Grecia fase finale: all’asta sul web tutto ciò che si può vendere, anche le case private

TSIPRAS RIDEe bravo il mio kompagno anti troika dalla parte dei poveri e degli ultimi, il vero volto delle sinistre, servi della finanza. Ma quali valori di Ventotene, questa è sempre stata la vera natura della UE.

Grecia fase finale: all’asta sul web tutto ciò che si può vendere, anche le case private
 
La Grecia di Alexis Tsipras affronta l’ultima parte della svendita totale del suo patrimonio e della sua civiltà. Sul mercato finisce la stessa democrazia.
 
ATENE – La Grecia di Alexis Tsipras è entrata nella «fase laboratorio»: vedere cosa succede ad un paese lasciato nelle mani dei creditori. Disse Milton Friedman: «Lo shock serve a far diventare politicamente inevitabile quello che socialmente è inaccettabile»: lo shock della Grecia risale al’estate del 2015 quando con la giacca gettata sul tavolo al grido di «prendetevi anche questa» il primo ministro Alexis Tsipras firmò la resa senza condizioni della sua nazione sconfitta. Umiliato di fronte al proprio paese e al mondo da Angela Merkel, volutamente. Sul tavolo, quella notte, non finì solo la Grecia, ma la stessa democrazia che l’occidente ha vissuto in quelli che il grande storico Hobsbawm ha definito «i gloriosi trent’anni». Il voto greco, consapevole, che rifiutava il commissariamento della Trojka ad ogni costo, ad ogni costo veniva tradito in cambio di un piano lacrime e sangue, ancor più punitivo perché doveva sanzionare l’ardire di un popolo intero che osava ribellarsi alla volontà suprema dell’Europa finanziaria. Che solo in quel caso e per pochi giorni gettò la maschera della finta solidarietà, dei traditi valori di Ventotene, e si manifestò nella pura essenza del terrorismo finanziario.
Senza un governo, comandano i tedeschi
 
Nel nuovo reame globalizzato la Grecia è il primo esperimento compiuto di «stato disciolto»: il governo della sinistra, solo pochi anni fa definito estremista, ha assunto il ruolo finale: l’assorbimento del conflitto sociale che si scatena a fronte di una colonizzazione. Il 2018 sarà l’anno dove l’esproprio della ricchezza pubblica e privata diventerà in Grecia molto più veloce, e aggredirà i rimasugli di patrimonio restanti.
Gli immobili vengono messi all’asta e i compratori stranieri – banche, privati e perfino istituzioni – possono prendersi un’isola, un appartamento, una spiaggia, un’opera antica: qualsiasi cosa. Il tutto a prezzi stracciati, a meno del 5% del loro valore.
Anche le case all’asta sul web
Finiscono all’asta, sul web, come una cosa qualsiasi, perfino le prime case se superano una determinata superficie. Il tutto nel plauso della parte ricca del paese, che potrà accaparrarsi i beni della classe media, per non parlare di quella povera, a prezzi stracciati. Nella democrazia di facciata del governo Tsipras i poveri sono sempre più poveri, e i ricchi sono sempre più ricchi. Sembra di parlare degli Stati Uniti, e invece è la Grecia, un paese nobile e antico, su cui si fonda l’intera cultura occidentale, che si trova ad un passo dalle nostre coste. Per molti aspetti laddove è fondato il nostro passato si vede il nostro futuro. C’è una qualche differenza tra un comune italiano, come quello di Torino ad esempio, e lo stato greco? Entrambi sono assediati dai debiti, contratti per mitigare l’impatto della deindustrializzazione globalizzante, entrambi sono sotto il controllo delle banche che dettano i piani di governo: a suon di privatizzazioni, svendite di patrimonio e licenziamenti collettivi. La trappola del debito è una tagliola, entro la quale viene ferita la democrazia. I piani di rientro sono agende incontrovertibili, totali, spietate. Rispetto i quali ogni programma elettorale è soccombente.
Ultimo sforzo, poi il deserto
I commentatori filo governativi sottolineano che il 2018 sarà l’anno «dell’ultimo sforzo» per arrivare alla fine del commissariamento da parte dei creditori. Per dare un’idea di cosa si parla: un governo di estrema sinistra, si fa per dire, ha approvato delle norme che restringono la libertà di sciopero. Di fatto in Grecia diventa illegale, perché per la proclamazione degli scioperi dovrà partecipare alle assemblee il 50% degli iscritti ai vari sindacati di categoria. E questa è solo l’ultima parte di un processo che ha già pesantemente colpito lo stato sociale, le pensioni, i salari, i beni pubblici, e il diritto del lavoro. Imbarazzante, tra l’altro, l’asse politico tra Alexis Tsipras e Emmanuel Macron: ennesima prova dello sbandamento culturale della sinistra incapace di inquadrare un orizzonte politico differente da quello dei banchieri.
Italia come la Grecia?
Ovviamente il governo greco confida che nell’agosto del 2018 la Trojka, in virtù del piano di rientro greco, vada via, e lasci il paese libero di finanziarsi sul mercato globale. Ma se anche fosse, questo non migliorerebbe la situazione della Grecia, ormai allo stremo. Il debito pubblico greco, da «vendere» sul mercato obbligatoriamente a tassi elevati, finirebbe nuovamente all’estero. E il processo si ripeterebbe esattamente uguale agli ultimi sette anni. Ovviamente vi sarà un’espansione del Pil e una ripresa dei contratti di lavoro a prezzi stracciati. Il governo, la democrazia, non servirebbe più a nulla: se non a creare un simulacro. L’esperimento greco, la palla di cristallo in cui si può vedere il futuro dell’Italia se non vi sarà una drastica inversione politica, è davanti a noi.
28 gennaio 2018 diariodelweb.it
di Maurizio Pagliassotti.

L’Espresso vs Diego Fusaro

Lespresso-vs-Diego-Fusaro-copertinaIl settimanale L’Espresso ha recentemente dileggiato Diego Fusaro dandogli del filosofo da talk show. Abbiamo simpaticamente deciso di rispondere agli amici di De Benedetti.
Era purtroppo inevitabile. Dalle parti di La Repubblica e L’Espresso hanno una specie di preoccupante coazione a ripetere: non essendo abbastanza obiettivi da schifarsi l’un l’altro, quando si incontrano durante le riunioni di redazione, si compiacciono di spalmare il fango che li lorda sul volto altrui. Ciò non stupisce. Chi non ha niente da dire e, quando parla, non è in grado di articolare alcun tipo di pensiero compiuto, passa solitamente la vita a criticare l’operato altrui.
Un nemico è del resto necessario e utilissimo per nascondere la propria nefandezza, oltre che la miseria intellettuale. Soprattutto se si è costruita la propria fortuna demonizzando gli altri, nella logica del che s’ha da fa’ pe’ campà.
L’hanno fatto con Berlusconi – avendo gioco facile, sia ben chiaro! Poi, essendo venuto a mancare l’ex Cavaliere, che avrebbero potuto combinare? Diventare grandi e trovarsi un lavoro vero? Magari dimostrare di poter andare a costituire un’alternativa credibile? Il sentiero risultava impervio e piuttosto ripido. Si sono pertanto guardati in faccia, col sudore che gli colava lungo le tempie, dicendosi: “Signori, qui dobbiamo trovare un altro da mettere alla gogna”. Detto fatto: Diego Fusaro. Tanto sta sulle scatole a tutti… quelli che essendo troppo poco si consumano nel livore contro chi è migliore di loro. I più non possono certo permettersi di dire con Nietzsche: “Voi, quando dovete elevarvi, guardate verso l’alto, io verso il basso: sono sopraelevato”.
 
Naturalmente, però, queste sono tutte argomentazioni di un pennivendolo a libro paga di Diego Fusaro. È bene, invece, soppesare la logica stringente delle argomentazioni avanzate da Guido Quaranta (secondo me, più trenta denari che quaranta!), il giornalista che si è fatto carico di sbrigare l’obbrobriosa pratica. Analizziamole dunque con ordine:
Fusaro appare spesso in televisione. In effetti, entrare in quel rettangolo di pixel, che di solito occupa il salone delle case degli italiani, non è esattamente motivo di gran vanto. Tutti ci vogliono, o vorrebbero, andarci, ma è comunque oramai assunto dal comune sentire che la cosa sia esecrabile. Solo, non si capisce perché la stessa reprimenda non venga mossa nei confronti di Mario Calabresi; del fu Ezio Mauro, dal carisma di uno sportellista delle Poste Italiane; o, prima ancora, di Massimo Giannini, con quella sua faccia impettita da primo della classe che segnala alla maestra i bambini che hanno fatto chiasso, mentre lei era in bagno.
Non parliamo poi di Sua Eminenza (Occulta?) Nostro Signore Eugenio Scalfari. Rammentate quella sua aria a metà tra il saggio stoico e il vecchio lupo di mare scampato a mille naufragi? E la sua rubiconda gioia quando la Gruber, come una figlia che accolga il vecchio padre solo la notte di Natale, lo riceve nel suo studio? Meglio non aggiungere altro.
“Fusaro è un bel giovanotto sui trent’anni, torinese, dagli occhi azzurri e dal ciuffo bruno. Non sorride mai, di solito, quando parla, sogguarda i presenti in studio con aria sufficiente e, dal tono monocorde della voce, sembra voler dare lezioni a tutti”Eh no, caro il mio burlone di un Quaranta! Uno, il giovane Diego non è un giovanotto, ma un professore universitario di filosofia. Capìta l’antifona? Non si deve vergognare come la maggior parte di voi giornalisti! Quindi, ne stia certo, lui non solo sembra voler dare lezioni, ma è pagato da un’università, e tra le più prestigiose, per farlo. E poi, scusi, cosa ci sarebbe di male nell’essere giovani e piacenti? Ci avete fatto due palle così con la storia che Renzi era giovane e cool e adesso vorreste tirarvi indietro?
Notate poi la finezza logica di Quaranta: “Fusaro non sorride”. Caspita, certo che sarebbe credibile un filosofo che va in televisione a parlare di disoccupazione, poteri occulti e neoliberismo, con il sorriso da idiota stampato in faccia. “E il tono monocorde?”, soggiungerà lei. Personalmente non l’ho notato, ma ho idea che Scalfari legga anche la bolletta della luce con tono grave, più o meno come faceva Gassman in televisione. Solo che quella di Gassman era una provocazione, mentre secondo me nonno Eugenio è serio quando lo fa. Dott. Quaranta, ma sul serio non si vergogna a essere così meschino?
Andiamo infine alla mirabile chiusa del pezzo:
 
“Ripudia l’euro e considera euroservi o euroinomani coloro che lo difendono. Avverte che l’emigrazione è una deportazione di massa che giova ai signori della mondializzazione capitalistica. Aborre l’aristocrazia bancaria e la talassocrazia del dollaro. Rampogna la tv per il suo effetto anestetizzante sulle coscienze. Deplora l’insinuarsi crescente di vocaboli inglesi nel lessico italiano. Diversi politici, durante i suoi dotti sermoni, approvano. Altri si urtano, qualcuno ridacchia. Lui, lì per lì, piccato, reagisce con battute sferzanti. Poi, imperturbabile, riprende a esecrare tutto o, quasi, tutto.”.
Ma ci volete prendere per i fondelli, o cosa? All’Europa ci crederanno sì e no cinque ingenui, il resto si sottomette perché in un modo o nell’altro ci guadagna. Ergo, sì, sono dei servi. Che l’immigrazione sia necessaria ai signori della mondializzazione capitalistica, mi rendo conto, Dott. Quaranta, a furia di stare chiuso in redazione, le deve essere sfuggito. Provi a fare un giro nei cantieri edili e in campagna. Come scusi, non sa cosa siano? Lo supponevo! E l’attacco alle televisioni che anestetizzerebbero le coscienze? Sa che lo diceva anche un certo Pasolini e ancora nessuno è riuscito seriamente a smentirlo? E la presa di posizione contro l’inglese?
Quanta malafede c’è in lei, Dottore! Ciò che Fusaro critica è un uso strumentale e manipolatorio di un’altra lingua per confondere l’opinione pubblica. Lei sa benissimo che si dice Spending Review, ma si legge ti taglio i viveri e la sanità pubblica. Lei lo sa ed è colpevole perché non lo ammette. Si vergogni e taccia, per favore. Sostiene che Fusaro passa sopra le critiche e procede oltre imperturbabile? E fa bene! Grazie al cielo ci pensa lui a svolgere attività di denuncia, pur non essendo il suo mestiere, ma quello che dovrebbe appartenere a lei Dott. Quaranta, che crede di scrivere dieci righe – forse addirittura meno – ed essersi guadagnato il pane che ha impunemente messo in tavola.
Matteo Fais -09.06.2017

Antipolitici sarete voi

Alain de benoist SputnikChe il clivage destra-sinistra stia diventando obsoleto, Alain de Benoist, intellettuale e storico delle idee francese, lo dice da almeno vent’anni. E ora che anche quegli osservatori che lo demonizzavano si sono accorti della progressiva caduta in desuetudine delle vecchie categorie politiche, ci si ritrova ancora una volta a constatare che il padre della destra metapolitica d’Oltralpe aveva anticipato tutto. Anche se lui, con eleganza d’antan, dice semplicemente di aver guardato in faccia la realtà, di non essere, a differenza di una certa Francia benpensante, affetto dal “deni de realité”, da quella propensione al rifiuto di ammettere che il mondo sta cambiando volto, che le vecchie ideologie stanno sparendo e che ci sono nuove “richieste di democrazia”, nuove istanze provenienti da popoli che vogliono riprendere il proprio destino in mano.
Sulla fine dello schema droite-gauche, la crescita dei movimenti cosiddetti populisti e il divorzio brutale tra il popolo e le élite, De Benoist ha deciso di consacrare il suo ultimo libro, il 103esimo della sua lunga vita di studi e riflessioni. Si intitola Le Moment populiste. Droite-gauche, c’est fini! ed è stato pubblicato da Pierre-Guillaume de Roux, l’“editore degli infrequentabili”, come lo ha definito recentemente il Monde.
Tra questi “infrequentabili” pensatori del dibattito intellettuale francese, non poteva certo mancare il padre della Nouvelle Droite, che in un colloquio con Tempi spiega perché è ora di fare chiarezza sul concetto di “populismo”, sull’espansione dei fenomeni populisti nel mondo, e sui troppi errori di approccio nell’analizzare una forma politica che ha alle spalle una storia molto più complessa e sfaccettata di quella che ci raccontano gli opinionisti da salotto televisivo.
«Osservo che il termine populismo è utilizzato sistematicamente in maniera negativa, peggiorativa, per designare movimenti o correnti di pensiero completamente differenti tra loro. I cantori del pensiero dominante dicono che questi movimenti sono principalmente demagogici, per nulla seri, e che costituiscono una minaccia per la democrazia. Ma sono analisi a dir poco superficiali, che passano completamente a lato della questione. Per la stesura di questo libro ho voluto adottare un approccio che parte dalla scienza politica, cercando di capire cos’è il populismo e qual è la sua storia», dice a Tempi De Benoist. «Dall’altro lato – spiega l’intellettuale francese – mi sono interessato ai continui tentativi di denigrazione del populismo, al perché questa parola è diventata una “parola-caucciù”, ossia una parola strattonata in tutti i sensi, utilizzata abusivamente, con il solo obiettivo di delegittimare certe organizzazioni politiche.
Il 2016 è stato l’anno dell’ascesa del Front National, della Brexit in Inghilterra, dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, della crescita di Podemos in Spagna, e dell’espansione dei Cinque Stelle in Italia, senza dimenticare il grande risultato ottenuto dall’Fpö alle ultime elezioni austriache. Stiamo assistendo a un fenomeno generalizzato che va studiato nella sua complessità».
Per De Benoist, animatore della rivista antimoderna Eléments, fucina di idee della destra intellettuale francese, «bisogna partire dalla base per capire cos’è il populismo e quali sono le ragioni del suo successo».
La prima ragione, spiega, è «l’enorme diffidenza della stragrande maggioranza delle popolazioni nei confronti della classe politica al potere e delle élite economiche, finanziarie e mediatiche. A questo, si aggiunge una profonda crisi della rappresentanza. Le persone sentono di non essere più rappresentate e che i partiti di governo costituiscono una casta che utilizza il potere soltanto per difendere i propri interessi: c’è una spaccatura tra i rappresentanti e i rappresentati».
Oltre a questo fattore, analizza De Benoist, «c’è il divario che si è aperto da trent’anni a questa parte tra il popolo e la sinistra. Sinistra che storicamente aveva professato di voler difendere le classi popolari più dei leader dei movimenti di destra».
E qui De Benoist raggiunge nell’analisi un altro intellettuale controcorrente del panorama francese, Jean-Claude Michéa, che nei suoi libri ha raccontato meglio di ogni altro la fine della luna di miele tra la gauche e la Francia d’en bas.
«Ora – prosegue De Benoist – la sinistra classica si è unita all’economia di mercato e alle logiche del capitalismo neoliberale, e il popolo subisce pienamente le conseguenze di questa scelta con le politiche di austerità, la restrizione del potere di acquisto e la crescita della disoccupazione. Infine, il successo dei movimenti populisti è legato al recentrage dei programmi dei partiti di destra e sinistra. In altre parole: i partiti di destra e sinistra si succedono ma hanno praticamente la stessa politica, si distinguono nella scelta dei mezzi, ma gli obiettivi sono i medesimi. Le nozioni di destra e sinistra perdono la loro specificità, e lo testimoniano anche i sondaggi: la gente non vede più quale sia la differenza tra queste due categorie politiche».
Riprendersi l’autonomia
Sugli errori di analisi dei molti editorialisti ed “esperti” che affollano giornali e televisioni bollando tutto ciò che non è di loro gradimento come “populista”, De Benoist tiene a soffermarsi. «Il primo errore è quello di credere che il populismo sia un’ideologia, quando invece è una forma politica, uno stile politico, un nuovo modo di articolare le richieste sociali e politiche che può combinarsi con qualsiasi ideologia. È la ragione per cui ci sono dei populismi liberali, dei populismi antiliberali, dei nazional-populismi, dei populismi di sinistra e dei populismi di destra», dice l’autore di Vu de droite.
«Il secondo errore è quello di pensare che il populismo sia un fenomeno intrinsecamente antipolitico, perché è vero il contrario. Il populismo è una reazione contro una politica che oggi è dominata dalla gestione, dall’economia, dall’espertocrazia, dalla morale dei diritti dell’uomo, da tutta una serie di cose che tendono a far sparire l’autonomia della politica. Il populismo è una “demande de politique”, una richiesta indirizzata alle classi dirigenti affinché facciano politica, invece di limitarsi alla gestione e all’amministrazione».
Il terzo errore individuato da De Benoist è credere che il populismo sia un movimento antidemocratico. «Anche qui, è l’esatto contrario di quanto proclamato dalla doxa mediatica. Ciò che il populismo contesta è la democrazia liberale, parlamentare e rappresentativa, che oggi non rappresenta più nulla. I movimenti populisti chiedono più democrazia, una democrazia partecipativa, diretta, nel senso che la gente deve essere maggiormente protagonista, che il loro potere non si deve ridurre all’andare a votare ogni quattro o cinque anni per delle persone che una volta elette difendono soltanto i loro interessi. I movimenti populisti combattono per una democrazia dove le persone possono decidere il più possibile autonomamente e per loro stesse».
Troppe promesse non mantenute
Secondo De Benoist, la critica del populismo si è sviluppata attraverso tre stadi. «In un primo momento sono stati definiti “populisti” dei movimenti che venivano principalmente dall’estrema destra o dall’estrema sinistra, ma che avevano alcune caratteristiche nuove: accettavano il gioco della democrazia, per esempio. In un secondo momento, la qualifica di populismo si è estesa a tutti i movimenti che avevano come caratteristica comune quella di far leva sul popolo per accusare le élite. In un terzo momento, la critica del populismo si è rivelata una critica del popolo. Ciò si vede molto bene con il disprezzo, che è un disprezzo di classe, delle élite contro i popoli che hanno votato Trump, il Front National, e a favore della Brexit. Quando ha vinto la Brexit, ci hanno detto che ha votato il popolo degli idioti, degli imbecilli, dei vecchi, dei provinciali».
E ancora: «Questo disprezzo di classe è estremamente rivelatore perché poggia sulla confusione esistente intorno al significato di competenza. La competenza in politica non è una competenza tecnica, non è la competenza degli esperti. La competenza politica si riassume nell’attitudine a prendere decisioni e alla capacità di giudicare ciò che nel quotidiano è buono o cattivo per il popolo.
Quando si oppone al popolo “coloro che sanno”, si fa un errore drammatico perché “quelli che sanno”, gli “esperti”, non sanno quello che bisogna fare: sanno come fare quello che si è deciso di fare. Sta ai politici dire quello che bisogna fare, e agli esperti in un secondo momento dire come raggiungere questo obiettivo. Quando si dà agli esperti il monopolio della decisione, questi uccidono la politica, perché considerano che ci sia una sola soluzione razionale al problema politico: trasformano il problema politico in un problema tecnico. È lì che vediamo la vecchia formula: “L’amministrazione delle cose si sostituisce al governo degli uomini”».
Questa critica del popolo, per l’intellettuale francese, «disconosce ciò che bisogna intendere per popolo». Secondo De Benoist «ci sono tre grandi significati di popolo: il popolo come “demos”, ossia il popolo politico, il popolo in quanto potere costituente; c’è il popolo come “etnos”, ossia il popolo come risultato di una storia culturale, nozione prepolitica; e c’è il popolo come “plebs”, ossia il popolo considerato come classe sociale, come classe proletaria e popolare. La grande caratteristica del populismo è quella di riunire queste tre accezioni del termine “popolo”».
In merito a quello che è successo negli ultimi trent’anni, conclude l’autore de Le Moment populiste, «ci sono tre grandi fenomeni sui quali il popolo non è mai stato consultato: l’immigrazione, la mondializzazione e la costruzione europea con il potere delle commissioni di Bruxelles. Ci hanno detto che l’immigrazione era un’opportunità per l’Europa, che la mondializzazione era felice e avrebbe prodotto vantaggi per tutti, e ci hanno detto che l’Europa avrebbe risolto tutti i problemi. Oggi le persone si rendono invece conto che l’immigrazione provoca molti problemi, patologie sociali, scontri culturali e religiosi di grandi dimensioni, che la mondializzazione si sviluppa a loro detrimento in ragione delle delocalizzazioni, della messa in concorrenza dei lavoratori europei con i lavoratori del Terzo mondo che ricevono salari irrisori, e si accorgono che l’Europa non è divenuta la soluzione a tutti i problemi, bensì un problema che si aggiunge agli altri. Il tutto in un contesto di crisi generalizzata, crisi dei valori, sparizione dei punti di riferimento, crisi di civiltà, crisi finanziaria, indebitamento pubblico di cui non si vede la fine, aumento della disoccupazione strutturale e non più congiunturale. Questo è il terreno fertile sul quale il populismo ha prosperato».
di Alain de Benoist – 12/02/2017
Fonte: Tempi