AGGIORNAMENTO. LA NOTIZIA E’ VERA. ECCO IL TESTO DELL’EMENDAMENTO DEL GOVERNO PER CEDERE I BENI CULTURALI AGLI STRANIERI. A QUALE STATO VENDEREMO LA FONTANA DI TREVI ED A CHI IL COLOSSEO?

agi demanio stati esteriCari amici
un aggionramento: è tutto tristemente vero. ECCO IL TESTO DEL DECRETO DELL’INFAMIA.
 
 
Quindi e’ tutto vero . Confermato. INCREDIBILE!
proposta-emendamento vendita demanio
Qui abbiamo superato le previsioni di Totò quando vendeva la fontana di Trevi .
 
Gli immobili del Demanio, compresi quelli del DEMANIO CULTURALE, possono essere ceduti a STATI ESTERI! Quindi, previo consenso del ministero della Cultura, il Governo potrà vedere la Fontana di Trevi ai Francesi, il Colosseo ai Tedeschi, Pompei ai Qatarioti. Questa è , come dicono diverse fonti, il testo di un emendamento che il governo proporrà alla prossima finanziaria. Che sia tutto legato alla scorsa partecipazione di Gentiloni al Consiglio Europeo di Bruxelles? Gentiloni si è venduto l’Italia ?
 
Non so se ci rendiamo conto DELL’ENORME SCANDALO CHE NE DERIVA.  Non si parla neppure di cessione a privati, cosa già estremamente scottante, ma di STATI! Perchè dovremmo cedere parte della sovranità a STATI STRANIERI? Quale improvvida ragione, quale perverso disegno c’è sotto questa norma? Perchè viene approvato questo emendamento? Soprattutto, che ci stanno  fare in parlamento i rappresentanti del popolo ?
 
Sono senza parole. Il Governo con un emendamento mette in pericolo, in modo definitivo, la sovranità dell’Italia  prepara l’esproprio definitivo della nostra cultura, del nostro passato.
 
Abbiamo visto diverse conferme, come:
fassino demanio stati esteri
e RAINEWS
 
 
e stiamo cercando il testo diretto dell’emendamento  e , soprattutto, i NOMI DI CHI LO HA PRESENTATO.
 
A questo punto ci vendiamo tutto: Colosseo, Fontana di Trevi, Pompei, Duomo di Milano. Una vergogna , come è vergognoso ch questo avvenga senza che nessuno dica nulla.
 
Grazie .
dicembre 16, 2017 posted by Fabio Lugano

“Pagati 33 cent all’ora”, il call center della vergogna

call-centersono le meraviglie del progresso, della flessibilità di cui i mercati necessitano, le meraviglie delle prescrizioni europee fatte per far crescere i paesi…..Ci si può indignare quanto si vuole, fatto sta che il job act, abrogazione art 18, legge Biagi ed altre leggi furto l’hanno reso legale.

“Pagati 33 cent all’ora”, il call center della vergogna

Uno stipendio di 92 euro al mese, circa 33 centesimi all’ora, e decurtazioni ai pagamenti del corrispettivo di un’ora di lavoro per chi andava 5 minuti al bagno o arrivava con 3 minuti di ritardo. E’ quanto emerge da una denuncia della SLc Cgil di Taranto, riguardo un call center.

Sulla carta l’offerta era allettante: il call center di Taranto avrebbe offerto ai lavoratori circa 12mila euro all’anno, la realtà però “non solo era differente – spiega Andrea Lumino, segretario generale di SLc Cgil Taranto -, ma superava di gran lunga la più macabra immaginazione”.

I lavoratori impiegati nel call center da metà ottobre a dicembre si sono licenziati dopo “il primo allucinante bonifico di appena 92 euro per un intero mese di lavoro”, si legge in una nota del sindacato. “Alle loro rimostranze, l’azienda ha risposto che se per 5 minuti si lascia il posto per andare al bagno si perdeva una intera ora di lavoro. Anche per un ritardo di tre minuti l’azienda non riconosceva alle lavoratrici la retribuzione oraria”.

Il segretario generale di SLc Cgil Taranto ha annunciato che i legali del sindacato stanno valutando “la possibilità di collegare questa situazione alla legge contro il caporalato”. Subito dopo la conferenza stampa, si legge nel comunicato, è stato preparato un esposto denuncia dei lavoratori e del sindacato da inviare alla Procura della Repubblica, al Sindaco, al Presidente della Provincia e al Prefetto.

Pubblicato il: 19/12/2017 17:39

http://www.adnkronos.com/soldi/economia/2017/12/19/pagati-cent-all-ora-call-center-della-vergogna_381JfhzZ1382HRE83i0ZQM.html

 

Astigiano assunto per 1,95 ore a settimana “Una vergogna, ma è l’unico contratto che ha”

ma come, con tutti i “lottatori per il popolo”, per la solidarietà, per i diritti degli ultimi che polettici governano e che abbiamo nelle istituzioni come mai siamo a questi punti? Sarà colpa di casa pound, dei populisti e di chi minaccia questa splendida democrazia? Ma gli italiani non erano choosy? Se si può campare lavorando 2 ore a settimana per quelle cifre corrispondenti, perché non ci campano i nostri governanti mostrandoci come si fa?


Negli ultimi 10 anni il lavoro precario ha registrato un incremento del 45,5%
È l’unico lavoro che ha, dopo mesi di disoccupazione, e non può certo permettersi di perderlo. Quindi sceglie l’anonimato, ma non davanti al sindacato al quale denuncia «le condizioni vergognose» che ha dovuto accettare
 
Il «monte ore»
 
Il contratto che gli è stato proposto da una grande azienda astigiana prevede un impiego nel settore dei servizi per 1,95 ore a settimana per un totale di 8 ore e 44 minuti al mese. Nessun arrotondamento: si lavora per tre giorni a settimana, per 65 minuti a giornata. Non un minuto in più, nè uno in meno. «Ha firmato il contratto perchè è l’unica offerta che si è concretizzata dopo mesi di ricerche – spiega il segretario generale Nidil Cgil Asti, Giorgia Perrone -. Ci ha detto che sperava anche le ore potessero aumentare, prima o poi. Ma ad oggi così non è stato. Il contratto è stato prorogato, ma il monte ore è rimasto lo stesso, purtroppo».
Il «micro lavoro»
tabella paghe minime
Si chiama «micro lavoro» ed è la nuova frontiera del precariato. Quando la domanda supera l’offerta, si è disposti ad accettare qualunque impiego a qualunque condizione pur di scrollarsi di dosso il peso della disoccupazione.
«Questo non è l’unico caso del genere che ho dovuto trattare – aggiunge Perrone -. Ad Asti come in altre parti d’Italia. Soprattutto nell’ultimo periodo assistiamo ad un moltiplicarsi di questa forma di lavoro disumana in cui la persona è chiamata ad esercitare pratiche di vita estreme per arrivare alla fine del contratto di lavoro, per quanto indecente questo possa essere».
Una recente indagine dell’università di Oxford ha mappato il microlavoro nel mondo. I Paesi con la più alta concentrazione di microlavoratori sono Filippine, India, Bangladesh e Pakistan. «Come fare a pagare l’affitto, le bollette, con 8 ore e 44 minuti al mese? – chiede Perrone – siamo in presenza di condizioni di lavoro disumane in cui la persona è chiamata ad accettare condizioni di vita estreme per arrivare alla fine del contratto di lavoro. Chi si affaccia ora al mondo del lavoro, così come chi ci si ritrova improvvisamente dopo 20-30 anni di servizio, può trovarsi a dover valutare queste offerte indecenti».
 
Qualche dato
« Proprio oggi (ieri, 10 dicembre, ndr) sono stati pubblicati i dati sul lavoro precario della Fondazione Di Vittorio – aggiunge Perrone –. Sono 4 milioni 492mila gli italiani che si trovano nella cosiddetta area del disagio occupazionale (vale a dire coloro che in modo involontario svolgono un lavoro temporaneo o a tempo parziale), con un incremento del 45,5% rispetto al 2007». Il più alto degli ultimi dieci anni.
Pubblicato il 12/12/2017 Ultima modifica il 12/12/2017 alle ore 17:39 laura secci
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La Borsalino è fallita: il crac deciso da un giudice del tribunale di Alessandria per motivi finanziari

SAVE borsalinobeata la toga che tanto il suo a fine mese se lo aggiudica e nessuno lo metterà mai in pericolo. Chi perde il lavoro non ha vitto ed alloggio gratuito. Quando si dice elites…
 
Così si sono presentate quasi 300 persone, quasi tutte con un copricapo e qualcuno pure con cartelli con scritto “#saveBorsalino”. Pochi giorni fa la storica azienda alessandrina, che dà lavoro a circa 130 persone, è stata dichiarata fallita dal tribunale, nonostante una richiesta di concordato e un piano di rilancio presentato dal businessman elvetico Philippe Camperio. FONTE
 
La Borsalino è fallita: il crac deciso da un giudice del tribunale di Alessandria per motivi finanziari
 
Il magistrato Caterina Santinello ha emesso oggi il verdetto rigettando la seconda richiesta di concordato preventivo presentata dal consiglio di amministrazione
 
La Borsalino è fallita. Il giudice Caterina Santinello, presidente del tribunale civile di Alessandria, ha emesso oggi la sentenza rigettando la seconda richiesta di concordato preventivo presentata dal cda della società (Marco Moccia, Saverio Canepa, Raffaele Grimaldi): la prima era stata revocata un anno fa, dopo che a marzo 2016 lo stesso tribunale aveva ammesso Borsalino alla procedura.
Il paradosso è che l’azienda non fallisce per ragioni di mercato, ma esclusivamente finanziarie: coinvolta nel maxi-crac del astigiano Marco Marenco, aveva appunto tentato la strada del concordato, trovando anche un investitore, l’italo svizzero Philippe Camperio. Con la prospettiva di acquisire l’azienda al termine della procedura, l’aveva presa in affitto, aveva saldato i debiti con l’Agenzia delle entrate sborsando oltre 4 milioni, poi aveva investito sia in macchinari che nella rete commerciale e in promozione. Ha anche acquistato per 18 milioni il marchio che diversi anni fa era stato dato in pegno alle banche in cambio di soldi freschi: su questa operazione si è concentrata per altro la requisitoria del pm.
 
 
Comunque il contratto d’affitto scade a giugno, starà al curatore nominato dal tribunale decidere che fare. È probabile un periodo di stallo non breve: il cda è intenzionato a ricorrere contro la sentenza in appello a Torino, la causa si prevede che possa essere definita da febbraio in poi, salvo eventuali giudizi di terzo grado.
 
Se restasse il fallimento, la Borsalino andrebbe all’asta. La sentenza ha lasciato nell’incertezza i 134 dipendenti, che ora temono per la prosecuzione dell’attività: i sindacati sarebbero pronti a dare battaglia, visto che il cappellificio è stato risanato e ha grandi potenzialità di sviluppo. La legge è stata applicata, la giustizia è ancora tutta da discutere.
18/12/2017 Ultima modifica il 18/12/2017 alle ore 19:16 Piero Bottino Alessandria

Mattarella difende le banche. “Si è lavorato per risanarle”

mattarellaBravo kompagno antifa……sempre dalla parte degli ultimi. Salvare le banche è un diritto costituzionale? Ed i senzatetto che muoiono di freddo, muoiono letteralmente, non devono essere salvati?
 
Mattarella difende le banche. “Si è lavorato per risanarle”
Articolo tratto dall’edizione in edicola il giorno 16/12/2017.
 
L’Italia sta facendo il suo, e in futuro continuerà a farlo. Di certo, non siamo un paese rassegnato, allo sbando. Quest’anno abbiamo messo a segno progressi perfino dove nessuno se li sarebbe attesi, cioè sulle banche. Nella sala dei Corazzieri, davanti a 137 ambasciatori stranieri, Sergio Mattarella cita «il lavoro compiuto nell’ambito del settore bancario» che ha contribuito al «rafforzamento di un settore strategico per lo sviluppo». I riflettori, anche della stampa internazionale, sono tutt…continua
ugo magri

Biella, clochard affitta box per ripararsi dal gelo ma gli altri inquilini lo mandano via

senzatettonaturalmente è colpa dei condòmini, mica di chi, stato, comune e mille autorità varie è tenuto a garantire un minimo di vita dignitosa ai cittadini. La solidarietà qui non conta, per lui posto in albergo non c’era. Nessun tutore dei diritti umani si è preoccupato


Biella, clochard affitta box per ripararsi dal gelo ma gli altri inquilini lo mandano via
 
E’ successo a Cossato: l’uomo, 40 anni, aveva detto che gli sarebbe servito come deposito. Allontanato dai carabinieri
14 dicembre 2017
Aveva affittato un garage condominiale per ripararsi dal freddo, ma quando gli inquilini lo hanno scoperto hanno chiamato i carabinieri. E’ la “storia di Natale” alla rovescia di un clochard quarantenne di Cossato, un comune di 15mila abitanti nel Biellese. Per avere un riparo, soprattutto in queste notti di neve e gelo in cui il termometro va sotto zero – solo ieri in Piemonte un altro senzatetto è stato trovato morto di freddo a Chivasso, nel Torinese –  l’uomo aveva deciso di prendere in affitto un box in via Paietta, dicendo che gli serviva come deposito per attrezzi e versando regolarmente anticipo e cauzione.
Ma i residenti del condominio, venuti a conoscenza che l’uso era differente da quello dichiarato, non hanno gradito la sua presenza e hanno chiamato le forze dell’ordine per allontanarlo. La padrona del garage ha poi confermato di avergli affittato lo stabile ma come deposito di attrezzi, non per andarci a vivere, e già da stamattina ha sciolto l’accordo e si è fatta riconsegnare le chiavi.

Clochard muore di freddo su una panchina ai Giardini Peragallo di Pegli È il secondo in dicembre

container croce rossanella città antifascista antirazzista si muore di povertà se non frutti soldi alle coop niente vitto e alloggio. Fortuna che era seguito dai servizi sociali, la loro utilità si vede. A Savona un senzatetto è morto in un container messo a dispozione, nessun paladino dei diritti umani s’è fatto sentire.
 
Il secondo a dicembre, in Liguria. Contiamo anche gli altri o non sono persone?

Clochard muore di freddo su una panchina ai Giardini Peragallo di Pegli
È il secondo in dicembre 20 dicembre 2017
Genova – Lo hanno trovato senza vita su una panchina nei Giardini Peragallo di Pegli. Un clochard di 73 anni, conosciuto nella zona e che spesso si rifugiava alla mensa della Suore di Calcutta di Pra’ per qualche pasto caldo, non ha resistito probabilmente al grande gelo di questi giorni.
Soccorso da un passante a passeggio col cane, non c’è stato nulla da fare. I poliziotti delle “Volanti” e il medico hanno escluso la morte violenta. Il magistrato ha comunque disposto l’autopsia. L’uomo aveva il domicilio in un ufficio del Comune, nel centro storico, e risultava essere assistito dai servizi sociali.

L’Italia è il Paese con più poveri in Europa, seguono Francia e Romania

senza lavoro 1chissà chi dobbiamo ringraziare per questi grandi traguardi. La Ue non era il templio del benessere? Chissà come siamo arrivati a questo punto, con tutti questi guardiani della democrazia, dei signori lotta dura senza paura, per il popolo. Secondo il pennivendolo de La stampa, chi ci ha messo in questa situazione ora parrebbe voler magicamente “rimediare”. L’importante è importarli da fuori i poveri per “salvarli”, noi possiamo anche morire di stenti, chi se ne frega.


L’Italia è il Paese che ha più poveri in Europa. Sono loro quelli ad avere maggiori difficoltà a far fronte a spese impreviste, a garantire che la propria casa sia sempre adeguatamente riscaldata, a far sì di avere almeno due paia di scarpe (estive e invernali), o ancora evitare di finire in arretrato con l’affitto o sostituire abiti lisi con capi più nuovi. Tutti indici di quelle che vengono definite «privazioni sociali e materiali», ma che al netto di espressioni politicamente corrette rilevano il grado di povertà delle famiglie. A livello europeo e nazionale il fenomeno si sta riducendo, ma nell’Ue ci sono ancora 78,5 milioni di persone che vivono stentatamente, e più di dieci milioni di loro sono italiani.
I dati Eurostat diffusi oggi e relativi al 2016 indicano il tasso di privazioni sociali e sociali. Cifre percentuali che lette così come presentate vedrebbero l’Italia undicesima in questa graduatoria. Romania (49,7%) e Bulgaria (47,9%) sono gli Stati membri in condizioni più problematiche, dove praticamente una persona su due ha difficoltà economiche. Ma in termini assoluti, il 17,2% italiano indica più di 10,4 milioni di persone (10.457.600) alle prese coi sintomi di povertà. Letti in quest’altro modo i numeri mostrano un’altra Europa, con l’Italia, sempre pronta a rivendicare la sua grandezze economica, a fare più fatica di tutti. Gli italiani soffrono anche più dei romeni (9,8 milioni) che pure in termini percentuali si trovano davanti a tutti quanto a privazioni. Salta all’occhio, in questa classifica, anche il dato francese. I cittadini d’oltralpe sono i terzi più in difficoltà a livello Ue (8,4 milioni, dietro Italia e Romania).
 
Dati alla mano non c’è da stare allegri, ma ci sono comunque motivi per guardare la situazione con spirito ottimistico. La buona notizia è che tutto questo, seppure a fatica, si sta invertendo. A livello europeo il tasso di persone con privazioni sociali e materiali si sta riducendo, e questo vale anche per l’Italia. Tra il 2015 e il 2016 si sono contati nel territorio dell’Unione europea circa 8,9 milioni di persone con difficoltà economiche in meno. Nello Stivale l’indice si è contratto del 4,4%, un dato che si traduce in 2,6 milioni in meno di cittadini alle prese con ristrettezze economiche. Un segnale che mostra come la ripresina per qualcuno c’è stata, ma che per qualcun altro deve ancora arrivare.
Pubblicato il 12/12/2017 Ultima modifica il 12/12/2017 alle ore 17:55 emanuele bonini

L’Italia del rancore

censis rancoreUn sentimento di rancore diffuso pervade l’Italia: la ripresa alimenta i profitti ma non i redditi di una popolazione afflitta da disoccupazione, precarietà del lavoro, declassamento sociale.
 Il Censis certifica: l’Italia è affetta da rancore, diagnosticato come un male sociale che alimenta populismo e sovranismo, se non il fantasma ricorrente del fascismo. I dati macroeconomici evidenziano una crescita del Pil nel 2017 intorno all’1,5%, ripresa trainata dal settore manifatturiero, dall’export e dal turismo. Tuttavia, cresce anche il dissenso sociale, si accentuano le diseguaglianze e il rancore diffuso contro le istituzioni, i partiti, l’Europa.
Questa ripresa, peraltro assai contenuta e non strutturale, dato che il tasso di crescita italiano è inferiore a quello degli altri paesi della UE, non ha dato luogo ad incrementi del reddito nella popolazione, né rimesso in moto la mobilità sociale, bloccata da decenni. Emerge infatti dal rapporto del Censis che oltre l’80% degli italiano ritiene assai improbabile salire nella scala sociale e circa il 70% teme ulteriori declassamenti.
La crisi ha determinato trasformazioni sistemiche: ha generato un modello socio – economico neoliberista, con evidenti sconvolgimenti nel corpo sociale, data la scomparsa progressiva del ceto medio e spinto sotto la soglia di povertà larga parte del vecchio proletariato.
Un diffuso senso di rancore pervade la popolazione, che, secondo il Censis nella società “è di scena da tempo, con esibizioni di volta in volta indirizzate verso l’alto, attraverso i veementi toni dell’antipolitica, o verso il basso, a caccia di indifesi e marginali capri espiatori, dagli homeless ai rifugiati. È un sentimento che nasce da una condizione strutturale di blocco della mobilità sociale, che nella crisi ha coinvolto pesantemente anche il ceto medio, oltre ai gruppi collocati nella parte più bassa della piramide sociale”. Inoltre, come viene rilevato da tale rapporto, “se la crisi ha avuto effetti psicologici regressivi con la logica del “meno hai, più sei colpito”, la ripresa finora non è ancora riuscita a invertire in modo tangibile e inequivocabile la rotta . La distribuzione dei suoi dividendi sociali appare finora adeguata a riaprire l’unica via che potrebbe allentare tutte le tensioni: la mobilità sociale verso l’alto”.
La gente comune non percepisce la ripresa, i cui effetti sembrano solo incrementare i profitti delle elites. Il disagio sociale, le tensioni latenti, alimentano un rancore generalizzato, che esprime un dissenso misto a rassegnazione, non prospettandosi soluzioni alternative ad un declassamento sociale che appare inarrestabile.
Contestare i partiti, la casta, i governi, è ormai considerato irrilevante. La politica è subordinata ai diktat della oligarchia finanziaria europea, quasi scomparsa la critica sociale e la militanza, perché non si riesce a concepire un futuro diverso da quello del capitalismo assoluto. La totale sfiducia nella politica è così espressa nel rapporto del Censis: “l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici”.
I governi del PD e la destrutturazione del mondo del lavoro
 
E’ tuttavia errato sostenere che i governi targati PD, ossia Letta, Renzi e Gentiloni siano stati i governi dei grandi proclami e delle promesse mancate. Il programma di riforme dell’economia e della società imposto dalla UE è stato in larga parte realizzato, determinando rilevanti trasformazioni nella società italiana.
E’ stata infatti attuata una riforma strutturale del lavoro in Italia, mediante l’introduzione del Job Act. E’ stato abolito nei fatti, insieme con l’articolo 18, il contratto di lavoro a tempo indeterminato, estendendo la precarietà a tutti i settori occupazionali. Il contratto collettivo di lavoro è stato ormai quasi del tutto soppiantato dalla contrattazione aziendale che deroga in modo sostanziale alla normativa generale, i diritti sindacali sono di fatto largamente compressi. I casi di lavoratori sottoposti a sfruttamento intensivo con retribuzioni ai limiti della sopravvivenza sono all’ordine del giorno.
Il tasso di occupazione registra una debole risalita, ma trattasi nella stragrande maggioranza di lavoro precario. I voucher, introdotti dal governo Renzi per il lavoro occasionale, hanno in realtà legalizzato il lavoro nero e compresso al minimo le retribuzioni. L’abolizione dei voucher ha tuttavia comportato l’incremento esponenziale del lavoro intermittente o a chiamata. Si è estesa a macchia d’olio la cosiddetta “gig economy”, ossia i piccoli lavori offerti dalle piattaforme, svolti da lavoratori formalmente autonomi, ma pagati a cottimo e senza alcuna tutela retributiva e previdenziale.
Non a caso viene rilevato dal Censis l’aumento degli addetti alle vendite e servizi personali (+ 10,2%), il personale non qualificato (+11,9%), gli addetti alla logistica e al trasporto delle merci(+11,4%). Registrano invece un calo gli impiegati, gli artigiani, i liberi professionisti (specie tra i giovani).
 
Tra le riforme renziane va annoverata anche “la buona scuola”, con la quale viene introdotta l’alternanza scuola – lavoro, che, col pretesto di agevolare l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, comporta l’utilizzo dei giovani per lavori non qualificati presso le imprese senza alcuna retribuzione. Questo è l’ennesimo aspetto della formazione infinita cui sono sottoposti giovani che, effettuando continui stage presso le aziende, sono in realtà utilizzati come manodopera gratuita o quasi. Tale forma di sfruttamento è particolarmente diffusa presso la pubblica amministrazione. I giovani sono destinati ad arricchire infinitamente i loro curricula, senza altre prospettive di occupazione, se non quella del precariato a vita.
Occorre rilevare inoltre che l’innovazione tecnologica ha avuto un impatto decisamente negativo sull’occupazione e ha penalizzato soprattutto i gruppi sociali più disagiati. Ma il progresso tecnologico non ha oggi alcuna ricaduta sociale, produce solo l’incremento del profitto del capitale a danno del lavoro.
Scrive a tal proposito Marta Fana in “Non è lavoro è sfruttamento – Laterza 2017″: ” Livellare verso il basso i diritti e il lavoro non farà altro che aumentare i già inquietanti livelli di povertà in Italia (ma non solo), per tutti quelli che non hanno potere in questo sistema economico. Bisognerà tenerne conto senza distrazioni quando si discute di crescita economica, perché in un contesto simile, nella migliore delle ipotesi, lo sfruttamento di molti produrrà un aumento del reddito nazionale, del Prodotto interno lordo sulle spalle di quella maggioranza che non trarrà alcun beneficio da tale crescita. Quel che viene negato è il progresso sociale. Questo sistema deflattivo che impoverisce il lavoro è direttamente proporzionale alle disuguaglianze, nel lavoro e nella società, che si perpetuano nel tempo e aggrediscono l’intera sfera riproduttiva: dal welfare al consumo”.
Il rancore come condizione esistenziale permanente
La destrutturazione del welfare e la devoluzione alla UE della sovranità economica e monetaria degli stati, attuate mediante un processo riformatore tuttora in progressiva avanzata, hanno determinato l’abolizione di tutti i meccanismi di redistribuzione del reddito creati dagli stati onde preservare degli equilibri sociali consolidati.
In realtà, il declassamento dei ceti medi non è dovuto tanto alla fine delle politiche di redistribuzione del reddito (politiche abrogate dalla UE al fine di contenere la spesa pubblica, il deficit, ridurre il debito), ma al progressivo decremento del potere di acquisto delle retribuzioni. Alla classe lavoratrice non sono stati distribuiti negli ultimi 20 anni gli incrementi di produttività e di reddito scaturiti dalla innovazione tecnologica nella produzione, che sono invece stati assorbiti dai profitti e dalle rendite finanziarie.
Il capitalismo non è inclusivo, ma elitario, non genera progresso né emancipazione sociale. La classe lavoratrice non ricava alcun beneficio da questa ripresa: ecco la causa del rancore diffuso nel popolo italiano. Il rancore è il prodotto dell’individualismo strutturale prodotto dalla società neoliberista. Il rancore non determina rabbia sociale, ma è solo conseguenza dell’interiorizzazione di un disagio individuale, una sorta di permanente astio interiore scaturito dal senso di impotenza che pervade una società frantumata dall’atomismo sociale. Esso non conduce alla organizzazione politica del dissenso sociale, ma esprime uno stato esistenziale depressivo, un senso di individuale incapacità a realizzare un cambiamento della propria condizione umana e sociale.
Il rancore è un fenomeno degenerativo del dissenso, spesso generatore di guerre fra poveri tra loro in lotta per la sopravvivenza. Conduce a forme di aggregazione politica con falsi obiettivi, quali gli immigrati: trattasi di forme di dissenso del tutto funzionali al sistema. Il rancore alimenta la conflittualità tra individui disagiati, è un fenomeno connaturato all’ordine oligarchico del capitalismo.
Senso di impotenza e rancore sono stati esistenziali tipici di un individuo smarrito, di una collettiva solitudine di massa, di una condizione di una umanità priva di valori comuni di riferimento. Il fondamento di ogni comunità si individua nei valori etico – morali di riferimento, in cui l’individuo perviene al proprio riconoscimento, sia individuale che sociale. E’ questa assenza di valori che genera la mancanza di riconoscimento.
La società di mercato riconosce solo il valore economico del lavoro – merce e quindi l’esclusione dal mercato determina l’emarginazione, l’isolamento dell’individuo – massa. Essere fuori mercato significa inoltre essere escluso anche dai diritti politici: le masse escluse dal mercato del lavoro non sono portatrici di interessi economici degni di rappresentanza politica. Gli esclusi dal mercato sono quindi politicamente ininfluenti.
Il rancore dominante, non può condurre di per sé forme di aggregazione politica alternative al capitalismo, ma comunque determina un distacco dal sistema di un dissenso non più governabile: dal rancore nasce il rifiuto di questo sistema, rifiuto irreversibile potenzialmente produttivo di nuovi orizzonti di dissenso sistemico.
 
di Luigi Tedeschi – 04/12/2017 Fonte: Italicum

Scontro treni Puglia, “azienda conosceva criticità sicurezza”. Ma poco prima della strage i soci si divisero 2,5 milioni di utili

strage puglia ferrotramviaUNA STRAGE ANNUNCIATA, una strage evitabile.  Perciò silenzio, l’11 dicembre è stata chiusa l’inchiesta, ci sono 19 indagati ma a quanto pare la stampa, la politica ha ben altri pensieri che evitare che queste stragi si ripetano. Anzi. Si continua con il solito clientelismo. Si sa, pensare al bene dei cittadini è populismo, una bestemmia contro il capitalismo.
ma come son stati fatti i controlli, SE son stati fatti, Presidente Emiliano? Ad un anno e mezzo di distanza, cosa è stato fatt? Anche se si sa che la sicurezza dei cittadini autoctoni non è prioritaria, non fa guadagnare.
Ma c’è di più: l’accusa è di aver nascosto al ministero i 20 incidenti che sarebbero stati sfiorati sulla linea tra il 2012 e il 2016. Sono ritenuti responsabili anche dell'”insufficiente copertura della rete di telefonia mobile lungo la tratta Andria-Corato e quindi delle conseguenziali difficoltà di comunicazione tra personale di terra e personale di bordo”. L’ipotesi dei magistrati è che un sistema di comunicazione, una telefonata fra i due capitreno avrebbe potuto fermare i convogli. fonte
Scontro treni Puglia, “azienda conosceva criticità sicurezza”. Ma poco prima della strage i soci si divisero 2,5 milioni di utili
Secondo la procura di Trani, la “strategia aziendale” era “finalizzata ad accrescere la produttività” e quindi gli “utili ricavabili”. Venti situazioni critiche registrate tra il 2003 e il 2015 – è la tesi dei magistrati – avrebbero dovuto spingere gli amministratori a investire sull’adeguamento tecnologico. Invece, due mesi prima della strage, i soci si spartirono 2,5 milioni di euro di utili del bilancio 2015
L’ultima volta era accaduto il 21 ottobre 2014, quando un treno era partito proprio dalla stazione di Andria “senza via libera”. Di episodi identici sulla linea Bari-Barletta se n’erano registrati altri 6 tra il 2003 e il 2015, erano state aperte le inchieste disciplinari – senza però segnalare le ‘situazioni critiche’, venti in tutto, alle autorità competenti – ma Ferrotramviaria non avrebbe fatto nulla per migliorare la situazione eliminando il blocco telefonico, definito “obsoleto”. Anzi, secondo la procura di Trani, i soci pensavano alle loro tasche: due mesi prima dello scontro tra i treni sulla tratta Andria-Corato nel quale morirono 23 persone, “venivano distribuiti ai soci” 2,5 milioni di euro “a titolo di dividendo” grazie a 4,74 milioni di utile del bilancio 2015.
L’amministratore delegato e il consiglio d’amministrazione, sostengono i magistrati nell’avviso di conclusione indagine inviato alle 18 persone sotto inchiesta e alla stessa Ferrotramviaria, lo fecero “pur essendo a conoscenza del grave quadro di criticità organizzativa e gestionale in cui versava” l’azienda, con particolare riferimento “alla sicurezza dell’esercizio ferroviario in regime di blocco telefonico“. Sapevano, secondo il procuratore Antonino Di Maio e il pool di pm che ha fatto luce sulle cause del disastro ferroviario, che c’erano dei rischi proprio grazie a quelle 20 inchieste disciplinari aperte nei tredici anni precedenti all’incidente.
 
Campanelli d’allarme rimasti inascoltati e citati più volte dai magistrati, convinti che la “strategia aziendale” di amministratori e dirigenti fosse “finalizzata ad accrescere la produttività della infrastruttura ferroviaria gestita da Ferrotramviaria” e quindi “agli utili ricavabili”. Enrico Maria Pasquini, sua figlia Gloria, il direttore di esercizio Michele Ronchi, direttore generale Massimo Nitti e il dirigente della Divisione Infrastruttura Giulio Roselli avrebbero perseguito quel fine indirizzando “progressivamente” i finanziamenti – stanziati dalla Regione Puglia e destinati “alla implementazione tecnologica” della tratta – verso “interventi volti ad incrementare la capacità dell’infrastruttura e la qualità del servizio” ma “non la sicurezza della circolazione”.
Per questo, sostiene la procura di Trani, “omettevano di realizzare l’adeguamento tecnologico”, installando un Blocco conta assi o il Sistema di controllo della marcia dei treni. Quei due sistemi di sicurezza, dei quali ilfattoquotidiano.it parlò già nei giorni successivi alla tragedia, sarebbero stati “idonei a garantire il miglioramento dei livelli di sicurezza della circolazione ferroviaria”. Da queste condotte, concludono i magistrati, “derivava il disastro ferroviario causato dalla collisione frontale dei due treni. di Andrea Tundo | 11 dicembre 2017