% dello stipendio, secondo la formula del congedo parentale per i genitori di figli con grave disabilità. Calendario alla mano, Veronica è coperta fino al marzo 2018, ma lo scorso giugno le arriva un’email che brucia come uno schiaffo: la Consulmarketing la sollecita a restituire il materiale di rilevazione, come già richiesto con la lettera di licenziamento del 19 maggio.
Possibile? Eppure lei non ha mai ricevuto alcuna raccomandata o altra comunicazione. Ed è a questa anomalia che si appiglieranno i suoi legali: per legge il licenziamento deve essere scritto. Anche a voler mettere tra parentesi il risvolto etico.
«Solo un’azienda senza scrupoli e coscienza può lasciare a casa la mamma di un bambino gravemente disabile» commenta, amaro, il segretario aggiunto della Uiltucs, Daniele Grieco. «Duecentocinquanta euro al mese non ci cambiano la vita, ma sono utili – interviene il papà di Nikolas, Viktor Kuqi, 36 anni, in Italia da 20 – Il fatto è che dopo i tre anni, avremmo chiesto il congedo straordinario biennale, retribuito al 100%, e 800 euro sì che fanno la differenza». Soldi rimborsati all’azienda dall’Inps, per inciso. Altro particolare: nel 2015, di fronte all’incerta prospettiva di un cambio di datore, Viktor sceglie di lasciare il posto a Verona, ottenendo, insieme al tfr, una piccola buonuscita e un anno di mobilità. Quindi, da maggio allo scorso settembre, lavora al Consorzio di bonifica di Pozzolo, con un contratto a termine che spera di replicare.
Fin qui la cronaca. Il resto, ciò che conta, è nell’espressione di Veronica e Viktor quando raccontano delle parole della fisioterapista Chiara Mastella, coordinatrice del Servizio abilitazione precoce all’Ospedale maggiore di Milano: «Dopo la diagnosi ci disse o lasciate che la malattia si porti via Nikolas nel giro di pochi mesi, oppure v’impegnate ad accudirlo e tenerlo in vita con respiratore e sondino gastrico».
Hanno scelto la seconda soluzione, e ogni giorno s’affannano a coltivare il loro spicchio di normalità. L’asilo di Nikolas, un nuovo farmaco, la sorpresa grande di un sorriso piccolo, il coraggio di Natasha. I viaggi, il mare della Sardegna, il verde di Parco Sigurtà. Il calore della famiglia e la solidarietà del paese.

Sfrattati un’anziana disabile di 93 anni e suo figlio malato di 68: “Abbandonati dal comune”

questa non è violenza, è rispetto dei valori della democrazia tanto minacciata dall'”ondata nera” 

Orea e Daniele sono stati sfrattati mercoledì: da un anno non pagavano l’affitto. La storia
Orea di anni ne ha novantatré: è invalida al 100% ed è costretta a stare su una sedia a rotelle. L’unico familiare che ha ancora con lei è Daniele, suo figlio, che di anni ne ha sessantotto ed è affetto dal Parkinson. Entrambi, inevitabilmente, non hanno un lavoro, non hanno uno stipendio e vanno avanti grazie a una piccola pensione, che permette loro di far fronte alle spese di tutti i giorni e a quelle sanitarie. Eppure, nonostante tutto questo, Orea e Daniele sono finiti in mezzo a una strada: sfrattati da una casa di via Lepontina 8 che da circa un anno occupavano senza più pagare l’affitto.
In evidenza
anziana sfratt
Mercoledì mattina, dopo un primo tentativo di sgombero rinviato il mese scorso, mamma e figlio hanno dovuto svuotare la loro abitazione e hanno dovuto lasciare quell’appartamento che era l’unica cosa che gli era rimasta. Ad aspettarli fuori hanno trovato la polizia, l’ufficiale giudiziario e gli attivisti del comitato “Abitanti San Siro” e di “Asia”. Proprio i ragazzi, da quando hanno scoperto la situazione di Orea, le sono sempre stati accanto e hanno voluto essere presenti anche in un momento così difficile per l’anziana, che – denunciano – “è stata lasciata sola dal comune e dai servizi sociali.
“Milano abbandona i suoi figli, anche alle porte dell’inverno con il gelo che comincia a infilarsi nelle ossa la risposta è sempre la stessa: nessuna”, denunciano dal comitato, che sottolinea come in città ci siano diecimila case popolari vuote e ottantamila abitazioni private sfitte.
I servizi sociali, in realtà, una proposta a Orea e Daniele l’avevano fatta: trasferirsi in una struttura sanitaria in attesa di una casa popolare, anche se in graduatoria la famiglia è al momento soltanto 827esima. Ma la novantatreenne – fiera e lucida – ha preferito dire di no perché – ha rivendicato – lei e suo figlio “vogliono la libertà di vivere in una casa, decidere della loro vita e non essere limitati dalle costrizioni che ci possono essere in un ospizio o in una residenza sanitaria”.
E un posto dove stare alla fine Orea l’ha trovato grazie all’impegno degli attivisti del quartiere e alla solidarietà dello “Spazio di mutuo soccorso”, un progetto di resistenza alla crisi che scommette sulla solidarietà. Mamma e figlio, infatti, saranno ospitati nella “casa polmone” della “associazione” fino a quando avranno l’assegnazione della casa popolare”. Lì, sottolineano gli attivisti, troveranno il “caldo dell’abbraccio solidale di una comunità che sa cosa vuol dire solidarietà”.
Carmine Ranieri Guarino 29 novembre 2017 18:36

Dopo la madre del bimbo disabile Ikea, secondo licenziamento choc: cacciato per 5 minuti di pausa in più

quale shock? Con il Job act è stata concessa questa opzione e tante altre. 50 sfumature di licenziamento, grazie kompagno Renzi e tutti coloro che hanno tanto lottato incessantemente……ora ci si stupisce. Ma dobbiamo combattere un pericolo peggiore….il ritorno dell’ondata nera…per fortuna che i governi non eletti che hanno approvato Job Act, Fornero, e porcherie varie è in prima linea contro il vero nemico che lascia ogni giorno sulla strada lunghe scie di morte e sangue ….

IKEA raddoppia: dopo aver licenziato a Corsico una madre con figlio disabile che non riusciva a star dietro ai turni che le erano stati assegnati, è di oggi la notizia di un uomo licenziato a Bari. L’uomo, padre di due bimbi piccoli, è stato licenziato da Ikea per essersi trattenuto in pausa 5 minuti più del tempo previsto. La notizia è stata data dal sindacato Uiltucs e arriva il giorno dopo quella analoga del licenziamento nella sede di Milano di una mamma separata con due figli di cui uno disabile, che non riusciva a entrare al lavoro alle 7 del mattino. Sul licenziamento della donna, Ikea oggi ha emesso un comunicato sostenendo che il provvedimento è doloroso ma giusto. Le colleghe della donna licenziata hanno protestato nella sede di Corsico, mentre da Genova non si annunciano iniziative sindacali di solidarietà.
«Esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Marica, la lavoratrice di Ikea licenziata a Corsico», insiste invece la segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan. «È un fatto molto grave – prosegue – inaccettabile, che ripropone nel nostro paese quanto sia difficile per le donne conciliare il lavoro con la cura della famiglia. È una vicenda che mortifica tutte le donne madri. Ikea deve tornare sui propri passi e rispettare le norme che tutelano le lavoratrici madri. Con la contrattazione si possono affrontare le questioni che riguardano la tutela della maternità, ma occorre buon senso e corrette relazioni sindacali. Il rispetto per le donne passa anche attraverso il riconoscimento del lavoro di cura e di assistenza ai propri familiari, soprattutto quando si tratta di persone deboli e non autosufficienti».
Tornando al licenziamento di Bari, in un comunicato, il sindacato parla di «licenziamento illegittimo e vergognoso» e di un «provvedimento eccessivo e sproporzionato che ha portato l’uomo, tra l’altro monoreddito, ad essere cacciato dopo ben 11 anni di lavoro impeccabile».
«È un clima molto pesante quello che si respira in Ikea ultimamente – dichiara Ivana Veronese, segretaria nazionale della Uiltucs, Unione italiana dei lavoratori dei settori turismo, commercio e servizi, che segue a livello nazionale le trattative con Ikea – e i licenziamenti sono la punta di un iceberg. Anche per questo motivo da una decina di giorni, insieme ai lavoratori dipendenti di Ikea Italia, abbiamo lanciato la campagna #CambiaIkea», che in una settimana ha raccolto 25mila firme web e cartacee. «Il provvedimento verso Claudio (questo il nome del lavoratore licenziato, ndr) – spiega Giuseppe Zimmari, segretario generale della Uiltucs Puglia – è eccessivo e sproporzionato. L’azienda non ha poi avanzato tutte le contestazioni, appena avvenivano i presunti ritardi nel rientro in servizio dalla pausa, ma ha atteso di sommarle. Per questo per noi è un licenziamento senza dubbio illegittimo e sarà impugnato a livello legale. Daremo battaglia dal punto di vista sindacale, non ci fermeremo».
La versione dell’azienda sul licenziamento della madre.
«Ikea Italia, a conferma del proprio modo di lavorare che sostiene e sviluppa le proprie risorse interne, ha creduto nel percorso professionale della signora Marica Ricutti che negli anni ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità. L’azienda – si legge in una nota – si è sempre dimostrata disponibile a concordare le migliori soluzioni, per contemperare le necessità della lavoratrice con le esigenze connesse al suo lavoro. In merito alla vicenda, Ikea Italia desidera precisare le ragioni alla base della propria decisione, che «è stata difficile quanto necessaria, nel rispetto dei propri valori e alla luce dei fatti avvenuti». «Negli ultimi 8 mesi – spiega l’azienda – la signora Ricutti ha lavorato meno di 7 giorni al mese e, per circa la metà dei giorni lavorati, ha usufruito di cambi di turno e spostamenti di orario, concordati con i colleghi e con la direzione del negozio. Nell’ultimo periodo, in più occasioni, la lavoratrice – per sua stessa ammissione – si è autodeterminata l’orario di lavoro senza alcun preavviso né comunicazione di sorta, mettendo in gravi difficoltà i servizi dell’area che coordinava e il lavoro dei colleghi, creando disagi ai clienti e disservizi evidenti e non tollerabili. Di fronte alla contestazione di tali episodi e alla richiesta di spiegazioni da parte dei suoi responsabili su questo comportamento, la signora Ricutti si è lasciata andare a gravi e pubblici episodi di insubordinazione. Sulla base dei propri valori, del rispetto dovuto alla totalità dei propri collaboratori e della cura dei propri clienti, Ikea, pur avendo fatto il possibile per andare incontro alle richieste della lavoratrice, ha ritenuto non accettabili comportamenti di questo tipo che hanno compromesso la relazione di fiducia. Alla luce di questa insostenibile situazione, l’azienda è giunta alla decisione di interrompere il rapporto di lavoro».
Oggi in Ikea Italia, ricorda l’azienda, «lavorano più di 6.500 collaboratori diretti, in oltre 21 punti vendita, per i quali valorizziamo le competenze e garantiamo percorsi di crescita. I risultati della nostra indagine di clima interno, infatti, confermano che l’82% dei nostri lavoratori si sente rispettato e valorizzato e l’83% si dichiara orgoglioso di lavorare in Ikea e di farlo sapere. Il 90% è impiegato con un contratto a tempo indeterminato e, nell’ultimo anno, oltre 100 donne e 100 uomini hanno avuto un avanzamento di carriera». Ikea «è da sempre un’azienda sensibile e rispettosa delle diversità. Questo atteggiamento è frutto della consapevolezza che le differenze di genere, orientamento sessuale, provenienza, età e anzianità aziendale sono elementi di sviluppo culturale individuale e collettivo. Grazie alla valorizzazione delle diversità e dell’inclusione, possiamo dire con orgoglio che oggi abbiamo il 58% dei collaboratori e il 44% dei responsabili rappresentato da donne. Per Ikea i propri collaboratori – conclude l’azienda – sono la risorsa più importante e questo è dimostrato dalla storia dei nostri 29 anni di presenza in Italia»
29 novembre 2017