Come catturare la CO2 in atmosfera per produrre benzina, il caso di un impianto in Canada

https://www.jedanews.it/blog/co2-atmosfera-per-produrre-benzina/

Posted on ottobre 31, 2018

Come catturare la CO2 in atmosfera per produrre benzina

Dì Dario Zerbi per Lifegate

In uno stabilimento canadese si sta cercando di produrre su scala globale una benzina che non emette nuova CO2: aspira quella già presente in atmosfera. Ma resta qualche dubbio su un processo che al momento è altamente energivoro.

Un combustibile fossile che non produce nuove emissioni di gas serra perché utilizza i gas che sono stati già emessi, per poi immetterle nuovamente in atmosfera. E riciclarle di nuovo, in un ciclo che potenzialmente potrebbe durare all’infinito. Già da circa quindici anni, in diverse parti del mondo, si studia il modo di “aspirare” la CO2 dall’atmosfera per produrre combustibile attraverso particolari impianti; come fossero aspirapolvere in grado di ripulire l’aria dall’anidride carbonica in eccesso e utilizzarla per produrre un carburante a emissioni zero.

Una tecnologia più economica del previsto

Lo scoglio principale, finora, è stato di tipo economico: tutti gli studi sulla tecnologia Dac (Direct air capture, ovvero a cattura diretta dell’aria) stimavano che sarebbero occorsi ben 600 dollari (circa 519 euro) per ogni tonnellata di CO2 aspirata; un prezzo insostenibile per uno sviluppo su larga scala. Ora, però, uno studio condotto dalla Carbon engineering e pubblicato recentemente sulla rivista scientifica Joule ribalta completamente le prospettive: l’impianto canadese della società riesce a estrarre una tonnellata di CO2 dall’atmosfera a un costo medio di 100 dollari a tonnellata (circa 86 euro). Lo stabilimento trasforma poi l’anidride carbonica catturata in vari tipi di combustibili liquidi, al costo di produzione di un dollaro al litro: leggermente superiore a quello dei combustibili attuali, ma certamente non proibitivo.

Tutto prese il via nel 2015 a Squamish, nella provincia canadese della British Columbia, su iniziativa di David Keith, professore di fisica applicata all’università di Harvard; un investimento di 30 milioni di dollari, alcuni finanziatori di peso (uno fra tutti, il fondatore di Microsoft Bill Gates) e un orizzonte temporale di tre anni per comprendere le reali potenzialità di questa tecnologia.

I risultati sono stati migliori del previsto, al punto che l’impianto sperimentale potrebbe presto trasformarsi in uno stabilimento a tutti gli effetti, in grado di catturare un milione di tonnellate di CO2 l’anno – il doppio delle emissioni dell’Italia – e di produrre 200 barili di combustibile “riciclato” al giorno. Se tutto procederà per il meglio, entro la fine del 2021 gli automobilisti americani – a partire da quelli che vivono in stati come la California, che attraverso un mercato regolato incentivano l’utilizzo di prodotti sostenibili – potranno scegliere tra un carburante tradizionale o uno che non ha emesso gas serra nella fase di produzione, marchiato Carbon engineering.

Come viene prodotta la “benzina a emissioni zero”

La tecnologia Dac utilizza grandi batterie di ventole aspiranti per risucchiare aria: dei passaggi successivi permettono di separare la CO2 catturata e di stabilizzarla con una soluzione alcalina. Il liquido può essere pressurizzato e iniettato nel sottosuolo, dove viene stoccato e quindi trasformato in un combustibile attraverso una serie di processi chimici: il risultato è un carburante fossile sintetico che, una volta utilizzato nei motori, non produce nuova CO2 perché emette in atmosfera quelle aspirate. Si tratta di un processo decisamente energivoro che, in questa fase iniziale, la società ha arginato usando l’elettricità prodotta da alcune dighe del territorio; per un impianto su larga scala, invece, si dovranno per forza trovare soluzioni alternative: permane insomma qualche dubbio sulla reale sostenibilità di questa tecnologia dal punto di vista del bilancio energetico.

Certo è che potremmo essere di fronte a una rivoluzione: il settore dei trasporti incide per circa il 20 per cento sulle emissioni globali di gas serra, e un maggiore sviluppo della tecnologia Dac comporterebbe un doppio vantaggio. Da un lato, si potrebbe rimuovere in modo permanente l’anidride carbonica dall’atmosfera: l’impianto immaginato dalla Carbon engineering eliminerebbe da solo un quarantesimo della CO2 prodotta in un anno a livello mondiale. Dall’altro lato, prenderebbe il via la produzione di un carburante compatibile con i motori odierni, senza dover convertire all’elettrico l’intero parco auto circolante.

Il bilancio di carbonio Un altro buon motivo per il No: il tunnel danneggerà il clima

di Luca Mercalli

da Il Fatto Quotidiano del 18-11-20178

La nuova linea ferroviaria Torino-Lione viene giustificata con motivi ambientali: la cura del ferro fa bene, spostare traffico da gomma a rotaia riduce le emissioni. Il che è vero se si usano ferrovie esistenti, come l’attuale linea Torino-Modane, lo è meno quando si devono costruire nuove, meno ancora quando sono perl unga tratta in tunnel. Lo sostengono i ricercatori Jonas Westin e Per Kågeson del Royal Institute of Technology di Stoccolma nell’analisi Can high speed rail offset its embedded emissions?: affinché il bilancio di carbonio sia favorevole al clima le linee ferroviarie ad Alta velocità “non possono contemplare l’estensivo uso di tunnel”. Se il bilancio monetario costi-benefici della Torino-Lione già vacilla, del bilancio di carbonio non si parla mai. Il tunnel bisogna costruirlo, per oltre dieci anni le talpe succhieranno megawatt, il cemento assorbirà energia e produrrà emissioni, l’armamento e i dispositivi di sicurezza richiederanno tonnellate di acciaio e di cavi di rame, i camion e le ruspe per spostare migliaia dimetri cubi di roccia andranno a gasolio. Poi c’è l’impianto di raffreddamento che a opera conclusa funzionerà in permanenza, poiché all’interno del tunnel la temperatura sarà attorno a 50°C, ostile alla vita. Quando il primo treno passerà su quella linea non si vedrà alcun vantaggio ambientale, in quanto per parecchi anni, ammesso che venga effettivamente usata a pieno carico come da previsioni per ora sulla carta, il risparmio delle emissioni dovrà ripagare il debito di quelle rilasciate in fase di cantiere e di esercizio. Ammesso dunque che sia possibile, una prima riduzione netta delle emissioni potrebbe avvenire non prima del 2040. Il clima però è già in estrema crisi adesso e l’ultimo rapporto IPCC dice chiaramente che le emissioni vanno ridotte subito, altrimenti nel 2040 avremo già superato la soglia di sicurezza del riscaldamento globale di1,5°C. La cura del ferro della Torino-Lione è quindi strana, prima richiede un’intossicazione sicura del malato, poi promette di disintossicarlo quando sarà già moribondo. Non è meglio cambiare cura? Usare i miliardi di euro ad essa destinati per una riduzione delle emissioni con effetti certi e immediati, come collocare più pannelli solari sui tetti degli italiani, cambiare gli infissi alle case colabrodo, aumentare la coibentazione, installare pompe di calore, tutte azioni che danno lavoro a decine di migliaia di artigiani e non ci fanno attendere vent’anni per ottenere effetti positivi sull’ambiente.

La cura del ferro Torino-Lione potrebbe essere peggiore del male che vorrebbe curare. Per fare valide previsioni e stabilire se la pubblicità verde della grande opera sia ingannevole o meno, occorre un bilancio di carbonio certificato da un ente terzo, come l’Istituto Superiore di Protezione e Ricerca Ambientale che mantiene il catasto nazionale delle emissioni climalteranti e potrebbe verificare se nell’ambito dell’Accordo di Parigi siglato anche dall’Italia il super tunnel Torino-Lione sia coerente o perdente. C’è poi quell’ora di viaggio sul Tgv Milano-Parigi che si potrebbe recuperare subito grazie a un accordo tra ferrovie francesi e italiane.Per ragioni di incompatibilità tra dispositivi di sicurezza, il treno francese, una volta arrivato a Torino via tunnel del Frejus, invece di instradarsi sulla linea ad Alta velocità per Milano continua da anni a transitare sulla vecchia linea regionale via Vercelli e Novara. Se i francesi sostituissero il loro vecchio Tgv con un treno più moderno la tratta Parigi-Milano si abbrevierebbe subito di quasi un’ora. Come mai la gente non scende in piazza per questo significativo risultato che non incide sulle casse dello stato e non deve attendere decenni per entrare in servizio? E infine,dopo le iniezioni di retorica a buon mercato inneggianti a progresso, crescita, investimenti, lavoro che passeranno tutti e solo da questo buco sotto il massiccio dell’Ambin, proviamo a fare un passo più analitico verso gli scenari futuri. Che piaccia o no, le risorse naturali planetarie diminuiscono e i rifiuti aumentano, così l’Unione Europea ha saggiamente scelto la strategia dell’economia circolare, per minimizzare l’uso di materie prime, costruire oggetti più durevoli e riparabili, contrastare l’usa-e-getta, riciclare i materiali a fine vita. In un tale contesto, l’idea di una continua espansione del trasporto merci invocata dai promotori della Torino-Lione e da un’altra parte della burocrazia europea appare in aperto conflitto con i limiti fisici planetari. Occorre uscire dal tunnel per aprire lo sguardo alla realtà, molto più complessa, problematica e inedita, e le cui soluzioni sono immensamente più articolate di un buco nella roccia, ostinatamente perseguito per ragioni che non appaiono razionalmente difendibili.

Tav, tutte le inesattezze nei numeri del commissario

di Virginia Della Sala e Andrea Giambartolomei

da Il Fatto Quotidiano del 15-11-2018 |

Un dossier per il governo sul Tav, in attesa dell’analisi costi-benefici: Paolo Foietta, commissario straordinario alla Torino-Lione (che in passato ha scritto un libro di propaganda Sì-Tav col pasdaran dell’alta velocità Stefano Esposito, ex senatore Pd) ha inviato martedì il Quaderno 11, che contiene osservazioni tecniche sull’opera, realizzato dall’Osservatorio sulla Torino-Lione. E ieri lo ha presentato a Torino. Il tassametro. Prima dichiarazione: “Se a dicembre non partiranno le gare di appalto per la Torino-Lione, si perdono 75 milioni di euro al mese e si configura un problema di danno erariale”. Foietta non chiarisce quale sia l’origine di questo calcolo. Probabilmente, il riferimento è agli 813 milioni di finanziamento europeo che non arriverebbero. Non una spesa, dunque. Per il resto, va considerato che: gli accordi bilaterali non prevedono clausole che compensino le spese per lavori fatti dalla Francia; nei trattati non sono previste penali; se la Francia dovesse chiederle per un eventuale blocco, dovrebbe farlo per un’opera giudicata inutile; andare avanti costerebbe all’Italia almeno cinque miliardi. Gli esperti. Foietta ha poi detto che gli esperti del ministero che stanno lavorando all’analisi costi-benefici non sono stati nominati ufficialmente. In verità il gruppo ha firmato ad agosto un contratto che attualmente è all’analisi della Corte dei Conti. Non sono quindi degli abusivi. Intermodalità. Ad Avvenire Foietta ieri ha poi detto che “il rapporto costi-benefici cambia in relazione ai presupposti politici. Se decido che l’intermodalità è una scelta strategica, perché toglie traffico dalle autostrade, dovrò valutare i benefici in un certo modo. Se non le assegno valore, l’analisi avrà un risultato diverso”. In realtà esiste uno studio della Commissione Europea (Handbook on External Costs of Transport) che fissa i parametri per stimare i costi esterni del trasporto sia a livello Ue che nazionale. E che è un riferimento numerico pensato per i decisori politici. Servizi. Nonostante il trasporto passeggeri sia sempre stato accennato, la linea Torino-Lione nasce per il trasporto merci (tant’è che interessa di più agli industriali e che si parla di treno ad “alta capacità” per questo). Ai passeggeri, però, è dedicato un intero capitolo dello studio, in cui si legge anche che “negli ultimi 20 anni il trasporto ferroviario ha perso il 70% dei volumi di merce trasportata” salvo poi attribuire il problema alla qualità della linea, definita “obsoleta, insicura e inadeguata”. Si tira in ballo una osservazione di Rfi, secondo cui il tunnel storico “non è in grado di soddisfare gli standard delle gallerie attuali”. Che la pendenza implichi l’utilizzo di treni corti e pesanti è vero, così come che da qualche anno è stato imposto – per motivi di sicurezza – il passaggio di un treno alla volta nel tunnel del Fréjus. Ma anche in questo caso, bisogna valutare il rapporto tri i costi e i benefici nel complesso, non il singolo dato. Inoltre, in base all’obiettivo riferito da Foietta (di raggiungere 20-25 milioni di tonnellate di merci ogni anno) dovrebbero partire in ciascuna direzione una settantina di treni da 60 vagoni al giorno, uno ogni venti minuti, e in mezzo aggiungersi almeno 25 coppie di treni passeggeri. Impossibile se si considera che un treno merci viaggia a meno della metà della velocità di uno passeggeri.

Merci.Tra Francia e Italia passano poi circa 42 milioni di tonnellate di merci ogni anno, solo 3,4 via treno. Le previsioni di Sì Tav, quindi, sono irrealistiche. Il solo modo per ottenere un aumento importante – come auspicava l’accordo italofrancese del 2012 – è aumentare i pedaggi sull’autostrada del Fréjus. Oppure dirottare di 200 chilometri il traffico di Ventimiglia, da dove passa il grosso del traffico merci su strada. Ma per farlo, dovrebbero salire i costi del trasporto su gomma. Si sostiene poi che già entro il 2030 si toglierebbero dalla strada, sui percorsi di attraversamento delle Alpi Occidentali, 856 mila veicoli pesanti l’anno. Circa 2 mila al giorno. Se si considera che ogni giorno sulla sola tangenziale di Torino circolano almeno 80 mila camion e poco più di 300 mila auto, la percezione del beneficio ambientale si riduce sensibilmente. L’opera. Repubblica.it ieri (oltre a precisare che Tav, acronimo di Treno Alta velocità, sia ‘femminile’ perché è una “linea”) scriveva: “Il tunnel di base della Torino-Lione esiste. Sono già stati scavati 5,5 chilometri del primo lotto di 9”. A smentire è lo stesso sito di Telt: si tratta di uno scavo geognostico “in asse” e non è ancora il tunnel di base. La ministra. Foietta dichiara poi che “la ministra dei trasporti francese Elisabeth Borne ha smentito in modo chiaro e netto, rispondendo a un’interrogazione in Senato, il comunicato stampa fatto dal ministero italiano dei Trasporti”. In realtà, riportano i media francesi, Borne ha parlato di “rispetto per il processo decisionale dei nostri vicini italiani” e ha solo ribadito la necessità “di non perdere i finanziamenti europei”. D’altronde anche in Francia vogliono fare attenzione ai costi. A inizio anno, il Consiglio di orientamento sulle infrastrutture nel rapporto Duron ha suggerito di rimandare l’onerosa costruzione della linea ferroviaria che da Lione conduce al tunnel alpino dando precedenza a interventi sulle linee esistenti.

L’ira dei No Tav: «Siamo delusi dal Movimento 5 Stelle»

IN 300 ALLA RIUNIONE IN VAL SUSA

 Toninelli diventa «Toninulla». «Se ci fosse davvero un governo del cambiamento non saremmo in questa situazione. Il Tap si fa, il Terzo Valico si fa, il Muos si fa»
L’ira dei No Tav: «Siamo delusi dal Movimento 5 Stelle»Il ministro Toninelli alza il pugno in segno di vittoria dopo l’ok al decreto su Genova

No Tav contro Chiamparino: «La Val Susa non è il cortile di casa sua»

https://torino.corriere.it/cronaca/18_novembre_15/no-tav-contro-chiamparino-la-val-susa-non-cortile-casa-sua-ff690f40-e8d3-11e8-b58d-37a073f6910a.shtml?fbclid=IwAR3OLBmXx0vmcXkyyO38VFT1LLO1_zvHyBVmZV95K5OqKnDuBftE2n_LRCI

«Se davvero il presidente della Regione vuole pagare il tunnel lo faccia con i suoi soldi, quelli dei cittadini li usi per la sicurezza nei territori, per la sanità e per i servizi utili a tutti»

No Tav contro Chiamparino: «La Val Susa non è il cortile di casa sua»

«Siamo sempre più orripilati dall’arroganza di un amministratore che pensa di poter usare i soldi di tutti come fosse il suo portafogli e la Val Susa come il cortile di casa». Il movimento No Tav commenta così le affermazioni del presidente Sergio Chiamparino, che ha annunciato l’intenzione della Regione Piemonte di sostituirsi allo Stato nella realizzazione della Torino-Lione nel caso il governo intenda fermare l’opera.

«Se davvero Chiamparino vuole pagare il tunnel – aggiunge – lo faccia con i suoi soldi e nel suo cortile di casa, i soldi dei cittadini li usi per la sicurezza nei territori, per la sanità e per i servizi utili a tutti». 

ECCO, QUESTE SONO LE MADAMIN NO TAV,

Oscar Margaira

L'immagine può contenere: 8 persone, persone che sorridono, testo

alcune perfino tote.
Bele, forte, infiurmà e sensa pur.
(alcune perfino ragazze, belle forti, informate e senza paura).
GRAZIE DI ESISTERE E DI VOLER CONOSCERE.
Dopo na smana ed madame buje a servia un pò ed bela gent.
(Dopo una settimana di Signore bollite serviva un pò di bella gente)

Grandi opere, evocare il canale di Suez per dire sì alla Tav non è una buona idea

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/11/16/grandi-opere-evocare-il-canale-di-suez-per-dire-si-alla-tav-non-e-una-buona-idea/4770192/

Grandi opere, evocare il canale di Suez per dire sì alla Tav non è una buona idea

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Esperto di trasporti e ambiente

Nel 2018 non basta l’espressione “grande opera” per assicurarne il successo. E per successo si intende non solo il suo utilizzo, ma la sua di capacità di “modificare il modo di vivere”, di cambiare profondamente gli stili di vita e le attività di intere Regioni con conseguenze economiche, urbanistiche, sociali ed ambientali di grande impatto. Come non basta affermare che il Frejus è vecchio perché è stato aperto al traffico nel 1871, ai tempi di Cavour, per giustificare la realizzazione di un altro tunnel e garantirsi il successo sperato.

Non è neppure bastato per il raddoppio del canale di Suez, seppur pensato dai tempi di Napoleone Bonaparte e realizzato nel 1869, quasi 150 anni fa da Napoleone III. Dopo il suo raddoppio, i traffici sono diminuiti e non aumentati come auspicato e l’economia egiziana non ha subito quell’impulso e quello sviluppo sperato. Chi l’avrebbe mai pensato che il tanto decantato, e costoso, (8,3 mld di dollari) raddoppio del canale di Suez sarebbe stato un flop? Eppure, anche le grandi opere possono avere i “piedi d’argilla”. Non basta, quindi, la retorica per giustificarle, spesso sostenuta da analisi dei traffici euforiche e previsioni dei costi sottostimate.

Quanto accaduto con il canale di Suez ci deve mettere in guardia: allungato per 72 km e con un nuovo tratto di 35 chilometri parallelo a quello esistente, non ha raggiunto nessun obiettivo sperato. Senza aumento dei traffici anche gli introiti da pedaggio si sono rivelati un obiettivo dello Stato egiziano mancato quando le compagnie di navigazione hanno preferito circumnavigare l’Africa. Così, per non avere un crollo dei traffici, i pedaggi si sono dovuti diminuire. Il governo annunciò che, con il completamento dei lavori, le entrate annuali previste avrebbero presto raggiunto l’invitante cifra di 13 miliardi e mezzo di dollari mentre, negli anni precedenti, gli introiti ammontavano a un massimo di 5 miliardi di dollari.

Molte cose però non sono andate come previsto, e i profitti per l’Egitto invece di aumentare esponenzialmente, stanno lentamente ma inesorabilmente diminuendo. Dalla festeggiatissima riapertura del Canale, le entrate totali derivanti dalle tasse di transito e dai servizi marittimi e di navigazione sono crollate: dai 462 milioni di dollari dell’agosto 2015 ai 447 milioni di dollari del luglio 2017 (dati del IDSCEgyptian Cabinet’s Information and Decision Support Centre). Ciò significa che la promessa del governo di raggiungere i 13,4 miliardi di dollari di profitto annuale entro il 2023 sarà impossibile da mantenere. Per finire si è generato il fenomeno della migrazione lessepsiana (dal nome dell’architetto che progettò il canale) di specie sia animali che vegetali dal mar Rosso al Mediterraneo che ha alterato l’ecosistema, anche a causa dell’innalzamento del riscaldamento delle acque dovuto all’allargamento del canale.

L’esperienza egiziana dovrebbe servire come monito all’Italia: non sempre i problemi di traffico merci sono legati a mancanze strutturali, quanto piuttosto a carenze gestionali. Nel caso specifico del nostro Paese i problemi del traffico ferroviario merci (e passeggeri) non derivano dalle carenze infrastrutturali di valico ma piuttosto da gravi carenze gestionali lato rete (RFI) e lato compagnie ferroviarie (Trenord, Trenitalia, Mercitalia ecc.).

Le attività ferroviarie necessitano attività complesse per accorpare volumi di merci ridotti caratteristici della nostra piccola e media impresa: il Tir invece è più semplice da organizzare, più flessibile e non necessita delle regole ferree tipiche del trasporto su ferro. Senza la concentrazione di volumi europei e con una gestione nettamente più inefficiente e costosa dei maggiori player del vecchio continente, il vettore pubblico di FS (Mercitalia) e quelli privati assieme, sono il fanalino di coda europeo. Ci vorrebbe uno sforzo di informatizzazione della rete di segnalamento, sistemi di circolazione, aumento del peso trasportabile e una nuova logistica che ottimizzi il ciclo di raccolta e smistamento delle merci.

Insomma, meno cemento e più tecnologia. Proprio quello che manca a valle (Lombardia) dell’Alp Transit (traforo del Gottardo) dove la strozzatura di Milano vanifica il senso dell’opera.

Innovare il meccanismo di finanziamento delle grandi opere pubbliche potrebbe aiutare a fare scelte più ponderate.L’Eruotunnel sotto la Manica è stato finanziato al 50% da capitali privati, il Gottardo prevalentemente da una tassa sull’autotrasporto, mentre il Canale di Suez è stato finanziato quasi interamente da investitori egiziani. Tantissimi cittadini hanno infatti risposto nel 2014 all’appello del governo del Cairo per sostenere il progetto e in soli otto giorni sono stati raccolti 6,5 miliardi di dollari, su 8,3necessari, tramite la vendita di obbligazioni. Per la Tav Torino-Lione, la grande opera che “cambierà il mondo”, perché non proviamo a vedere come rispondono, tanto per cominciare, i torinesi che erano in piazza per il sì la scorsa settimana?

Dopo l’analisi Costi/Benefici arriva l’analisi Costi/Sogni: panico in Piazza Castello !

Il popolo italiano è un popolo di sognatori. Sognare è bello. Ci si mette lì e si inizia a fantasticare ad occhi aperti. E nel sogno si è belli, abilissimi, e si ha un grande successo. Sognare è meraviglioso, e non costa nulla.

Non sempre però. Perché certi sogni costano, costano cari. E quando sognare costa è perché ci sono altri che ci guadagnano. Sono quelli che di mestiere vendono sogni. Loro non sognano, ma i sogni li costruiscono e poi li vendono agli altri. Noi sogniamo e loro ci guadagnano.

Sogniamo di andare dalla Calabria alla Sicilia in pochi minuti, su un ponte bellissimo, lunghissimo ed altissimo… e loro ci accontentano con un bel progetto.

Sogniamo che i rifiuti finiscano in discariche miracolose, che non inquinano le falde acquifere, e che, anche se il fondo di quelle discariche è garantito solo per trent’anni, in realtà quel fondo dura per tutta l’eternità. Noi sogniamo e loro ci accontentano.

Sogniamo che i rifiuti vengano bruciati e dentro marchingegni miracolosi, da dove non escono fumi velenosi… e loro ci accontentano.

Sogniamo un mondo in cui i treni vanno tutti a 300 all’ora… e loro ci accontentano.

Loro ci accontentano usando soldi pubblici, i soldi che dovrebbero servire a fare le cose che servono tutti i giorni, ma non importa, basta che si possa continuare a sognare.

E poi magari sogniamo le Olimpiadi, dove noi, proprio noi, vinciamo una medaglia d’oro, magari due o tre. Perché il sogno non ha limiti. E non li deve avere, perché altrimenti il sogno non serve a nulla, perché altrimenti il sogno non ci aiuta a sopportare la triste realtà fino al sogno successivo!

Sogniamo che ci sia un lavoro per tutti. Anche per i robot. E che con quel lavoro tutti si possa avere una vita dignitosa. E che tutti si possa lavorare e produrre, produrre e vendere, vendere e guadagnare, guadagnare e sopravvivere. E che su questa terra ci sia del posto dove poter mettere tutte le merci che sono state prodotte, anche quelle che nessuno ha comprato.

Sogniamo nuove strade, ferrovie e tunnel per esportare in tutto il mondo le merci che produciamo. E sogniamo che da quelle stesse strade, ferrovie e tunnel non arrivino mai merci identiche alle nostre, prodotte da altri nel resto del mondo, ad un prezzo così basso da far chiudere per sempre il luogo che fino a quel momento ci ha permesso di lavorare, produrre, vendere, guadagnare e sopravvivere.

Noi sogniamo la crescita senza limiti… e i venditori di sogni ci accontentano.

Ma… e se invece della crescita sognassimo l’uguaglianza? Nemmeno tanta, solo un pochino…. perché adesso di disuguaglianza ce n’è troppa. E continua ad aumentare, e andare in giro è sempre più pericoloso.

Nooo?… L’uguaglianza non è un bel sogno?… Perché se c’è l’uguaglianza non si può sognare di essere i primi? Perché per essere noi i primi occorre che esistano anche gli ultimi? E che ce ne siano tanti, in modo da poter essere noi il meglio, come ci hanno insegnato da piccoli?…

Certo che quei venditori di sogni sono proprio stronzi. Cominciano a riempirci la testa con i sogni che convengono a loro quando siamo ancora piccoli. Sogni pieni di disuguaglianza e di sudditanza. Poi, quando si è cresciuti, in condizioni di dipendenza da sogno, ci chiedono di andare a Torino, in Piazza Castello, per sognare tutti insieme.

E continuare a pensare che i sogni siano tutti gratis.

Tino Balduzzi

Gli inganni della Francia che ha intanto deciso di non finanziare la Torino-Lione nel 2019

Comunicato Stampa

PresidioEuropa

Movimento No TAV

15 novembre 2018

http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=17657

Torino-Lione

Gli inganni della Francia e le interferenze della Commissione Europea

 La Francia ha intanto deciso di non finanziare la Torino-Lione nel 2019

Parte dei fondi UE messi a disposizione del progetto saranno

persi a causa dei ritardi di TELT

Avviso al Governo italiano: Perché l’Italia deve pagare

gran parte del tunnel di base ?  

Il 12 novembre a Bruxelles i Ministri Danilo Toninelli ed Elisabeth Borne hanno esaminato lo stato dell’avanzamento del progetto Torino-Lione, che nel rispetto dell’art. 3 dell’Accordo di Roma del 30 gennaio 2012 stabilisce il “controllo paritetico del progetto della nuova linea ferroviaria Torino-Lione”.

UNA PRIMA VALUTAZIONE

Il primo risultato positivo dell’incontro è il riconoscimento francese del diritto dell’Italia di fare la pausa della Torino-Lione, che la Francia aveva dichiarato nel luglio 2017.

Un altro dato positivo è stata l’accettazione della Francia di bloccare la pubblicazione da parte di TELT dei bandi di gara per la realizzazione del tunnel di base fino al termine dell’analisi costi-benefici sulla Torino-Lione.

C’era infatti il rischio, denunciato dal Movimento No TAV, e recepito dal ministro Toninelli, che TELT, non potendo attingere agli inesistenti fondi francesi, potesse avviare lavori definitivi per lo scavo del tunnel in Francia sulla base di fondi italiani decisi dal CIPE.

COSA PREVEDONO GLI ACCORDI CON LA FRANCIA

Ricordiamo che l’art. 16 dell’Accordo di Roma del 2012 prescrive che la disponibilità dell’intero finanziamento da parte di Italia e Francia è una condizione preliminare per l’avvio dei lavori del tunnel di base.  Ad oggi né l’Italia né la Francia hanno stanziato tutti i fondi necessari per la realizzazione del tunnel di base.

Questa “saggia” clausola impedisce che TELT lanci delle gare d’appalto senza disporre dei finanziamenti o che si possano interrompere dei lavori strada facendo per mancanza di fondi.

I LAVORI IN CORSO

I lavori in corso in Francia e in Italia, sono finanziati al 50% dall’Unione Europea dato che riguardano solo studi geologici e preparatori. Queste “azioni” sono in grave ritardo per l’inadeguatezza operativa della società TELT ad usare i fondi a sua disposizione erogati da Italia, Francia e UE.

A questo proposito ricordiamo che gli scavi in corso nel cantiere francese sono in ogni caso illegali, richiamiamo l’attenzione su questo documento Undici ragioni giuridiche per fermare il cantiere di Saint-Martin-de-la-Porte che spiega perché.

Come già accaduto nel 2013, TELT dimostra ancora una volta la sua incapacità di rispettare il cronoprogramma previsto dal Contratto di Finanziamento del 25 novembre 2015. Siamo convinti che sia impossibile che questa società riesca a terminare i lavori finanziati dalla UE entro il 31 dicembre 2019. TELT contribuisce così al ritiro dei fondi dell’Unione europea che applica la clausola “use it or lose it” (usali o perdili). I ritardi di TELT non dipendono dalla pausa in corso che riguarda unicamente i futuri lavori di scavo del tunnel di base.

A CHE PUNTO SONO I FINANZIAMENTI EUROPEI

Per quanto riguarda i prossimi finanziamenti, la ministra Borne e la Commissione Europea insistono a dire che è necessario arrivare rapidamente ad una decisione per consentire di rispettare i tempi per l’erogazione dei fondi europei.

Questa affermazione non ha senso perché la UE ha già confermato che assicura i finanziamenti richiesti da Italia e Francia nel 2015 per lavori da concludere entro il 31 dicembre 2019.

Dopo questa data i fondi non utilizzati saranno persi applicando la regola UE use it or lose it. Ad oggi la previsione è che TELT farà perdere all’Italia e alla Francia non meno del 40% dei fondi concessi per sua incapacità a realizzare i lavori nei tempi previsti dal Grant Agreement. Questo grave inadempienza era già successa nel 2013, questo Rapporto spiega come LTF (ora TELT) era riuscita a fare perdere all’Italia e alla Francia ben 276,5 milioni di euro di finanziamenti europei.

La Ministra Borne, ma soprattutto la Commissione europea dovrebbero ben sapere che i prossimi finanziamenti UE per realizzare il tunnel di base potrebbero essere erogati se e quando la Commissione europea lancerà i bandi gara per il periodo 2021–2027, dunque solo dopo le prossime elezioni europee e sulla base degli stanziamenti inserirti nel Bilancio pluriennale UE 2021-2027 che sarà approvato dal Parlamento nel 2020.

AVVISO AL GOVERNO ITALIANO: PERCHE’ L’ITALIA DEVE PAGARE GRAN PARTE DEL TUNNEL DI BASE?

La Francia era riuscita nel 2004 a convincere il Governo Berlusconi ad assumersi la gran parte dei costi dello scavo del tunnel di base che aveva accettato di far pagare all’Italia il 63% dei costi di tutto il tunnel di base, Nel 2012 Monti, firmando l’Accordo di Roma, aveva modificato la percentuale al 58,1%.

La ripartizione asimmetrica dei costi genera un costo al km per l’Italia di €287 milioni al km, 4,8 volte più caro del chilometro francese di €60 milioni al km.

E alleggerisce il peso del finanziamento francese di circa € 2,2 miliardi.

L’Italia (governo Gentiloni), nonostante la grave asimmetria dei costi a danno dell’Italia, ha deciso nell’agosto del 2017 di finanziare il progetto, ma ha messo a disposizione solo parzialmente i fondi per la realizzazione del tunnel di base.

La Francia, mentre continua a dichiarare “a parole” di voler rispettare gli accordi con l’Italia, non ha mai aperto il rubinetto dei finanziamenti per il tunnel di base, nonostante debba mobilitare un piccolo investimento per la Torino-Lione (€2,68 Mld. per 45 km di tunnel) di fronte a quello dell’Italia che sarebbe ben più oneroso (€ 3,50 Mld. per soli 12,2 km).

UN’ALTRA ANALISI COSTI BENEFICI

La decisione, non sappiamo se scelta o subita dal Ministro Toninelli, di sottoporre il risultato dell’ACB in corso ad una verifica europea può essere considerata un’interferenza della Commissione europea che anche in questo caso interviene in un passaggio decisionale non di sua competenza e ferisce le libere scelte di due Stati membri che hanno il diritto di rinunciare ad un progetto ancorché finanziato dalla Ue.

Ma questo passaggio farà certo piacere alla Francia perché rinvia la decisione di avviare i lavori definitivi alle calende greche.

RIEPILOGO DELLE POSIZIONI DI ITALIA E FRANCIA SUL PROGETTO

È noto che per diverse ragioni Italia e Francia sono contrari a portare avanti il progetto.,

Per l’Italia l’opposizione al progetto deriva dalla storica convinzione del partito/movimento di maggioranza relativa (M5S) che, nel contesto del “contratto di governo” firmato con il suo alleato (Lega), ha scelto di sottoporre questo progetto ad un’analisi di costi e benefici per assistere il Governo nella sua decisione politica.

Anche per la Francia vi è una storica convinzione contro questo progetto da parte delle alte amministrazioni pubbliche, mascherata tuttavia da roboanti dichiarazioni di interesse espresse da lobby regionali come la Transalpina, mentre i governi che si sono succeduti, compreso l’attuale, non esprimono nei fatti una forte e risolutiva volontà di fare.

La Francia era riuscita nel 2004 a convincere i governi italiani ad assumersi la gran parte dei costi dello scavo del tunnel di base, Berlusconi aveva accettato di far pagare all’Italia il 63% dei costi di tutto il tunnel di base, mentre nel 2012 Monti, firmando l’Accordo di Roma, aveva modificato la percentuale al 58,1%.

LA FRANCIA CONTINUA LA PAUSA IN ATTESA CHE L’ITALIA BOCCI IL PROGETTO: ALCUNI PASSI DA FARE PER ANNULLARE GLI ACCORDI

Nel luglio 2017 fu la ministra Borne a dichiarare “Si fa una pausa sulla Torino-Lione”,  quasi un anno prima dell’avvento del nuovo governo italiano.

Oggi la Francia, valutando incerta la posizione italiana, ha deciso che dovrà essere l’Italia a bocciare il progetto affinché la Francia possa mantenere “buone relazioni con lUnione europea”.

L’Italia non ha alcuna difficoltà ad uscire dalla Torino-Lione: basterebbe che denunciasse la ripartizione capestro dei costi inserita nell’Art. 18 dell’Accordo del 2012 (voluta dai Governi Berlusconi e Monti) che la obbligano a pagare la maggior parte dei costi.

In caso di ripartizione equa sulla base della proprietà dei chilometri tra i due Stati, la Francia vedrebbe la sua fattura passare da € 2,68 a €4,87 miliardi, un importo che convincerebbe il nostro vicino ad abbandonare il progetto.

Inoltre, tale accordo è stato di fatto già violato dalla Francia e dall’Italia che hanno dichiarato di non volere realizzare due tratte ferroviarie previste all’Art. 4 – Parte comune italo-francese dell’Accordo del 2012: la sezione francese di 33 km con i tunnel di Belledonne e Glandon e la sezione italiana con un tunnel di 19,5 km tra Susa e Chiusa San Michele.

I RECENTI PASSI DELLA FRANCIA CONFERMANO IL DESIDERIO DELLA FRANCIA DI USCIRE DALLA LYON TURIN

In due recenti occasioni la ministra Borne ha voluto fare credere che esista una forte volontà della Francia, ma un’attenta lettura delle sue comunicazioni rivela il disimpegno del Governo francese alla Lyon-Turin.

Il 5 novembre scorso l’Assemblea Nazionale ha respinto con l’approvazione della Ministra Borne, nel corso dell’esame del Bilancio 2019, un emendamento che avrebbe imposto al Governo di presentare al Parlamento una relazione per illustrare l’impegno della Francia nel quadro degli accordi internazionali per il completamento dei lavori definitivi della relazione transfrontaliera Lione-Torino, qui i Verbali.

Si constata così che la Francia ha deciso di non finanziare la Torino-Lione nel 2019, l’emendamento è stato respinto per la sua eccessiva chiarezza che avrebbe imbarazzato il governo.

Il 13 novembre alla Commissione del Senato pianificazione territoriale e sviluppo sostenibile la ministra Borne ha affermato senza convinzione che “il progetto Lyon-Turin farà parte della programmazione ma non ha fornito alcuna prova di questa volontà  perché non ha comunicato alcun dettaglio circa l’orizzonte temporale della realizzazione e non ha preso impegni visibili per il suo finanziamento. Questa è l’ulteriore conferma che la Francia non intende inserire il progetto Lyon-Turin nel Budget 2019.

Le “fate ignoranti” di Torino

https://volerelaluna.it/commenti/2018/11/15/le-fate-ignoranti-di-torino/?fbclid=IwAR2Au_FHpUVUrkPiA9WWpwuQJpfbO4qyLJbqgcq9Q69qtQcAaVDhDLYjMG8

15/11/2018 – 

Giuro che non volevo credere ai miei orecchi lunedì sera quando ho sentito  a Otto e mezzo, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in Piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del TAV Torino Lione. Ha detto proprio così: “posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera”.

 Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente  – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della Regione. E ora sappiamo che quell’”entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera. Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle  persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione .

Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica -, di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la Valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei Comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle,  pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica,  del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili. Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby“, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di Piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata.

Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad Agorà: “Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi.”. Giovanna Giordano detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da Repubblica  “madamina di ferro, informatica e nonna” , nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro Valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il NOI di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro  Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche  evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io e voi…”. In quel “Che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro“) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos.  Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.

Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita -, ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante.  Altro che Cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”. Un esempio per tutti: il Presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che “La Città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere”. Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la Città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso dovrebbe voler dire seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale  (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino Città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di Piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella Giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.

Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini Stampa e Repubblica, appartenenti ora il medesimo gruppo finanziario assai interessato all’Opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato (*), una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada. Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St.Jean de Morienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della Valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tante decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…

E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione  sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’”evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto -, cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.  Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò.

Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.

(*) Alla fine, post festum – a metà della week after – l’ineffabile Paolo Foietta (Commissario di Governo al Tav, che di Tav vive e vorrebbe sopravvivere) ha emesso un’ampia gittata di dati – un “Dossier” lo chiamano -, su cui interverremo nel dettaglio nei prossimi giorni, ma di cui si può già dire che, come il ruolo del loro comunicatore, appaiono assai improbabili.