Le Grandi opere, il TAV e Salbertrand, il paese di mezzo

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11/11/2019 –  –

Per arrivare a Salbertrand, dove è in progetto la costruzione, su un’area di oltre 12 ettari di proprietà comunale, di un “impianto funzionale” per assemblare gli “spicchi” di cemento che serviranno a foderare il tunnel di base della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione (https://video.lastampa.it/torino/il-deposito-di-rifiuti-d-amianto-che-blocca-l-apertura-del-cantiere-tav-torino-lione/105606/1056209), ci si deve arrampicare su quattro ripidi tornanti della statale 24 del Monginevro, due in salita e due in discesa: sono lì – provvisori – dal 1957 (anno della la grande alluvione)… Serre la Voute, è il punto più stretto della Valle di Susa; il versante nord (quello dei tornanti) è una paleofrana, che però non ha spaventato i progettisti dell’autostrada del Frejus che vi hanno scavato due gallerie senza seguire i consigli di chi studiava la geologia della valle fin dall’800 e che non a caso indicarono – oltre un secolo prima – il pur altrettanto ripido versante sud per realizzare la omonima ferrovia (allora a binario unico): altra lunga teoria di gallerie e arditi ponti in muratura fondati sui coni alluvionali che i torrenti scoscesi disegnano tra gli abeti e i pini del “Gran Bosco”.

Laggiù in fondo la Dora Riparia si allarga in una vasca di espansione saccheggiata da cave di ghiaia e dai relativi impianti di betonaggio, occupata dal lungo viadotto autostradale che prosegue le gallerie fino ad allargarsi, prima su due ampie aree di servizio, poi sul vasto piazzale realizzato per l’esazione di un pedaggio assai salato.

Il conto è ancora una volta a carico dei pochi abitanti e dell’esiguo territorio pianeggiante di un paese da cartolina, raccolto attorno alla sua chiesetta e sparso (per quanto possibile) su una cengia lunga e stretta che ospita il municipio, la scuola primaria, le vecchie case col tetto in lose e qualche brutto condominio ispirato a quelli della vallata olimpica di cui “Salabertano” (come nel ventennio ne avevano italianizzato grossolanamente l’elegante denominazione occitana) è la misconosciuta porta est. Nel residuo spazio pianeggiante ha trovato posto anche la sede del Parco, oggi riunificato in quello regionale delle Alpi Cozie, e il suo sorprendente eco-museo, ma anche alcuni milioni di metri cubi di rifiuti, mimetizzati tra ogni sorta di “inerti”, alcuni coperti da smisurati teli di plastica bianco-sporco e da decenni oggetto di sequestri e dissequestri da parte della magistratura.

TORO: «Eh ormai noi siamo diventati i mafiosi.., di… della zona.., no!?!… adesso gli portiamo via la fornitura a VALLE… Poi a ***gli portiamo via il frantoio…». […] I due indagati, alla luce degli evidenti vantaggi economici che potevano ottenere dalla locazione in corso in caso di svolgimento sul luogo di attività redditizia, hanno completamente mutato atteggiamento nei confronti di TORO, rendendosi compartecipi dello svolgimento dell’attività di illecito trattamento dei rifiuti: pacifico è invero, da un lato, che essi sapevano benissimo quale attività veniva svolta sul sito e, dall’altro, che essi si sono personalmente adoperati per ridurre i controlli da parte delle autorità pubbliche e consentire a TORO di proseguire nell’attività predetta.

 È un brevissimo estratto di oltre 650 pagine di una ordinanza del Tribunale di Torino di rinvio a giudizio di impresari edili-stradali che hanno molto a che fare con la Valle di Susa: l’inchiesta San Michele, un nome che riconduce alla Sacra, alla Polizia di Stato, ma anche alla ‘ndrangheta di cui l’Arcangelo con la spada è (suo malgrado) “santo protettore”. O, in modo più pertinente, alle cave che per decenni, nella più assoluta e colpevole indifferenza, hanno minato il monte Pirchiriano su cui sorge l’ultramillenario monumento-simbolo del Piemonte, e che sono usate oggi per depositarvi e riciclare materiali inquinanti troppo cari da smaltire correttamente. Sant’Ambrogio e Chiusa San Michele, il teatro di misfatti certificati dalle inequivocabili conversazioni intercettate degli “attori” di questa piccola terra dei fuochi del profondo nordovest. Ma forse anche Salbertrand, il suo esiguo fondovalle occupato e devastato da tutto un po’: da centinaia di migliaia di metri cubi di smarino provenienti dallo scavo di gallerie dell’ecologico raddoppio della ferrovia negli anni ’80, dalla realizzazione dell’autostrada, qualche anno dopo, dalla realizzazione (da cosa nasce cosa) di depositi di inerti che si sono rivelati non essere tali se è vero – come è vero – che quello in atto è l’ennesimo sequestro dell’area per il sospetto che sotto le colline artificiali, pudicamente coperte dai teli plastici, è stato rinvenuto amianto nei primi metri sondati, e nulla si sa ancora su cosa e quanto altro possa esservi sotto!

I terreni sono in parte del Comune (che affittandoli per anni ha potuto tenere “in nero” il precario bilancio) e in parte di uno dei tanti marchi di un gruppo finanziario e di impresa che aveva messo mano alla realizzazione del raddoppio ferroviario, ma soprattutto a quella dell’autostrada del Frejus, il Gruppo Gavio, secondo gestore privato dopo i Benetton della rete autostradale italiana (costruita, giova ricordare, interamente con soldi pubblici). Non sarebbe male occuparsene, visti gli intriganti intrecci tra ferro (TAV) e gomma (SITAF) che coinvolgono la valle, a cominciare dal fatto che l’attuale DG di TELT (Virano) è stato per anni AD di SITAF proprio su nomina del gruppo di Tortona.

Ma qui e ora la lente di ingrandimento va posata su un dettaglio, anzi su una “figura” che di quel dettaglio si è occupato ad alto livello, ma che risulta suo malgrado coinvolto nelle torbide faccende di competenza giudiziaria: il riferimento è a ITINERA, nome evocativo con cui è stata battezzata una delle imprese di costruzioni stradali (ma non solo) più importanti del Gruppo Gavio. Mentre la “figura” si chiama Manlio Moggia che di ITINERA è stato legale rappresentante per un tempo non trascurabile, in particolare nel periodo in cui “i nuovi mafiosi di zona” (come si autodefiniscono loro stessi) erano alle prese con appalti turbati e smaltimenti illegali! E mentre irrompeva sulla scena un nuovo e importantissimo attore protagonista impegnato nel TAV: TELT che, terminata la realizzazione del cunicolo di Chiomonte (ormai cerniera geografica e strategica tra alta e bassa valle), realizzato il collegamento geognostico (ma in asse tunnel ferroviario) tra le due discenderie in terra di Francia tra La Praz e Saint Martin La Porte ha fretta (è in abissale ritardo) di allargare il cantiere di Val Clarea; e soprattutto di impadronirsi di cosa rimane del piccolo ma strategico fondovalle di Salbertrand per realizzarvi la fabbrica dei conci di galleria da destinare al tratto italiano del Tunnel Euroalpin (quel che resta ‒ 57 Km in devastante ritardo ‒ dei farneticati 260 ad Alta Velocità che separano Torino da Lyon).

Ma che c’entra Moggia, l’ex dirigente di ITINERA? Probabilmente niente dato che dal Gruppo è stato nel frattempo liquidato. Sarà stato qualche suo successore (o ex subalterno) ad avere l’idea geniale di consegnare l’area a TELT senza pagare gli esorbitanti costi di bonifica che l’asportazione, il trattamento e il trasporto in discariche idonee di tutto il materiale accumulato da decenni comporterebbe: ci facciamo un Eliporto! Era già tutto concordato con l’eterno sindaco uscente (ma che mai si pensava potesse “uscire”): la motivazione socialmente utile e “irrinunciabile” a cominciare dall’offerta di un punto di atterraggio per il soccorso di vittime di incidenti stradali, ferroviari, domestici, come se le due aree di servizio e il vastissimo piazzale di esazione (illuminati a giorno) non potessero offrire lo stesso supporto a costo zero (o di un ordine di grandezza di molto inferiore). Ma così sarebbero state tombate sotto un sarcofago di calcestruzzo tutte le schifezze note (e soprattutto ignote) e magari i veleni che giacciono sotto il sudario dei teli plastici.

Già, ma come si fa a dire veleni? Intanto c’è la certificazione del materiale amiantifero e i sequestri (con intimazione di bonifica inosservata). E poi (a parlare è sempre la citata ordinanza del Tribunale di Torino):

Conversazione registrata il 28 maggio 2012. Nell’occasione, *** chiedeva a TORO, […], di dissuadere Moggia Manlio della ITINERA dal presentare offerte per l’appalto per lo sgombero neve bandito da ANAS per le strade statali […]. Si leggano, a tale proposito, le significative affermazioni di TORO: «ho dovuto minacciarlo non hai visto che ho dovuto andare lì col muso duro e farlo spaventare se no non riuscivo ad ottenere niente, e tu invece volevi, con le buone volevi risolvere i problemi, con quella gente lì non risolvi con le buone!». Le minacce, nello specifico erano consistite nel promettere l’invio di materiale compromettente raccolto sul conto ai suoi titolari Gavio, qualora non avesse accondisceso alle sue richieste […]. «Io c’ho dei documenti in mano sulla scrivania che se arrivano a Tortona… muore… muore lui la moglie tutti i suoi scagnozzi (…) a vedere le fotocopie gli viene gli viene il pelo tutto arricciato, visto che è pelato».

Non c’è bisogno di essere un investigatore o un magistrato inquirente per sospettare che il responsabile di un sito di discarica permanente assai poco visibile e per niente vigilata – se ricattabile – possa aver chiuso un occhio. E comunque se non è così (o non è dimostrabile che sia così) perché si è tardato tanto a intervenire in modo efficace?

Quando – poco meno di 30 anni fa – fondammo il “Comitato Habitat per la difesa della residua vivibilità della Val di Susa” ponevamo queste distonie al centro dell’attenzione. Eravamo uno sparuto gruppo di ambientalisti appena sconfitti dalla nomenklatura politico-speculativa che aveva imposto la realizzazione dell’autostrada Torino-Bardonecchia dopo aver perforato (a fianco della “storica” galleria ferroviaria) il tunnel autostradale del Frejus.

I TIR, nella bassa valle, tiravano giù i balconi dei paesi attraversati in pieno centro storico e i vecchi motori diesel rilasciavano polveri (niente affatto sottili, ma di spessa fuliggine) che si mescolavano con quelle delle allora numerose acciaierie di fusione di rottami provocando esasperazione (e giustificata paura di incidenti sempre più gravi) tra i cittadini. Affrontammo ugualmente una lotta evidentemente impopolare denunciando il rischio che la nostra valle divenisse «un corridoio plurimodale di transito» come lo battezzarono all’epoca i consulenti di SITAF assoldati per un progetto di “ottimizzazione ambientale”: la direttiva VIA della Unione Europea non era ancora stata adottata dall’Italia e di “compensazioni” c’era, se non altro, pudore a parlarne…

Di lì a poco sarebbe iniziata la campagna promozionale del TAV: gli stessi promotori dell’Autostrada (negazionisti ai tempi di Habitat) ci sarebbero venuti a dire che i camion erano inquinanti e il treno – ecologico per definizione – avrebbe salvato i nostri polmoni. Peccato che, sin dai primi studi, si ammettesse che non i treni, ma la costruzione della nuova ferrovia avrebbe aumentato l’incidenza delle malattie cardiovascolari del 15% (Fonte Alpetunnel, “nonno” di LTF a sua volta “madre” di TELT).

Pochi anni prima in Alta valle (quella che diventerà la valle olimpica) i torinesi si erano finalmente integrati coi calabresi (poco dopo aver tolto dai palazzi di città i cartelli “non si affitta ai meridionali”): il cemento unificante era stata la speculazione edilizia: si era messo mano ai primi piani regolatori: i pascoli erano diventati aree edificabili e i pendii, tagliate le piante, piste da sci. Pro Natura (con Mario Cavargna) denunciava coraggiosamente lo stato delle cose mentre quelli che sarebbero stati individuati come i mandanti organizzavano l’assassinio del capo della Procura Torinese Bruno Caccia. Chi sa se i ragazzini delle medie del quartiere Cit Turin che passano davanti al tribunale sanno chi fosse. E chi sa quanti neo-avvocati o giovanissimi magistrati sanno che l’impresa capofila che vinse l’appalto per la costruzione del Palazzo di Giustizia era finita sotto inchiesta in Sicilia per aver concordato gli appalti pubblici con il geometra Siino, meglio noto come il “ministro dei lavori pubblici di Totò Riina” (vedi, per tutti, La Repubblica, 25 giugno 1993)…

Intanto a Salbetrand si è votato e il sindaco uscente questa volta è uscito. Non dalle urne, ma dalla sala Giunta. E Roberto Pourpour, il nuovo primo cittadino, è “un uomo tranquillo”; non uno scatenato No TAV, non un antagonista. Si è candidato ed è stato votato contro il suo eterno predecessore perché ama il paese dove è nato. Proprio nei pressi dell’area contaminata ci sono le baite dei suoi nonni, attorno a cui vorrebbe tornare a fare agricoltura di qualità, ai piedi di un grande bosco dove anche fotografandoli d’inverno (o in bianco e nero!) gli abeti bianchi e i pini cembri riflettono mille tonalità di verde; con gli ungolati e i lupi (se si vuole) si può convivere e, se fanno danni, sono incomparabilmente meno devastanti delle discariche di veleni.

Il pericolo è che anche su Salbertrand, sul suo territorio offeso, prevalgano, con l’avvio del TAV gli interessi superiori (nonostante il nuovo sindaco e i suoi cittadini che quella “fabbrica” farà ammalare): quasi un milione di viaggi di camion previsti dagli stessi proponenti il TAV in aggiunta alle polveri dei frantoi e alle emissioni dei forni); per non dire della collocazione autorizzata in alveo fiume che potrebbe far allagare mezza valle. Sono quegli interessi che (sotto forma bancaria) hanno creato il mostruoso debito pubblico del nostro paese, che per “salvare” Venezia hanno autorizzato il Mose (che nemmeno La Stampa”, il cui editore ha avuto un ruolo chiave in progettazione e direzione lavori, difende più, mentre difende ancora la realizzazione del TAV!). Quel che risulta inaccettabile è l’attenzione vendicativa dedicata ai delitti di chi non vuole considerare “interessi superiori” le Grandi Opere imposte dai poteri forti “nell’interesse pubblico”, spesso accompagnate, nella loro realizzazione, da turbative d’asta, subappalti truccati, materiali scadenti pagati per buoni, tangenti alla politica etc. ma in favore delle quali sono schierate, con evidente sproporzione, battaglioni di forze dell’ordine, uffici giudiziari e una massiccia e costosa fabbrica del consenso (cfrhttps://volerelaluna.it/talpe/2019/05/07/linformazione-alla-prova-del-tav/).

Anche per questo è importante che il piccolo paese di Salbetrand ‒ né alta né bassa Valle di Susa, paese di mezzo ‒ vinca la sua piccola-grande battaglia. Paradossalmente, ma non troppo, a fare il tifo per i suoi cittadini e i suoi nuovi coraggiosi amministratori dovrebbero essere soprattutto quelli che il TAV dicono di volerlo, senza sapere né cosa è, né quanto costa, e sopratutto quali sarebbero (anche per loro) i costi nascosti.

IRAQ, FORSE KURDISTAN, FORSE ISIS, FORSE NO. —– RIUSCIRANNO I NOSTRI EROI A SPIEGARCI COSA FANNO LI’? E PERCHE’?

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MONDOCANE

Iraq, forse Kurdistan, forse Isis, forse no.
RIUSCIRANNO I NOSTRI EROI A SPIEGARCI COSA FANNO LI’? E PERCHE’?
 
Chi ne ha mai sentito parlare? Quando mai la questione è stata affrontata in parlamento. Quali giornali o telegiornali ne hanno dato conto al loro pubblico? Chi ne ha deciso l’invio in Iraq, nel Kurdistan iracheno, per addestrare miliziani Peshmerga? Incredibile. Ogni volta che si ha a che fare con il militare vengono fuori comportamenti opachi, coperti da segreto del tutto indebito e strumentale. In particolare riguardo cosa succede nelle nostre missioni all’estero, quali sono i veri compiti di quelle dette grottescamente “di pace”, seppure, guardacaso, sempre nel quadro di qualche aggressione o ingerenza di nostri alleati e sottratte alle decisione sovrana del popolo di partenza, come di quello di destinazione.
 
Al cittadino era stato comunicato tempo fa solo l’invio di un centinaio di soldati a protezione contro l’Isis della diga di Mosul. Violando la sovranità dell’Iraq, il diritto internazionale e la trasparenza democratica, il governo ha spedito forze speciali da combattimento a sostegno di una milizia regionale separatista, perfino dopo il fallimento del referendum per l’indipendenza, per cui se sostegno doveva esserci, non doveva che essere da nazione sovrana a nazione sovrana, mica a bande di guerriglieri.
Ci sono contraddizioni e versioni diverse nei riferimenti alle dichiarazioni delle autorità militari e politiche che le cronache della stampa fanno all’interno della solita glorificazione del nostro ruolo militare nel mondo, “che ci dà credibilità e rispettabilità all’estero” (sì, specialmente tra coloro cui “andiamo a dare una mano” e che ne subiscono gli effetti).
 
Un po’ sembra che stessimo accompagnando unità di Bagdad nel rastrellamento di cellule Isis. Un po’ eravamo lì solo per addestrare le milizie feudali dei capiclan Barzani e Talabani, dette Peshmerga, cui si farebbe risalire il trionfo sull’Isis, come in Siria ai curdi dell’YPG, mentre coloro che hanno lottato, sanguinato, sono morti e hanno  sconfitto, sia la congiura imperialista, sia i suoi mercenari, in Iraq e Siria, sono stati al 90% gli eserciti lealisti e le milizie popolari (il resto l’hanno fatto le bombe Usa-Nato, mirate essenzialmente a distruggere la gente e le infrastrutture dei due paesi arabi). Senza addestramento o compagnia del Col. Moschin, o di altre teste di cuoio italiane.
 

Barzani con Netaniahu, Talabani con Hillary Clinton

Oltre tutto il Kurdistan iracheno è retto da una banda di  feudatari e narcotrafficanti facenti capo a vecchi fiduciari della Cia e del Mossad, Masud Barzani, il cui clan si chiama Partito Democratico del Kurdistan, e Jalal Talabani, padrone dell’Unione Patriottica del Kurdistan, morto due anni fa. La regione è una colonia di Israele, suo massimo proprietario immobiliare e terriero, suo cliente petrolifero, suo bancomat. A chi il governo italiano ha fatto illegalmente un favore anti-iracheno? È ovvio, visto che, con perfetto sincronismo, si affianca alla rivolta da mesi in atto in Iraq, e di cui la massima autorità irachena, religiosa, ma anche autorità in assoluto, l’ayatollah Al Sistani, ha attribuito l’innesco e la gestione nell’ombra ai soliti esperti di regime change statunitensi e sauditi. Si tratta di punire un Iraq che, negli anni, si è troppo avvicinato al moloch Iran e, sulle basi oggettive delle sue vittorie sulla congiura jihadista-imperialista-sionista, ha riacquistato autostima e una volontà di autodeterminazione. Tanto più che andava insistendo sul ritiro delle forze Usa dal paese.
 
Andava ricondotto alle condizioni in cui l’aveva lasciato il vicerè americano, Paul Bremer, all’indomani dell’occupazione del 2003. L’occasione l’aveva fornita il diffuso malcontento popolare per le gravose condizioni di vita, le carenze di tutti i servizi, la mancanza di lavoro, l’insicurezza, tutti attribuiti a una dirigenza incapace e corrotta, ma in massima parte lascito della devastazione totale di un paese che, nelle intenzioni di Israele e dell’Occidente, spaccato in tre cantoni etnico-confessionali, non avrebbe mai più dovuto risorgere come nazione. Né tantomeno rivendicare i proventi del suo petrolio (tutto sotto controllo delle multinazionali angloamericane) per un minimo di ricostruzione.
 
Ora, arriva il bel risultato di cinque soldati italiani sacrificati e della cui vita rovinata ci dispiace sinceramente. Ragazzi, almeno quelli non motivati da fremiti guerreschi, probabilmente hanno scelto quella professione – che non richiede, né mai richiederà, la difesa di una patria che nessuno aggredisce, né da vicino, né da lontano, se non i suoi stessi alleati – per le condizioni che il “mercato” del lavoro offre ai giovani italiani disoccupati al 35% almeno. Con questi giovani messi fuori combattimento, feriti, e mutilati a vita, abbiamo fatto un figurone internazionale (secondo Repubblica e tutti gli altri) e saremmo vigliacchi, indegni di ogni considerazione internazionale (da parte di chi???), se ora ripiegassimo e permettessimo che si rivedesse il nostro impegno all’estero. Di pace.
 
E torna l’Isis, alla grande, e ha rivendicato la paternità dell’ordigno che ha fatto saltare in aria i nostri connazionali. E’ tornato come già in Siria, di colpo, quando Trump annunciò la ritirata, poi rimangiata. E allora come non chiedersi se non sia dovere delle democrazie intensificare il proprio impegno a contrasto del terrore?  Ma siccome in Siria e in Iraq, ma anche a Washington e Tel Aviv, tutti sanno chi è che alleva e sparge Isis e Al Qaida là dove occorre qualche cambio di assetto, chi è che ha davvero colpito i soldati italiani?
  
La Repubblica, nella sua fregola bellicista, elenca con orgoglio le 23 missioni militari italiane nell’universo mondo. Ovunque a difendere il paese e libertà e democrazia. E ne fornisce la mappa. Chissà, alla luce della trasparenza e della prolificità di informazioni fornite al parlamento dalle gerarchie, quanti italiani, dopo quelli in Afghanistan, Somalia, Iraq, dovranno immolarsi per la pax amerikana e accrescere il credito di cui godiamo all’estero. Magari dopo aver compiuto qualche risolutiva operazione da forze speciali nel paese ospitante.
 
Non avevano, i Cinquestelle, rumoreggiato vigorosamente contro il rinnovo della spedizione in Afghanistan e contro le missioni militari tutte? Ora che sono alleati con la sinistra pacifista, progressista e anti-odio, non sarebbe il caso di ricordarsene? Nel frattempo, noi aspettiamo impazientemente di sapere dai nostri generali cosa diavolo ci fanno i nostri commandos in Niger, o in Mali. o in Lettonia. Alt, lì lo sappiamo: impediscono all’orso russo di sbranare l’Italia con tutto l’Occidente. Hai visto mai che un domani, magari su suggerimento di Manlio Di Stefano, vanno a difendere pace e libertà contro il golpe Usa in Bolivia….
 
 

Torino, la pasionaria No Tav a 73 anni accetta il carcere: “Voglio andarci, sono fiera della mia battaglia”

https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/11/11/news/torino_la_pasionaria_no_tav_a_73_anni_accetta_il_carcere_voglio_andarci_sono_fiera_della_mia_battaglia_-240841051/?fbclid=IwAR0apkoYczfr05hr-E4sHGb8fjpABZDDrOgKpGgLEXjNyVFiKk1v0MPA2Vc

Torino, la pasionaria No Tav a 73 anni accetta il carcere: "Voglio andarci, sono fiera della mia battaglia"
Nicoletta Dosio durante la conferenza stampa davanti al tribunale di Torino 

Nicoletta Dosio avrebbe potuto chiedere misure alternative, ma non lo ha fatto: “Più forte del timore per la cella è la rabbia per l’ingiustizia”

di FEDERICA CRAVERO

 

11 novembre 2019

 
Avevano improvvisato una manifestazione in autostrada aprendo i caselli per fare in modo che gli automobilisti non pagassero il pedaggio della Torino-Bardonecchia, all’inno di “Oggi paga Monti”, causando un danno di 770 euro alla società autostradale. Per quel fatto del 3 marzo 2012, in dodici erano stati condannati per violenza privata e interruzione di pubblico servizio a pene tra uno e due anni. Tra loro Nicoletta Dosio, “pasionaria” attivista del movimento No Tav. La sentenza è diventata esecutiva e lei, a 73 anni, ha scelto di non chiedere misure alternative al carcere. Dunque è questione di ore prima che dalla procura generale arrivi l’ordine di carcerazione e venga portata in cella. Una scelta che ha spiegato in una conferenza stampa davanti al Palazzo di giustizia di Torino. “Il carcere non è uno luogo di riscatto ma di pena però più forte del timore del carcere è la rabbia per l’ingiustizia. Questa è una resistenza, perché sappiamo di essere dalla parte della ragione. Io potrei chiedere misure alternative ma ammetterei la mia colpa, invece io non sono pentita di quello che ho fatto, sono fiera che sulla battaglia No Tav si è ricomposta”.

La pasionaria no Tav sceglie il carcere a 73 anni: “Avrò tempo per partecipare ad altri fronti di lotta”

Un caso giudiziario quello dei No Tav secondo il movimento contro la Torino-Lione. “Sei degli imputati erano incensurati e nonostante ciò per nessuno ci fu la sospensione condizionale della pena. Non ci fu né violenza né minaccia che sono gli elementi caratterizzanti del reato di violenza privata – precisano gli avvocati Valentina Colletta ed Emanuele D’Amico – È stata una sentenza decisamente pesante, emblematica del trattamento riservato al movimento tanto più che per un reato con una pena minima di 15 giorni erano state fatte richieste di condanna a tre e quattro anni”.
“C’è stata dentro il tribunale di Torino una corsia preferenziale per i nostri processi, una celerità nell’arrivare alle sentenze, che non si vede in molti altri procedimenti che giacciono negli uffici e che meriterebbero un’attenzione è una rapidità diversa”, è il commento di Lele Rizzo, uno dei leader del movimento.

40 ANNI DAL MURO, 40 ANNI DI ILVA—– GORBACIOV PER 100 MILIONI DICE SÌ ALLA NATO. PER QUANTO IL GOVERNO DICE SÌ ALL’ILVA?

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MONDOCANE

DOMENICA 10 NOVEMBRE 2019 

Qui si parla di muri e fumi che si abbattono sui viventi. Dei fumi (ILVA) ci occupiamo dopo in fondo, con un contributo, al solito problematico e illuminante, di Mario Monforte, al quale precedono alcune mie osservazioni. Partiamo dai muri, crollati.

Ondate d’odio

Scampati a malapena vivi, ma ancora abbastanza lucidi, in grado di distinguere tra verità e fake news, realtà e finzione, tra odio e lotta dei subalterni; scampati per un pelo alle ultime ondate di odio rovesciateci addosso da certe commissioni parlamentari, a certi sradicatori di popoli, certe ragazzine che incolpano dello sfascio del clima chiunque abbia più di trent’anni, certi euroboia, certi dirittoumanisti che non vedono l’ora di farci scannare con i russi e i cinesi e, soprattutto, scampati allo tsunami di odio per i comunisti, recentemente carburato dagli eunuchi nell’harem satrapesco dell’Europarlamento… Mi sono fatto prendere la mano. Riprendo.

Scampati vivi a questi e altri diluvi d’odio, come al solito scrosciati con particolare dovizia dal giornale New Age-Deep State del gruppo che, fin dal 1969, in odio ai russi si separò dalla casa madre (PCI), nell’anniversario di quando tutto questo iniziò, Berlino, novembre 1989, abbiamo celebrato, che dico, ricordato, anzi, deprecato, quella data e quell’evento a San Lorenzo di Roma. Locale angusto per contenere quella gran folla, ma allargato oltre ogni orizzonte da una donna sulla parete, con un’enorme bandiera rossa e ulteriormente nobilitato da Vladimiro Giacchè. Laureato in filosofia e prestigioso economista, alle miserabilia della vulgata reazionaria di destra e “sinistra” sulla “riunificazione” tedesca, ha risposto con una slavina di dati e analisi da sotterrare tutta intera la torma dei celebranti dell’uccisione della DDR, Deutsche Demokratische Republik, del suo mandante Usa, del suo sicario, Kohl, e del suo palo, Gorbaciov. I due libri che ci ha illustrato la dicono tutta: il suo “Anschluss-Annessione” (Ed. Diarkos) e “La Perestroika e la fine della DDR” (Ed. Mimesi) di Hans Modrow, dirigente SED (Partito dell’Unità Socialista) e ultimo premier della DDR.

Di Vladimiro Giacchè su euro, Grecia, migranti e affini, potete trovare una bellissima intervista nel mio docufilm “O la Troika o la vita”, mentre una sua prefazione, che vale tutto il libro, mi è stata regalata per il libro “Un Sessantotto lungo una vita”.

Colonizzati e spogliati dai fratelli

Se vi capita l’occasione di confrontarvi con coloro che blaterano di una “caduta del muro” che avrebbe fatto esultare gli insqualliditi cittadini della DDR, agonizzanti sotto il regime Stasi – un servizio di sicurezza che sta a quelli occidentali come i vigili urbani del mio borgo stanno ai Navy Seals e ai sistemi occidentali di controllo biopolitico – e inaugurato l’era dell’uguaglianza tra tedeschi e di pace e libertà nel mondo, prendete una balestra e sparategli questi dati.

Unificazione o  annessione?

Al tempo del crollo di un muro che era stato eretto per impedire che spie, provocatori, infiltrati stillassero veleni capitalisti e imperialisti nella Germania Orientale (tipo come succede oggi più che mai in 193 pasi del mondo), l’85% dei tedeschi dell’Est affermava la volontà di restare indipendente. Le riforme, non verso il modello di Bonn, ma per un socialismo democratico, di grandi figure come Hans Modrow e Christa Wolf, vantavano  il sostegno della maggioranza della popolazione. Non era difficile intravvedere cosa sarebbe successo nel fervore di destre e sinistre già allora unite: una Germania socialista in tutte le sue componenti sociali ed economiche, privata della sua visione e del suo ruolo geopolitici, depredata dei beni che, essendo dello Stato, erano dei cittadini. Così fu. E anche peggio.

Il muro cadde in testa non solo ai cittadini dell’Est, ma a mezzo mondo. L’era di pace si tramutò, con Bush, Clinton, l’altro Bush, Obama, in era di guerre e terrorismi, senza limiti di spazio e tempo, tutti della stessa matrice. Il potenziale industriale, una specie di mega-IRI, fu svenduto, saccheggiato, o spianato. I nostri Draghi, Andreatta, Prodi, Amato, Ciampi, impararono la lezione e procedettero in maniera analoga nel segno speculativo, stavolta, di George Soros, già allora messaggero degli dei di Wall Street. Ci ha pensato un ente unilateralmente gestito da Bonn, la Treuhand Anstalt, per fare la parte del rottweiler che spolpa l’osso, una roba a metà tra un mini-FMI e la camorra di Cutolo. Suo compito realizzato fu di passare ai grossi gruppi tedeschi quanto valeva e poteva far concorrenza e, il resto, a farabutti dello stampo dei nostri furbetti del quarterino, però all’ennesima potenza.

 I terreni su cui sorgevano le fabbriche erano dello Stato, ma furono ceduti ai manager degli stabilimenti che se li vendettero e al posto di una fabbrica di scarpe, con mille operai, sorse magari un centro commerciale, o un hotel di lusso, con quaranta addetti.  Disoccupazione di massa, emigrazione di massa. Cambio da marco a marco, dall’illusorio 1 a 1 dei primi giorni, a 1 a 350. Un popolo cui i pochi marchi ovest iniziali avevano bucato le tasche, lasciandole vuote per decenni.

L’Opera Magna di Gorbaciov

 Il mandante e il palo

Sei mesi dopo il muro, la produzione industriale era ridotta del 35%, dal 1989 al 1991 il PIL, ora misurato alla capitalista, si ridusse del 45%. Ottenuto dal cancelliere Kohl un prestito di 100 milioni all’URSS in sfacelo, Gorbaciov diede via libera all’ingresso della Germania unita nella Nato. Di conseguenza, non si sognò di chiedere ciò che la Germania doveva all’Unione Sovietica: 500 miliardi di riparazioni per i danni dell’invasione. Giacchè si chiede se fosse semplicemente scemo, o altro. Noi non abbiamo dubbi: tutto il seguito e la scomposta passione del “manifesto”, e di altri tentacoli e foruncoli dello Stato guerrafondaio USA, per il demolitore dell’URSS e del suo alleato dalla migliore riuscita, avvalorano “l’altro”.

Alexanderplatz prima e dopo

A Berlino, giorni prima

Poche settimane prima della fine del muro, attraversai la DDR con mio figlio Oliviero. Naturalmente ci fermammo in un albergo di Berlino Est, sull’Alexanderplatz, con in fondo le solenni statue di Marx ed Engels, addolcite dagli alberi che le ombreggiavano, da gente che ci si fotografava e bambini che vi si arrampicavano. Era quanto restava, dopo la guerra, della meravigliosa Berlino del barocco, del neoclassico, del guglielmino, in parte ricostruiti. Piena di caldi locali e localini, frequentati da poeti, musicisti, studenti, spumeggianti di discussioni. Niente boutique di stilisti, niente “wellness”, quella roba che sostituisce il sano vivere. Fighettume zero. La riunificazione travolse tutto questo, ci diede la modernità urbanistico-architettonica che vedete nel confronto delle immagini.

E’ lecito passare dall’antico al nuovo. Ma senza rompere, insultare. Qui siamo passati al kitsch e a una volgare pacchianeria da Disneyland, alla paccottiglia urbanistica che scimmiotta una Times Square, mille volte più vera, e insulta la storia di una città e della sua cittadinanza. Ne cancella l’anima. Al generale degrado, alla diseducazione urbanistica, al verticalismo da parvenu ha dato una mano anche Renzo Piano. C’è da stupirsi se, oggi, nella ex-DDR avanzano i movimenti politici che maggiormente ce l’hanno con questa Germania? Costruita sul più spietato colonialismo inflitto a una parte della propria popolazione. Quella fatta prima a pezzi dai bombardamenti di Churchill e Roosevelt, poi privata di un terzo dalla Polonia e infine ridotta in ginocchio dagli sprezzanti “fratelli” democratici all’ovest.

Potsdamer Platz, prima e dopo

Un crollo che ha liberato i cavalieri dell’Apocalisse

Ho parlato di dati, quelli inconfutabili fornitici e, in parte, rivelatici, da Vladimiro Giacchè. Ne aggiungo uno, neanche tanto mio, poiché semplicemente lapalissiano. Fatto cadere il muro, a forza di trucchi, bugie, promesse, illusioni, tradimenti, corruzione, quello che è caduto è anche un muro infinitamente più alto, lungo, robusto, che nel cuore e nella mente di gran parte dell’umanità, la difendeva dalla retrocessione a tempi, scintillanti per pochi, bui per molti, da cui il lavoro, l’intelligenza, il coraggio e poi il sangue di milioni di uomini e donne, l’avevano riscattata. E questo a prescindere dalla qualità che possa aver avuto, o non avuto, l’URSS di Stalin o Brezhnev.

Sopra le macerie di quel muro, e di quest’altro muro nostro, sono passati i quattro cavalieri dell’apocalisse, quelli dell’odio ontologico che danno dell’odiatore a chi resiste: capitalismo, colonialismo, imperialismo, scienza e tecnologia anti-vita, le armate della controrivoluzione. L’Europa, a tirannia euro-carolingia, fondata sul totalitarismo sorveglianza-punizione, punta a ricuperare i suoi fasti colonial-stragisti e, a forza di odii e discriminazioni per chi non si sottopone al pensiero unico politicamente corretto, consegna all’Africa depredata il Sudeuropa da svuotare di sé. Oggi costoro, danzando sulle rovine della parte migliore della Germania, festeggiano. Festeggiano anche molti berlinesi qualunque. Chissà se sanno cosa festeggiano.

 ILVA, quod non fecerunt Sacra Corona Unita…

Alcune mie osservazioni molto rozze sull’Ilva, qualche ricordo e poi estratti dall’analisi più approfondita di Monforte, anche più realistica – nella fase attuale – dell’idea mia che, però, ritengo irrinunciabile sul piano morale, sanitario, urbanistico, civile, e in vista di un futuro che le innovazioni buone ci prospettano diverso.

Vivi a Tamburi e poi muori

Nel documentario “L’Italia al tempo della peste” racconto Taranto al tempo dell’Ilva, gli incontri, le vittime, i combattenti, i criminali, gli indifferenti. Madri, padri, bambini, medici, militanti, Alessandro Marescotti, l’attivista e scienziato di Peacelink che, più di ogni altro, con passione e competenza, da decenni scrive, parla, documenta, denuncia, grida. Pochi lo ascoltano. Nessuno di coloro che hanno preso le decisioni. Semmai i giudici che ce l’hanno messa tutta a bloccare la strage, potere indipendente dello Stato, sabotato dall’altro potere. Marescotti mi ha accompagnato per Tamburi, il quartiere dove le strade sono frequentate solo da polvere nera, residui di metalli pesanti, ossidi. Dove a lottare contro le polveri di carbone ci sono solo i murales. Mi ha indicato i quattro o cinque pezzetti di prato, tossici, recintati perché i bambini non si azzardino a giocarci a pallone. Non si gioca per le strade di Tamburi. Si gioca poco per le strade di tutta la città, visto che all’Ilva si aggiungono cementifici, raffinerie, depositi di carburanti, le navi Usa.

Poi sono salito nelle case dove, lungo la tromba delle scale, panni appesi ad asciugare provavano a ridurre al minimo l’anneramento. Negli appartamenti le donne, tutte con qualche parente ammalato o morto di cancro e altre patologie da Ilva, mi facevano strisciare il dito lungo le pareti per ritirarlo nero. E non era neanche una di quelle giornate del vento da nord o nord-ovest, che il nero te lo spara fin nelle viscere, quando le scuole chiudono per far vivere un altro po’ i bambini. Donne che mi chiedevano, mortificate, di non riprenderle perché, hai visto mai, qualcuno in fabbrica potrebbe prendersela col marito a causa di qualche verità, qualche pianto. Poi, a faccia voltata, ululavano.

Basta!

Rientrando, con alcuni attivisti dell’organizzazione “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, quelli che da decenni chiedono la chiusura della “più grande acciaieria d’Europa” (così qualcuno, a petto in fuori, glorifica il killer), ho deciso che non la si può pensare che come loro. Il mostro va ucciso, punto. L’hanno tenuto in vita i complici, da Vendola a Renzi e a tutti i governi fino ad oggi, con scudi e Salva-Ilva di un cinismo complice, pari a quello di chi impicca o crocifigge prigionieri siriani, o bombarda matrimoni afghani, o stupra manifestanti a Santiago. Poi ci sono coloro che pensano che senza l’industria pesante, senza acciaio, in crisi ovunque e ovunque nemico dell’ambiente e dei viventi, non si va avanti, resta senza lavoro una comunità. Forse hanno ragione oggi, con questo modello di sviluppo, dell’1% straricco e del resto che si dibatte tra fame e veleni. Sicuramente non domani, visto che si parla di riconversione ecologica. Perché alimentare i forni col gas, anziché col carbone e la truffaldina e letale truffa che vuole l’Italia hub del gas (purchè non russo), è come i pannicelli caldi che i Cinquestelle applicano al bubbone PD.

Taranto ha pagato. Ora basta. Hanno pagato tutti i luoghi sui quali, con virulento odio cristiano-capitalista per la bellezza e per chi l’aveva coltivata e ne godeva, si è abbattuto il fuoco velenoso del drago, cancellando civiltà antiche, vite di ogni specie, incanti prodotti in faticosi secoli dalla Natura, da Trapani a Capo Passero in mare, da Siracusa ad Augusta, a Cornigliano, fiore avvizzito della Riviera di Ponente, alle spalle di Venezia che sulla faccia viene schiaffeggiata da Grandi Navi e Mose, in tutto lo Ionio e l’Adriatico, vietato a Ulisse e ai suoi marinai. E, per sempre, a Omero, che sarebbe davvero il male assoluto. Sono scomparsi gli ulivi, la civiltà che alitava tra i suoi rami e i suoi uomini, si sono mangiati il mare e le coste. A forza di industrie pesanti, le potenze si sono gonfiate come rane. Ora scoppiano. Ma scoppiano su cimiteri zeppi di gente che è morta di lavoro sotto quella pioggia di rane, o non ce l’ha fatta neanche ad arrivare al lavoro, spesso neppure alla scuola. Anche per un solo bambino divorato dal mostro, l’Ilva deve scomparire come tale. Non mi si dica che la settima potenza del mondo non saprebbe sistemare dieci, quindici, ventimila lavoratori. Già solo a riaggiustare la Puglia. E poi l’Italia.

Qualcuno ghignerà: “Bravo, la decrescita felice”… Non lo so. Ma l’ILVA ha da morì. Questo sì.

Sullaffaire acciaieria di Taranto … di Mario Monforte

…..E allora? La promessa dei “grillini” in campagna elettorale del ’18 era di chiudere, sic et simpliciter, lo stabilimento, assumendo cosí la piú che comprensibile rivolta contro inquinamento-malattie-decessi (e ricevendo il 47% dei consensi in città). Però il “nodo” sopra delineato dell’occupazione e delle sorti per Taranto in particolare, e dell’importanza dell’acciaieria per l’Italia in generale, rimane (certo, lo stabilimento è fatto male e situato peggio fin dall’inizio, etc.: tuttavia, c’è ed è lí). E le soluzioni “grillesche” come l’“alternativa” dell’«allevamento di cozze pelose» e l’uso dello stabilimento come «archeologia industriale» per turisti e per scalatori (delle ciminiere), se si vuole essere comprensivi, non costituiscono molto piú che battute di spirito – che adesso fanno anche poco ridere. Da parte sua, il governo Conte-bis ha dimostrato, e dimostra, sempre sic et simpliciter – senza stare qui a fare troppi discorsi, inutili, e “distinguo”, fuorvianti -, e ancora se si vuole essere comprensivi, la sua incapacità, la sua inettitudine, la sua dannosità.

Che si dovrebbe fare? Ma quanto andava fatto da tempo: assumere a carico statale il risanamento ambientale (dello stabilimento e dell’intera area) e statalizzare l’acciaieria, onde preservare non soltanto le condizioni dei lavoratori e impiegati (diretti e indiretti) nonché l’economia della città e dell’area, ma anche per mantenere, e anzi supportare, la nostra produzione di acciaio. E questo dovrebbe apparire piuttosto evidente. Solo che … solo che ciò significa sia andare contro il liberalismo economico scatenato, e imperativo (per il nostro paese …) dell’Ue (è quello che viene chiamato con il nomignolo storpiato, e riduttivo, di «neoliberismo»), sia dover ricorrere almeno all’uso (keynesiano) della «spesa in deficit» (per investimenti produttivi): ossia sostenere la “bestia nera” dell’Ue, e scontrarsi con l’Ue – contrastando le immancabili interne “voci” (stolte) ostili: “oddio! Interventismo pubblico! Sovranismo!”. Ma il governo Conte-bis è la “centrale” di queste “voci”, ed è precisamente il “pupillo” e il “commesso” dell’Ue …..

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:01

Nicoletta Dosio: «Andrò in carcere, senza chiedere sconti»

https://ilmanifesto.it/nicoletta-dosio-andro-in-carcere-senza-chiedere-sconti/

manifesto

 

Intervista . Settantatré anni, già docente di greco e latino presso il liceo Norberto Rosa di Susa, tra le fondatrici del movimento No Tav, sconterà la condanna per aver partecipato a una manifestazione nel 2012, «Il dovere che io sento è di non genuflettermi, per dignità e libertà»

Nicoletta Dosio

Nicoletta Dosio

Nella primavera del 2012, un’operazione di polizia portò allo sgombero della baita adiacente al cantiere della val Clarea: vi fu il ferimento grave dell’attivista NoTav Luca Abbà, rimasto folgorato su un traliccio dell’alta tensione. Mentre Abbà lottava tra la vita e la morte il movimento No Tav si riversava per due giorni lungo l’autostrada della val Susa; dapprima a Chianocco presso un svincolo strategico – da cui furono sgomberati con una violenta operazione notturna – e dopo presso il casello di Avigliana. Quaranta minuti in autostrada sotto l’occhio dei poliziotti che controllavano da vicino la manifestazione che ebbe anche un volantinaggio. I manifestanti alzarono la sbarra del casello per diversi minuti.

Tra i condannati per quell’episodio c’è Nicoletta Dosio, settant’anni passati, già docente di greco e latino presso il liceo Norberto Rosa di Susa, tra le fondatrici del movimento No Tav.

Dosio, lei andrà in carcere. È intimorita da questa prospettiva?

No, non lo sono. Ci sono dei passaggi che devono essere affrontati quando si porta avanti con coerenza una lotta come quella contro il Tav. Una lotta in cui noi abbiamo ragione, come per altro messo nero su bianco, numeri alla mano, perfino dallo stesso Stato solo pochi mesi fa. Il nodo morale delle minoranze che hanno ragione ma a cui viene imposta una realtà assurda rimane, intatto.

Ha la possibilità di chiedere pene alternative: lo farà?

Non lo farò e qualcuno, un giorno, verrà a prendermi per portarmi in carcere. Sono pronta, ci penso da molto tempo, è un prospettiva che nel tempo è entrata a far parte della mia vita.

Perché fa questo? Lei ha settantatré anni.

Voglio cercare di mettere il dito nella piaga, e ancora una volta dare visibilità a questa ingiustizia che perseguita chi lotta per il diritto di tutti. Inutile fare i neo ambientalisti che accolgono le richieste dei giovani quando si devono recuperare voti e poi, nella realtà, giustificare e avallare una devastazione perfino priva di senso economico. Questo mio gesto è contro i sepolcri imbiancati: per mettere in luce questo e riportare l’attenzione pubblica, che mi pare si stia adattando, agli orrori nei confronti di chi lotta, io andrò in carcere. Il dovere che io sento è di non genuflettermi: di non chiedere sconti o scuse. Per dignità e libertà. Sono convinta che quel mondo buono che ancora esiste intorno a me lo troverò anche in carcere, dove incontrerò gli ultimi degli ultimi. Farò esperienze che mi serviranno, sebbene io sia una donna anziana.

Chi la sostiene in questo momento?

Percepisco sulla mia pelle un grande calore e una grande vicinanza. Che poi è la stessa che provano i numerosi condannati di questa triste storia. Grande solidarietà e partecipazione di chi lotta da trenta anni e non si arrende. Uguaglianza, libertà, solidarietà. Il movimento No Tav non solo non è morto ma reagisce a una serie di provvedimenti restrittivi che stanno arrivando a diluvio sulla valle di Susa, sopratutto verso la parte attiva. Segno che si va verso un veloce allargamento dei cantieri. Solo ieri, altre due condanne. So di avere con me il sostegno delle mie sorelle e dei miei fratelli di una lotta bella e irriducibile, perché porta nelle sue mani la memoria del passato, l’indignazione per la precarietà presente, la necessità di un futuro più giusto e vivibile per tutti.
Se andrò in carcere, non me ne pentirò, perché, come scrisse Rosa Luxemburg, dalla cella dove scontava la sua ferma opposizione alla guerra, « mi sento a casa mia in tutto il mondo, ovunque ci siano nubi, e uccelli, e lacrime umane».