Tangentopoli del Mose: tutte le accuse

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Da Galan a Orsoni, dal Pdl al Pd, dalla Corte dei Conti ai ministeri, ecco i politici e alti funzionari che hanno intascato almeno 25 milioni di euro per riempire di miliardi le imprese del Mose

DI PAOLO BIONDANI

04 giugno 2014

 
Tutte le mazzette indagato per indagato: ecco il quadro completo delle accuse formulate dai magistrati veneti nell’ordinanza di custodia dei 35 arrestati (25 in carcere, 10 ai domiciliari) per la Tangentopoli del Mose, la grande opera emergenziale da 5 miliardi e 496 milioni di euro che dovrebbe salvare Venezia dall’acqua alta, ma dopo trent’anni non è ancora entrata in funzione.

GIANCARLO GALAN: parlamentare di Forza Italia, ex ministro, presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010. Secondo l’accusa l’ex governatore, per favorire le imprese del Consorzio Venezia Nuova, ha intascato svariati milioni di euro e in particolare:

  • uno stipendio fisso in nero di un milione di euro all’anno, quantomeno dal 2005 al 2011;
  • 900 mila euro in contanti nel 2006-2007;
  • altri 900 mila euro in contanti nel 2007-2008;
  • una quota del 7 per cento della società Adria Infrastutture, intestata a un suo prestanome, con conseguente partecipazione agli utili realizzati da quella impresa del Gruppo Mantovani con il discusso sistema del “project financing” all’italiana;
  • il 70 per cento delle quote della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestate allo stesso prestanome;
  • 200 mila euro una tantum, consegnatigli all’hotel Santa Chiara di Venezia nel 2005 tramite la sua ex segretaria-factotum Claudia Minutillo;
  • la ristrutturazione gratuita della sua lussuosa villa di Cinto Euganeo, sui colli di Padova, con lavori costati un milione e cento mila euro e mascherati con fatture false.

RENATO CHISSO, politico di Forza Italia, assessore alle Infrastrutture e Grandi Opere nelle giunte Galan (incarico mantenuto anche con l’attuale governatore Luca Zaia, che però non risulta indagato), è accusato di aver incassato dalle grandi aziende del Mose:

  • uno stipendio in nero di 200 mila euro all’anno (con punte di 250 mila), versatogli a partire dalla fine degli anni Novanta fino al primi mesi del 2013;
  • il 5 per cento della società Adria Infrastrutture, formalmente intestato all’ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, che in realtà gli faceva da prestanome; quota rivenduta da Chisso nel 2011 alla Mantovani spa per due milioni di euro;
  • il 10 per cento della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestata alla stessa prestanome;
  • 250 mila euro in contanti, consegnatigli dal manager Piergiorgio Baita della Mantovani nella primavera 2012 all’hotel Laguna Palace di Venezia;
  • altre centinaia di migliaia di euro all’anno (il totale non è ancora quantificato) in contanti;
  • consulenze e assunzioni di comodo per amici e prestanome;
  • appalti di favore a imprese amiche per i lavori stradali delle “Vie del mare” (superstrada Jesolo-Cavallino).

GIORGIO ORSONI, sindaco del Pd di Venezia, è ai domiciliari per finanziamenti politici illeciti, con l’accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose queste somme:

  • 110 mila euro, materialmente incassati dal suo tesoriere-mandatario, per la campagna elettorale del 2010, come candidato sindaco del centro-sinistra a Venezia;
  • altri 450 mila euro, sempre nei primi mesi del 2010, di cui almeno 50 mila versatigli personalmente dai manager Mazzacurati e Sutto del Consorzio Venezia Nuova.

GIAMPIETRO MARCHESE, consigliere regionale veneto del Pd, ora in carcere, è accusato di aver intascato dalla cordata di imprese private del Mose:

  • 58 mila euro per le elezioni regionali del 2010
  • 15 mila euro al trimestre, a partire dall’autunno 2009 fino all’inizio del 2013, per un totale compreso tra 400 e 500 mila euro;
  • un contratto di lavoro fittizio da 35 mila euro.

AMALIA detta LIA SARTORI, europarlamentare di Forza Italia, non rieletta nel 2014, è indagata con l’accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose due finanziamenti illeciti:

  • almeno 25 mila euro per la campagna elettorale alle europee del 2009;
  • altri 200 mila euro dal 2006 al 2012, di cui 50 mila intascati personalmente il 6 maggio 2010 in un incontro con il manager Mazzacurati.

MARCO MILANESE, braccio destro dell’ex ministro Tremonti ed ex parlamentare di Forza Italia, è solo indagato (ha evitato l’arresto collaborando con i magistrati) come destinatario di una tangente pagata dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, in particolare per aver intascato personalmente mezzo milione di euro, tra aprile e giugno 2010, per spingere il ministero dell’Economia ad autorizzare una nuova ondata di finanziamenti pubblici a favore del Mose.

EMILIO SPAZIANTE, ex numero due della Guardia di Finanza, in pensione dall’autunno scorso, è in carcere con l’accusa di aver intascato buste di denaro contante per spiare le indagini veneziane approfittando del suo grado, e in particolare per aver ricevuto dai massimi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova:

  • mezzo milione di euro, in più rate, recapitategli tra giugno 2010 e febbraio 2011 a Roma e a Venezia;
  • la promessa di altri due milioni di euro, concordati con l’onorevole Milanese e il finanziere veneto Roberto Meneguzzo (Gruppo Palladio), soldi poi non versati proprio a causa della scoperta che erano in corso le indagini, in teoria ancora segrete.

Tra gli arrestati per corruzione compaiono anche un magistrato della Corte dei Conti, accusato di aver intascato almeno un milione di euro tra il 2000 e il 2008, e due alti funzionari del ministero delle Infrastrutture, che avrebbero incassato uno stipendio in nero di 400 mila euro all’anno, quantomeno dal 2007 al 2012, per addomesticare i controlli e non denunciare i problemi tecnici del sistema Mose.

Daniela Carrasco, i dubbi sulla morte del volto delle proteste in Cile: “El Mimo catturata dalle forze militari, torturata e impiccata”

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Daniela Carrasco, i dubbi sulla morte del volto delle proteste in Cile: “El Mimo catturata dalle forze militari, torturata e impiccata”

Trentasei anni, Carrasco è stata trovata morta il 20 ottobre scorso, impiccata a un recinto nel comune di Pedro Aguirre Cerda nella città metropolitana di Santiago. I risultati dell’autopsia sono stati consegnati alla famiglia un mese dopo: soffocamento per impiccagione. Escluso ogni intervento di terzi. Ma la rete di attiviste e le attrici cilene lanciano accuse e chiedono chiarimenti sulla sua morte

Ufficialmente Daniela Carrasco si è suicidata. Ma dietro la morte di El Mimo, come la donna era conosciuta tra i manifestanti che da ottobre prendono parte ai cortei in Cile contro il caro dei servizi pubblici, c’è chi insiste che ci sia una storia torbida di torture e violenze perpetrate dai carabineros.

Trentasei anni, Carrasco è stata trovata morta il 20 ottobre scorso, impiccata a un recinto nel comune di Pedro Aguirre Cerda nella città metropolitana di Santiago. I risultati dell’autopsia sono stati consegnati alla famiglia un mese dopo: soffocamento per impiccagione. Escluso ogni intervento di terzi.

Ma come scrive Bio Bio Chile, la procura ha ora aperto un’inchiesta sul decesso. Mentre il coordinamento cileno di Ni Una menos ha lanciato gravi accuse attraverso i social media: “Daniela è stata violentatatorturata, violentata al punto da toglierle la vita”, hanno scritto. E anche la Rete di attrici cilene accusa: “È stata rapita dalle forze militari nella protesta del 19 ottobre”. Sul caso è intervenuto anche il deputato di Sinistra Italiana-Leu, Nicola Fratoianni, denunciando che “il silenzio della comunità internazionale è insopportabile”

DA HONG KONG A LA PAZ, TEHRAN, BAGDAD —– I RAZZISTI DELL’ANTIRAZZISMO, I FASCISTI DELL’ANTIFASCISMO, GLI ODIATORI DELL’ANTI-ODIO

https://fulviogrimaldi.blogspot.com/2019/11/da-hong-kong-la-paz-tehran-bagdad-i.htmlMONDOCANE

MERCOLEDÌ 20 NOVEMBRE 2019

 

Enrico Mentana, informato, logorroico, a volte spiritoso mio collega in Rai degli ’80-’90 e ora, da tempo, a La7 come direttore del tg, passa per essere tra i pochi giornalisti cui andrebbe tributata la qualità di obiettivo e corretto. E’ il riconoscimento che ci si illude possa essere attribuito a quelli che, anziché ratti di fogna, sono topini di dispensa: sempre al formaggio sono attaccati. Altra metafora vede gli uni come McDonalds e gli altri come Nouvelle Cuisine, sempre di discutibile alimentazione si tratta.

Specialisti tv dell’odio anti-odio

Mentana sta in un’emittente, quella di Urbano Cairo, patron del Torino di colpo assurto a notorietà e potere con l’acquisto del Corriere della Sera. La sua rete tv si era guadagnata un certo credito tra i disperati e frustrati delle tv di regime per quella scapigliatura e quell’anticonformismo che si esprimeva in trasmissioni come quelle di Sabina Guzzanti (addirittura) e di Gianluigi Paragone (doppio addirittura). Non è più così e se oggi c’è una tv di propaganda del pensiero unico, tanto disciplinato quanto assoluto, è La7.

Pensate all’ininterrotta gragnuola di colpi con cui i bombaroli di Cairo, tutti usciti da una virtuale “Scuola delle Americhe” per giornalisti, con Master negli istituti di alta formazione a Tel Aviv, radono al suolo chi sta con i 5 Stelle (quelli di un tempo), chi non lubrifica gli scivoli per migranti, chi esprime perplessità su quanto si va facendo a Libia, Siria, Venezuela o Bolivia. Sono i Navy Seals di Cairo e dell’establishment: Gruber con l’elmetto a punta del Kaiser, Formigli alto sacerdote delle Ong, il sadico Floris con la stella fissa Fornero, il più multicolore “difensore civico” Giletti, il ridanciano, ma respingente, Diego Bianchi “Zoro”, con Marco da Milano, del fu-L’Espresso, una specie di Lilli Gruber al maschile e alla matriciana…

Un non-più mitraglietta a salve

Qualcuno diceva che il non più giovane, ma sempre riccioluto, Mentana, già “mitraglietta” e ora esitante ripetitore di intercalari da smarrimento di concentrazione – eee… eee… eee…- per imparzialità e multilateralismo si elevasse sopra questa muta di odianti denunciatori di odio. Se non altro per educazione e apparente equilibrio. L’altra sera, abbandonati gli ossessivi richiami a un antisemitismo che non c’è, ma che maschera efficacemente le malefatte di un certo Stato, e di cui si occuperà a larghissimo raggio la neo-Commissione Segrè, finalizzata a riunire nel Lager tutti gli odiatori, siano antisemiti, razzisti, xenofobi, omofobi, intolleranti, novax, laziali, o complottisti, si è esibito in un tip tap di indignazione alternata a riprovazione da far vibrare gli schermi. Era mai possibile, esclamava con espressione di chi assiste a una danza del ventre di Salvini con mojito mentre pretende i pieni poteri, che l’intera stampa e diplomazia mondiale, tv e giornali e pulpiti, taccia i crimini che la Cina va commettendo contro i “ragazzi” di Hong Kong? Un silenzio tombale, delittuoso e osceno quanto quei crimini, sospirava.

E, come non bastasse tanta riprovazione, ha chiamato a rinforzare lo sdegno la nota Gabanelli, ora impegnata in un “Data Room” che però non disdegna il soccorso ai bisognosi, in questo caso al Mentana Furioso. E a tutti coloro che detestano la Cina comunista al punto da vagheggiarne la fine già inflitta al Celeste Impero, corredata di una nuova strage di 20 milioni tra cittadini e soldati, come quella  riuscita ai britannici nelle due guerre per l’oppio. Il racconto della venerata signora del giornalismo coraggioso era talmente preciso che quasi quasi pareva fosse in mezzo alla turbolenza. Sgherri trucidi e sanguinari contro bimbetti sognanti che sui bruti non facevano che lanciare fiori. Li vedete nelle immagini, dopo aver fatto a pezzi il parlamento, l’aeroporto, la metropolitana, negozi filocinesi, banche cinesi, poliziotti honkonghesi.

Hong Kong, lanciatore di frecce e colpito da freccia

Fenomenale davvero. Non so se l’equilibrato, o equilibrista, Mentana – che al contempo non ha saputo dire niente sul golpe fascio-statunitense in Bolivia e relativi eccidi di resistenti indios e impunità assicurata dalla Guaidò locale agli assassini in divisa – s’informa solo su “Topolino” o “Settimana Enigmistica” (peraltro leggermente più professionale dei main stream). Perché raramente una copertura mediatica è stata più tonitruante e unanimistica di quella dei bravi nostalgici della regina Vittoria e delle sue guerre di sterminio a favore dell’oppio. I lanciatori di frecce d’acciaio, di massi da catapulta, di ordigni incendiari, che linciano chi li rimprovera di sabotare l’isola e la sua economia, hanno avuto un coro tipo “cavalcata delle Walkirie”.

Al confronto, i Gilet gialli, al 53° evento in un anno, si sono dovuti accontentare di un rantolo svociato alla Loredana Bertè di oggi. Ci hanno assordato di peana agli eroici democratici con bandiera britannica e americana e di anatemi a poliziotti che, senza aver fatto feriti in mesi e mesi di teppismo devastatore dell’intera città, se non un manifestante che si avventava con mazza da baseball su un agente, si fossero trovati a Los Angeles (1992) vestiti da Guardia Nazionale, avrebbero già fatto 63 morti, 2.383 feriti e 12.000 arresti.

Torti e ragioni sulla bilancia tarata dai bottegai di Washington

Ma non si tratta solo di quantità. La qualità è esplicitata dalla distribuzione di torti e ragioni secondo gli standard di valutazione che vengono indicati dagli editori locali, a loro volta imbeccati dagli azionisti di maggioranza in Nato e servizi segreti. Ce lo ha insegnato, con temerarietà poi pagata duramente, il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, documentando due giornalisti europei su tre assoldati dalla Cia (ucciso nel 2017 “da un infarto”, a 56 anni e in perfetta salute, due anni dopo la pubblicazione del suo libro “Giornalisti comprati”, mai uscito negli Usa).

Non è difficile indovinare che i torti sono di pochi. Essenzialmente dei facinorosi indios boliviani, sostenitori di un caudillo indio che voleva darsi a un lusso sfrenato sfruttando, in proprio e in cooperazione con russi, cinesi e svizzeri, il più vasto giacimento di litio del mondo (cellulari, macchine elettriche, elettronica di ogni tipo). Il litio è il minerale senza il quale la quarta rivoluzione industriale, quella tecnologica, con cui i potenti pensano di sbarazzarsi definitivamente delle plebi del mondo, o almeno dei loro cervelli, fa semplicemente puff. Perché non servisse a riempire di diamanti e ville le cortigiane che affollavano i festini del corrotto Morales, per il bene del popolo l’incaricato d’affari Usa a La Paz, Bruce Williamson, aveva consegnato un milione di dollari ai capi delle varie armi e mezzo milione ai dirigenti della polizia.

Torti enormi anche e soprattutto dei Gilet Gialli, a loro volta con 11 morti, 2.448 feriti, 23 accecati e 5 mutilati, 10.000 arrestati, 3.100 condannati, 600 in galera (roba da far vergognare i poliziotti di Hong Kong), in esattamente un anno di lotta contro il buongoverno del co-imperatore europeo Macron e dei suoi predecessori.

Le ragioni, invece, sono di tanti, quasi tutte da riconoscere ai manifestanti contro “regimi” (mai “governi”) anacronistici nel loro rifiuto di globalizzazione e Usa. Ragioni equamente distribuite tra coloro che protestano contro chi non si adegua ai valori civili, politici, economici e sociali che hanno reso felice, sereno e pacifico l’Occidente democratico-liberale. E parliamo oggi di Hong Kong, Iraq, Libano, Iran, ieri di Algeria, Egitto, Sudan, Nicaragua, Venezuela. Ci proviamo un po’ affannosamente, ma con la migliore buona volontà, con la Russia basta un fuoriditesta sulla Piazza Rossa per annunciare l’imminente fine dello “zar” Putin. Finiamo con l’esaltarci di Extinction Ribellion, fomentatori semiviolenti della New Green Economy, sacrosanti teppisti nelle patrie della democrazia e dei diritti umani e perciò messi in piedi e finanziati da protettori del clima e della salute planetaria. Ci sono tutti i trilionari del mondo: George Soros, Ted Turner, Rockefeller, Bloomberg, Getty, Kennedy, Buffet, e la Global Business Coalition finanziata da Bill Gates, più molti altri paperoni comodamente alloggiati nella parte alta della classifica “Fortune” dei miliardari.

A fiancheggiare questa nuova e più grande primavera dei colorati, o stagione arcobaleno, non può mancare il pifferaio nostrano che guida quel che resta dell’armata Brancaleone pseudo-sinistra. Va ammesso che sulla Bolivia il “manifesto” esce dal seminato ammettendo colpo di Stato e repressione, ma ci rientra subito, compensando tale audacia con gli attacchi delle femministe boliviane a un Morales diversamente fascista. La vocina del Deep State è costretta a camminare sul filo del cerchiobottismo, avendo già perso una barca di elettori per aver detto sul Nicaragua le stesse cose della Cia e dei preti che, sotto l’occhio benevolo di Bergoglio, incendiavano commissariati, poliziotti e sedi istituzionali.

Il contributo delle femministe al golpe in Bolivia

Una bella pagina del “manifesto”

Ho sott’occhio un paginone del “manifesto” del 19 novembre. Una pagina che, dalla prima all’ultima riga, non può non provocare, giubilo, brindisi e stelle filanti negli ambienti che curano le stagioni arcobaleno. E’ la sublimazione del ruolo del giornale nel farsi carico di tutte le campagne xenofobe e d’odio che il Deep State persegue, a cominciare da Russia, Cina e altri riottosi. Parte Amnesty International, Agenzia PR del Dipartimento di Stato e grande guida della claque umanitarista negli spettacoli dell’odio globalista. Dopo aver lanciato l’offensiva contro un Assad vincente con un “report” che gli attribuisce 13mila morti ammazzati nelle sue prigioni, di sua mano o quasi, al solito senza documenti e con tanto di testimoni anonimi, e uno altrettanto fasullo sul Venezuela, ora a Tehran incalza, attribuendo 106 manifestanti uccisi in 21 città e tre giorni, garantiti da testimonianze oculari di chi però sta a migliaia di chilometri dall’Iran, al sicuro nelle marche dell’Impero. Per “il manifesto” è tutto credibile, quanto lo è “l’imparziale” BBC, sostenitrice di tutte le guerre Usa-Nato, ma unica a far sapere agli iraniani cosa succede nel loro paese.

Sottotono o del tutto assenti, qui e nel resto dei nostri vangeli di verità, il riferimento alle sanzioni Usa, cui tutti a loro spese si piegano, con cui da decenni si prova a radere al suolo una società nella speranza che si ribelli ai suoi governanti. Già sotto Ahmadinejad, il migliore presidente che il paese abbia avuto e perciò rabbiosamente inviso al “manifesto”. ho visto gli iraniani decimati dalle sanzioni di Obama, gente che moriva per il bando Usa ai farmaci salvavita e oncologici, sanzioni poi decuplicate in ferocia dopo che Trump aveva disdetto l’accordo infausto inflitto da Obama a Rouhani, che privava l’Iran del diritto alla ricerca nucleare a fini pacifici. Quindi, con chi sta il giornale anticomunista?

Sta con la solita torma di manifestanti addestrati e pagati da NED, Soros e USAID, che ogni due per tre invadono qualche piazza iraniana, per poi spegnersi nel giro di qualche settimana. Sta con Pompeo, l’erede di coloro che nel 1953, con un golpe Cia, si sbarazzarono di Mossadeq, il nazionalizzatore del petrolio iraniano. Anche lui, seguendo la nobile usanza dell’ingerenza negli affari interni altrui, ha giurato ai dimostranti “per la democrazia” che gli “Usa sono con voi”. L’innesco della “rivolta”? Come in Iraq, in Siria, in Libano, in Bolivia. Stavolta un aumento del carburante di ben 11 centesimi rispetto ai precedenti 10, prezzo più basso del mondo, e la riduzione del consumo personale da 250 a 60 litri al mese. Il provvedimento, imposto dalle sanzioni che hanno ridotto la produzione iraniana da 2,4 milioni di barili al giorno a 300mila e i cui proventi servono per sussidi ai più colpiti dalle sanzioni, salvaguarda il basso consumo delle famiglie, mentre danneggia i grandi trasportatori.

Iraq. Il più odiato, l’esperimento di genocidio più insistito. 

La bella paginona del “manifesto” si affianca al segretario di Stato Usa anche per quanto riguarda altre due performance imperiali che meritano una claque vasta e qualificata. Hong Kong, un pezzo di quella Cina, sulla quale si esercita con non contenuta avversione il suo sinofobo di prima classe, e Iraq. Sull’equilibrio con cui Mentana e altri illustri paladini dell’indipendenza mediatica si commuovono per i pacifici dimostranti di Hong Kong, all’ombra della benevolenza dei rispettivi “editori democratici di riferimento”, s’è già detto. A me preme in particolare l’Iraq, paese a me più vicino, del cui destino insistono ad occuparsi i migliori globalisti antinazionalisti (in altri termini, colonialisti) fin da quando Churchill lo bombardò con gas venefici nel 1922.

Quello che non è mai stato perdonato all’Iraq è quel che è diventato dalle rivoluzioni anticoloniali degli anni ’60 fino alla presa del potere di Saddam Hussein. Un paese che, quanto a ricchezza (da petrolio) diffusa equamente, modernizzazione dell’apparato produttivo, infrastrutture, diritti sociali (scuola, sanità, pensioni, maternità), emancipazione delle donne, numero di studenti mandati con borse di studio a formarsi all’estero, ricchezza culturale, creatività artistica, protezione dell’immane patrimonio storico risalente ai sumeri, sostegno politico ed economico ai palestinesi e all’unità araba, difesa e promozione delle varie confessioni, cristiana in testa, autostima e orgoglio, primeggiava tra tutti i paesi della regione e superava le condizioni di parecchi del primo mondo, detti sviluppati.

Per i razzisti, xenofobi, antisemiti (ricordando che semiti sono 450 milioni di arabi), cioè per tutti gli odiatori che si sono fatti protagonisti del colonialismo d’antan, come di quello di ritorno oggi, era intollerabile che una nazione si emancipasse a tal punto da mettere in ombra nientepopòdimeno che la nostra imperfettibile civiltà. Ed è stata guerra, di tutti i generi, di diffamazione-satanizzazione, bombe, sanzioni invasione, occupazione, depredazione, genocidio da uranio. Per prima cosa l’invasore Usa ha depredato il museo nazionale, bruciato la Biblioteca Nazionale e raso al suolo con i cingoli Babilonia e altri siti millennari.  Fino al complotto imperialista estremo: l’Isis.

Quattromila anni di civiltà da bruciare viva.

Ci sono arrivato, da inviato di “The Middle East”, nel 1978, e ci sono tornato molte volte, riuscendo a conoscerlo tutto abbastanza bene, da Mosul e Niniveh, da Ur a Bassora. Ho fatto il corrispondente da Roma per il quotidiano arabo “Al Thaura”, con un grande direttore, il palestinese Nasif Awad, e del giornale in lingua inglese “Baghdad Observer”, diretto da un amico, Naji al Hadithi, conosciuto quando era il direttore del Centro Culturale iracheno a Londra, poi ultimo ministro degli Esteri con Saddam. Da Iraq, Siria e Libia, mi sono arrivati doni di consolazione per la sofferenza condivisa con i palestinesi. Ho visto il popolo e la sua dirigenza resistere in maniera eroica allo strangolamento tra le due guerre d’aggressione, 1991 e 2003: sanzioni micidiali e bombe di Clinton su tutto quanto permetteva la vita. 1,5 milioni di morti, di cui i 500mila bambini, rivendicati dalla neocon clintoniana Madeleine Albright. Poi l’Iraq, contro il sabotaggio dei prezzi del petrolio ordinato all’emiro dagli Usa per strangolare l’Iraq, Saddam si è ripreso il Kuweit, provincia che i britannici avevano separato dalla grande Nazione per garantirsi, con un satrapo fantoccio, uno dei più vasti giacimenti di petrolio del mondo.

 Bagdad ieri e l’altro ieri

Ai tre milioni di morti, il 15% della popolazione, Usa e Nato arrivano con la guerra di conquista del 2003. Dalla mia finestra al Mansour Hotel, poi dal Palestine, sempre per un pelo scampato ai missili con gli altri colleghi, a noi che secondo Bush non dovevamo stare lì, poi girando la città, ho filmato gli accecanti bagliori, i tremendi impatti, poi le macerie, il fosforo su Fallujah, i pianti di un paese in stracci ma in piedi, che l’invasore non riusciva a sottomettere. La forza di resistere per anni. Doveva subito essere squartato in tre pezzi, scita, sunnita, iracheno. Non ci sono riusciti. L’Iran poteva prendersi il suo pezzo scita, ha dato una mano in difesa dell’unità, a dispetto del collaborazionismo dei contrabbandieri e narcotrafficanti curdi sostenuti da Cia e Israele.

Un Iraq che, a forza di proconsoli e vicerè Usa, di distruzione di ogni struttura statale e del disfacimento dell’esercito, della pugnalata alle spalle dei turchi che gli hanno tagliato il Tigri e l’Eufrate, della rapina del suo massimo bene, gli idrocarburi, miracolosamente era riuscito a contrastare l’assalto dello Stato islamico, inventato e scatenato dai nemici di sempre. Perfino ha sconfitto la sua presa del territorio, grazie anche all’enorme valore delle milizie popolari, “Unità di Mobilitazione”, di cui gli amanti del mercenariato Usa attribuiscono il merito ai peshmerga curdi, interessati unicamente a strappare agli arabi Kirkuk e il suo petrolio. Resta, come in Siria, la strategia del terrorismo, anche quella sempre della stessa matrice, per impedire ogni normalizzazione. Il ricordo dell’Iraq di prima, la paura che suscita ancora la coesione, l’irriducibilità, la vitalità di un popolo martirizzato come nessun altro, alimentano anche questa nuova congiura anti-irachena. La si attribuisce al malgoverno, alla corruzione. Certamente vera per i fantocci installati dagli occupanti negli anni passati. Ma si occulta spudoratamente la demolizione sistematica, da trent’anni, di una nazione. Senza i proventi di un petrolio rubato dalle multinazionali, non c’è ricostruzione. Le reti idrica, fognaria ed elettrica, l’apparato industriale, agroindustriale, sanitario (un tempo tra i più efficienti del mondo), dell’istruzione, restano a pezzi. Due generazioni sono state distrutte.

Nimrud quando l’ho visitata io, Nimrud quando l’hanno visitata gli americani

Facile dare del corrotto al premier Abdul Mahdi. Facile dire, con il Fatto Quotidiano, giornale assolutamente impresentabile per la sua poltiica esteera, quanto “il manifesto”, che l’Iran tiene in ostaggio l’Iraq. Facile incolpare Baghdad di affidarsi alle sue milizie Ashd al Shabi, al mitico generale dei Pasdaran Qassem Soleimani che le ha guidate e ne ha accompagnato la vittoria. L’Iraq deve ancora pagare. Perché c’era Saddam (senza il quale non ci sarebbe stato quell’Iraq). Perché c’è la malapianta Iran (senza la quale non ci sarebbe nemmeno l’Iraq di oggi).

Nel quale si è andata accendendo una “primavera araba” dei soliti colori nel preciso momento in cui il parlamento, non smentito dal primo ministro, ha chiesto agli Usa di ritirare i suoi militari, le milizie popolari hanno denunciato e documentato le complicità Usa-Isis e la massima autorità spirituale del paese, l’Ayatollah Al Sistani, ha protestato contro le  responsabilità “di certi paesi” per i mali dell’Iraq. Forse il titolo del mio ultimo documentario sull’Iraq non era sbagliato.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 21:36

Calenda: l’esperto di soluzioni ai problemi che crea lui

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/20/calenda-lesperto-di-soluzioni-ai-problemi-che-crea-lui/

Apri Twitter e spunta Calenda. L’esperto di soluzioni ai problemi che crea lui. L’ex ministro vende sui Social ricette e rimedi per tutto. Ma prima dov’era?

CARLO CALENDA POLITICO

(di Laura Tecce – lanotiziagiornale.it) – A volte ritornano. E lo fanno pure in fretta, che resistere più di qualche ora senza esternare al mondo il proprio pensiero sui social deve essere un supplizio. Non stiamo parlando di millenials in fissa con Instagram e Tik Tok o di nerd solitari malati di nuove tecnologie. Stiamo parlando del twittatore compulsivo Carlo Calenda. In attesa di lanciare domani mattina alle 11 a Roma la sua creatura politica “Azione”, che ci auguriamo lo assorba più di quanto non lo facciano le grigie aule di Bruxelles e Strasburgo, l’europarlamentare di Siamo Europei ma eletto (anche) coi voti del Partito Democratico che lo ha candidato capolista nella circoscrizione nord-est, nel giro di 48 ore ha postato ben due video.

Opere fondamentali in cui il nostro campione spiega a noi poveri mortali, nella migliore delle ipotesi disinformati, nella peggiore (e crediamo condivisa dall’ex ragazzo dei Parioli pupillo di Luca Cordero di Montezemolo) analfabeti funzionali, la “verità” sul caso dello stabilimento ex Ilva. Perché lui ovviamente la verità ce l’ha in tasca. “Io sono io e voi non siete un…” come direbbe il Marchese Onofrio Del Grillo. Il tono è quello, già. Perché i “Bignami” di Calenda “contro le baggianate dei tuttologi” sprizzano saccenza da tutti i pori – e questa non è una novità – , salvo poi rispondere a tutti, troll e tuttologi del web compresi, come se non ci fosse un domani.

Dando un’occhiata al suo profilo Twitter, è infatti questo quello che balza agi occhi: come Calenda abbia una “parola buona per tutti”, con un certo stile e una certa ironia, va detto. Non manda bacioni ma anch’egli, come un altro ben noto leader politico fissato con i social, non resiste alle provocazioni. E tra una frecciatina a D’Alema, “E a grande richiesta tra le attrazioni del Circo Barnum Ilva arriva anche Massimo D’Alema. Esperto di acciaio di livello mondiale e da ultimo anche conoscitore dell’economia circolare”, e i soliti insulti agli “incapaci” al Governo e a Matteo Renzi, di cui ormai abbiamo perso il conto, non risparmia neppure tal “Il banchiere Bruno” apostrofato “delinquentello anonimo” o tal “Il signor Ernesto”. ci manca la famigerata casalinga di Voghera e poi siamo tutti.

Ndo cojo cojo. Che poi è il gentile commento che Carlo ha riservato all’annuncio da parte del leader di Italia Viva di voler aprire a tutti, destra, sinistra e Forza Italia. Ma tornado alle dotte disquisizioni su contratti, commissari, scudi penali e inchieste della magistratura a Taranto, possiamo dormire sonni tranquilli: l’immarcescibile ex ministro dello Sviluppo Economico – voluto da Renzi, sempre bene ribadirlo – prenderà in mano la situazione e come il Titano Atlante che portava sulle spalle la volta celeste, si caricherà e incaricherà di portare avanti le magnifiche sorti e progressive nientedimeno della politica industriale del nostro Paese. “Sono 18 mesi che non parlo con i Mittal. Oggi li chiamo. Perché tra le follie della Morselli e quelle del Governo qui stiamo distruggendo la capacità industriale del paese”. Così esternava su Twitter – dove sennò – qualche giorno fa. Chissà se alla fine una telefonata al signor Lakshmi Mittal l’avrà fatta. Se Non Ora Quando?

É reato scrivere Stato di merda su Facebook

https://www.laleggepertutti.it/296761_e-reato-scrivere-stato-di-merda-su-facebook?fbclid=IwAR122GBmAMSkI65blrHp2UKS3fr_upOrc9aWfn7yFqNWVaQ_CGHP5wxg1g8

14 Agosto 2019 | Autore: 

Il reato di vilipendio delle istituzioni della Repubblica può essere commesso anche sui social come Facebook. É punito più severamente se è commesso da militari.

 

Attenti a ciò che si scrive sui social: uno sfogo in un momento di rabbia o per leggerezza può costare caro. A volte, può venire l’impulso di commentare una notizia con una frase del tipo “ma guarda in che paese viviamo” con un’espressione più forte e così qualcuno, per essere efficace e rendere meglio l’idea potrebbe scrivere «che Stato di merda» su Facebook. Ma un comportamento del genere è reato: lo ha detto la Cassazione con una sentenza depositata proprio ieri [1].

Si trattava di un ufficiale della Marina militare che, a proposito della vicenda dei marò arrestati in India, aveva scritto su Facebook questa infelice espressione ed era stato processato per il reato di vilipendio [2]: questo reato appartiene alla categoria dei cosiddetti “reati di opinione” e punisce chi usa espressioni di disprezzo, offesa o svilimento della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate, con la pena della multa da 1.000 a 5.000 euro. Per i militari, il vilipendio è punito molto più severamente da una norma specifica [3], con la reclusione da due a sette anni.

L’ufficiale aveva scritto su Facebook, tra le altre cose, la frase «Stato di merda» e, per questo, è stato condannato con sentenza definitiva confermata in Cassazione, alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione militare. La sentenza ha riconosciuto che «l’espressione offensiva rivolta allo Stato era riferibile al grande disappunto da parte del militare per la vicenda dell’arresto dei nostri marò da parte della polizia indiana» e questo è valso a concedergli le attenuanti, ma non a farlo assolvere. «Gli appartenenti alle forze armate possono commentare vicende politiche e di attualità, ma senza travalicare i limiti della continenza», si legge nella sentenza.

I giudici non hanno riconosciuto che in questo caso vi fosse la scriminante dell’esercizio di una libera critica politica, perché l’espressione di forte disprezzo superava ampiamente questa libertà di espressione (la figura di reato serve a tutelare il prestigio delle istituzioni): «il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero trova un limite non superabile nell’esigenza di tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni» ed hanno anche ritenuto che il disprezzo fosse stato manifestato pubblicamente  e non in forma privata (il reato di vilipendio per realizzarsi richiede la pubblicità) per il solo fatto che era stato postato sulla pagina Facebook del militare ed era senza dubbio riconducibile al suo profilo. Per la Cassazione non rileva neppure il numero di visualizzazioni raggiunte dal post perché «è sufficiente la mera diffusione del messaggio sul social network».

C’è anche da dire che il comune cittadino che si sfoga in pubblico con un’espressione analoga, ad esempio dicendo “Italia paese di merda” oppure “schifo di Italia di merda” commette un altro reato, che non è quello di vilipendio dello Stato, ma quello di vilipendio della Nazione [4]. Qual è la differenza? Il vilipendio della Nazione protegge lo “Stato comunità” di persone accomunate da lingua, storia cultura e tradizioni, quindi l’Italia intesa come paese nel suo complesso; il vilipendio dello Stato tutela lo “Stato apparato”, dunque le sue principali istituzioni. A livello sanzionatorio, il vilipendio alla Nazione è sanzionato per le persone comuni con la stessa pena del vilipendio alle istituzioni della Repubblica (multa da 1.000 a 5.000 euro), mentre per i militari [5] la pena è più bassa (massimo 5 anni anzichè 7).

note

 

[1] Cass. sent. n.35988/19 del 13 agosto 2019.

[2] Art. 290 Cod. pen.

[3] Art. 81 Cod. pen. militare di pace.

[4] Art. 291 Cod. pen.

[5] Art. 82 Cod. pen. militare di pace.

L’AUTORE: 

La bufala dei cambiamenti climatici spiegata dal Nobel Carlo Rubbia

https://www.reazioneidentitaria.org/2019/03/19/carlo-rubia-clima/?fbclid=IwAR3rwMqfCh9hl9BBMut4gtG-70AxlDW2IrO9gVr02Otx7FVf_B7bAW0IiiM

19MAR

Foto di Carlo Rubia

Cambiamenti climatici: l’intervento del premio Nobel per la fisica e senatore a vita Carlo Rubbia, dinanzi alle commissioni riunite Affari esteri e Ambiente-territorio di Camera e Senato il 26 novembre 2014.

Sono una persona che ha lavorato almeno un quarto di secolo sulla questione dell’energia nei vari aspetti e, quindi, conosco le cose con grande chiarezza. Vorrei esprimere alcuni concetti rapidamente anche perché i tempi sono brevi. La prima osservazione è che il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi noi pensiamo (in un certo senso, probabilmente, in maniera falsa) che se non facciamo nulla e se teniamo la CO2 sotto controllo, il clima della Terra resterebbe invariato. Questo non è assolutamente vero.

Vorrei ricordare che durante l’ultimo milione di anni la Terra era dominata da periodi di glaciazione in cui la temperatura era di meno 10 gradi, tranne brevissimi periodi in cui c’ è stata la temperatura che è quella di oggi. L’ ultimo è stato 10.000 anni fa, quando è cominciato il cambiamento climatico che conosciamo con l’agricoltura, lo sviluppo, che è la base di tutta la nostra civilizzazione di oggi. Negli ultimi 2.000 anni, ad esempio, la temperatura della Terra è cambiata profondamente. Ai tempi dei Romani, ad esempio, Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Quindi, oggi gli elefanti non potrebbero attraversare la zona dove sono passati. C’è stato un periodo, nel Medioevo, in cui si è verificata una piccola glaciazione; intorno all’ anno 1000 c’ è stato un aumento di temperatura simile a quello dei tempi dei Romani (ricordiamo che ai tempi dei Romani la temperatura era un grado e mezzo più alta di quella di oggi). Poi c’è stata una mini-glaciazione durante il periodo 1500-1600 che riguardo il Nord con i vichinghi hanno avuto degli enormi problemi di sopravvivenza a causa di questa mini-glaciazione, che si è sviluppata con cambiamenti di temperatura sostanziali.

Se restiamo nel periodo degli ultimi 100 anni, ci sono stati dei cambiamenti climatici sostanziali, che sono avvenuti ben prima dell’effetto antropogenico, dell’effetto serra e così via. Per esempio, negli anni Quaranta c’è stato un cambiamento sostanziale. Poi c’è stato un cambiamento di temperatura che si collega all’uomo (non dimentichiamo che quando sono nato io, la popolazione della Terra era 3,7 volte inferiore a quella di oggi e che il consumo energetico primario è aumentato 11 volte). Questi cambiamenti hanno avuto effetti molto strani e contraddittori sul comportamento del pianeta. Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di 0,2 gradi e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad un’esplosione della temperatura.

La temperatura è aumentata fino al 2000: da quel momento siamo rimasti costanti, anzi siamo scesi di 0,2 gradi. Io guardo i fatti. Il fatto è che la temperatura media della Terra, negli ultimi 15 anni, non è aumentata ma diminuita.

Nonostante questo, ci troviamo di fronte ad una situazione assolutamente drammatica: le emissioni di CO2 stanno aumentando in maniera esponenziale. Tra le varie soluzioni dell’IPCC prevale la soluzione del business as usual. Essa è la soluzione più alta di tutte: indica che, effettivamente, anche grazie allo sviluppo della Cina e degli altri Paesi in via di sviluppo, l’aumento delle emissioni di CO2 sta avvenendo con estrema rapidità. Le emissioni stanno aumentando in maniera tale che, a mio parere, tutte le speranze che abbiamo di ridurre il consumo energetico facendo azioni politiche ed altro, sono contraddette dal fatto che oggi il cambiamento climatico del CO2 ha un aumento esponenziale senza mostrare una inversione di tendenza; sta crescendo liberamente.

Vorrei ricordare che l’unico Paese nel mondo riuscito a mantenere e ridurre le emissioni di CO2 sono gli Stati Uniti: non l’Europa, non la Cina, ma gli Stati Uniti. Per quale motivo? C’è stato lo sviluppo del gas naturale, che adesso sta rimpiazzando fondamentalmente le emissioni di CO2 dovute al carbone. Ricordiamo anche che il costo dell’energia elettrica in America è due volte il costo dell’Europa. Perché? Il consumo della chimica fine in Europa è deficitario e in crollo fisso, perché fondamentalmente in America si stanno sviluppando delle tecnologie grazie ad uno sviluppo tecnologico ambientale importantissimo, che ha permesso veramente di cambiare le cose. Questo dà un messaggio chiaro: soltanto attraverso lo sviluppo tecnologico possiamo cercare di entrare in competizione con gli altri Paesi e non attraverso misure come quelle dell’Unione europea, che sono sempre state misure di coercizione e di impegno politico formale, senza una soluzione.

Guardiamo la situazione americana (dove c’ è un progresso effettivo nel vantaggio tecnologico che crea business, posti di lavoro) e guardiamo la situazione europea. Secondo me, c’ è una grandissima differenza: anche le soluzioni provenienti dalle energie rinnovabili con gli sviluppi tecnologici nel campo del gas naturale si trovano in situazione estremamente difficile perché oggi il costo del gas naturale in America è un quinto di quello in Europa. In Europa il costo delle energie rinnovabili è superiore a quello del gas naturale. Pertanto, dobbiamo renderci conto che la soluzione tecnologica dipende da quello che vogliamo fare.

Sto portando avanti un programma che, a mio parere, potrebbe essere studiato con molta più attenzione anche dal nostro Paese: trasformare il gas naturale ed emetterlo senza emissioni di CO2. Il gas naturale è fatto di CH4, cioè quattro idrogeni e un carbonio. È possibile trasformare questo gas naturale, spontaneamente, in black carbon (grafite) ed idrogeno. Questa grafite, essendo un materiale solido, non rappresenta produzione di CO2. Quindi è oggi possibile utilizzare il gas naturale, di cui ci sono risorse assolutamente incredibili. Non mi riferisco tanto allo shale gas che, a mio parere, è una soluzione discutibile, ma soprattutto a quelli che si chiamano clatrati. Onorevoli, vorrei chiedere quanti di voi sanno cosa è un clatrato. Nessuno? Questo è il problema. È un problema molto serio.

Il mio parere personale è che si può portare avanti il programma attraverso l’innovazione tecnologica e lo sviluppo di idee nuove. Il programma è quello di evitare le CO2 emission utilizzando il gas naturale senza emissioni di CO2. Stiamo facendo degli esperimenti che dimostrano che effettivamente la cosa si può fare. Perché nessuno se ne occupa ancora? Mi piacerebbe saperlo.

Fonte: “Nicola Porro”

Ma quale matrimonio con Psa gli Agnelli hanno venduto Fca

https://www.lospiffero.com/ls_article.php?id=48931

Smettiamola di raccontare balle. Peugeot ha comprato Fiat-Chrysler perché interessata al mercato americano. Comanderanno i francesi e gli unici a guadagnarci sono gli azionisti. L’analisi fuori dal coro di Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista

 “Ma quali nozze? Quello tra PeugeotPsa Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di FiatChrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista di chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023”. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam.

E l’Italia? E Torino?
“Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti cacciavite”.

A Torino Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina, a Torino ha incominciato a lavorare, figlio e nipote di operai, come operaio a Mirafiori dove, poi travet e poi ancora dirigente fino ad arrivare al vertice del colosso New Holland ed essere uno dei top manager, per anni, più vicini all’Avvocato. Consulente di livello internazionale, ma anche voce dura e diretta, spesso fuori dal coro, tifoso granata e penna affilata nelle analisi. Quando, come dice lui, ha imbroccato con buon anticipo lo scenario che si sarebbe verificato con quel matrimonio che tale non è, qualcuno gli ha pure dato del populista. Sa che a molti non piace che qualcuno scriva quel che poi si avvera, ma lui lo fa lo stesso da almeno dieci anni.
 

Dottor Ruggeri, com’è questa storia della Fiat morta dieci anni fa e l’Italia che fa finta non sia successo?
“Bisogna partire proprio da lì, per capire quelle che con un’altra finzione continuano ad essere definite nozze tra Peugeot e Fca. Intanto non è vero che Fiat fosse tecnicamente finita quando arrivò Sergio Marchionne nel 2004, succede invece nel 2009 quando Moody’s taglia il rating e declassa il titolo a spazzatura. Due mesi dopo il presidente degli Stati Uniti Obama si trova nella situazione di dover salvare Chrysler. Tutti gli altri costruttori del mondo avevano declinato la richiesta, rimaneva solo Fiat. E salvando Chrysler ha salvato Fiat. Prese una decisione che i nostri finti liberisti non avrebbero mai preso”.

Lei dice che in Italia questo non sarebbe potuto accadere?
“Certo che no. Il governo italiano faceva finta che la Fiat non fosse di fatto fallita, non ha voluto metterci quattrini e di conseguenza ce li ha messi Obama. Lui ha affidato il gruppo a una persona straordinaria come Marchionne al quale ha detto: fai gli interessi dell’azionista. E Marchionne lo ha fatto. Si è reso conto che non c’erano possibilità di risanamento e da quel momento ha smesso di fare il manager ed è diventato un deal maker, uno abilissimo a fare il massimo interesse degli azionisti, che non erano solo Agnelli, ma anche l’establishment americano, dopo la privatizzazione fatta da Obama”.

Quindi, secondo lei, è da lì che comincia quell’operazione di preparazione alle dismissioni, la donazione di organi per usare una sua espressione?
“Da quel momento la Fiat Auto è morta. Marchionne per anni ha presentato piani strategici che in parte hanno nascosto la realtà: la Fiat se ne va e all’Italia non resta più un’industria dell’automobile. Caso unico: nessuno al mondo, salvo il nostro Paese, ha rinunciato all’industria automobilistica. I governi di centrodestra e di centrosinistra dell’epoca si guardarono bene dal fare come Obama, nazionalizzare per poi privatizzare, mantenendo però governance, cervelli e lavoro negli Stati Uniti. L’Italia ha perso la sua centenaria industria dell’auto seguendo teorie intellettualoidi di miserabili leadership nostrane. Ora ci sono rimasti quattro stabilimenti il cui destino è nelle mani dell’acquirente francese. Bisogna prenderne atto. Non raccontiamoci la balla che l’Italia conti qualcosa”.

Si sarebbe potuto salvare Fiat tenendola in Italia?
“Io sono convinto di sì, per esempio vendendola a Mercedes, ma all’epoca si decise di no”.

Invece, si proseguì con operazioni vantaggiose per gli azionisti mentre ormai il gruppo era fuori dall’Italia, fino ad arrivare a quello che, poche settimane fa, è stato annunciato e salutato come un matrimonio.
“Esatto. La vendita a Peugeot è l’ultimo atto di una strategia concepita in modo impeccabile da Marchionne finalizzata esclusivamente agli interessi degli azionisti. Prima è stata la volta di Cnh e Iveco, poi lo scorporo di Ferrari, poi iancora la vendita di Magneti Marelli che ha fruttaato 6 miliardi e adesso con quelle che chiamano ancora nozze con Peugeot. Tutti devono sapere che, come è successo, quando il compratore liquida al venditore un cedolone da 5,5 miliardi significa che è lui a comandare. In pratica Peugeot si è comprato Fca pagando un premio del 25-32%”.

Gli azionisti hanno fatto un affare, il Paese ci ha rimesso per l’ennesima volta. Cosa c’è da aspettarsi ancora, dopo le finte nozze con i francesi?
“Il Ceo Tavares presto incomincerà a ristrutturare, ad eliminare sovrapposizioni, a tagliare insomma. La produzione di modelli medio piccoli tra Peugeot Opel e Fca è in eccesso. Dovendo scegliere tra uno stabilimento in Francia, ma anche in Germania, e uno in Italia, avendo un azionista che si chiama Macron e un accordo con la Merkel, cosa pensa che farà?”.