Non c’è risposta ai populisti

euro-signMa non vi infastidisce questo coro assordante e monotono che ogni santo giorno, dappertutto – tv, radio, giornali, istituzioni, partiti e governi – vi dice sempre la stessa cosa contro il Gatto Mammone del Populismo?
Attenti al populista, ripetono in coro ovunque, è xenofobo, è sessuofobo, è razzista, ci porta fuori dall’Europa, dal Mercato, dalla Modernità. Poi aggiungono che il populismo si fonda sulla paura quando invece è proprio sulla paura del populismo, sul terrore ideologico e mediatico quotidianamente propagato che si fonda l’Appello Permanente contro l’Orco populista, dall’Olanda alla Brexit, dagli Usa all’Ungheria, dalla Polonia alla Germania, dalla Francia all’Italia.
Vogliono spaventarci e poi attribuiscono ai populisti la colpa di lucrare sullo spavento. Imprenditori della paura che denunciano imprenditori della paura…
Mai lo sforzo di capire, di ragionare sul malessere e sul perché mezza Europa, nonostante questo tam tam ossessivo, poi sceglie i populisti o per disprezzo della politica non va a votare. Il problema da cui partire non è l’insorgenza di una patologia chiamata populismo, ma la malattia che origina e giustifica il suo espandersi: il fallimento delle democrazie non più rappresentative, il potere usurpato dalle oligarchie, il disagio sociale e civile per l’immigrazione massiccia e clandestina, la decrescita infelice del capitalismo, gli effetti di ritorno della globalizzazione, la retorica del politically correct.
Nessuno tra i liberali, i moderati, i cristiano-democratici, i social-democratici e le sinistre varie riesce a fare un passo oltre la diffusione della paura o la furbizia pre-elettorale di qualche mossa ruffiana (come è stato in Olanda contro i turchi) per recuperare credibilità e rubacchiare voti ai populisti.
Perché nessuno è in grado di rilanciare in modo più rigoroso, più educato, più realistico o se preferite in modo meno grezzo, meno emozionale, meno improvvisato, una proposta politica fondata sulla sovranità nazionale e popolare, sulla riqualificazione della politica, sulla motivazione ideale delle passioni civili, sul primato del sociale sull’economico?
 
Perché nessuna forza dell’establishment riesce in modo convincente a rappresentare l’amor patrio e il senso della comunità, la tradizione, l’identità e il destino dei popoli e a prendersi cura delle sue fasce più esacerbate e ferite, i giovani e gli anziani, lasciando che di queste cose si occupino solo i populisti?
 
Se l’onda populista è un fenomeno di pancia e di istinti, carente di cultura e di storia, priva di un criterio meritocratico per selezionare i suoi dirigenti, mi dite qual è la forza antipopulista che si fondi sulla cultura e la storia e selezioni la sua classe dirigente per merito e qualità?
Loro saranno piazzisti e demagoghi ma i loro avversari sono mediocri, mezze figure, “personaggetti”, direbbe Crozza. L’unico modo per affrontare e sconfiggere il populismo non è demonizzarlo per escluderlo, ma è riprendere con dignità e competenza le istanze captate dai leader populisti e dai loro movimenti, rilanciando la Grande Politica e rispondendo al disagio dei cittadini.
 
Il populismo crescerà fino a quando non ci sarà nessuno in grado di prenderne il posto in modo più affidabile ed efficace. Ma se la sinistra tradisce il popolo e la destra tradisce la nazione, non lamentatevi poi che cresca come erba selvatica il nazionalpopulismo…
di Marcello Veneziani – 20/03/2017 Fonte: Marcello Veneziani

Perché Renzi odia il reddito di cittadinanza e propone il lavoro di cittadinanza

reddito-minimo-garantitoStraordinario Renzi: di ritorno dalla California, dove si sperimenta il reddito di cittadinanza, annuncia in Italia una tesi opposta: il lavoro di cittadinanza. Dopo la batosta del 4 dicembre deve recuperare il voto di giovani e poveri. Come? Mettendoli a lavorare (su cosa?) in cambio di una “cittadinanza”: qualche spicciolo o bonus. Il lavoro di cittadinanza è una delle tesi della sinistra lavorista. Ad essa va contrapposto il reddito di base come diritto universale di esistenza e sviluppo dell’autonomia della persona. Questo diritto oggi può strutturare una proposta radicale e alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista e dalle accuse infondate storicamente dei lavoristi di sinistra per i quali il reddito di base è una proposta “neoliberista”
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Ma Renzi è davvero stato in California? Oppure ha dato un indirizzo sbagliato ai giornalisti ed è rimasto a casetta? La sua gita nella Silicon Valley è stata inutile: dallo stato dove si discute, e si sta sperimentando un reddito di cittadinanza a Oakland, Renzi ha importato il concetto opposto: il lavoro di cittadinanza. Ovvero: obbligo di lavoro per tutti i precari e disoccupati, gestito dallo Stato garante in ultima istanza del «lavoro pubblico garantito».
Ripresentarsi con la proposta di lavoro cittadinanza senza citare il reddito di cittadinanza sostenuto, non senza problematicità, dai principali esponenti e teorici della Silicon Valley che parlano di robot e automazione la dice lunga sul livello di arretratezza e subordinazione culturale in cui vive la stampa e buona parte della “sinistra” italiana. Parlare di “lavoro di cittadinanza” è surreale all’indomani della bocciatura delle destre neoliberiste all’europarlamento di una tassa sull’automazione e dei robot per finanziare un reddito di base. Benoit Hamon, candidato dei socialisti francesi alle presidenziali (il partito alla cui sedicente “famiglia” politica dovrebbe appartenere il Pd-partito di Renzi), ha sbaragliato la destra social-liberista di Manuel Valls alle primarie con questa proposta che è più avanzata rispetto alle posizioni neoliberiste espresse da Emmanuel Macron, favorito nella corsa all’Eliseo. In base ai primi risultati della sperimentazione di Oakland condotta su mille persone sembra che il reddito dimostri le posizioni di chi da tempo lo sostiene: l’aumento delle tutele contro la precarietà e la disoccupazione non diminuisce la capacità di lavoro, ma rafforza l’autonomia del titolare di un diritto al reddito di base.
Il personaggio-Renzi è dotato di un’enorme capacità di mistificare tutto e il suo contrario e i media ne sono affascinati in un gioco di auto-distruzione che si autoalimenta. Risultato ineguagliato, per il momento, resta il catastrofico (per lui, non per il paese) referendum del 4 dicembre. Ora, il mistificatore ha bisogno di recuperare voti sul “sociale”, i “giovani”, i “poveri”. La proposta sul “lavoro di cittadinanza” mette benzina sul fuoco.
 
“Fermare il progresso e la tecnologia o pensare di rallentare è assurdo”, ha detto l’ex premier ed ex segretario del Pd: “Le invenzioni, dalla stampa all’automobile, hanno avuto sempre ricadute sociali. Compito della politica è ora affrontare i problemi che derivano dalla rivoluzione digitale e i costi in termini di perdita di posti di lavoro”. Ma, aggiunge, “contesto la risposta grillina al problema. Garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione che parla di lavoro non di stipendio. Il lavoro non è solo stipendio, ma anche dignità. Il reddito di cittadinanza nega il primo articolo della nostra Costituzione”, invece “serve un lavoro di cittadinanza”.
Luigi Di Maio, candidato a Palazzo Chigi contro Renzi per i Cinque Stelle, si è chiesto cosa significhi “lavoro di cittadinanza”. Qualcuno ha provato a dare una risposta: sarebbe addirittura una proposta di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, e  di Berlusconi che di recente si è scoperto sostenitore del “reddito di cittadinanza”.
Brunetta starebbe pensando a un lavoro di cittadinanza che impone, per legge, un’occupazione di 3 mesi a chi ne farà domanda. I tre mesi di lavoro daranno diritto a trascorrerne altrettanti con l’indennità di disoccupazione, e così via. Si desume che l’obbligo al lavoro, magari attraverso i vecchi lavori socialmente utili o con i più “moderni” voucher. In questo caso, tutti i cittadini in disagio lavorativo saranno costretti a svolgere nuove corvée o lavori servili di ogni tipo per avere in cambio un sussidio di povertà di ultima istanza (chiamato da Berlusconi, senza vergogna, “reddito di cittadinanza”) in una turnazione trimestrale. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) creata dal Jobs Act di Renzi e i centri per l’impiego, enti che hanno una buona parte dei dipendenti precari o in scadenza a marzo, dovrebbero gestire il nuovo lavoro servile, chiamato “lavoro di cittadinanza”. Resta da capire cosa faranno i richiedenti asilo che, a causa delle disfunzioni strutturali del sistema di asilo e del razzismo dilagante, saranno messi al lavoro (gratuito) per ottenere quello che sarebbe un loro diritto. Il piano Minniti-Morcone rientra, e in che modo, nel lavoro di cittadinanza?
 
Per chi ha una pur minima conoscenza dello stato delle politiche del lavoro, e dei risultati reali (non quelli renziani) del Jobs Act, sa che queste proposte di contrasto alla disoccupazione, tra l’altro in una crisi economica come la nostra, sono fuffa. Vale tuttavia la pena di analizzarle perché da oggi a febbraio 2018 – quando presumibilmente si voterà in Italia, salvo rovesci – questa sarà materia di propaganda. Potrebbe essere un punto dell’agenda del governo Pd-partito di Renzi-Forza Italia-Ncd e vari satelliti.
Renzi è spregiudicato. Quando parla di “lavoro di cittadinanza” allude a una tesi della sinistra lavorista. E’ stata avanzata da Laura Pennacchi (nel 2013; o nel 2017). Questa proposta è contro un reddito di base, soprattutto se incondizionato, accusato di favorire “la scissione del nesso costituzionale tra lavoro e dignità, il quale considera il lavoro non solo come attività ma come processo antropologicamente strutturante l’identità umana”. Prima che se ne appropriasse Renzi, la proposta era stata avanzata in politica da Stefano Fassina (Sinistra Italiana, già viceministro dell’Economia nel governo Letta quando militava nel Pd): “il lavoro di cittadinanza, non reddito di cittadinanza – ha sostenuto Fassina – Che deve servire all’inserimento lavorativo, quindi deve essere condizionato ad attività formative e all’accettazione di offerte dignitose di lavoro. Lo vedo come un veicolo per condurre o ricondurre le persone al lavoro”.
 
Questa sinistra sostiene il ritorno dello Stato a cui affidare il ruolo di “creatore di ultima istanza” di lavoro. Impresa ambiziosa che si ritrova nel piano sul lavoro presentato dalla Cgil e viene tramandato dal tempo in cui alcuni economisti progressisti consigliavano di impiegare persone facendogli scavare le buche. Più di recente se ne è parlato per creare occupazione statale nella manutenzione dei disastrati territori italiani. A Renzi, invece, non interessa un simile ruolo dello Stato, se non limitato all’erogazione degli incentivi alle imprese: 18 miliardi per il Jobs Act. Si appropria del lavorismo e, con la sua personale interpretazione del populismo, lo mescola con l’assistenzialismo statale agli imprenditori in chiave di capitalismo compassionevole. Un patchwork conservatore e liberista, di destra e di sinistra, in chiave anti-Movimento Cinque Stelle.
 
Renzi è impegnato in una battaglia ideologica lavorista contro la proposta workferista del Movimento Cinque Stelle su un presunto (e infondato) reddito di cittadinanza (si tratta di un reddito minimo, come si dimostra qui e qui). Ha trovato nel sintagma “lavoro di cittadinanza” la parola ideale per confondere ancora di più le acque della propaganda da una parte e dall’altra. La mossa è studiata: visto che la micro-scissione dal Pd (e da Sinistra Italiana) della “ditta” Bersani-D’Alema (e Speranza, Scotto, Smeriglio ecc) si chiamerà “Articolo 1 – Movimento dei democratici e dei progressisti), Renzi ha pensato di impadronirsi dell’ingombrante portato giuridico dell’articolo della Costituzione per rubare la scena ai suoi attuali avversari “di sinistra” e scaricarlo contro i Cinque Stelle accusati, a torto, di essere meno lavoristi del Pd.
 
Renzi sostiene queste posizioni da almeno quattro anni. Impadronendosi oggi della parola d’ordine  del “lavoro di cittadinanza”, l’ex premier otterrà l’effetto di neutralizzare la principale – e modesta – proposta di “sinistra” per affrontare, si fa per dire, il problema epocale della precarietà, del lavoro povero, della totale mancanza di tutele universalistiche per la persona e infine dell’automazione che-distrugge-i-posti-di-lavoro. La sinistra non lavorista rischia di restare, come sempre, senza voce. A meno che non rilanci – contro la proposta dei Cinque Stelle e contro il lavorismo di Renzi e della sua “sinistra” – la prospettiva del reddito di base universale. Destinato anche ai residenti stranieri, non solo ai “cittadini”.
 
Impresa difficile perché il lavorismo ha una presa ideologica anche nei quadri dirigenti sindacali, Cgil compresa. Qualche cambiamento c’è stato negli ultimi sei o sette anni nella Fiom e nella Flc, ma il reddito non è mai diventato un argomento di discussione dirimente nel sindacato, a cominciare dalla “Carta dei diritti del lavoro” che la Cgil sostiene con i referendum contro i voucher e sugli appalti. Senza contare che la confederazione sindacale sostiene una proposta di “reddito di inclusione sociale” (Reis), una misura parziale e non universalistica contro la povertà, e non un reddito di base a sostegno della persona vulnerabile nel mercato del lavoro nella società finalizzata al libero e autonomo sviluppo della sua dignità sociale, umana e professionale.
In questa confusione politica e ideologica la battaglia è feroce. A sinistra, tra i Cinque stelle e Renzi non si faranno prigionieri. Chi sta perdendo sono milioni di persone la cui vita migliorerebbe con una riforma universalistica del Welfare familistico, lavorista, burocratico e anacronistico come quello italiano. Gli unici, ad oggi, che sostengono una prospettiva di “reddito minimo garantito” sono in parte in Sinistra Italiana, Possibile di Civati o parte di Rifondazione Comunista, le reti dei movimenti e dei centri sociali, la rete dei Numeri Pari (composta da Libera, Cnca, Rete della Conoscenza, Roma Social Pride), il Basic Income Network-Italia. Molto interesse desta la proposta di “reddito di autodeterminazione” avanzata dal movimento Non una di meno. La novità più interessante nella politica degli ultimi tempi porterò questa rivendicazione in piazza nello sciopero delle donne del prossimo 8 marzo. Queste posizioni che potrebbero evolvere verso un vero reddito di base universale. Una parte ancora poco visibile politicamente, a cui bisognerebbe chiedere più coraggio e azione politica per sfuggire alla tenaglia ideologica del pauperismo, del miserabilismo e di un’equivoca, nostalgica e acritica idea “socialdemocratica” dello stato che oggi unisce lavoristi di destra e di sinistra.
Una precedente campagna sul reddito di dignità, sostenuta da Libera e da centinaia di associazioni e movimenti, è stata cannibalizzata dagli opportunismi dei lavoristi. Il governatore della Puglia Michele Emiliano ha stravolto quella proposta spuria (una forma di reddito minimo garantito) in un sussidio di ultima istanza per i poverissimi con famiglie numerose, sottoponendoli alle condizioni di un workfare ispettivo che prevede penalizzazioni per chi non accetta una manciata di euro in cambio di lavori socialmente utili. Emiliano ha chiamato questa proposta “reddito di dignità”. Uno scippo che ha mostrato la debolezza politica delle istanze che chiedono in Italia una forma di dignità e giustizia sociale. Il consenso per una misura come il reddito resta tuttavia, potenzialmente, molto ampio nel paese. Per questo non dovrebbe restare confinato nei limiti di uno spazio politico ultra-identitario e altrettanto incerto, e infinitamente condizionabile da una duplice dialettica: quella distruttiva pd-centrica oppure quella neutralizzante dei Cinque Stelle.
 
In questa prospettiva bisogna liberare il campo da un equivoco. Il discorso sul reddito di base non è una prerogativa della Silicon Valley, né tanto meno dei liberisti alla Milton Friedman. Di sganciamento del reddito dal lavoro, e di riforma del Welfare, si parla perlomeno dagli anni Settanta in Italia, in Germania e nella sinistra europea più avanzata. Senza contare che un reddito di base non esclude il lavoro, ma libera il soggetto dal suo ricatto, per un libero sviluppo della sua personalità. Un’antica aspirazione del Marx teorico della “forza lavoro” e non del “lavoro”, come ritengono i lavoristi che hanno del marxismo un’immagine umanistica, smithian-ricardiana e certamente non comunista. Da un altro punto di vista, altrettanto radicale, di recente Stefano Rodotà ha proposto la formulazione di un diritto fondamentale al reddito che ha chiamato diritto universale di esistenza. Un diritto che oggi può strutturare ogni proposta alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista.
 
Sostenere che il reddito di base è una proposta neoliberista è dunque un falso storico usato dai lavoristi che parlano di “piena occupazione”. Dire che Milton Friedman propone forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione. Quella dei neoliberisti è solo una delle possibili varianti del reddito di base. Non certo l’unica.
 
Una volta messo in ordine il quadro teorico e storico, è giunto il momento di un’iniziativa politica autonoma sul reddito. Non è mai troppo tardi.
 
***qui e qui le differenze tra reddito minimo garantito, reddito di inclusione sociale, reddito di povertà e reddito di base universale
Quinto Stato
Roberto Ciccarelli 27.02.2017
 

La seconda gamba del Jobs Act: l’Anpal e il management della precarietà di massa

copertina-300x300per fortuna che ci sono tante lotte dure senza paure. SE SI E’ ARRIVATI FIN QUI QUALCUNO COMPLICE E’ STATO. Ed ad ogni SUICIDIO per indigenza CENSURIAMO bel paese dominato dai giusti moralmente superiori
SOLO SE LA COSIDDETTA SOLIDARIETA’ SI TRASFORMA IN UN SISTEMA MAFIOSO-TANGENTISTA VIENE INTRODOTTA IN STA FOGNA DI PAESE

Non solo voucher. Il Jobs Act è un mondo. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) è la sua seconda gamba. Anticipazione del futuro in Italia. Quello che saranno le politiche neoliberali del lavoro e il management della precarietà di massa.  Non senza problemi: l’Anpal che dovrà organizzare i servizi per reinserire i lavoratori precari o disoccupati è tenuta in piedi da 760 precari i cui contratti scadranno il 31 luglio. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
 
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La stagione delle politiche attive del lavoro in Italia è iniziata ad Avellino. Il Presidente del Consiglio Gentiloni e il presidente dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal) Maurizio Del Conte hanno visitato il Centro per l’Impiego della città campana per lanciare un’operazione ambiziosa: introdurre anche nel Belpaese un sistema di workfare secondo i canoni più stringenti del neoliberismo applicato al mercato del lavoro. Un’operazione che può essere compresa in relazione all’approvazione del “reddito di inclusione” nell’ambito di un intervento sottofinanziato, vessatorio e incompleto contro la povertà.
Questo reddito riguarda i poverissimi, capofamiglia di nuclei numerosi al di sotto dei 3 mila euro di Isee; l’assegno di ricollocazione che sarà gestito dai centri dell’impiego monitorati dall’Anpal interessa invece i disoccupati.
La logica è la stessa: il soggetto che non accetta un’offerta di lavoro, e non rispetta il “patto” con lo Stato (o con le agenzie private titolari di un progetto di ricollocazione), sarà penalizzato fino alla perdita del sussidio stesso.
Il set è un centro per l’impiego del Sud, dove ci sono i tassi di disoccupazione e di povertà più alti del paese. Gli attori – Gentiloni e Del Conte (bocconiano, e già autore del Ddl lavoro autonomo) – hanno annunciato le seguenti misure: 30 mila lettere ai disoccupati per “ricollocarli” sul mercato del lavoro; rilancio del fallimentare programma sulla “Garanzia giovani” e del Bonus assunzioni Sud per il 2017, parte superstite degli sgravi erogati dal governo Renzi alle imprese che assumono con il contratto precario “a tutele crescenti”, 18 miliardi in tre anni con esiti deludenti. Sarà creato un nuovo bacino di precari: mille “tutor” garantiranno il sistema del lavoro gratuito dei liceali nelle aziende nell’ambito del sistema “alternanza scuola-lavoro” strutturato da un’altra riforma renziana: la “Buona scuola”. Previsti interventi a supporto della ricollocazione di 1.666 licenziati di Almaviva Contact.
 
Esperimento Almaviva
Il ricollocamento degli ex Almaviva è una sperimentazione che prevede tre strumenti di incentivazione per una somma da investire sui lavoratori licenziati fino a 15mila euro: alle società private che formeranno il lavoratore andranno fino a 2mila euro; alle società di collocamento ma solo nel caso di esito positivo del percorso, un assegno di ricollocazione fino a 5mila euro;  alle aziende che assumeranno il lavoratore con contratto a tempo indeterminato fino a 8mila euro.
I disoccupati continueranno ad usufruire, per tutto il percorso di ricerca di lavoro, della Naspi. in alternativa, sono previsti incentivi per l’auto-impiego fino a 18mila euro a lavoratore, 15mila sul capitale e 3mila per il percorso di accompagnamento all’auto-imprenditorialità, oltre a risorse per la ricollocazione degli over 60, fino a 10mila euro a testa per l’accompagno verso un lavoro di pubblica utilità. L’accesso ai programmi disegnati dal governo sarà volontario. Nella regione Lazio apriranno 5 sportelli, in collaborazione con la regione, per gestire un’operazione complessa. Dal 9 al 16 aprile inizieranno i colloqui individuali con i lavoratori “ricollocandi”.
 
Le proposte di lavoro dovranno essere “congrue” e in linea con le competenze e il salario dell’esperienza precedente del lavoratore. Tutto dipende dalla “domanda che emergerà dal territorio” e dall’interesse di imprese pubbliche e private, società parastatali o amministrazioni pubbliche, ad occupare gli ex licenziati Almaviva. Se il lavoratore rifiuterà l’occupazione perderà il diritto all’indennità di disoccupazione. Su questa operazione il governo investirà 8 milioni di euro rimborsati dal fondo europeo Feg.
Questa sperimentazione permette di squadernare la logica governamentale già presente nelle politiche del lavoro in Italia e che il JobsAct ha cercato di sistematizzare in quella che è stata definita “seconda gamba”. I 30 mila destinatari delle lettere sono stati individuati tra i percettori della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi) da almeno 4 mesi. Queste persone avranno a disposizione un buono fino a un massimo di 5.000 euro per usufruire di servizi di assistenza intensiva alla ricollocazione, presso un centro per l’impiego o un’agenzia per il lavoro accreditata. Va specificato che questa somma non è erogata direttamente al disoccupato, ma agli operatori – pubblici e privati – attraverso un meccanismo che viene definito “incentivante”. L’operatore sarà retribuito solo a risultato raggiunto, cioè alla firma di un contratto di lavoro da parte del lavoratore. L’intervento ha una durata di sei mesi, prorogabile per altri sei nel caso non sia stato consumato l’intero ammontare dell’assegno di ricollocazione.
Management del mercato del lavoro
Su questa base è possibile ipotizzare che per reciproco interesse il lavoratore e l’agenzia a cui si è rivolto possano avere interesse a mantenere in vita la prestazione di disoccupazione. Il primo potrebbe mantenere il sussidio per la sua intera durata; la seconda continuare a prendere il voucher. Nel primo caso, il diritto fondamentale della libera scelta – e il corrispettivo principio costituzionale -saranno aggirati dall’approccio prestazionale e produttivistico proprio del dispositivo del management by objective. Nel secondo caso si rischia di alimentare comportamenti opportunistici nelle strutture private.
 
I “soggetti accreditati” possono anche spingere il loro “cliente” ad accettare qualsiasi offerta che riterranno congrua rispetto al curriculum del lavoratore. Dal numero di ricollocamenti dipende sia la riscossione della percentuale sul fondo destinato al lavoratore sia il rating dell’agenzia interinale che è in concorrenza con le altre, così come lo saranno gli stessi centri per l’impiego in un sistema “misto” dove l’Anpal dovrebbe giocare un ruolo di arbitro e di coordinatrice-monitoratrice delle attività  del pubblico e del privato, dello stato e delle regioni.
Al lavoratore spetterà la scelta di accettare un lavoro oppure ricevere la penalità da parte dello Stato. Per lui le “politiche attive” prevedono una serie micidiale di sanzioni nel caso di rifiuto di un’offerta “congrua” di lavoro, fino alla punizione finale: il rifiuto del sussidio.Su questo concetto di “congruità” si giocherà, presumibilmente, la partita esistenziale, politica ed epistemologica delle “nuove” politiche del lavoro. Il contrasto tra la logica del rating -seguita dal sistema di collocamento scelto dal JobsAct – e quella della libera scelta è palese.
Alla base della “politica attiva del lavoro” esiste l’approccio sanzionatorio e parossistico del work first: il “lavoro purchessia”, basato sui requisiti quantitativi e non qualitativi. Questa logica incide sia sul lavoratore che sui soggetti che li seguono. L’obbligo della scelta può arrivare a negare la libertà del soggetto che ha stretto un “patto” con lo Stato. Il ricollocamento, l’occupazione, la disoccupazione diventano un caso morale, ovvero uno dei dispositivi che governano la vita delle persone oggi nella società, e non solo nel lavoro.
 
Esistono altre ipotesi. Ad esempio, una volta entrati in vigore a livello sistemico, i voucher potrebbero essere liberamente versati nelle casse delle multinazionali private e non in quelle pubbliche, date le attuali e future inefficienze. Il governo elargirà fondi pubblici a privati, ma sarà rimborsato con i fondi europei. La politica, che molto sta puntando sulla finzione delle “politiche attive” potrà comunque appendersi una medaglietta al petto. I giornali potranno titolare sul successo dell’operazione.
 
L’Unione Europea – ispiratrice di questo sistema neoliberale di workfare – potrà brindare al miglioramento delle statistiche sull’occupazione. E i lavoratori? I lavoratori troveranno un altro modo per vivere la loro condizione di disoccupazione attiva o di attivazione occupazionale permanente restando, in fondo, intermittenti del reddito e delle tutele.
E ancora: il soggetto potrebbe preferire non entrare nel quasi-mercato dei sussidi e delle politiche attive istituito con l’Anpal per evitare di essere ricattato, monitorato e disciplinato. In Italia sembra quasi inconcepibile questa eventualità, data l’assenza di una reale politica attiva. Casi simili si registrano in tutta Europa, dalla Francia all’Inghilterra e in Germania. Paesi dove il sistema di ricollocamento esiste. Il restringimento punitivo dei parametri, avvenuto nell’ultimo decennio, sta causando una fuga dal workfare da parte di soggetti che rifiutano di assoggettarsi alle nuove condizioni.
Le politiche attive del lavoro sono un concentrato di politiche neoliberiste con lo scopo di creare un “quasi mercato” dell’offerta di lavoro sia nel pubblico che nel privato. Il loro obiettivo è trasformare la governance inefficiente attuale in un dispositivo manageriale che funziona con premi, obiettivi e competizione tra istituzioni e imprese del reclutamento di forza-lavoro. La politica attiva del lavoro è un governo della vita.
 
Sono precari coloro che aiutano i disoccupati a trovare un lavoro
Ad oggi l’intero sistema dell’Anpal si regge sul precariato di 760 operatori i cui contratti sono stati da poco prorogati al 31 luglio 2017. E poi? Dovrebbero ripetere una selezione che hanno già fatto tra il 2015 e il 2016 per continuare a fare un lavoro che in molti casi svolgono da anni. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
Il caso dei 760 precari di Anpal è significativo. Sono loro che dovrebbero seguire la “ricollocazione” dei licenziati Almaviva. Senza contare i mille “tutor” che dovrebbero seguire e formare le attività dell’alternanza scuola lavoro: una pedagogia neoliberale obbligatoria che serve ad addestrare gli studenti al lavoro inteso come stage permanente o vero e proprio lavoro gratuito che avrà un peso sul voto della maturità.
“È inaccettabile – scrivono gli interessati – che le risorse impegnate in progetti di ricollocazione, come il Piano Almaviva, garantiscano servizi a disoccupati vivendo sulla propria pelle una forte incertezza sul proprio futuro professionale e lavorativo. È necessario che Anpal e il Governo garantiscano l’inizio di un percorso di stabilizzazione che passi attraverso il rispetto dell’intesa quadro del 22 luglio 2015, la salvaguardia della continuità occupazionale dei lavoratori e delle attività di Anpal Servizi e la proroga dei contratti fino al 2020 senza passare per ulteriori selezioni visto che abbiamo già superato vacancies sulla programmazione 2014-2020”.
Non bisogna mai credere agli annunci degli aspiranti stregoni del mercato del lavoro. Sotto la patina dell’ottimismo tecnocratico, dentro le pieghe della neo-lingua, c’è sempre un’intenzione di controllo e governo. C’è sempre il precariato. Un dato può essere utile per dare un senso alle prospettive delle “politiche attive del lavoro” in Italia. Solo in Germania – stella polare delle classi dirigenti italiane sul workfare i mini-jobs e le politiche contro i poveri – nelle politiche del lavoro e nelle politiche attive sono impiegate circa 110 mila persone, oltre 11 volte in più rispetto ai circa 9 mila italiani, di cui circa 2 mila precari.
 
Roberto Ciccarelli 17.03.2017

Biella, suicidio di coppia per due ambulanti sessantenni: “Perdonateci, siamo sul lastrico”

copertina-300x300GRAZIE ITALIA. GRAZIE PER L’INDIFFERENZA MOSTRATA loro non sbarcano non meritano solidarietà, ed i tanti come loro che sono in difficoltà economica

E’ stata la polizia a scoprire i corpi dei coniugi
 
Tragedia nel quartiere Chiavazza. Marito e moglie hanno lasciato messaggi in cui spiegano i motivi del gesto: non riuscivano più a vivere del lavoro al mercato
 
Si sono tolti la vita perché non riuscivano più a vivere con il loro guadagno. E lo hanno fatto insieme. Doppio suicidio a Chiavazza, nel biellese: marito e moglie sessantenni sono stati trovati morti impiccati nel garage della loro casa in via Coda. Erano entrambi venditori ambulanti al mercato ma da qualche tempo con ogni probabilità non riuscivano più, con il loro lavoro, a sopravvivere.
 
A dare l’allarme è stato il proprietario dell’autorimessa dove i coniugi parcheggiavano il camion. Il fatto che da alcuni giorni nessuno lo avesse spostati ha destato dei sospetti. I cadaveri
 
sono stati scoperti oggi dalla polizia, entrata nella villetta. La coppia ha lasciato alcuni messaggi (“Perdonateci, siamo sul lastrico”) per spiegare il doppio suicidio, che sarebbe dovuto a motivi economici. La loro casa era in vendita da due anni, e sembra che marito e moglie sognassero di trasferirsi in Toscana per godersi la pensione: due anni fa, raccontano i vicini, la coppia aveva subito un furto in casa, fatto che aveva lasciato un segno profondo soprattutto nella donna.
di FLORIANA RULLO – 17 marzo 2017

Jobs Act, anche il centro studi di Biagi certifica flop: “Sempre più lavoratori a termine. Boom occupati? Solo over 50”

El-paro-aumenta-el-riesgo-de-pobreza.-Luis-SerranoA due anni dalla riforma, un working paper della fondazione Adapt fa il bilancio. Nonostante gli sgravi contributivi, costati circa 20,3 miliardi di euro, “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale”, cioè invertire il rapporto tra i nuovi contratti a tempo determinato e quelli stabili. Nel 2007 erano a termine 13,7 lavoratori su 100, nel 2016 si è toccato il record di 14,4. Inoltre gli incentivi hanno giocato a sfavore dei giovani, il cui tasso di occupazione resta 8 punti sotto il livello pre-crisi
 
Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili per i datori di lavoro i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto dei sindacati o un’accusa delle opposizioni: basta guardare gli ultimi dati Inps sull’andamento di assunzioni e licenziamenti nel 2016. Ma ora, a due anni esatti dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo di Matteo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato dal giuslavorista Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Brigate Rosse. La valutazione arriva dunque da una fonte cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata.
Le conclusioni dell’analisi, firmata dal direttore generale di Adapt Francesco Seghezzi e dal ricercatore Francesco Nespoli, sono nette: per prima cosa, alla luce dei dati disponibili “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale del Jobs Act, più volte comunicato, di invertire il rapporto tra il flusso dei contratti a tempo determinato e quello dei contratti a tempo indeterminato”, nonostante i generosi sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato concessi dal gennaio 2015 al dicembre 2016 proprio per spingere le stabilizzazioni siano costati alle casse dello Stato una cifra che l’articolo stima in “circa 20,3 miliardi di euro“, l’equivalente di una manovra finanziaria. Infatti appena la decontribuzione si è ridotta, nel 2016, “abbiamo assistito ad una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%)”.
Nel 2016 record di lavoratori a tempo determinato – Risultato: “Complessivamente sia nel 2015 che nel 2016 la percentuale degli occupati a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti è cresciuta. Se infatti nel 2007 13,2 lavoratori dipendenti su 100 avevano un contratto a termine, il numero è calato lievemente durante la crisi per poi tornare a crescere arrivando a 13,7 nel 2015 e al valore record di 14,4 nel 2016“. Tutto considerato, i dati finora disponibili mostrano secondo il paper come “l’investimento fatto non abbia portato ad un cambio strutturale delle preferenze delle imprese e come esso possa prefigurarsi come legato tuttalpiù a una modifica strutturale dei rapporti di convenienza economica delle due diverse tipologie contrattuali”. Per di più, il legame tra decontribuzione e attivazione di contratti suggerisce che le imprese favorite dal Jobs Act siano state “quelle che competono sui costi fissi piuttosto che sull’innovazione“.
“Ripresa occupazionale concentrata nella fascia più anziana” – Se poi si va a guardare quali fasce di età hanno beneficiato maggiormente delle stabilizzazioni, il risultato è quasi paradossale nel contesto di un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa (per non parlare dei Neet): l’unica crescita consistente del tasso di occupazione si è registrata nel gruppo 50-64 anni. Andando ancora più a fondo, si scopre che “la ripresa occupazionale alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni si è concentrata quasi totalmente sulla fascia più anziana della popolazione lavorativa italiana”. Una constatazione che “getta una diversa luce sulle possibili cause”, scrivono i ricercatori: vale a dire che “è quantomeno possibile introdurre tra i fattori l’aumento dell’età pensionabile e la conseguente diminuzione del numero dei pensionati italiani, diminuzione che ha fatto sì che il numero di occupati nella fascia 50-64 aumentasse, contribuendo quindi all’aumento complessivo degli occupati”. Più del Jobs Act, dunque, poté la riforma Fornero. Del resto, il fatto che gli incentivi non fossero differenziati – per esempio più alti per i giovani al primo impiego – “pare avere giocato addirittura a sfavore dei giovani, facendo propendere le imprese verso l’assunzione dei più esperti” anziché puntare su ragazzi da formare.
I contratti a tempo determinato nel 2016 hanno ricominciato ad aumentare – Le conclusioni del paper sono ovviamente basate sui dati ufficiali di Inps e Istat. Si parte dalle rilevazioni dell’istituto previdenziale sui nuovi contratti. Nel 2015 si sono registrati, al netto delle cessazioni e includendo le trasformazioni, 934mila contratti a tempo indeterminato in più. “È indubbio quindi che i provvedimenti, soprattutto quello della decontribuzione, abbiano generato nel 2015 una vera e propria impennata di contratti di lavoro”. Purtroppo però è altrettanto indubbio “che nel 2016 questo trend abbia subito una brusca frenata“: nel 2016 sono stati 82mila (-91%). Al contrario “sul fronte dei contratti a tempo determinato, la cui diminuzione era tra gli obiettivi di policy principali (se non quello primario) del Jobs Act, si assiste ad una dinamica opposta”. Se nel 2015 erano diminuiti di 253mila unità, l’anno scorso (quando lo sgravio contributivo è stato ridotto dal 100 al 40%) sono aumentati di 221mila, +187%.
 
Rispetto a prima della crisi 264mila lavoratori in meno – Passando alla panoramica del mercato del lavoro prima e dopo la riforma, il quadro è altrettanto negativo: “Alla fine del 2016 avevamo in Italia 22.783mila occupati, con un tasso di occupazione pari al 57,3% della forza lavoro. Un dato che confrontato con il 2007 pre-crisi mostra la diminuzione di 264mila lavoratori e soprattutto (considerando anche la crescita della popolazione e la forza lavoro cresciuta di 1,2 milioni di unità) la diminuzione dell’1,5% del tasso di occupazione“.
L’anno scorso 217mila nuovi occupati su 293mila sono stati over 50 – Quanto alla ripartizione dei benefici degli incentivi tra le diverse fasce di età, il tasso di occupazione dei 15-24enni che nel 2007 era al 24,2% e nel 2013 era sceso al 15,6% ha conosciuto solo un mini recupero, arrivando al 16,3% nel 2016: circa 8 punti in meno rispetto al periodo pre-crisi. Dinamica simile per la fascia della prima maturità, tra i 25 e i 34 anni: “se nel 2007 lavoravano 70,6 persone su 100 in tale coorte anagrafica, nel 2013 erano scese a 59,1 per risalire debolmente a 60,5 nel 2016”. Stesso andamento, anche se più contenuto nelle variazioni, per la fascia 35-49 anni. Al contrario, “l’unica crescita consistente si è verificata nel gruppo 50-64 anni che ha visto una crescita costante che ha portato la percentuale degli occupati dal 46,8% del 2007 al 53,8% del 2013 per poi salire ancora al 58,5% del 2016“. Depurare i dati dall’effetto della demografia, che “svuota” le corti più giovani, non migliora la situazione, anzi: “In una stima sul 2016 si evince che su un totale di 293mila occupati in più, sarebbero 217.000 quelli tra i 50 e i 64 anni, 49.000 coloro tra i 35 e i 49 anni e 27.000 tra i 15 e i 34 anni. Nell’ultimo anno quindi ad ogni nuovo occupato tra i 15 e i 49 anni sono corrisposti 2,8 nuovi occupati tra i 50 e i 64 anni”.
Sui licenziamenti troppo pochi dati. Ma sono aumentati quelli per giusta causa e giustificato motivo soggettivo – Meno schiaccianti le evidenze sul fronte dei licenziamenti: ancora oggi, spiegano Seghezzi e Nespoli, “mancano i dati che possano dirci con chiarezza se i contratti cessati in questo modo fossero o meno contratti stipulati dopo l’introduzione delle norme istitutive delle tutele crescenti. Per questo motivo non si può oggi ragionevolmente sostenere né che il Jobs Act abbia generato un aumento di licenziamenti, né il contrario”. Si può però prendere atto del fatto che tra 2014 e 2016 c’è stato un aumento costante dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, mentre è stato più altalenante l’andamento di quelli per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi, diminuiti nel 2015 e aumentati nel 2016.
 
La conclusione del paper è che se un governo intende davvero promuovere le assunzioni a tempo indeterminato è inutile “armarsi e scendere nel campo di battaglia dei numeri che ogni mese vengono diffusi”. Bisogna “discutere l’idea profonda del mercato del lavoro che vogliamo costruire, senza pensare di poter affrontare una grande trasformazione, ormai ammessa da tutti, rinverdendo un poco strumenti vecchi. Una rivoluzione implica risposte all’altezza della sfida, o quanto meno domande per un’analisi meno approssimativa possibile”.
di Chiara Brusini | 14 marzo 2017

DEMENZA DIGITALE

lavoro tecIl ras di quello che una volta era il partito dei lavoratori si è recato recentemente in visita negli Stati Uniti, alla Corte dei capitalisti della Silicon Valley.
L’ ex premier Matteo Renzi, come nel suo stile, ha trionfalisticamente annunziato l’iniziativa transcontinentale motivandola con la necessità di dovere apprendere da quelli che, per capirci, con l’informatizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione e la rete informatica guadagnano denari a palate. E così mandano sul lastrico milionate di aziende e lavoratori.
Chi vi scrive non appartiene di certo alla ristretta cerchia del giglio magico. Allorquando opportunamente interpellato lo scrivente, comunque, si sarebbe adoperato per evitare al leader piddino la defatigante esperienza californiana.
 
Non è. invero, necessario recarsi di persona nella lontana Silicon Valley per intuire i meccanismi che determinano il formidabile successo di aziende come Amazon, Microsoft, Apple, Google, Netflix twitter, starbucks, Adobe. Bisogna però avere l’onestà intellettuale di riconoscere che tale successo fonda su un modello sociale ed economico nefasto.
Pochi sanno che, insieme, tali imprese capitalizzano in borsa oltre 2718 miliardi di dollari. Molto di più del prodotto interno lordo italiano che vale, invece, 1961 miliardi. I vertici di tali colossi del web sono quelli che recentemente si sono messi anche a far politica. Come un sol uomo sono insorti contro la decisione di Trump che aveva bloccato gli ingressi negli Stati Uniti provenienti da stati canaglia.
 
Queste aziende, per capitale e fatturato di questo settore, contano oltre 900.000 dipendenti. Amazon, da sola, impiega 306.800 persone per smistare, a basso costo, pacchi in 14 paesi. Mentre Starbucks, con fatturato decisamente più basso, si serve di 238.000 dipendenti per recapitare dolcetti e caffè americani in tutto il mondo. E’ intuitivo comprendere che costoro si oppongono, allora, alle scelte di contrasto dei flussi immigratori incontrollati non certamente per ragioni umanitarie.
Le ondate di disperati, disponibili a lavorare a basso costo, rappresentano un ineliminabile pilastro del loro successo. Il dumping commerciale che tale aziende praticano postula la disponibilità di un elevatissimo numero di dipendenti disponibili a farsi sfruttare per salari da fame. E l’immigrazione alimenta l’offerta di manodopera disponibile a lavorare a basso costo. Renzi, di ritorno dalla Silicon Valley, avrà finalmente compreso l’ arcano della new economy. Ed a sinistra i nodi giungono al pettine.
 
Sul tema del lavoro, da che parte sta la sinistra? Con Uber, per esempio, o con i tassisti? La questione va correttamente affrontata in termini di principio. Stare con Uber significa accettare quella sharing economy che sta progressivamente annientando il mercato ed il mondo del lavoro. Si tratta di un progressismo peculiare, che piace molto alla grande finanza, agli intellettuali politicamente corretti, foraggiati da contratti che a loro riservano le reti pubbliche o le maggiori testate giornalistiche.
Chiunque non sia in malafede non può più negare che la robotizzazione e la digitalizzazione determinano la drastica riduzione di posti di lavoro e un progressivo aumento della disoccupazione.
Nell’arco di dieci anni, stando ad autorevoli stime, il tasso di disoccupazione passerà dal 10 al 47%. Di fronte a tale stato di cose, ed alle conseguenti prospettive, siamo ormai chiamati tutti ad consapevole presa di posizione universale: o si sta a favore del lavoro oppure ci si schiera a beneficio dei visionari dell’ultratecnica.
La sinistra renziana, invece, promette di tutelare i lavoratori ma intraprende politiche di governo che favoriscono la precarizzazione di tutte le forme di lavoro. Renzi poi una scelta definitiva sembra averla fatta: pubblicamente celebra Google, Apple, Amazon.
Negli Stati Uniti incontra Musk, imprenditore miliardario della new economy, profeta del transumanesimo, che progetta ed investe nella produzione di veicoli senza guidatore e preconizza che uomini l’ibridazione dell’umanità.
Nel frattempo, mentre i vertici del Pd si gingillano ad eludere temi centrali per le prospettive del mondo del lavoro, secondo i dati del Viminale, gli sbarchi segnano un inquietante aumento del 44% rispetto all’anno scorso. Gli immigrati in arrivo sono in gran parte della Nuova Guinea, Costa d’avorio, Nigeria e Senegal, Gambia. Nessuno proviene da scenari di guerra. Si calcola che nel 2017 possa essere superata la cifra dei 200.000 sbarchi. Coloro che si riempiono la bocca di retorica dell’accoglienza – ed il portafoglio di contributi destinati alle strutture di scopo – possono riferirci quali realistiche prospettive di assorbimento, in un mercato del lavoro che va rapidamente assottigliandosi, siamo in condizione di garantire a questi disperati ed ai nostri disoccupati ?
Mar 06, 2017 di Carmine Ippolito
Fonte: Katehon

Otto miliardari ricchi quanto mezzo pianeta. L’incubo del capitalismo è realtà

Homeless Man on the Street

Homeless Man on the Street

tutto questo è stato possibile grazie anche ai difensori “dell’europa delle banche che basta riformarla”, dei difensori della libera circolazione dei capitali,  merci e uomini contro le minacce “Populiste” come il padrone USA vuole.


Il noto non è conosciuto. Così diceva Hegel. E non è conosciuto perché lo diamo per scontato o rinunciamo a ragionarvi serenamente, complice la distrazione di massa che regna a ogni latitudine. Lo sappiamo da anni. Anche da prima che ce lo ricordasse Thomas Piketty nel suo studio sul capitalismo nel ventunesimo secolo.
Il mondo post-1989 non è il mondo della libertà, come ripetono i suoi ditirambici cantori: a meno che per libertà non si intenda quella del capitale e dei suoi agenti. Per il 99% della popolazione mondiale il post-1989 è e resta un incubo: un incubo di disuguaglianza e miseria.
Ce l’ha ancora recentemente ricordato Forbes, la Bibbia dei sacerdoti del monoteismo del mercato deregolamentato. Otto super-miliardari – meticolosamente censiti da Forbes – detengono la stessa ricchezza che è riuscita ad accumulare la metà della popolazione più povera del pianeta3,6 miliardi di persone.
L’1% ha accumulato nel 2016 l’equivalente di quanto sta nelle tasche del restante 99%.
Insomma, ci sia consentito ricordarlo, a beneficio di quanti non l’avessero notato o, più semplicemente, facessero ostinatamente finta di non notarlo: il mondo è sempre più visibilmente diviso tra un’immensa massa di dannati – gli sconfitti della mondializzazione – e una ristrettissima classe di signori apolidi dell’oligarchia finanziaria transnazionale e postmoderna, post-borghese e post-proletaria.
Non vi è più il tradizionale conflitto tra la borghesia e il proletariato nel quadro dello Stato sovrano nazionale: il conflitto – meglio, il massacro a senso unico – è oggi tra la nuova massa precarizzata globale e la nuova “aristocrazia finanziaria” (Marx) cosmopolita e liberal-libertaria, nemica giurata dei diritti sociali e delle sovranità economiche e politiche.
 
La massa degli sconfitti della globalizzazione è composta dal vecchio proletariato e dalla vecchia borghesia: il vecchio proletariato è divenuto una massa senza coscienza di erogatori di forza lavoro sottopagata, supersfruttata e intermittente. La vecchia borghesia dei piccoli imprenditori è stata essa stessa pauperizzata dall’oligarchia finanziaria, mediante rapine finanziarie, truffe bancarie e competivitismo transnazionale. L’oligarchia sempre più ristretta governa il mondo secondo la logica esclusiva della crescita illimitata del proprio profitto individuale, a detrimento del restante 99% dell’umanità sofferente.
 
di Diego Fusaro | 16 gennaio 2017

La Cina rilascia il Rapporto sui diritti umani negli Usa: “situazione catastrofica”

ob_xi2ovviamente è colpa di TRUMP. Obama è un giusto,  con 7 guerre nel suo CV di pacifista


L’elezione presidenziale 2016 degli Stati Uniti è stata piena di “bugie e farse” ed è stata condotta dallo “scambio potere per soldi”. Lo afferma l’agenzia del governo cinese che come ogni anno risponde al consueto rapporto sui diritti umani pubblicato dagli Stati Uniti con il suo  ” Human Rights Record of the United States in 2016″.
“Nel 2016 il denaro e lo scambio denaro per potere ha contraddistinto l’elezione in Cina, che è stata piena di bugie e farse”. Lo afferma il rapporto per sottolineare la situazione complicata negli Usa per i diritti politici.
“Non ci sono state garanzie dei diritti politici” e le elezioni stesse, accompagnate da proteste su larga scala, hanno offerto “una piena esposizione della natura ipocrita della democrazia degli Stati Uniti”.
Dopo aver criticato il “continuo deterioramento dei diritti umani nel paese in aspetti chiave”, il rapporto menziona “gli spari persistenti nelle orecchie delle persone che stanno dietro la Statua della Libertà, peggiorando la discriminazione razziale e la farsa elettorale dominata dalla politica di denaro.”
Queste istanze hanno visto Washington ancora una volta minare il “mito dei suoi diritti umani con le sue stesse gesta”. Nel rapporto si sottolinea come l’anno passato si sono registrati con frequenza crimini con l’uso delle armi da fuoco e un alto numero di vittime.
“In totale si sono prodotti 58.100 crimini con armi da fuoco, inclusi 385 sparatorie di massa, che hanno prodotto nel complesso 15 mila morti e 31 mila feriti”, prosegue la nota. Sempre sul fronte interno, il rapporto ha evidenziato la situazione dell’industria carceraria, disastrosa al punto che oggi gli Stati Uniti hanno il secondo più alto tasso di carcerazione al mondo, con quasiun adulto su tre che hanno la fedina penale sporca.
Sempre sul fronte interno, evidenzia il rapporto, il tasso di povertà infantile, il crescente divario salariale di genere e le molestie sessuali fanno concludere che “non c’è stato alcun miglioramento per la tutela dei diritti di donne, dei bambini e degli anziani, oltre che dei diritti delle persone maggiormente vulnerabili “
Sul fronte esterno, la Cina ha rimarcato il suo disappunto di come gli Stati Uniti continui a violare in modo massiccio “i diritti umani in altri paesi, causando enormi perdite civili” in paesi come Siria, Pakistan, Yemen e Somalia.
Nello specifico, il rapporto osserva che le campagne aeree degli Stati Uniti in Siria e in Iraq hanno causato tra i 4.568 e 6.127 civili uccisi e che dal 2009 il suo programma illegale di attacchi con i droni ha causato 800 morti in Pakistan, Yemen e Somalia.
Il rapporto ha evidenziato anche i restanti 59 prigionieri detenuti illegalmente a Guantanamo Bay e il fallimento degli Stati Uniti, in violazione del diritto internazionale, diindagare e punire i crimini di guerra documentati e torture commessi dai soldati americani e agenti della CIA durante il suo 16° anno della cosiddetta guerra “al terrore”
 
Il rapporto cinese viene rilasciato pochi giorni dopo che il Dipartimento di Stato Usa aveva pubblicato il suo  anunale report nella prassi dei diritti umani, che ha criticato molti aspetti delle politiche interne della Cina dal lato dei diritti civili e politici. Una volta queste ipocrisie a stelle e strisce non avevano risposta. Una volta. Oggi il mondo è cambiato.
Notizia del: 10/03/2017

L’autonomia economica a 38 anni. Tra un decennio a 48. L’inferno che nessuno vuole vedere

0-20070un altro grande successo delle istituzioni europee, anti populiste, quelle giuste, globaliste e progressiste. Poi dicono che tocca importare braccia perché non si fanno figli. Ma le femministe si chiedono perché tante donne abortiscono PERCHE’ NON HANNO I MEZZI per mantenere i figli e quindi sono COSTRETTE non “scelgono” di rinunciare ad un figlio?

E’ un genocidio silenzioso.


La Fondazione Bruno Visentini, istituzionalmente collegata alla Luiss, si occupa di analizzare i problemi economici giuridici di maggiore rilevanza per il nostro sistema di imprese e, più in generale, del sistema socio-economico del Paese. La Fondazione ha presentato oggi un interessantissimo rapporto dal titolo: «Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà: generazioni a confronto».

Vi si evince chiaramente una cosa che tutti presentiamo da anni, anche se mai ci viene posta davanti agli occhi nero su bianco. Una cosa che rimuoviamo, altrimenti il nostro Io se ne uscirebbe in frantumi. La rimuoviamo come i traumi, i desideri inappagabili, le più profonde paure.

Questa cosa è che la nostra società, il modo in cui essa è strutturata e in cui vi sono distribuite le risorse, è divenuta un insormontabile ostacolo al normale, al fisiologico sviluppo della vita umana.

Biologicamente la maturità inizia a 18 anni. Questo significa che a quell’età noi siamo pronti per essere autonomi. Bene, nella nostra Italia nel 2004 l’autonomia economica si raggiungeva in 10 anni. In altri termini, mettevi su casa a 28. Nel 2020 per metter su casa dovrai aspettare i 38, oltre dunque la prima fase della maturità.

Per vent’anni la tua psiche sarà costretta ad essere quella di un ragazzo. Per non impazzire. Ma anche essere ragazzi a trent’anni è una forma di profonda alienazione foriera di mille nevrosi.

Nel 2030 si prevede che l’autonomia economica sarà raggiunta soltanto a 48 anni. È incommentabile.

È la sovversione dell’ordine naturale delle cose: per chi ha un’idea sacrale della vita, una cosa più blasfema non può esistere. Per gli scientisti, non può esistere una cosa più stolta.

Stiamo vivendo in un film horror e non ce ne accorgiamo.

Allora ripeto per l’ennesima volta che o si pone rimedio immediatamente al divario generazionale in termini di distribuzione delle risorse o non stupiamoci più di alcuna aberrazione, di alcuna efferatezza, di alcuno scriteriato integralismo: perché quello che abbiamo costruito continuando a guardare il nostro ombelico pasciuto si chiama Inferno.

A presto.

di Edoardo Varini – 23/03/2017 Fonte: linkiesta

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58556

A sessant’anni dai Trattati di Roma: “vertici” e “celebrazioni” che hanno fatto il loro tempo

trattati romail popolo dovrebbe festeggiare la troika che li dissangua a suon di austerità? Ah già si deve altrimenti si è populisti….


Piccolo esempio di come gettano al vento i nostri soldi: i festeggiamenti per i 60 anni del Trattato di Roma che istituì la Comunità Economica Europea.

Pensate a quanto costerà quest’inutile ed autoreferenziale fanfaronata, anche solo dal punto di vista della “sicurezza”. Da giorni cercano di coinvolgerci emotivamente con le “informative dei nostri (?) 007″: l’Isis, i Black Bloc, la Banda Bassotti, Fantomas e pure il Jolly Joker caleranno sulla Città Eterna per metterla a sacco!

Ma se proprio hanno tanta voglia di festeggiare, perché queste nullità “europeiste” non s’incontrano da qualche parte, in un esclusivissimo albergo di montagna, cenano a caviale e champagne, si scambiano baci e abbracci, leggono un paio di banalità dei “padri dell’Europa” e poi se ne tornano ordinatamente a casa loro? D’altronde non è quello che fanno quando si riuniscono per il Bilderberg, la Trilaterale, al Bosco Boemo e via cospirando?

Invece no: devono imporre questa “festa” a Roma perché tutti la devono vedere, spendendo cifre assurde per le delegazioni, la farsa della “sicurezza” (ma chi vi fila!) e l’immancabile parterre di ‘escort dattilografiche’ al seguito, tutti pagati dal mitico ed esangue “contribuente”.  E questo senza citare il disagio che questi “summit” provocano nella cittadinanza, espropriata della città per far posto a Sua Maestà l’oligarchia europoide.

Viene sinceramente il dubbio che uno degli scopi dell’evento sia effettivamente quello di far calare dei “contestatori”, che come al solito spaccheranno tutto, dai cassonetti dell’immondizia alla vetrina della bottega del pizzicagnolo, dalle cabine del telefono alla macchina del ragionier Fantozzi parcheggiata sotto casa, che, si sa, sono i simboli per antonomasia dei “padroni”.

Solo di agenti in servizio, questa orgia auto-celebrativa che poteva essere evitata organizzando una comoda audio-conferenza gratuita su Skype, costerà un capitale che, in tempi di deprecati “sprechi”, dovrebbe far sobbalzare sulla sedia di strapagati grilli parlanti i vari professionisti della berlina per “la Casta” ed i suoi vizi, che invece taceranno come tacciono sempre quando annusano pericoli per il loro quieto vivere.

Eppure è tutto così evidente. Ora, tutto questo dispendio di soldi ed energie per mettere intorno a un tavolo i cosiddetti “grandi della terra” può verificarsi puntualmente ed impunemente perché in giro non c’è manco il barlume di una “coscienza storica”. Ma avendo il sottoscritto una preparazione da storico contemporaneo, non mi può sfuggire un particolare non da poco.

Fino a qualche decennio fa gli “incontri al vertice” erano davvero appuntamenti importanti, preparati per mesi, nei quali si decideva qualcosa. Penso, prima della Seconda guerra mondiale, alle Conferenze di Stresa o di Monaco. Oggi, ogni settimana c’è un “vertice”, fatto tanto per fare, per dare l’impressione che esista una politica estera espressione della volontà dei politici. Un inutile ed indecoroso walzer di facce di bronzo che girottolano con le loro cartelline di cui ignorano i contenuti, con un codazzo di delegazioni da fare spavento, più alberghi e cene e via sperperando, fino all’immancabile foto di gruppo (o di classe, da bravi scolaretti che hanno fatto bene i “compiti”) da dare in pasto alle agenzie e ai tiggì, senza che di tutto ciò – intendiamoci – resti traccia nella Storia…

Ecco, di questi sessant’anni dei Trattati di Roma, di cui non frega assolutamente nulla a nessuno, rimarrà probabilmente solo l’ennesimo ammanco di cassa, di danari nostri estorti dal nostro sudore ed andati in cene, conferenze, parate, alberghi, leccapiedi e pattugliamenti di terra, del cielo e dell’aria; e forse, come sussurra qualche malalingua, in dame di compagnia ed altro “materiale umano” per allietare le notti dei convenuti, di certi particolari convenuti alla “festa” di un’Europa senz’anima nel vero senso della parola.

Sì, perché non è credibile mettere su un piano – quello del “terrorismo” – tutti i cattivi pronti a rovinare la “festa” e presentare come delle mammolette prese a studiare il meglio per noi gli stessi che, un colpo dietro l’altro, “commissariando” le nazioni europee, ci hanno esautorato di ogni sovranità, esponendoci oltretutto al pericolo di “spectre” che, come le migliori inchieste hanno dimostrato (Meyssan, Estulin…), sono fabbricate nello stesso esatto luogo dal quale escono i “rispettabili” cantori della “globalizzazione”, di cui questa “Unione Europea” è una diretta ed evidente espressione.

di Enrico Galoppini – 23/03/2017 Fonte: Il Discrimine

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58553