I Rotschild: 8 volte più ricchi degli 8 più ricchi

questa disparità sicuramente invoca un cambiamento, basta chiedere gentilmente e cortesemente ai ricchi, banchieri in primis di smettere di arricchirsi alle spalle dei popoli e redistribuire equamente, chiedendo per piacere vuoi che non collaborino generosamente?


Per un  giorno, i media hanno parlato della ricerca di  Oxfam International   da  cui risulta che la ricchezza degli 8 principali miliardari supera quella della metà povera della popolazione mondiale, 3,6 miliardi.  Gli otto sono

Bill Gates   con  75 $  miliardi
Amancio Ortega – $ 67 mdi
Warren Buffett – 60,8 $ mdi
Carlos Slim Helu – 50 $ mdi
Jeff Bezos – 45,2 $ mdi
Mark Zuckerberg – 44,6 $ mdi
Larry Ellison – 43,6 $ mdi
Michael Bloomberg – 40 $ mdi
Addizionate insieme, le loro ricchezze valgono  426, 2 miliardi di dollari.
Questa disparità   estrema, ha concluso  Oxfam, “invoca un cambiamento fondamentale nel modo in cui gestiamo le nostre economie,  perché funzionino per tutti, non solo per alcuni”.
Nel novero dei primi otto non appare il nome Rotschild. Per varie ragioni:  qui non abbiamo a che fare con  persone fisiche, ma con una dinastia,  i  cui membri presiedono  a fiduciarie private a capitale fisso – niente società per azioni (scalabili),  ma   solo aziende familiari, accuratamente sottratte  ai mercati finanziari goym, e partecipazioni  incrociate.
Insomma  è ancora la struttura  instaurata dal capostipite  del 18mo secolo, Mayer Amschel Rotschild.  Basato in Germania,  l’avo   sparse i suoi cinque figli nelle diverse capitali  europee, ciascuno muniti di capitale e conoscenze per  aprirvi  una banca d’affari: Parigi e Francoforte, Londra, Vienna e Napoli (era  allora uno degli stati dalle finanze più  prospere).  E’  stata dunque  la prima multinazionale del credito,   che profittò delle guerre europee scatenate dalla  Rivoluzione  giacobina  e da Napoleone.  Prestando agli stati  che la guerra indebitava (tipicamente,  all’impero austro-ungarico,  a quello britannico), da cui accettava titoli e buoni del Tesoro, e cogliendo  tutte le buone occasioni per prendere il controllo finanziario delle più diverse industrie,  a  corto di liquidità.
Il figlio che ebbe maggior successo fu  quello che si stabilì a Londra  Nathan Meyer  Rotschild:  sposò  Hanna Barent Cohen da  cui ebbe 7 figli e   una cospicua dote finanziaria;  nel 1811, durante le guerre napoleoniche, finanziò  di fatto lo sforzo bellico britannico quasi da solo  – senza trascurare di finanziare in segreto anche il Bonaparte.   Il 18 luglio 1815  fu  un corriere della  Rothschild & Sons  che informò il governo britannico che a  Waterloo le cose si mettevano male per Napoleone; il governo non ci credette, e allora Nathan  stette al gioco:  si  mise a svendere titoli del debito inglese, come se sapesse che presto sarebbero stati carta straccia.
Gli altri ricchi inglesi, nel panico, lo imitarono; la Borsa collassò. Mani forti anonime  (agenti dei Rotschild) avevano già fatto  incetta di titoli a prezzi da liquidazione fallimentare;  quando arrivò la notizia che a Waterloo Napoleone  aveva perso, Nathan era il padrone della London Stock Exchange.
Ancora nel 2015  il Regno Unito sta restituendo a rate i capitali presi  a prestito dai Rotschild.
Oggi,  le ricchezze  della dinastia restano inimmaginabili; essa riesce in gran parte a dissimularle con il metodo delle  ditte   non quotate, dove non si pubblicano bilanci, dove lavorano e sono impiegati direttamente i membri della famiglia, matrimoni fra consanguinei,  eredi che continuano a collaborare strettamente; da due secoli, non è mai apparso alla luce un litigio fra i parenti, che abbia prodotto un  frazionamento di ricchezze, capitali e imprese.  Non  a caso il motto della famiglia, sotto lo scudo rosso, è (in latino) “Concordia, Integritas, Industria”.
Oltre alle finanziarie N.M. Rotschild &  Son di Londra e la Edmond de Rotschild Group  in Svizzera,  la dinastia ha incalcolabili partecipazioni in istituti di credito,  nel settore immobiliare,  minerario ed energetico.  I vigneti che l’uno o l’altro membro hanno in Francia, in Sudafrica, in California, Sudafrica ed Australia, sono   attività da tempo libero.    Le partecipazioni che contano, in “investimenti globali”, non sono affatto visibili. E’ dubbio se i Rotschild siano oggi quello che fu la ditta di Nathan, che divenne praticamente il banchiere centrale   d’Europa,   coprendo debiti pubblici,  salvando banche nazionali,  finanziando infrastrutture  pubbliche durante la rivoluzione industriale.
Sicché non si può valutare se dice il vero il sito Investopedia, che   ha provato a fare una valutazione approssimativa  e decreta (senza specificare i cespiti e le attività)  che la ricchezza  che  la dinastia controlla oggi ammonta a 2  trilioni di dollari:  2 mila miliardi.  Se fosse vero, vuol dire che i Rothschild  sono otto volte più  ricchi degli otto più ricchi miliardari.
I milionari annusano il collasso, e scappano  (dalla società che hanno creato)
Non certo i Rotschild, ma i “mezzi milionari”, i gestori di hedge funds,   i fondatori di startups di successo,  i ricchi in  milioni (ma non miliardi), stanno comprando bunker di lusso  in  rifugi   anti-atomici  riciclati in condomini costosissimi, assoldando squadre di guardie armate,   investendo in campi d’aviazione  in Nuova Zelanda: almeno secondo un articolo del New Yorker  che sta facendo   rumore  fra quelli che contano.  Perché i nuovi ricchi   temono una rivolta sociale:  “Le  tensioni prodotte dall’acuta disparità di reddito  stanno diventando così’ forti, che alcuni dei più  agiati del mondo stanno prendendo misure per proteggersi”-
new-zealand-airstrip
In vendita in Nuova Zelanda: pista d’atterraggio.
Una volta, i “preppers”, quelli che si preparano a lottare e sopravvivere in un collasso sociale totale accumulando proiettili e scatolame  in qualche deserto americano, erano la “frangia lunatica”  fatta  per lo più da reduci di guerra tornati disturbati dall’Irak, o complottasti paranoici; gente senza tanti mezzi comunque.  Adesso sono le menti  brillanti di SIlicon Valley  a prepararsi  all’Armageddon, sia quello naturale (terremoto della faglia di Sant?Andrea)  sia il collasso sociale e politico della società.
Antonio García Martínez,   40 anni, ha   ammesso di aver acquistato “due ettari di bosco in un’isola del Nord  Pacifico e d’averla attrezzata con generatori, pannelli solari, casse di munizioni”. Il fondatore di PayPal , Peter Thiel, ha non solo comprati terreni in Nuova Zelanda, ma fondato là una ditta  che aiuta i suoi pari (pari-reddito) a cercare là ridenti rifugi. Nei fatti,   nei primi 10 mesi  del 2016, mani straniere  hanno acquistato 3500 chilometri quadrati in  Nuova Zelanda. Il posto così lontano è oggetto  dei loro appetiti, anche  perché  ritenuto sicuro   se scoppia una epidemia globale…
Reid Hoffman, creatore di LinkedIn, ha raccontato al giornalista dell New Yorker: “Dire che  hai comprato una casa in Nuova Zelanda è  come un ammicco  fra noi.  Si fa’ la stretta di   mano massonica e ci si scambiano notizie del tipo: niamo, “Sai, conosco un mediatore che vende vecchi silos per missili ICBM,  a prova di atomica…”.  O si discute su temi come: “Bisogna comprarsi un aereo privato. Bisogna  prendersi cura anche della famiglia del  pilota. Devono essere sull’aereo”.
E’   istruttivo vedere  come abbiano  paura della società  che  loro stessi hanno creato,  e  ne vogliano fuggire. Come pensano di salvare se stessi per via individuale, accumulando munizioni   generatori solari,   trincerandosi coi propri pari in condomini fortificato:   uno spasimo terminale di individualismo americano    e di spirito del West,  con i carri in circolo contro gli  indiani.
Se avessimo avuto una più equa distribuzione del reddito, messo più fondi e energia nelle scuole pubbliche, nei parchi, nelle arti o  e nella sanità pubblica,   avremmo tolto molta della rabbia che si sente nella società.  Le  abbiamo tutte smantellate, queste cose”, ammette Rob Johnson , che ha fondato un Institute  for  New Economic Thinking (istituto per  un nuovo pensiero economico),  dove  cerca di  riproporre  le strane idee  della società come un sistema di corresponsabilità  a questi  ricchi spaventati.  Ma lamenta la mancanza di “spirito di responsabilità  verso il  prossimo”  e l’apertura  alla possibilità, fra   i ricchi, di una più decisiva politica fiscale di redistribuzione.

“L’epoca della globalizzazione ha finito il suo tempo ”

ma che terribile prospettiva, populisti populisti!!

Evo-Morales

Evo Morales, pres. Bolivia
La frenesia per un imminente mondo senza frontiere, il frastuono per la constante erosione degli stati-nazionali in nome della libertà d’impresa e la quasi religiosa certezza che la società mondiale finirà per amalgamarsi in un unico spazio economico, finanziario e culturale integrato, sono appena crollate di fronte all’annichilito stupore delle èlites globaliste del pianeta.
La rinuncia della Gran Bretagna a continuare nell’Unione Europea – il progetto più importante di unificazione statale degli ultimi cento anni – e la vittoria elettorale di Trump – che ha innalzato le bandiere di un ritorno al protezionismo economico, ha preannunciato la rinuncia ai trattati di libero commercio ed ha promesso la costruzione di mesopotamiche mura di frontiera –, sono tutti elementi che hanno annichilito l’illusione liberista e globalista che è stata quella più grande e di maggiore successo dei nostri tempi.
E che tutto questo provenga dalle due nazioni che 35 anni fa, protette dalle loro corazze di guerra, annunciavano l’avvento del libero commercio e la globalizzazione come l’inevitabile redenzione dell’umanità, ci parla di un mondo che si è capovolto o, ancor peggio, dove sono venute meno le illusioni che lo hanno mantenuto sveglio per un secolo.
La globalizzazione come meta-narrazione, è questo, come orizzonte politico ideologico in grado di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, oggi va esplodendo in mille pezzi. E attualmente non c’è al suo posto niente di mondiale che articoli quelle aspettative comuni. Quello che esiste è uno spaventato ripiego all’interno delle frontiere e il ritorno a un tipo de tribalismo politico, alimentato dalla rabbia xenofoba, di fronte a un mondo che ormai non è il mondo di nessuno.
L’estensione  geopolitica del capitalismo
Chi ha iniziato lo studio della dimensione geografica del capitalismo è stato Karl Marx. Il suo dibattito con l’economista Friedrich List sul capitalismo nazionale, nel 1847, e le sue riflessioni sull’impatto della scoperta delle miniere d’oro della California nel commercio transpacifico con l’Asia, lo collocano come il primo e più meticoloso analista dei processi di globalizzazione economica del regime capitalista. Di fatto, il suo contributo non è fondato sulla comprensione del carattere mondializzato del commercio che inizia con l’invasione europea dell’America, ma sulla natura planetariamente espansiva della stessa produzione capitalista. (………………)
La globalizzazione economica (materiale) è un fatto inerente al capitalismo. Il suo inizio si può datare, a partire da 500 anni fa, da quando poi andrà rafforzando, in modo frammentario e contraddittorio, ancora molto di più.
Se seguiamo gli schemi di Giovanni Arrighi, nella sua proposta di cicli sistemici di accumulazione capitalista a capo di uno Stato egemone: Genova (secoli XV-XVI), Paesi Bassi (secolo XVIII), Inghilterra (secolo XIX) e Stati Uniti (secolo XX), ciascuna di queste egemonie è stata accompagnata da un nuovo rafforzamento della globalizzazione (prima commerciale, poi produttiva, tecnologica, cognitiva e, infine, ambientalista) e da un’espansione territoriale delle relazioni capitaliste. Invece, quello che costituisce un avvenimento recente all’interno di questa globalizzazione economica è la sua costruzione come progetto politico-ideologico, speranza o senso comune; cioè, come orizzonte d’epoca capace di unificare ed omologare le credenze politiche e le aspettative morali di uomini e donne appartenenti a tutte le nazioni del mondo.
La fine della storia
La globalizzazione come storia o ideologia d’epoca non ha più di 35 anni. Era iniziata con i presidenti Ronald Reagan e Margaret Thatcher, liquidando lo Stato del welfare, privatizzando le imprese statali, annullando la forza sindacale operaia e sostituendo il protezionismo del mercato interno con il libero mercato, elementi che avevano caratterizzato le relazioni economiche dalla crisi del 1929.
Certo, è stato un ritorno amplificato alle regole del liberismo economico del XIX secolo, inclusa la connessione in tempo reale dei mercati, la crescita del commercio in relazione al prodotto interno lordo (PIL) mondiale e l’importanza dei mercati finanziari, che già erano stati presenti in quel momento. Invece, ciò che ha differenziato questa fase del ciclo sistemico da quella che aveva prevalso nel XIX secolo, è stata l’illusione collettiva della globalizzazione universale, la sua funzione ideologica leggittimatrice e la sua ascesa come supposto destino naturale e finale dell’umanità.
Coloro i quali si sono affiliati emotivamente a quel credo del libero mercato come pretesa salvezza finale non sono stati semplicemente i governanti dei partiti politici progressisti, ma anche i mass media, i centri universitari, opinionisti e leader sociali. Il crollo dell’Unione Sovietica e il processo che Antonio Gramsci chiamò trasformismo ideologico degli ex socialisti divenuti convinti neoliberisti, ha chiuso il cerchio della vittoria definitiva del neoliberismo globalizzatore.
Certo! Se davanti agli occhi del mondo l’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), che era considerata fino allora il referente alternativo al capitalismo di libera impresa, abdica dalla lotta e si arrende davanti alla furia del libero mercato – e se per di più quelli che erano i combattenti por un mondo diverso, pubblicamente e in ginocchio, abiurano le loro precedenti convinzioni per proclamare la superiorità della globalizzazione sul socialismo di Stato –, ci troviamo di fronte alla costruzione di una narrativa perfetta del destino naturale e irreversibile del mondo: il trionfo planetario della libera impresa e del mercato.
L’enunciazione della fine della storia hegeliana con cui Francis Fukuyama ha caratterizzato lo spirito del mondo, aveva tutti gli ingredienti di un’ideologia d’epoca, di una profezia biblica: la sua formulazione come progetto universale, il suo scontro contro un altro progetto universale demonizzato (il comunismo), la vittoria eroica (fine della guerra fredda), la sconfitta degli Stati Nazionali e la conversione degli infedeli.
La storia era arrivata alla sua meta: la globalizzazione neoliberista. E, a partire da quel momento, senza avversari antagonisti da affrontare, la questione ormai non era lottare per un mondo nuovo, ma semplicemente aggiustare, amministrare e perfezionare il mondo attuale, perché non c’erano alternative ad esso. Per quel motivo, nessuna lotta valeva la pena strategicamente, poiché tutto ciò che si fosse tentato di fare per cambiare il mondo avrebbe finito per arrendersi di fronte al destino inamovibile dell’umanità, che era la globalizzazione.
È sorto così un conformismo passivo che si è impossessato di tutte le società, non solo delle élites politiche e imprenditoriali, ma anche di ampi settori sociali che hanno aderito moralmente alla narrativa dominante.
La storia senza fine né destino
Oggi, quando ancora echeggiano gli ultimi petardi dl la lunga festa della fine della storia, risulta che proprio quella che era uscita come vittoriosa, la globalizzazione neoliberista, è morta lasciando il mondo senza finale né orizzonte vittorioso; cioè senza alcun orizzonte. Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina.
I primi passi falsi dell’ideologia della globalizzazione si fanno sentire agli inizi del XXI secolo in America Latina, quando operai, plebe urbana e ribelli indigeni non ascoltano il comando della fine della lotta di classe e si mettono insieme per prendere il potere dello Stato. Combinando maggioranze parlamentari con azioni di massa, i governi progressisti e rivoluzionari implementano una varietà di opzioni post-neoliberiste, mostrando che il libero mercato è una perversione economica suscettibile di essere rimpiazzata da modi di gestione economica molto più efficienti e solidali per ridurre la povertà, generare uguaglianza e dare impulso alla crescita economica.
Con questo, la fine della storia comincia a mostrarsi come una singolare truffa planetaria e di nuovo la ruota della storia – con le sue infinite contraddizioni e opzioni aperte – si mette in marcia. Successivamente, nel 2009, negli Stati Uniti, il tanto vilipeso Stato, che era stato oggetto di scherno in quanto considerato ostacolo alla libera impresa, è tirato per la giacchetta da Barack Obama per statalizzare parzialmente le banche e salvare dalla bancarotta i banchieri privati. L’efficientismo imprenditoriale, colonna vertebrale dello smantellamento statale neoliberista, è così ridotto in polvere dalla propria incompetenza nell’amministrare i risparmi dei cittadini.
Poi arriva il rallentamento dell’economia mondiale, in particolare del commercio delle esportazioni. Durante gli ultimi 20 anni, questo cresce al doppio del prodotto interno lordo (PIL) annuale mondiale, però a partire dal 2012 a stento riesce a raggiungere la crescita di quest’ultimo, e già nel 2015 è persino minore, e con questo la liberalizzazione dei mercati ormai non è più il motore dell’economia planetaria né la prova della irresistibilità dell’utopia neoliberista.
Infine, i votanti inglesi e statunitensi inclinano la bilancia elettorale in favore di un ripiegamento verso Stati protezionisti – possibilmente chiusi da mura –, oltre a rendere visibile un malessere ormai planetario contro la devastazione delle economie operaie e della classe media, causato dal libero mercato planetario.
Oggi, la globalizzazione ormai non rappresenta più il paradiso desiderato nel quale riposano le speranze popolari né la realizzazione del benessere familiare agognato. Gli stessi paesi e basi sociali che la sbandieravano decenni fa, sono diventati i suoi maggiori detrattori. Siamo di fronte alla morte di una delle maggiori truffe ideologiche degli ultimi secoli.
È certo che nessuna frustrazione sociale resta impunita.
Esiste un costo morale che, in questo momento, non illumina alternative immediate, anzi – è il cammino tortuoso delle cose – le chiude, almeno temporaneamente. E c’è che alla morte della globalizzazione come illusione collettiva non si può contrapporre l’emergenza di un’opzione capace di catturare e incanalare la volontà desiderosa e la speranza mobilitante dei popoli colpiti.
La globalizzazione, come ideologia politica, connaturata al grande capitale, ha trionfato sulla sconfitta dell’alternativa del socialismo di Stato, della statalizzazione dei mezzi di produzione, il partito unico e l’economia pianificata dall’alto. La caduta del muro di Berlino, nel 1989, rappresenta teatralmente questa capitolazione.
Pertanto, nell’ immaginario planetario è rimasta una sola strada, un solo destino mondiale. Quello che sta succedendo ora è che pure quell’unico destino trionfante muore. Cioè: l’umanità rimane senza destino, senza direzione, senza certezza. Però non è la fine della storia – come preconizzavano i neoliberisti –, bensì la fine della fine della storia. È il nulla della storia.
Ciò che resta oggi nei paesi capitalisti è un’inerzia senza convinzione che non seduce, un mucchietto decrepito di illusioni marcite e, nella penna degli scrivani fossilizzati, la nostalgia di una globalizzazione fallita che non illumina più i destini.
Perciò, con il socialismo di Stato sconfitto e il neoliberismo morto suicida, il mondo resta senza orizzonte, senza futuro, senza speranza mobilitante. È un tempo di incertezza assoluta nella quale, come ben intuiva William Shakespeare, tutto il solido svanisce nell’aria. Ma proprio per questo è pure un tempo più fertile, perché non si hanno certezze ereditate alle quali aggrapparsi per ordinare il mondo. Queste certezze bisogna costruirle con le particelle del caos di questa nube cosmica che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate.
Quale sarà il nuovo futuro mobilitante delle passioni sociali? Impossibile saperlo. Tutti i futuri sono possibili a partire dal niente ereditato. Il comune, il comunitario, la comunità solidale, è una di quelle possibilità che è radicata nell’azione concreta degli esseri umani e nella loro imprescindibile relazione metabolica con la natura.
In ogni caso, non esiste società umana capace di fare a meno della speranza. Non esiste essere umano che possa prescindere da un orizzonte, e oggi siamo costretti a costruirne uno. Questo è comune agli umani e questo comune è ciò che può condurci a disegnare un nuovo destino distinto de questo emergente capitalismo erratico che ha appena perduto fiducia in se stesso.
* vicepresidente della Repubblica di  Bolivia
Fonte: La Jornada di Alvaro Garcia Linera*
Feb 04, 2017
Traduzione: Juan Manuel De Silva

Trump e Starbucks tra il bene e il male

slaverySe prendiamo un minimo di distanza critica da quanto sta avvenendo negli Usa e osserviamo il braccio di ferro tra Donald Trump e i suoi avversari, dobbiamo riconoscere che gli schieramenti sono delineati a perfezione e disposti secondo una logica assoluta.
Prima, però, sgombriamo il campo da un equivoco. L’opinione pubblica americana non è quella marea di buoni sentimenti e di braccia aperte ai migranti che i giornali che non amano Trump (cioè, quasi tutti) si impegnano a raccontarci. In un sondaggio del Pew Research Center svolto nell’ottobre 2016, in piena campagna per le presidenziali, il 54% degli elettori registrati (quelli davvero intenzionati a votare, i più impegnati) disse di non sentire alcun dovere morale nei confronti dei profughi siriani, mentre solo il 41% affermò il contrario.
E la stessa percentuale di elettori disse che gli Usa dovevano badare ai propri problemi e lasciare che gli altri Paesi risolvessero i loro da soli, contro un 42% che pensava il contrario. Quindi è assai probabile che, a proposito delle decisioni di Donald Trump, stiamo assistendo al solito fenomeno dei diversi rumori: l’albero che cade produce più fragore della foresta che cresce.
Questo serve anche a spiegare perché vi sia una precisa geometria nel contrasto tra il Presidente e vasti strati della società Usa, contrasto che mette in scena culture ma anche interessi ben contrapposti. Guardiamo le aziende più celebri tra quelle che, in un modo o nell’altro, hanno preso posizione contro The Donald, ovvero Starbucks, Airbnb, Google, Nike.
Emblematiche le parole di Mark Parker, amministratore delegato di Nike: «Crediamo in un mondo dove tutti possono celebrare il potere della diversità». Bello, ma falso. Se così fosse, perché queste aziende vogliono vendere a tutti, in ogni parte del mondo, lo stesso prodotto? Le stesse scarpe, gli stessi caffè, in India come in Sudafrica, a Milano come a Timbuktu? Queste aziende rappresentano storie di successo della globalizzazione che, come il termine stesso indica, vuole appiattire le differenze, non esaltarle.
Vuole creare un unico consumatore globale, che ha gli stessi gusti e le stesse esigenze in qualunque Paese si trovi. Uniformità, altro che diversità.
Tutto questo lo diciamo con spirito laico, senza alcun intento demonizzatore. E intimi alla globalizzazione sono aziende come Google e Airbnb, che vendono un bene materiale e immateriale allo stesso tempo, uguale per tutti. Che sarebbe di queste grandi imprese se la Rete non fosse globale, se spostarsi per il globo non fosse facile, se la Rete non permettesse di comunicare con chi vogliamo quando vogliamo?
È, appunto, la globalizzazione nelle sue espressioni più dinamiche, innovative e creative. Un fenomeno che critichiamo e apprezziamo nello stesso tempo. Ma Trump e i suoi 59,8 milioni di elettori non è a questo mondo che guardano. Davvero nessuno ha notato che i primi manager e imprenditori da lui ricevuti alla Casa Bianca sono stati quelli di un’industria tradizionale come quella dell’automobile?
Trump ha in testa l’operaio, l’agricoltore, il piccolo imprenditore, il bottegaio, l’industriale che produce beni solidi, categorie per cui la globalizzazione è un problema più che un’opportunità. Gente che vede nello straniero in arrivo un fastidio da gestire più che un fratello da abbracciare. I Millennials, la «generazione Erasmus», per dirla con categorie nostre, che sono il riferimento di Nike e Starbucks, per Trump sono solo i figli dei suoi elettori. E basta dare un’occhiata ai flussi elettorali per rendersene conto: l’elettore-tipo di Trump è un maschio bianco che ha più di 40 anni, un reddito medio e vive in centri medi o piccoli, quando non addirittura rurali. Ed è stato impoverito dallo sprofondo della finanza globalizzata per il quale nessuno ha poi davvero pagato.
In tutto questo, molti vedono la lotta tra nuovo e vecchio, bene e male, futuro e passato, progresso e conservazione. È una lettura possibile, forse anche giustificata ma semplicistica. Starbucks dice di voler assumere iracheni che abbiano collaborato con le forze armate americane, ma non spiega dov’era quando nel 2004 i profughi iracheni, travolti dall’invasione Usa, erano agli ultimi posti nella graduatoria dei rifugiati accolti dagli Usa. Né Trump chiarisce quanto petrolio si debba estrarre in un Paese che è già il primo produttore del mondo, né quante automobili possano ancora circolare. Quando si scontrano gli interessi, anche il bene e il male diventano più difficili da riconoscere.
di Fulvio Scaglione – 31/01/2017
Fonte: Fulvio Scaglione

I valori anti Trump: lo sfruttamento del lavoro

Nike e marchi sfruttamentoOrmai sappiamo che chi detta l’agenda alla cosiddetta società civile disgustata dal popolo (visto chi la comanda non dovrebbe destare alcuna sorpresa) è gente come Soros, un magnate speculatore, ma ora anche i “grandi marchi” o meglio, le corporate come ci insegna Repubblica sono usciti allo scoperto. Si sà, le multinazionali sono tanto tanto solidali e anti razziste, sfruttano chiunque più o meno allo stesso modo e questo è grande indice di progresso a quanto pare per i moralizzatori del mondo. Ora il dumping sociale è trasformato in “inclusione” sociale, in integrazione quindi lo sfruttamento E’ UNA COSA BUONA.

Starbucks aprirà a Milano ed in vista probabilmente dei cambiamenti climatici decide di sostituire le piante autoctone con piante tipiche di climi caldi. Un emblema, così ragiona il capitale. Plasma, modifica a piacimento il creato, inclusi GLI UMANI. Starbucks non condivide la politica migratoria di Trump, fa sapere che assumerà i “rifugiati”. Dove più che in Italia può sfruttare clandestini e manodopera a nero, se non nel regno del CAPORALATO?

Avvisate comunque Starbucks che i richiedenti asilo, in attesa di riconoscimento dello status di rifugiati, NON POSSONO LAVORARE, per legge, almeno per i primi 6 mesi. Ma per quanto importa loro delle leggi ed in Italia non siamo famosi per farle rispettare.

NIKE fa sapere di non condividere le politiche migratorie di Trump, è una questione di morale. E dato che lotta contro le discriminazioni, SFRUTTA tutti i lavoratori in modo eguale.

Immagino che risulti in linea con i loro “valori” così come i valori della cosiddetta società civile, lo sfruttamento di manodopera, inclusa quella minorile. Ne prendiamo atto trattasi di rispetto dei diritti umani da imporre in giro per il mondo onde non essere tacciati di essere retrogradi.

Rimando solo ad un link Multinazionali del dolore. Caso quattro: Nike, articolo del 2013

Riporto l’inizio:

La Nike, multinazionale americana che produce e distribuisce in tutto il mondo scarpe e palloni di calcio, sfrutta la manodopera a basso costo soprattutto nei paesi dell’Asia come la Cina, la Thailandia, l’Indonesia, la Corea del Sud, il Vietnam. Il salario medio giornaliero di un lavoratore è di 50 centesimi per circa 12 ore di lavoro e gli operai, spesso bambini, sono esposti perennemente alle malattie perché lavorano a stretto contatto con i vapori di colle, solventi e vernici.  Le ribellioni e gli scioperi sono oppressi con torture e spesso uccisioni da parte delle polizie locali.

Cara Nike, di cosa hai paura? Di dover produrre le tue scarpe e ammenicoli negli Usa se negli Usa li vuoi vendere? Sei terrorizzata a dover pagare il minimo salariale ai lavoratori americani che certo non è quello che corrispondi ad un minore del Pakistan?

Il colonialismo di oggi si chiama globalizzazione

global brand

Forse il primo compito di un pensiero autenticamente critico dovrebbe consistere oggi nel favorire la deglobalizzazione dell’immaginario. Impiego questa formula – “deglobalizzazione dell’immaginario” – richiamandomi a Serge Latouche, che ha parlato a più riprese di “decolonizzazione dell’immaginario”: su questo punto, condivido la sua prospettiva, precisando però che oggi il nuovo colonialismo si chiama globalizzazione.
È, per così dire, il “colonialismo 2.0”: con cui si coartano tutti i popoli del pianeta all’inclusione neutralizzante del modello unico liberal-libertario globalista. Si tratta – come ho detto – di una “inclusione neutralizzante”, giacché la mondializzazione include e insieme neutralizza: include, giacché tutto riassorbe e nulla lascia fuori di sé (ciò che ancora non è incluso è diffamato come antimoderno, reazionario, populista, totalitario, ecc.); e neutralizza, perché, nell’atto stesso con cui annette, disarticola le specificità plurali dei costumi, delle culture, delle lingue. Le sacrifica sull’altare livellante del modello unico classista e reificante del consumatore individuale e senza radici, anglofono e senza identità.
Il mondialismo si caratterizza, in effetti, anche per questo: aspira a vedere ovunque il medesimo, ossia se stesso, il piano liscio del mercato senza barriere e senza frontiere, nei cui spazi stellari tutto scorre senza impedimento nella forma della merce e dei capitali finanziari: è anche e soprattutto per questa ragione che la tarda modernità assume la forma, per citare il compianto Zygmunt Bauman, di una “società liquida” a scorrimento illimitato dei capitali, delle merci e degli esseri umani ridotti a “merci” o a “capitale umano”.
Deglobalizzare l’immaginario – sia chiaro – non significa tornare alla società di “ancien régime”: non significa, cioè, far tornare indietro la ruota della storia. Significa, al contrario, riscontare l’insufficienza e le contraddizioni del mondo globalizzato: e, di lì, articolare un pensiero che si ponga a base di una nuova fondazione del vivere comunitario, andando al di là tanto della cattiva universalità del globalismo, quanto delle forme premoderne nel frattempo tramontate. Ben sapendo, ovviamente, quant’è difficile sistematizzare ciò che ancora non c’è.
di Diego Fusaro – 22/01/2017
Fonte: Fanpage

Trump firma il decreto per far uscire gli Usa da Ttp

tutti i signori della cosiddetta società civile che tanto si sono battuti contro il TTIP dovrebbero esserne lieti, se in buona fede. Così come i sedicenti no global, ma non sarà così. Trump sul TTIP:
Il TTIP, così come lo conosciamo, darebbe un colpo fatale all’industria americana. (…) L’ondata di mondializzazione ha annientato la classe media. La mondializzazione non deve necessariamente svolgersi in questo modo, possiamo raddrizzarci in poco tempo.” fonte 

no lobbyist

Trump ha firmato un ordine esecutivo che sancisce il ritiro degli Stati Uniti dal Ttp (Trans-Pacific Partnership), l’accordo di libero scambio voluto dal suo predecessore Obama e undici Paesi affacciati sul Pacifico
Lo aveva promesso ed è stato subito di parola. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato il decreto per il ritiro di Washington dal Ttp (Trans-Pacific Partnership), l’accordo di libero scambio tra gli Usa e il Canada e altri 10 Paesi del Pacifico (Australia, Brunei, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam).
L’accordo, perfezionato ad Atlanta nell’ottobre 2015, aveva come scopo l’abbattimento delle barriere al commercio tra le nazioni che rappresentano circa il 40% della produzione economica mondiale. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale Trump aveva individuato il Ttp (così come il Ttip con l’Europa, poi saltato) e il Nafta (North American Free Trade Agreement) tra i propri bersagli, al fine di rilanciare la produzione interna agli Stati Uniti.
“Ne abbiamo parlato per molto tempo”, ha detto Trump parlando dallo Studio ovale della Casa Bianca: “Così facendo, facciamo grandi cose per i lavoratori americani”, ha aggiunto. L’obiettivo della nuova amministrazione americana, come spiegato varie volte da Trump, è siglare accordi bilaterali con le nazioni asiatiche. Bisogna ricordare che la Cina – che non faceva parte del Ttp – lo considerava un accordo “ostile”. Vedremo ora quali conseguenze vi potranno essere nei rapporti commerciali e finanziari tra Pechino e Washington.
Oggi Trump ha incontrato diversi manager dell’industria manufatturiera americana: “Vogliamo iniziare a produrre di nuovo i nostri prodotti”, è l’esortazione che ha rivolto loro. “Noi taglieremo le tasse in modo massiccio sia al ceto medio che alle compagnie, sarà massiccio, stiamo tentando di abbassarle tra il 15 e il 20%”. Ma non ha parlato solo del taglio delle tasse ma anche dell’eliminazione di misure e regolamenti che, a sua detta, “in questo momento di vi impediscono di fare qualsiasi cosa”. “La cosa più grande è che noi taglieremo i regolamenti in modo massiccio, credo che li taglieremo del 75%”. E ancora: “Se qualcuno vuole creare una fabbrica, tutto sarà veloce, si dovrà affrontare una procedura ma sarà veloce, ci prenderemo cura dell’ambiente, della sicurezza, ma voi svolgerete un enorme servizio”.
Nel salutare Michael Dell, di Dell Technologies, Trump ha poi aggiunto: “Quando Dell vorrà realizzare qualcosa di mostruoso o speciale, noi daremo la nostra approvazione molto velocemente”. Ma poi ha rivolto un monito alle compagnie che producono all’estero, tornando a minacciare dazi: “Imporremo una tasse di confine molto più pesante quando faranno entrare i prodotti”. Tra gli altri capi industria che Trump ha incontrano si segnalano: Jeff M. Fettig (Whirlpool), Alex Gorsky (Johnson & Johnson), Marillyn A. Hewson (Lockheed Martin), Klaus Kleinfeld (Arconic), Mario Longhi (U.S. Steel), Elon Musk (SpaceX), Kevin Plank (Under Armour), Mark S. Sutton (International Paper) e Wendell P. Weeks (Corning). Raffaello Binelli – Lun, 23/01/2017

20 gennaio, inizio della fine dell’utopia della globalizzazione (e della Germania della Merkel)

obama-endorses-trump-copyL’Unione europea esiste soltanto perchè fa gli interessi della Germania e la Merkel commette un gravissimo errore ad accogliere tutti gli immigrati illegali, imponendo anche agli altri stati membri di farlo. Per questo motivo ha fatto bene la Gran Bretagna ad uscire dalla Ue. Non lo dice soltanto Matteo Salvini, ma anche Donald Trump, in un’intervista esclusiva sul Times e sul quotidiano tedesco Bild.
Sarà anche per questo motivo che in Europa, in questa Europa di banchieri e di mondialisti, il neopresidente americano venga dipinto come un razzista populista e xenofobo, secondo la solita tecnica della falsificazione dell’informazione da troppo tempo in voga dalle nostre parti.
Oltre che per il suo obbiettivo dichiarato di riaprire le buone relazioni tra gli Stati Uniti e la Federazione russa, arrivati ad un livello bassissimo grazie alle provocazioni continue del “premio Nobel per la pace “ Barak Obama, finalmente ex inquilino della Casa Bianca, ma ancora attivissimo sullo scenario internazionale.
I mondialisti non vogliono mollare il colpo, ma per loro si prospettano tempi di magra. Trump infatti, nell’intervista rilasciata ai due importanti quotidiani, ha chiaramente collegato l’ondata terroristica che ha colpito alcuni stati europei, all’invasione di immigrati sponsorizzata da Angela Merkel in primis e dai suoi lacchè al governo negli altri stati dell’Ue.
E ha prefigurato nuovi scenari anche per la NATO. “E’ da lungo tempo che sostengo che la Nato ha dei problemi – ha dichiarato -. In primo luogo che è obsoleta perché è stata concepita tanti e tanti anni fa. In secondo luogo, i paesi membri non pagano ciò che dovrebbero” per mantenere attive le basi militari nei diversi paesi dell’Alleanza.
Ecco i veri motivi dell’avversione dell’establishmen mondialista nei confronti di Trump: tutto il resto sono frottole e propaganda. Che per fortuna non fa più presa sulle persone, che infatti negli Usa hanno eletto Trump e in Gran Bretagna hanno votato per la Brexit, malgrado lo schieramento impressionante di tutti i media contrari a questi due eventi poi verificatisi.
Come ha detto l’ex ministro Giulio Tremonti, il 20 gennaio (data dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca) potrà essere ricordato un giorno con la stessa importanza data alla caduta del Muro di Berlino e alla fine del comunismo. Perchè il 20 gennaio potrebbe sancire la fine dell’utopia della globalizzazione, che tanti danni ha causato a milioni e milioni di persone, avvantaggiando esclusivamente i grandi banchieri e l’alta finanza internazionale.
Fonte: Katehon – Gen 19, 2017 di Gianluca Savoini

L’Europa trema di paura davanti al cambio di paradigma

tremano i servi

Perchè l’Europa sta tremando di paura ? Non si tratta di una esagerazione  di chi scrive, visto che lo ha appena detto lo stesso ministro tedesco degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier.
euro-trump
Esiste un allarme davanti al tsunami che gli europei ritengono si stia avvicinando, uno tsunami denominato: Donald Trump. Le autorità europee in pratica sono atterrite per 4 cose che ha detto o che sono implicite con l’arrivo di Trump.
Uno: la Organizzazzione del Trattato dell’Atlantica Nord (NATO), il sistema di difesa militare che agli europei ha dato la sensazione di sentirsi unici, protetti e forti, di fronte alla minaccia esterna, di fronte all’Unione Sovietica, alla Cina ed adesso di fronte alla possente Russia, uno scudo protettivo che potrebbe sparire.
Questo perchè Trump minaccia l’integrità della famosa Alleanza Atlantica e perchè  potrebbero cambiare le cose per completo, per una semplice ragione: gli USA comandano nella NATO, perchè pagano e ne sostengono i costi, circa il 70% di  tutte le spese militari dell’Esercito comune europeo, se loro si sottraggonono, la NATO cade “come una pera”.Ciascuno rimarrebbe  con il proprio esercito.
Due: il “Brexit“, il potenziale del Regno Unito si è dissolto, ha divorziato dall’Europa, la sua economia, la sua forza militare, il suo peso politico mondiale già non fa più parte dell’Europa Unita, l’isola della Gran Bretagna, naviga ormai da sola per questo 2017 senza trascinare o essere trascinata, senza essere accoppiata con l’Europa di Bruxelles; gli inglesi  hanno lasciato sola l’Europa e il fatto notevole è che Donald Trump lo celebra come un fatto positivo.
Tre: la Russia, il tema della Russia è un tema preoccupante, è un tema di umiltà, ed è un tema che forse, per gli europei, adesso sarà arrivato il momento di abbassare la testa e dimenticarsi dell’atteggiamento altezzoso che hanno sempre mantenuto di fronte alla Russia? Dovranno iniziare a rispettare il potere della potenza euroasiatica, ed iniziare a dialogare e ritirare le loro sanzioni?
Cosa questa che non farebbe  piacere per nulla ai governi europei che sempre hanno detto, o si sono detti fra loro, di sentirsi superiori ai russi.
Quattro: nel vedere che la nave si sta affondando molto probabilmente, altri paesi europei vorranno fare il loro brexit, vorranno uscire e convocare un referendum per abbandonare l’ Unione Europea, il che significa che stiamo assistendo all’inizio inevitabile della frammentazione dell’Europa, del suo potere e della sua leggendaria egemonia, e sappiamo chi ha predetto questo e lo va anche a festeggiare? Donald Trump, proprio lui.
Quinto: L’Economia, senza l’appoggio finanziario del Regno Unito, senza il buon gesto degli USA, come è stata mantenuta fino adesso, cosa accadrà con l’euro? Addio anche all’euro? Si vedranno un’ altra volta le monete nazionali di ciascuno Stato sulla scena monetaria, perchè lo Yuan ed il Rublo ottengano un altro livello ? Più ancora, il prodotto interno lordo dell’Unione Europea, già non sarà più lo stesso senza i 3 bilioni di dollari del Regno Unito.
Davanti a tutta questa minaccia di terremoto, Angela Merkel, la cancelliera della Germania (la maggiore responsabile del disastro della UE), assieme ai suoi amici, hanno soltanto fatto dichiarazioni con frasi smozzicate e di circostanza, “che bisogna unire le forze, restare uniti come una famiglia e fare fronte comune”, soprattutto contro quello che vedono come una minaccia: Trump. Che si sta preparando per il mondo, si sta forse cambiando l’ordine del pianeta?
Nota: Queste e più domande turbano i sogni di Angela Merkel, di Junker, di Francois Hollande, di Matteo Renzi, di Gentiloni  e di Mariano Rajoi.
Ricordiamoci di quanti ci raccontavano che “la globalizzazione era un processo ineluttabile”, che i mercati venivano prima di tutto, che quello dell’euro era un “processo irreversibile”, che l’Unione Europea “doveva essere il nostro futuro” e che “bisognava cedere la sovranità” a questa “splendida entità” con sede a Bruxelles e Francoforte.
Si era partiti nell’inizio di questo secolo con il vento in poppa della Globalizzazione come fenomeno che sembrava inarrestabile e duraturo. Veniva descritta questa come una trasformazione positiva per il popoli, apportatrice di progresso e di benessere per tutti, con l’abbattimento prossimo dei confini, delle barriere e con il superamento della logica degli Stati Nazionali.
Molta gente credeva ingenuamente che tutto questo fosse un fenomeno spontaneo ed ineluttabile, come lo descrivevano i media, in Italia gli opinionisti di regime e gli intellettuali del “progresso permanente”, dai Saviano ai Severgnini.
La sinistra ex marxista era balzata lesta sul carro del globalismo come una necessità ed aveva fatto di questa la sua bandiera, tacciando di “retrogradi” e “populisti” tutti coloro che osavano metterne in dubbio gli aspetti positivi e decantati del fenomeno.
“Guai ad un ritorno ai vecchi nazionalismi! Bisogna abbattere gli steccati, i muri e costruire ponti”.
Bisogna accogliere masse di migranti provenienti da  culture estranee come “risorse” per la società italiana. Lo dicevano in Italia l’ex presidente Napolitano,  adsso lo dice anche Mattarella, ce lo raccontava Renzi dalle TV, lo affermava la Boldrini, lo scriveva Scalfari e lo dichiarava persino il Papa Francesco. Come si poteva non credergli?
Nonostante tutta la campagna mediatica degli apologeti della UE e della globalizzazione, nel tempo si è accresciuta la ripulsa di buona parte dei popoli al globalismo forzato che tanto piace ai detentori del grande capitale. La gente ha fiutato l’inganno. Sono cresciuti esponenzialmente i partiti e movimenti nazionalisti in tutta Europa.
Poi sono arrivati il Brexit, negli USA è stato eletto un anti globalista come Trump, in Italia ha vinto il fronte del NO al referendum contro le riforme globaliste volute da Renzi e dalla Boschi.
Non è però cambiato niente in Italia: con la massima sfrontatezza la classe politica della sinistra mondialista ed i suoi fiancheggiatori ci raccontano che non è il momento di andare alle elezioni, che non c’è una legge elttorale, che i tempi non sono maturi, che bisogna assecondare l’Europa, ecc…
Non hanno però calcolato che il vento della Storia potrebbe spazzare via d’un colpo i truffatori della UE e della Globalizzazione.
Gen 18, 2017 di  Roberto de la Madrid
Fonte: Hispan Tv – Traduzione e nota:  Luciano Lago