I CULTI MISTERICI DI MAASTRICHT

Di comidad del 14/11/2013 

 Il 7 novembre ultimo scorso si è svolta al Quirinale una riunione del Consiglio Supremo di Difesa, presieduta da Giorgio Napolitano. Gli organi d’informazione si sono adoperati per non farcene sapere assolutamente nulla, cercando anzi di attirare l’attenzione su vicende veramente decisive per le sorti dell’umanità, come le telefonate della ministra Cancellieri o le persecuzioni antisemite contro i figli del Buffone di Arcore.

Perché tanto mistero? Quali terribili decisioni erano state prese dal Consiglio Supremo di Difesa a nostra insaputa? La soluzione dell’arcano per fortuna si poteva trovare su quei siti nei quali a nessuno viene in mente di cercare, come, ad esempio, quello del ministero della Difesa.

In parte la soluzione del mistero era scontata, poiché all’ordine del giorno della riunione c’era la questione del rifinanziamento delle missioni militari all’estero, dato che in questo settore non ci sono spending review che tengano ed i soldi si trovano sempre. Poi il Consiglio Supremo di Difesa (già il nome incute timore) ha elaborato un comunicato a sua volta reperibile sul sito della Presidenza della Repubblica.

Dal comunicato si apprende che occorrerà prepararsi ad un’altra di quelle svolte epocali a cui l’Europa ci ha assuefatto, cioè starebbe per concretizzarsi quella politica militare comune dell’Unione Europea, che va sotto il nome diCommon Security Defense Policy, e che sarebbe comunque integrata nella NATO.

I supremi difensori della Patria si sono quindi riuniti per celebrare i riti del culto di Maastricht, pregando i colonizzatori di colonizzarci un po’ di più. Un Consiglio Supremo di Collaborazione con l’Occupante. Dal comunicato si capisce infatti che a Roma non si decide nulla e che lo zelo andrà profuso solo per mettersi a disposizione. Per mostrarsi preparati, si dovrà però elaborare un bel “libro bianco” sulle forze armate, giusto per far vedere che l’attesa viene vissuta con compunta trepidazione.

Che progresso dai tempi in cui Alessandro Manzoni scriveva che la nostra parte era “servire e tacer”! Adesso invece bisogna servire riversandoci sopra un cumulo di chiacchiere e scartoffie.

Si può tranquillamente scommettere che l’avvio della Common Security Defence Policy verrebbe spacciato all’opinione pubblica come un’occasione di risparmio, come un modo per evitare sprechi ed inutili doppioni in campo militare. Ma altrettanto certo è che lo slogan ricattatorio del “ce lo chiede l’Europa” verrebbe poi usato nei fatti per aumentare a dismisura le spese militari. Intanto su organi di stampa insospettabili come “Il Fatto Quotidiano” appare qualche anticipazione di quelle fallaci promesse di risparmio che l’integrazione della difesa europea sarebbe in grado di consentire.

L’alone di silenzio delle prime pagine di giornali e telegiornali di fronte alla prospettiva concreta di integrazione europea delle forze armate, però attualmente continua; e potrebbe apparire persino eccessivo, dato che sono già in atto da tempo ben altre integrazioni, come quella con la NATO. Ma una notizia del genere arriverebbe al vasto uditorio nel momento in cui ci si rende conto di aver un po’ esagerato mettendo sullo scranno di Presidente del Consiglio uno come Enrico Letta, una tale nullità che non si fa scrupolo di farci sapere di annoverare come suo massimo ideologo nientemeno che il pesce Nemo.

Cominciano perciò ad affacciarsi commentatori come Curzio Maltese, il quale, sul “Venerdì di Repubblica” del primo novembre, ammette che ormai la politica è soltanto una vuota rappresentazione ad uso dei talk-show per colonizzati, e che è in realtà la Troika FMI-UE-BCE a costituire il vero governo. In queste ammissioni però c’è ancora il trucco di far apparire la colonizzazione come effetto inevitabile delle nostre passate marachelle, in particolare il folle ventennio del Buffone di Arcore. L’autorazzismo di queste conclusioni serve quindi a riconfermare il destino di subordinazione coloniale, e rimane in linea con il culto di Maastricht.

I commenti forse si faranno più interessanti quando si comincerà a considerare anche il regime del Buffone come una conseguenza logica del Trattato di Maastricht. Forse sarebbe persino il caso di cominciare ad affrancare il nome del Comune di Arcore dal peso del suo più famigerato residente, cominciando a chiamarlo “Buffone di Maastricht”. Nel 1992 Maastricht aveva infatti liquidato il ruolo tradizionale di mediazione che era assegnato alle politiche nazionali. Maastricht non ha eliminato una sovranità che già non c’era più; ha invece congedato, insieme con gli ammortizzatori sociali del welfare, anche gli ammortizzatori politici, per passare ad un colonialismo diretto, in cui la “politica” è solo distrazione.

http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=581


Sciagurata l’accusa di eversione. Una risposta al giudice Caselli

http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=50569&typeb=0&Sciagurata-l-accusa-di-eversione-Una-risposta-al-giudice-Caselli

Alla lettera aperta del procuratore capo Giancarlo Caselli sui No Tav risponde un altro magistrato torinese che la pensa al contrario, Livio Pepino.

LIVIO PEPINO
sabato 26 ottobre 2013 13:09

di Livio Pepino

Sulle pagine del Fatto del 22 ottobre il procuratore della Repubblica di Torino, Gian Carlo Caselli, se la prende con il Movimento No Tav e con «i politici, amministratori, intellettuali e opinionisti» non allineati con il suo modo di gestire alcuni procedimenti relativi a vicende valsusine. Il movimento, nella sua globalità, è accusato addirittura di eversione: perseguìta da alcuni in modo diretto, da altri – la «parte buona» (sic!) – mediante condotte omissive; gli intellettuali, a loro volta, sono indicati come irresponsabili autori di «attacchi scomposti contro il doveroso accertamento delle responsabilità penali». L’oggetto della reprimenda è la (asserita) mancata o insufficiente presa di distanza da episodi di violenza verificatisi in valle. Il procuratore parla dei propri processi, anche se sottolinea di astenersi dall’esame delle responsabilità individuali (come se la ricostruzione della «materialità obiettiva dei fatti accaduti» e la relativa interpretazione non fosse parte delle indagini!), ed è questo improprio “processo a mezzo stampa” che rende l’articolo illuminante, aldilà dell’approssimazione con cui vengono liquidate l’esperienza e la storia del movimento valsusino.

Annoverandomi tra i critici chiamati in causa devo una risposta: l’ho, doverosamente, proposta al giornale su cui l’articolo è comparso, ma ho ricevuto dal direttore un cortese rifiuto a prescindere, cioè senza leggere il testo. Ritorno dunque, astenendomi da commenti e interpretazioni di tale rifiuto, a casa. Non intendo polemizzare con il procuratore di Torino su quella che lui definisce sottovalutazione della violenza “o peggio”. In cinquant’anni di vita pubblica l’ho detto e scritto infinite volte: le dure lezioni del secolo breve hanno dimostrato che un assetto sociale e istituzionale più giusto e rispettoso dei diritti delle persone si costruisce con la partecipazione, l’inclusione, il confronto e non con la prevaricazione e la violenza. Da parte di tutti: cittadini e istituzioni. Ma, qui e ora, il punto centrale, che deve interessare chi ha a cuore la sorte della società e delle persone (e che il procuratore di Torino continua a ignorare), è un altro: come si affronta e si supera la violenza? e quali sono, invece, gli atteggiamenti che la provocano o la incentivano? Sul punto sono disponibile a ogni confronto pubblico, pur se dubito che analoga disponibilità vi sia nel mio contraddittore.

Vengo, dunque, ai passaggi dello scritto pubblicato sul Fattomaggiormente indicativi di quel pre-giudizio colpevolista da me criticato e che non giova alla serenità delle indagini.

Primo. Il procuratore ricorda i «pesanti attacchi contro il cantiere di Chiomonte» e alcuni episodi connessi per arrivare alla conclusionetranchant che «a operare sono squadre organizzate secondo schemi paramilitari […] affluite nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico». Può darsi che sia così, ma sarebbe prudente non scambiare le ipotesi accusatorie con le sentenze definitive e citare, almeno per completezza, a fianco dei passaggi confermativi del Tribunale della libertà, le smentite della Corte di cassazione (10 maggio 2012, in punto «sovradimensionamento» dei fatti contestati) e del Tribunale di Torino (11 luglio 2012, in punto impropria dilatazione delle ipotesi di concorso di persone nel reato).

Secondo. Il procuratore continua ricordando la catena di «attentati/sabotaggi, con danni assai gravi, contro i mezzi di lavoro delle ditte che sono impegnate nel cantiere» e l’ordigno esplosivo inviato a un giornalista. Prova granitica – chiosa – della deriva violenta del movimento. Il pre-giudizio colpevolista è qui particolarmente evidente: in forza di quali elementi quegli attentati vengono attribuiti, con apodittica certezza, ai No Tav? I principali siti del movimento hanno respinto tale attribuzione; le prevaricazioni mafiose sono in valle  una realtà risalente; incendi e danneggiamenti toccano da anni presìdi No Tav e auto o beni di attivisti; la storia del Paese ci ha abituati a una moltitudine di attentati simulati; i gesti sconsiderati di chi è interessato a pescare nel torbido o di schegge impazzite di diversa estrazione non sono una novità. Ogni ricostruzione è possibile. Ma, proprio per questo, non sarebbe opportuno – soprattutto da parte di chi ha responsabilità di indagine – tacere in attesa di riscontri e indagare in tutte le direzioni.?

Terzo. Infine il procuratore evoca, a dimostrazione di un disegno «che può serenamente definirsi eversivo», la “Libera repubblica della Maddalena”, denominazione attribuita dal movimento al territorio circostante l’area presidiata dagli attivisti No Tav, fino allo sgombero del giugno 2011, per opporsi al cantiere. Le parole hanno (dovrebbero avere) un senso. «Eversione» è, secondo i dizionari della lingua italiana, «l’abbattimento o il sovvertimento dell’ordine costituito e delle istituzioni che ne sono l’espressione, compiuto mediante atti rivoluzionari o terroristici» (Devoto-Oli) e, secondo la giurisprudenza di legittimità, essa «non può essere limitata al solo concetto di “azione politica violenta”, ma deve necessariamente identificarsi nel sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica che tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione» (Cass. – sez. 2, n. 39504 del 17 settembre 2008). Difficile comprendere come l'”occupazione” di una minuscola area della Maddalena possa essere considerata segno di eversione. A maggior ragione in un Paese in cui ministri e presidenti di regione espressi da un partito che predica la secessione (con tanto di “parlamento padano” ed evocazione di fucili e proiettili) stigmatizzano l’assalto allo Stato dei No Tav e plaudono all’intransigenza della Procura di Torino.

Nessuno chiede impunità a prescindere. I reati commessi vanno perseguiti. Ma la precisione delle contestazioni e il senso delle proporzioni sono parte integrante di un diritto coerente con la Costituzione. Non solo per ragioni formali ma anche perché – come ha scritto Francesco Palazzo, illustre penalista di scuola liberale – «un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società».

Livio Pepino

(Qui la lettera di Giancarlo Caselli pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 22 ottobre)