Luca Mercalli sul Fatto: il prossimo Mose sarà il Tav, però costa 5 volte tanto e si può fermare

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19 Novembre 2019
Luca Mercalli
Luca Mercalli

La prova del Mose doveva essere fatta contro l’imponente acqua alta del 12 novembre e giorni successivi, ma “la Ferrari senza freni” come è stata definita non si poteva nemmeno mettere in moto. Una grande opera di cui in questi giorni si è detto di tutto, ammettendo che non è tecnicamente adatta alle sfide poste dall’aumento del livello dei mari generato dal riscaldamento globale (potenzialmente superiore a 80 cm a fine secolo), e che presenta soluzioni costruttive critiche che richiederanno decine di milioni all’anno di costi di manutenzione.

PERÒ IL RITORNELLO di tutti è stato: ormai è quasi finita, paghiamo quel che c’è da pagare e mettiamola in esercizio. Anche se non funzionerà come dovrebbe. Una vicenda che sembra una sfera di cristallo per immaginare cosa potrebbe accadere al Tav in Val di Susa tra una ventina d’anni. Anche il Mose prima della sua realizzazione fu infatti fortemente osteggiato sul piano tecnicoscientifico da molti autorevoli esperti del settore che proposero progetti alternativi ovviamente mai considerati. Oggi non resta che lo sconsolato “l’avevamo detto”, ma i 5,5 miliardi ormai gli italiani li hanno sborsati, mazzette incluse.

Se si legge il circostanziato volume Il MOSE salverà Venezia? degli ingegneri Vincenzo Di Tella, Gaetano Sebastiani e Paolo Vielmo si ha una frustrante narrazione di tutte le proposte tecniche ignorate, lo studio commissionato nel 2008 dal Comune di Venezia allora retto da Cacciari alla società di ingegneria francese Principia che mostrava le debolezze strutturali, ignorato da governi che diventano decisionisti solo in questi casi, e il meschino processo per diffamazione che gli Autori subirono su denuncia del Consorzio Venezia Nuova, unico signore e padrone della laguna, contro il quale chiunque osava aprir bocca veniva ostracizzato e combattuto. Alle sagge voci dei tre valorosi ingegneri aggiungiamo Luigi D’Alpaos, professore emerito del Dipartimento di idraulica dell’Università di Padova e quella ormai spentasi per sempre nel 2017 di Paolo Pirazzoli, brillante dirigente di ricerca del CNRS francese che ci ha lasciato il pamphlet La misura dell’acqua.

Come e perché varia il livello marino a Venezia( 2011). Anche Pirazzoli fu querelato e poi fortunatamente assolto per aver combattuto il Mose a suon di equazioni! Ma che triste vicenda per un veneziano apprezzato all’estero e odiato dai poteri del gigantismo tecnologico annidatisi come mostri marini nel fango della laguna. Oggi possiamo dire che se quei docenti fossero stati ascoltati forse avremmo un dispositivo più efficace e meno costoso per mettere al sicuro Venezia. Il caso della nuova linea ferroviaria Torino-Lione manifesta molte analogie con la débâcle veneziana. Anche qui si tratta di un’opera faraonica, valutata in 9,6 miliardi di euro per il solo tunnel transfrontaliero e oltre 26 per l’intera tratta.

Anche qui c’è un gruppo di tecnici che hanno mostrato le contraddizioni del progetto sul piano trasportistico, ambientale ed economico. Basti pensare alla celebre analisi costi- benefici voluta dal ministro Toninelli e affidata a Marco Ponti del Politecnico di Milano la quale, nonostante l’esito negativo, verrà poi ignorata mantenendo inalterato il lento, ma inesorabile avanzamento dell’opera. Eppure se l’imponente mole di dati che la Commissione Tecnica contro la Torino- Lione da decenni tenta di portare all’attenzione del governo (sia italiano, sia francese) venisse considerata, forse si potrebbe ancora evitare di gettare in un buco nero una gigantesca somma di denaro pubblico.

IN QUESTO CASO, a differenza del Mose, l’opera è appena nei suoi primi passi realizzativi e si potrebbe sospendere senza che si arrivi tra qualche anno a dire “ormai è quasi finita, spendiamo quello che c’è ancora da spendere e mettiamola in esercizio”. Rammentiamo che in Val di Susa esiste già una ferrovia internazionale a doppio binario sotto il tunnel del Fréjus, ampiamente sottoutilizzata. Rammentiamo che non è mai stata fatta un’analisi certificata delle emissioni di gas serra per la cantierizzazione e il funzionamento, tale da assicurare che vi sia beneficio climatico entro gli stretti tempi richiesti dall’accordo di Parigi sul clima e dalla stessa politica ambientale europea, che dà per scontato che le linee ferroviarie siano tutte sostenibili mentre dovrebbe dimostrarlo con le misure. Rammentiamo che la politica europea dell’economia circolare dovrebbe ridurre i transiti di merci invece che aumentarli e che se l’opera non verrà utilizzata secondo le ottimistiche previsioni cartacee sarà spaventosamente antieconomica.

Tutti dati che si continuano a sottoporre ai ministri delle Infrastrutture e dell’Ambiente senza che vengano mai analizzati con profondità.

Si liquida la questione con “le decisioni sono già state prese e dunque sono le migliori possibili”.

Lo si disse anche per il Mose.

di Luca Mercalli da Il Fatto Quotidiano

90 anni fa il delitto Matteotti, nella borsa la prova della tangente al fascismo

https://www.adnkronos.com/fatti/politica/2014/06/10/anni-delitto-matteotti-nella-borsa-prova-della-tangente-fascismo_CkDWWk8CeduXuIuqn5piAI.html?fbclid=IwAR076UInhrfFMUXnoaD8ZRFD7Cu2CjmVNLXwADDD-w4OcJ0cxMpTp3v8B24

90 anni fa il delitto Matteotti, nella borsa la prova della tangente al fascismo

Novanta anni fa Giacomo Matteotti veniva ucciso a Roma da sicari fascisti, era il 10 giugno del 1924. Il leader socialista pagava con la vita le accuse contro il regime di Mussolini, massacrato mentre si recava in Parlamento, dopo essere stato rapito da una squadraccia.

A condannarlo non furono però solo le parole di fuoco del discorso del 30 maggio, in cui contestava il voto elettorale: “Nessun italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà”, diceva in Aula, accusando il fascismo e Mussolini. Come emerso successivamente, a Matteotti fu impedito di svelare la maxi-tangente dietro alla convenzione tra lo Stato italiano e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, in cui erano coinvolti Arnaldo Mussolini, il fratello del duce e alcuni dei gerarchi. Una caso di corruzione e tangenti che avrebbe messo in grave difficoltà il regime.

La vicenda, come tanti gialli della successiva storia repubblicana, non verrà mai chiarito del tutto. Anche in questo caso sparirà la borsa di Matteotti, che avrebbe contenuto le prove della tangente. Nel processo a Amerigo Dumini, uno dei sicari del deputato socialista, verrà fuori la storia: “Lo abbiamo ucciso per ordine di Mussolini, perché non rivelasse la storia della tangente”.

Il governo italiano, in effetti, poche settimane prima della fine di Matteotti, aveva concesso alla Sinclair Oil un’esclusiva, delal durata di 90 anni, per la ricerca e lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi presenti nel territorio italiano, in Emilia e in Sicilia. Un business che aveva in prima linea i principali gruppi finanziari di New York, tra cui la banca di John Davison Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil, la società per cui operava in Italia la Sinclair.

Gorbaciov ha indicato i responsabili della caduta dell’URSS

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Mikhail Gorbaciov, politico sovietico, l'unico presidente dell'URSS

© AP Photo / Alexander Zemlianichenko

16:13 09.11.2019

L’ex presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov ha indicato chi ha provocato il crollo dell’URSS. Lo riporta la rivista tedesca Der Spiegel.

“I responsabili della fine della perestrojka e del crollo dell’Unione Sovietica sono coloro che organizzarono il colpo di stato nell’agosto 1991, e di chi dopo il colpo di stato sfruttò la posizione di debolezza del presidente dell’URSS”, ha detto.

Allo stesso tempo, Gorbaciov notò di essere consapevole dei possibili rischi della perestrojka e che l’intera leadership del paese comprese che erano necessari cambiamenti.

“Era impossibile vivere come prima. E una parte essenziale della perestrojka era una nuova mentalità di politica estera che comprende sia i valori universali e il disarmo nucleare, sia la libertà di scelta”, ha spiegato.

L’ex presidente dell’URSS ha sottolineato di non rimpiangere la perestrojka, ma ha riconosciuto che ci sono stati errori nel percorso delle riforme. Ha anche espresso l’opinione che la Russia non tornerà mai a essere un sistema totalitario.

In effetti, l’Unione Sovietica è crollata il 25 dicembre 1991, quando Gorbaciov, in appello al popolo sovietico, annunciò la fine delle sue attività di presidente. Ciò è stato preceduto da un accordo firmato l’8 dicembre dai leader di Russia, Bielorussia e Ucraina, che dichiarava la fine dell’esistenza dell’URSS e proclamava la creazione della Comunità degli Stati indipendenti. Questo atto passò alla storia come Accordo di Belaveža.

Nel 1990, tutte le repubbliche dell’Unione adottarono dichiarazioni di sovranità statale. Per fermare il crollo del paese, il 17 marzo 1991 si tenne un referendum sulla conservazione dell’URSS. Il 76,4% di coloro che presero parte votarono a favore e sulla base dei risultati del referendum nella primavera e nell’estate del 1991 apparve il progetto “Sull’Unione delle repubbliche sovrane”, la cui firma era prevista per il 20 agosto. Ma non ebbe mai luogo a causa di un tentativo di colpo di stato del 19-21 agosto 1991, che passò alla storia come colpo di stato di agosto.

La verità sul Mose di Venezia: per anni ci hanno mangiato sopra!

https://www.ilblogdellestelle.it/2019/11/la-verita-sul-mose-di-venezia-per-anni-ci-hanno-mangiato-sopra.html?fbclid=IwAR2Qonr29PQAgFOT5_DhUxGmR61x-ejp5O9npYT-HjdDZBpClsgOy2Wso8Y

I cittadini veneziani e con loro tutta Italia, aspettano il Mose dal 2011. Oggi quel cantiere, a otto anni di distanza dalla possibile inaugurazione, rappresenta il più grande scandalo di mazzette e tangenti in cui la classe politica di centro destra è coinvolta.

Alla faccia di chi non blocca i cantieri! Dirigenti e imprenditori, tutti insieme, si sono resi protagonisti di un sistema in cui venivano spartite senza ritegno tangenti e fatture false. Un’organizzazione strutturata e in parte rimasta impunita. Nel 2014, infatti, su 100 indagati si sono registrati soltanto 35 arresti. Due le persone a capo di questo enorme scandalo di corruttela: Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per le opere di salvaguardia della Laguna dalle acque alte, e Giancarlo Galan, la parte politica, il Doge, governatore di Venezia per moltissimi anni.

Il primo, che dal lontanissimo 1983 ne aveva combinate di tutti i colori, ha patteggiato, riuscendo a ottenere addirittura 7 milioni di euro di liquidazione quando uscì dal Consorzio. Anche Galan è riuscito a patteggiare, ammettendo atti di corruttela per milioni e milioni di euro. Soldi spostati all’estero, prestanome e molti altri illeciti, uno sperpero totale di soldi pubblici avvenuto a spese dei cittadini che gli è costato solo 78 giorni di carcere.

Non dobbiamo dimenticare che Galan, oltre ad aver ricoperto diverse volte il ruolo di ministro nel Governo Berlusconi, ha amministrato la Regione Veneto insieme alla Lega. Per non accorgersi dei milioni di euro in tangenti e delle fatture false bisognava proprio avere gli occhi bendati!

Da ministro mi sono occupato personalmente del dossier Mose. Ho voluto inserire nel Decreto Sblocca Cantieri una norma specifica che includeva tre concetti:

  • la nomina di un Commissario straordinario che portasse a completamento l’opera, in quanto al Ministero nessuno sembrava in grado di dirci quando sarebbe potuta essere ultimata.
  • gestione del post collaudo
  • sblocco dei Fondi congelati da 2 anni e destinati ai comuni della laguna: 25 milioni di euro per l’anno 2018 e 40 milioni di euro dal 2019 al 2024.

Eravamo praticamente arrivati alla chiusura del Decreto Sblocca cantieri approvato a giugno. Il decreto attuativo che prevedeva la nomina del commissario straordinario, era pronto, prima che Salvini dalle spiagge del Papeete, decidesse di far cadere il Governo.  Alla luce di quanto avvenuto spero vivamente che l’attuale capo del dicastero delle infrastrutture e dei trasporti, la ministra De Micheli, a due mesi dalla sua investitura, sia pronta a emanare questo decreto e a tirare finalmente le fila della questione, come nessuno prima d’ora.

C’è però un secondo tema politico da affrontare.

Il Mose potrebbe essere definito un cantiere infinito, e chi ci ritagliava sopra decine di milioni di soldi pubblici grazie alle mazzette, lo sa bene. Sono gli stessi tecnici a sostenere che anche dopo il collaudo, l’opera necessiti di una costante e continuativa manutenzione per essere utilizzabile: tra gli 80 e i 100 milioni di euro all’anno. Quindi non è possibile collaudare l’opera senza che vi sia una struttura che poi la gestisca, assumendosi la responsabilità nei successivi decenni. La prima formulazione dell’emendamento inserito nel Decreto Sblocca Cantieri prevedeva, a questo scopo, la creazione di un soggetto pubblico che coinvolgesse sia il Ministero sia gli enti locali: Regione, Città metropolitana di Venezia e tutti quelli a cui spetterebbe la gestione dopo il collaudo.

Questa norma ha scatenato l’inferno. Ci hanno accusato di aver messo una tassa ai veneziani, perché secondo le regole generali del diritto societario, tutti i componenti di un soggetto pubblico sono obbligati a pagarne le spese. La Regione Veneto ha perciò redatto un nuovo documento in cui si chiariva che le spese del suddetto ente dovevano essere tutte integralmente a carico dello Stato. Un documento che avevo approvato ma a cui non è mai stata data attuazione perché, alla resa dei conti in Parlamento, il viceministro di allora Massimo Gravaglia, si oppose alla realizzazione di un soggetto pubblico per la gestione del Mose.

A meno che non si voglia affidare il Mose, un’opera così rilevante sul piano nazionale e costosa, a una multinazionale (e non sarebbe affatto una buona idea), invito la ministra a costituire prima possibile questo soggetto pubblico necessario. Non lasciamo che il Mose resti l’eterna incompiuta ma, soprattutto, facciamo in modo che funzioni! 

Tangentopoli del Mose: tutte le accuse

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/06/04/news/tangentopoli-del-mose-tutte-le-accuse-1.168223?fbclid=IwAR2DUBYz05UZNCEX5nw4yr10Htd4gmCNBMX6tHWygHfr1k4ZY_xM64WNzf8

Da Galan a Orsoni, dal Pdl al Pd, dalla Corte dei Conti ai ministeri, ecco i politici e alti funzionari che hanno intascato almeno 25 milioni di euro per riempire di miliardi le imprese del Mose

DI PAOLO BIONDANI

04 giugno 2014

Tangentopoli del Mose: tutte le accuse
Giancarlo Galane Renato Chisso

Tutte le mazzette indagato per indagato: ecco il quadro completo delle accuse formulate dai magistrati veneti nell’ordinanza di custodia dei 35 arrestati (25 in carcere, 10 ai domiciliari) per la Tangentopoli del Mose, la grande opera emergenziale da 5 miliardi e 496 milioni di euro che dovrebbe salvare Venezia dall’acqua alta, ma dopo trent’anni non è ancora entrata in funzione.

GIANCARLO GALAN: parlamentare di Forza Italia, ex ministro, presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010. Secondo l’accusa l’ex governatore, per favorire le imprese del Consorzio Venezia Nuova, ha intascato svariati milioni di euro e in particolare:

  • uno stipendio fisso in nero di un milione di euro all’anno, quantomeno dal 2005 al 2011;
  • 900 mila euro in contanti nel 2006-2007;
  • altri 900 mila euro in contanti nel 2007-2008;
  • una quota del 7 per cento della società Adria Infrastutture, intestata a un suo prestanome, con conseguente partecipazione agli utili realizzati da quella impresa del Gruppo Mantovani con il discusso sistema del “project financing” all’italiana;
  • il 70 per cento delle quote della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestate allo stesso prestanome;
  • 200 mila euro una tantum, consegnatigli all’hotel Santa Chiara di Venezia nel 2005 tramite la sua ex segretaria-factotum Claudia Minutillo;
  • la ristrutturazione gratuita della sua lussuosa villa di Cinto Euganeo, sui colli di Padova, con lavori costati un milione e cento mila euro e mascherati con fatture false.

RENATO CHISSO, politico di Forza Italia, assessore alle Infrastrutture e Grandi Opere nelle giunte Galan (incarico mantenuto anche con l’attuale governatore Luca Zaia, che però non risulta indagato), è accusato di aver incassato dalle grandi aziende del Mose:

  • uno stipendio in nero di 200 mila euro all’anno (con punte di 250 mila), versatogli a partire dalla fine degli anni Novanta fino al primi mesi del 2013;
  • il 5 per cento della società Adria Infrastrutture, formalmente intestato all’ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, che in realtà gli faceva da prestanome; quota rivenduta da Chisso nel 2011 alla Mantovani spa per due milioni di euro;
  • il 10 per cento della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestata alla stessa prestanome;
  • 250 mila euro in contanti, consegnatigli dal manager Piergiorgio Baita della Mantovani nella primavera 2012 all’hotel Laguna Palace di Venezia;
  • altre centinaia di migliaia di euro all’anno (il totale non è ancora quantificato) in contanti;
  • consulenze e assunzioni di comodo per amici e prestanome;
  • appalti di favore a imprese amiche per i lavori stradali delle “Vie del mare” (superstrada Jesolo-Cavallino).

GIORGIO ORSONI, sindaco del Pd di Venezia, è ai domiciliari per finanziamenti politici illeciti, con l’accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose queste somme:

  • 110 mila euro, materialmente incassati dal suo tesoriere-mandatario, per la campagna elettorale del 2010, come candidato sindaco del centro-sinistra a Venezia;
  • altri 450 mila euro, sempre nei primi mesi del 2010, di cui almeno 50 mila versatigli personalmente dai manager Mazzacurati e Sutto del Consorzio Venezia Nuova.

GIAMPIETRO MARCHESE, consigliere regionale veneto del Pd, ora in carcere, è accusato di aver intascato dalla cordata di imprese private del Mose:

  • 58 mila euro per le elezioni regionali del 2010
  • 15 mila euro al trimestre, a partire dall’autunno 2009 fino all’inizio del 2013, per un totale compreso tra 400 e 500 mila euro;
  • un contratto di lavoro fittizio da 35 mila euro.

AMALIA detta LIA SARTORI, europarlamentare di Forza Italia, non rieletta nel 2014, è indagata con l’accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose due finanziamenti illeciti:

  • almeno 25 mila euro per la campagna elettorale alle europee del 2009;
  • altri 200 mila euro dal 2006 al 2012, di cui 50 mila intascati personalmente il 6 maggio 2010 in un incontro con il manager Mazzacurati.

MARCO MILANESE, braccio destro dell’ex ministro Tremonti ed ex parlamentare di Forza Italia, è solo indagato (ha evitato l’arresto collaborando con i magistrati) come destinatario di una tangente pagata dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, in particolare per aver intascato personalmente mezzo milione di euro, tra aprile e giugno 2010, per spingere il ministero dell’Economia ad autorizzare una nuova ondata di finanziamenti pubblici a favore del Mose.

EMILIO SPAZIANTE, ex numero due della Guardia di Finanza, in pensione dall’autunno scorso, è in carcere con l’accusa di aver intascato buste di denaro contante per spiare le indagini veneziane approfittando del suo grado, e in particolare per aver ricevuto dai massimi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova:

  • mezzo milione di euro, in più rate, recapitategli tra giugno 2010 e febbraio 2011 a Roma e a Venezia;
  • la promessa di altri due milioni di euro, concordati con l’onorevole Milanese e il finanziere veneto Roberto Meneguzzo (Gruppo Palladio), soldi poi non versati proprio a causa della scoperta che erano in corso le indagini, in teoria ancora segrete.

Tra gli arrestati per corruzione compaiono anche un magistrato della Corte dei Conti, accusato di aver intascato almeno un milione di euro tra il 2000 e il 2008, e due alti funzionari del ministero delle Infrastrutture, che avrebbero incassato uno stipendio in nero di 400 mila euro all’anno, quantomeno dal 2007 al 2012, per addomesticare i controlli e non denunciare i problemi tecnici del sistema Mose.

UN’ALTRA DITTA INTEREDETTA PER MAFIA BECCATA NEL CANTIERE DEL TAV

http://www.notav.info/post/unaltra-ditta-interedetta-per-mafia-beccata-nel-cantiere-del-tav/?fbclid=IwAR3Vi9IpGshE7ubsSuI7ZihMeZLDJPSqcg6emrlMjxCEyol4nfEAVArfJ1w

notav.info

post — 16 Novembre 2019 at 10:42

Mercoledì scorso un’ennesima ditta è stata estromessa dal cantiere del TAV per domanda dell’anti-mafia. Si tratta del terzo caso, dopo quello delle ‘ndrine coinvolte nell’inchiesta San Michele che avevano realizzato alcuni lavori per il cantiere geognostico.

TELT parla pudicamente in un comunicato di un’impresa impegnata in « lavori marginali » e di « tentativi di infiltrazione » come se la presenza della mafia fosse una preoccupazione futura di strani montanari e non una concretissima realtà già acclarata da una sentenza ormai arrivata in cassazione. In effetti anche in questo caso, quando è stata beccata, la ditta operava già dentro il cantiere e le commesse se l’è già belle che intascate confermandoci ancora una volta un fatto incontrovertibile: IL TAV È GIÀ ANDATO a finanziare organizzazioni mafiose ancor prima di cominciare. Mica male, se pensiamo sono stati svolti solo lavori propedeutici per meno del 5% dell’opera. Se si continua con questo ritmo le imprese in odor di mafia che beneficeranno della cuccagna saranno decine.

Ancor più grave, di questa ditta non sapremo mai il nome. TELT, con un atteggiamento che a questo punto non possiamo che definire omertoso, si rifiuta di rispondere alla stampa in merito. La trasparenza evidentemente vale solo per i grafichetti trafficati da mettere sui fogli patinati dei dossier stampa ma quando si arriva alle questioni che davvero interessano il pubblico… muti.

Se aggiungiamo che casi del genere sono probabilmente solo la punta dell’iceberg e vengono fuori soltanto grazie alla normativa anti-mafia binazionale approvata su pressione dei notav, c’è veramente poco da stare sereni. Ma d’altronde questo in Val di Susa l’avevamo capito da tempo come testimonia una famosa scritta sul Musiné. Ancora una volta la storia ci sta dando ragione.

Venezia muore annegata, ma non per il maltempo

https://volerelaluna.it/commenti/2019/11/14/venezia-muore-annegata-ma-non-per-il-maltempo/?fbclid=IwAR0RVIeopXWNduoAP4ohttchPinr_gR7xZNloIulYiYbYMtbFyi_O6kauqo

14-11-2019 – di: 

«Questo pomeriggio sarò a Venezia, duramente colpita dal maltempo. Voglio vedere da vicino i danni e rendermi conto della situazione». Il tweet diffuso ieri del presidente del Consiglio Giuseppe Conte accende una flebile fiamma di speranza: se Conte davvero vorrà rendersi conto della situazione, comprenderà presto che Venezia non è stata affatto colpita dal maltempo. È stata colpita da una strategia di sfruttamento e abbandono gravemente colposa, a tratti flagrantemente dolosa. I nemici di Venezia, i suoi aguzzini, non sono i venti, le nubi e l’acqua piovana: sono una classe politica e una classe dirigente marcia fin nel midollo, in Laguna e a Roma. Il “maltempo” di cui parliamo è un tempo cattivo che dura da decenni: cattivo per la corruzione e la rapacità, cattivo per l’ignoranza, cattivo per la miopia e la pochezza di chi avrebbe dovuto decidere nell’interesse del bene comune, e invece ha pensato solo al ritorno immediato di pochi.

Con la fine della Repubblica di Venezia (1797) entrò in crisi il raffinatissimo meccanismo che per un millennio aveva conservato qualcosa che in natura ha vita limitata: una laguna lasciata a se stessa o diventa mare, o si interra. Si può ben dire che la sopravvivenza della Laguna è «la storia di un successo nel governo dell’ambiente, che ha le sue fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo severo e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città» (Piero Bevilacqua).

Finita questa storia, l’estesa privatizzazione di parti della Laguna, la creazione di valli da pesca chiuse, la bonifica per ottenere terre asciutte per l’industria hanno ridotto in notevole misura lo spazio in cui le alte maree potevano disperdersi. Contemporaneamente, sono state scavate e ampliate oltre ogni misura le bocche di porto che mettono in comunicazione mare e Laguna: alla fine dell’Ottocento la Bocca di Malamocco era profonda 10 metri, oggi contiene buche che raggiungono quota meno 57, il punto più profondo dell’Adriatico! Non è dunque difficile immaginare da dove entri l’acqua. La ragione: rendere la Laguna accessibile alle navi industriali e alle Grandi Navi da crociera. Uno sviluppismo dissennato, che fa oggi di Venezia la terza città portuale più inquinata d’Europa: per lo smog delle navi e per i fanghi che stanno sul fondo dei canali e che rendono micidiali le acque che ora consumano i marmi di San Marco.

La situazione di cui il presidente Conte dovrebbe rendersi conto è questa: e – proprio come nel caso dell’Ilva – è su questo piano strategico, e non solo sull’impossibile gestione dell’emergenza, che il suo governo dovrebbe agire. Come ha scritto Edoardo Salzano, a cui è stata risparmiata la vista di questa Venezia in ginocchio, si dovrebbe iniziare «con lo smantellamento della chimera ottocentesca del Mose, per ripristinare invece l’equilibrio ecologico e morfologico della Laguna, con l’adempiere finalmente al mandato legislativo (1973!) di escludere i traffici pesanti e pericolosi e impedire l’ingresso ai bastimenti più alti dei più alti edifici veneziani, col cancellare i progetti di tunnel sottomarini».

In queste ore pressoché tutti (con la lodevole eccezione di Massimo Cacciari, sul cui operato da sindaco nutro un giudizio pessimo, ma che da sempre ha avversato il Mose) invocano il Mose: per chiederne o per prometterne la conclusione. Bisogna, proprio queste ore drammatiche, essere molto chiari: il Mose non funzionerà. Perché la subsidenza di Venezia e l’innalzamento dei mari lo rendono inservibile ancor prima di provare a funzionare. E perché l’altezza del mare si accompagna a una virulenza fin qui ignota: la Laguna non è più una difesa per Venezia. E dunque: non converrebbe rassegnarsi al fallimento del Mose e dedicare subito le centinaia di milioni che servono ancora a completarlo, al riequilibrio della Laguna? Non sarà il caso di chiedersi cosa sarebbe successo se i miliardi spesi per il Mose (le stime ondeggiano tra 5,5 e 7 miliardi di euro) fossero stati spesi in manutenzione? Non avremmo già salvata Venezia, almeno dalle acque?

E poi una cosa Conte può fare subito: mettere fuori le Grandi Navi non solo dal Bacino di San Marco (come si limita a promettere il furbo ministro Franceschini), ma dalla Laguna. Perché è la Laguna come ecosistema che va salvata, non solo l’immagine da cartolina. E quel che non solo Conte, ma tutti noi dovremmo capire è che Venezia è un terribile acceleratore. Ci mostra cosa succede a una città d’arte che viva solo di un turismo predatorio che cresce fino a espellere i residenti, a cancellare un’identità civile. Ci mostra cosa succede a un patrimonio culturale tutto orientato alla follia delle grandi mostre invece che alla cura del tessuto urbano, in un tripudio di tagli di nastri e inaugurazioni che tolgono soldi e consenso all’umile necessità quotidiana della manutenzione. Ci mostra con anni di anticipo quel che succederà in mezzo mondo se non fermiamo l’innalzamento delle acque provocato dal cambiamento climatico dovuto al dogma della crescita infinita.  

Venezia che muore annegata è uno schiaffo in faccia a noi tutti, è un modo terribile di ricordarci che si può, si deve, smettere di sfruttare e consumare il suo fragilissimo ecosistema: «Moltissime specie hanno trovato il modo di vivere in armonia con la natura, senza che per farlo abbiano bisogno di suicidarsi. Lo fanno prendendo meno di quanto il pianeta è in grado di produrre e salvaguardando gli ecosistemi. Lo fanno vivendo come se avessimo solo una Terra, e non quattro». Se, in questa frase dello scrittore Jonathan Safran Foer, sostituiamo alla parola “pianeta” o “Terra” la parola “Venezia”, riusciremo a capire perché non è colpa del maltempo: e come possiamo ancora, nonostante tutto, salvare Venezia.