No TAV – Comunicato Stampa 29.11.2016 – Stop alla Ratifica della Camera degli Accordi di Parigi 2015 e Venezia 2016 – A

Comunicato Stampa

29.11.2016

www.presidioeuropa.net/blog/?p=11263


Torino-Lione

Il Movimento No TAV denuncia la Ratifica degli Accordi

di Parigi 2015 e Venezia 2016

Lettera Aperta ai Deputati dei Gruppi parlamentari della Camera

contrari allo spreco della NLTL Torino – Lione


Il Coordinamento dei Comitati del movimento No TAV ha deliberato il 23 novembre 2016 in San Didero di invitare i Deputati contrari allo spreco del denaro pubblico a confermare la loro contrarietà in solidarietà con la lotta No TAV che si oppone da oltre 25 anni alla costruzione del tunnel di 57 km sotto le Alpi sulla linea ferroviaria Torino-Lione con un gesto che vada al di là del loro voto.

Questo è il pressante invito che è stato rivolto.

La legge di Ratifica degli Accordi tra la Francia e l’Italia per il progetto Torino-Lione firmati a Parigi 2015 e a Venezia 2016 è stata approvata dal Senato della Repubblica il 16 novembre scorso (AS 2551), nonostante la ferma opposizione in commissione e in aula  al momento del voto finale,  da numerosi Senatori No TAV: Alberto Airola, Andrea Cioffi, Luigi Gaetti, Stefano Lucidi, Carlo Martelli, Vincenzo Santangelo, Marco Scibona, Loredana De Petris, Massimo Cervellini.

Il Governo e i promotori di questo sperpero si attendono ora una veloce Ratifica alla Camera per permettere l’avvio dei lavori di scavo del tunnel di base lungo 57 km, dei quali 12 km in Italia e 45 in Francia, che costerà almeno 11,3 miliardi di €.

In questi giorni la Camera dei deputati ha iniziato ad esaminare il testo approvato dal Senato (AC 4151): l’approvazione della Legge di Ratifica sarà un atto molto veloce e senza storia, dato che anche in quest’aula vi è una schiacciante maggioranza di Deputati Sì TAV.

Ma in Valle Susa noi cittadine e cittadini stiamo costruendo un’altra storia, generosa ed esemplare, di opposizione alla distruzione della natura, allo sperpero del denaro pubblico, di denuncia delle mafie, per l’affermazione del diritti di partecipazione e per la salvaguardia della democrazia nel nostro Paese.

Per sostenere l’opposizione a questa Grande Opera Inutile e Imposta che è in difesa dell’intero Paese, vi invitiamo a compiere gesti molto forte e visibili.

Al momento della votazione finale alla Camera, vi preghiamo di :

  • non partecipare alla votazione,
  • lasciare che un solo collega spieghi il vostro gesto di Parlamentari NO TAV.

Subito dopo la votazione, vi sollecitiamo di :

  • recarvi in massa nelle zone colpite dal terremoto e dalle odierne alluvioni per spiegare alle cittadine e ai cittadini che l’Italia dovrà investire in questa Grande Opera Inutile e  Imposta ben 4,3 miliardi di €, ossia la maggior parte dei costi del tunnel di 57 km sotto le Alpi, dicendo a tutti che fermando una Grande Opera Inutile e Imposta come il tunnel della Torino-Lione sarebbe possibile dirottare somme così ingenti da poter ricostruire e mettere in sicurezza tutti i territori delle zone terremotate e di quelle alluvionate;
  • informare con ogni mezzo che il Governo italiano, e la maggioranza che lo sostiene, preferiscono finanziare questa Grande Opera Inutile e Imposta accettando di pagare addirittura una grossa fetta dei costi francesi (http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=9871) per la costruzione dei 45 km del tunnel sul suolo francese di fronte ai 12 km sul suolo italiano: un vero e proprio esproprio della sovranità dell’Italia,
  • pubblicizzare con enfasi sui vostri siti questa forte presa di posizione contraria allo spreco delle poche risorse a disposizione.

TRUMP, LA GLOBALIZZAZIONE DEL VAFFA – Dalla Brexit alla Amerexit?

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2016/11/trump-la-globalizzazione-del-vaffa_13.html

MONDOCANE

DOMENICA 13 NOVEMBRE 2016

In nessun paese i politici formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell’America del Nord. Quivi ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare, che specula sui seggi tanto delle assemblee legislative dell’Unione quanto dei singoli Stati. /…/ Ci sono due grandi bande di speculatori politici che entrano in possesso del potere, alternativamente, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e ai più corrotti fini; e la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli che si presumono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano“.(Friedrich Engels)
Premetto che la vignetta del grande Apicella su Trump-Lenin che spazza via la marmaglia capitalista è un’ottima intuizione grafica, ma anche un’ aspettativa appesa a fili di ottimismo che per ora non si sa se siano cordame da barca, o tela di ragno. E tutti coloro che danno per sicure e assicurate sia le prospettive nefaste, che quelle fauste, a seconda dei punti di vista, avranno probabilmente modo di aggiustare il tiro e, in qualche caso, svuotare il caminetto e gettarsi la cenere sul capo. I saggi latini dicevano “nemo propheta in patria”. Dovremmo aggiornarci alla civiltà del Bar Sport: “omnes prophetae in patria”.
Mi è stato dato di sfuggire ai primi scomposti ululati dell’italiota stampa delle larghe intese, con i soliti acuti strazianti del “manifesto”, ma ho ampiamente recuperato nei giorni successivi. Ero in volo quando la vittoria impossibile di Donald Trump, il candidato anatemizzato dall’universo mondo (che poi è solo quello nord-occidentale e nemmeno un settimo dell’umanità ) manco fosse Dart Fener, da ipotesi onirica si materializza in fatto, solido quanto le Montagne Rocciose che hanno contribuito a produrlo. La bomba Trump, hybris distopica per lo stato di cose esistente, mi è esplosa dagli schermi di un albergo a Berlino dove mi trovavo per l’invito a un talkshow televisivo. Prima della autoproclamata “comunità Internazionale” (in sostanza la NATO) a riprendersi, una Angela Merkel improvvisamente ritrovatasi senza tutor e, dunque, malferma, assicura al neo-eletto collaborazione, ma gli pone anche una non lieve condizione-auspicio: “purchè ci uniscano i nostri valori”. Che elenca: libertà, democrazia, solidarietà, diritti umani, pace. E che dalla metalingua dei palazzi vanno tradotti in controllo sociale tramite minaccia terroristica, manipolazione dei cervelli tramite monopoli della comunicazione, trasferimento della ricchezza dalla base alla vetta della piramide, autodeterminazione per l’élite, un po’ per i LGBTQ e per nessun altro. Apocalisse per chi non ci sta o, comunità o individuo, è semplicemente di troppo.
 
Talkshow alla tedesca
Il talk-show nel pomeriggio, era ben assortito. Un pubblico di 100, in maggioranza giovani, candidatisi da tutta la Germania e poi sorteggiati, volontari neppure rimborsati, con opinioni precise che esprimevano con applausi spontanei e ragionati, senza necessità che si sbracciassero direttori di studio, come succede da Floris, per un’equa distribuzione del clap-clap a tutto e al contrario di tutto.
Il tema era composizione, distribuzione, strutturazione del Potere nell’attuale società postmoderna del capitalismo finanziarizzato. Eravamo in 5, incluso il conduttore, con una bilancia dove il piatto pendeva visibilmente, anche per consenso di pubblico e punto di vista dell’emittente (“KENFM”.web-tv anti-UE, su posizioni simili al M5S), dalla parte dei negazionisti dell’eccellenza del sistema economico, sociale, politico in cui si era svolta l’appena conclusa contesa elettorale. Dal punto di vista mediatico main stream, fatta eccezione per il sottoscritto, i pezzi erano grossi. Un popolare conduttore del più seguito canale tv di Stato, ZDF, un celeberrimo editorialista per molti anni dello “Spiegel” (equivalente del nostro “Espresso”, o dello statunitense “Time”), uno studioso, con saggi di grande diffusione, della pubblicistica giornalistica ai tempi, come lui eccellentemente definiva, dell’ Inganno Sistemico e della “Fine del Giornalismo in quanto tale”, il conduttore, abilissimo a cucire argomenti opposti purché ne uscisse convincente quello eterodosso (il contrario di quanto fa, per esempio Lilli-Bilderberg-Gruber), e il sottoscritto.
Non vi starò a tediare con il racconto delle tre ore di scambio vivace. Con lo ZDF che, messo in corner dalla vittoria dell’orco razzista, xenofobo, sessista, eccetera,.tentava la ripartenza inneggiando alla democrazia Usa che, diversamente da noi, è perfetta nei turnover (ma si arenava a centrocampo quando gli si ricordavano i turnover a scandali, o a pallottole o il turnover dinastico dei Kennedy, Bush, Clinton). Quando gli sottomisi che l’euro poteva essere stato inventato per mimetizzare la dittatura del marco e che a fare un’Europa che la facesse finita con le costituzioni nazionali antifasciste erano stati gli Usa, si produsse in una Santanchè e minacciò di andarsene “davanti a simili scemenze”. Quello dello “Spiegel” , alle contestazioni che i giornalisti, fuori da internet, oggi si configurano come embedded e presstitute, giurava e spergiurava che, a dispetto di editori e oligarchi a capo del sistema, un giornalista basta che sia coraggioso e ce la fa a uscire con storie fuori dal coro. Dove? Ma sul Corriere della Sera, ha risposto, sul Washington Post, o sulla Sueddeutsche Zeitung (un misciotto giallo-rosa di regime, tra Repubblica e manifesto). Nientemeno. Giornalisti che condividono con i loro padroni la percezione della realtà. Ma questo pubblico, sorteggiato e non selezionato, batteva le mani a chi faceva intendere UE merda, Hillary merda, media merda, 1% merda. Come ho verificato neille successive, assai più stimolanti, chiacchiere con quei ragazzi. Da noi forse qualcuno arriva a Paragone. Non più in là.
 
Lo zero virgola, e l’1% che piace al “manifesto”
Intanto fuori dal coro nel nostro emisfero siamo rimasti in quattro gatti, lo zero virgola, esiliati su internet, a raccontarci che peggio di Trump c’era solo Hillary, la quale, per la proprietà transitiva, viene issata nell’empireo dei famosi “valori” di Angela Merkel dallo tsunami di improperi rivolti all’avversario. E per la stessa proprietà transitiva diventano paladini della democrazia, anzi del bello, giusto, sacro e sublime, della salvezza dei valori merkeliani, coloro che in queste ore, si sono scatenati in piazza sincronicamente in 25 città, a pochi istanti dalla vittoria di Trump, tutti con gli stessi cartelli e slogan bell’è stampati, convocati da George Soros tramite le Ong dei diritti umani (limitatamente agli umani dell’élite), MoveOn e Avaaz. E se si danno a feroci pestaggi dei subumani che stanno con Trump (vedi i numerosi video in rete), feriscono poliziotti, spaccano vetrine, danno fuoco alle macchine, sparacchiano in giro, non è altro, per tutti quelli che simili pratiche sogliono definirle teppismo, se non terrorismo, che una disobbedienza civile nei confronti di chi si è malamente avvalso del suffragio universale.
E sulla foto di un’incapucciata in prima pagina il “manifesto” titola cubitale:”Fa la cosa giusta”. Non pubblica, invece, la notiziola che a Seattle imprese di Washington invitano a manifestare contro “The Trump Agenda” in cambio di “benefits” come cure mediche, dentali, oculistiche, ferie pagate, malattia pagata ( Fight the Trump Agenda! We’re hiring Full-Time Organizers 15/hr! – reads a Craigslist ad from Washington CAN in Seattle. Activists are promised Medical, Dental, Vision, 401(k), Paid Vacation, Paid Sick Days, Holidays, and Leave of Absence). Tutto molto spontaneo, vero “manifesto”?
In un giornale che, per quanto da anni fedele alla linea internazionalista sorosiana di Radio Liberty/Radio Free Europe (frequentata anche da Politovskaja e G. Chiesa) e autentica talpa dello scavo cripto-imperialista, a tanti utili idioti ancora pareva la voce degli offesi, oppressi e sfruttati, il napalm scagliato su Trump e, ancora per la proprietà transitiva, su tutta una classe di operai senza fabbrica, di contadini senza terra, di emarginati e rasi al suolo dal capitale, è equivalso a un autentico e definitivo autodafé. Mosca cocchiera, la lobby talmudista tirava fuori un po’ di folklore KKK e neonazista filo-Trump al fine di oscurare il ruolo di Hillary quale candidata di quanto nel mondo aveva elevato all’ennesima potenza, tecnologizzato e universalizzato nel tempo e nello spazio, il progetto ultra-fascista di dominio totalitario mondiale, perseguito attraverso l’affettamento del genere umano, l’obliterazione di ogni diritto, pace, libertà. Vale a dire l’intero establishment del potere: neocon,servizi di intelligence, complesso militar-securitario, Wall Street, corporations,massonerie e mafie, tutto lo Stato Profondo che manovra lo scibile e l’esistente.
 
Nazista a chi?
Nello specifico ai talmudisti e loro corifei andrebbe ricordato che se a Kiev c’è stato un colpo di Stato che ha portato e consolidato al potere dichiarati nazisti, ora spediti ad ammazzare russi, anche comunisti, nel Donbass, lo si deve ai germogli spuntati nel dipartimento di Stato di Hillary, come Victoria Nuland, da lei addestrata e guidata nell’operazione Maidan. Per la Clinton si sono mossi in concerto l’Atlantic Council, think tank della Nato e covo di bellicisti ultrà e il CEEC, Consiglio dell’Europa Centrale e Orientale, affiliato alla Nato e che riunisce il revanscismo nazista delle destre baltiche, ucraine e polacche.
Hanno sotterrato una carriera criminale del clan Clinton degna dei prodotti più splatter della filmografia horror; hanno interpretato come sostegno alla candidata di “sinistra” i milioni arrivatile da coloro che con lei hanno fondato il terrorismo jihadista e che continuano a pagarlo perché abitui il mondo a massacri e atrocità (come insegnano i videogiochi esaltati dal “manifesto”); hanno messo in archivio fino alla prossima buona occasione i propositi di guerra a russi e a chiunque si metta di mezzo, fino all’armageddon nucleare, propositi magari riattivabili grazie a una bella “primavera americana” che Soros e soci pensano di duplicare da quelle allestite per altri regime change, o con qualche fucilata tipo Dallas.
 
“Quotidiano comunista” in odio alla classe operaia
Il fenomeno, surreale se si dimentica quanto la Chiesa da 2000 anni ci insegna in termini di ipocrisia e opportunismo, di chi alla lotta per la mitica classe operaia sostituisce quella condotta contro la classe operaia, perché rozza, ignorante, dotata di intestini e priva di neuroni (già successo con Brexit). E la conduce utilizzando le Forze Speciali addestrate da quelli che la guerra di classe dall’alto la conducono da sempre con relative vivandiere: LGBTQ, dirittoumanisti, nonviolenti a senso unico, chierici, femministe/i, accoglitori di migranti dai loro amici cacciati, anche se a milioni, quelli che perorano l’autodeterminazione delle balene e della foresta pluviale, ma trovano riprovevole e bombardabile quella di libici, iracheni e siriani. Anche dei russi, se preferiscono Putin.
E qui l’inventiva degli amici del giaguaro del “manifesto” supera quella del migliore Fregoli. Per Guido Viale, sodale di Adriano Sofri, il voto di quella metà degli elettori statunitensi che l’1% schierato con Hillary ha raso al suolo, privato di presente e futuro, reso abitanti-fantasma di un paese in cui Obama, spendendo per sette guerre e molti più salvataggi bancari, ha fatto a pezzi infrastrutture, sanità, sicurezza, casa, istruzione, privacy, giustizia, lavoro, tutto salvo i profitti dei banchieri e delle multinazionali più o meno delocalizzate tra schiavi morti di fame, per Guido Viale, dicevo, tutto questo è “la rivalsa della supremazia maschilista”. “Rivalsa di una popolazione maschile sulle donne che già era stata determinata dall’inadeguatezza di un socialismo sui generis, del nazionalismo arabo e dell’immigrazione in Europa”.
 
Ma quale capitalismo, ma quale imperialismo! E’ maschilismo!
Qui tralascio ironia e sarcasmo, pur meritato, per definire propriamente canagliesca la manovra del Viale di attribuire la retrocessione delle donne a colpe delle nazioni progressiste arabe che, in pochi fenomenali anni, le avevano tratte a un’emancipazione che da noi aveva impiegato secoli (per poi degenerare). Obliterando in perfetta malafede gli effetti sulla condizione delle donne provocati da quanto l’Occidente ha fatto uscire dalla cornucopia sversata sul Medioriente: l’assalto alle donne, in prima linea, dei Fratelli Musulmani dell’egiziano Morsi con la sua Sharìa (di cui Hillary è documentata vindice), l’oscurantismo wahabita degli alleati saudita e qatariota, il jihadismo mercenario, stupratore e tagliagole, rastrellato in giro per il mondo. E non solo imposizione di norme e vincoli privatori di cittadinanza e dignità, promotori di mercificazione e schiavismo. Una catastrofe sociale determinata da privazioni, sradicamento e spopolamento che, distruggendo la comunità e il suo ordine, torna a caricare la donna di incombenze e responsabilità primarie, legate alla sopravvivenza: cibo, vestiario, cura dei figli. E a renderle inarrivabile il resto.
La grande incognita, meno peggio della grande cognita.
 
 
E’ opportuno precisare che di Donald Trump non si conosce nulla, salvo il suo linguaggio indirizzato a una popolazione deprivata non solo di mezzi di sussistenza, ma anche di cultura e che, comunque, parla come la maggioranza, specie quella sottoposta a deculturizzazione, parla in privato quando dal politically correct scivola nel dialogo da spogliatoio, come lo chiama The Donald. Quanto ha detto di concreto aspetta la prova dei fatti e, prima di allora, ogni speculazione, illazione, allusione, anticipazione, promettente o preoccupante, lascia il tempo che trova. Del muro col Messico sappiamo già che era trovata strumentale di fronte a gente che ha visto il suo lavoro scippato dalle corporations e affidato a sottopagate donne messicane e centroamericane, a perenne rischio di femminicidio. E che sa bene, facendo di tutta l’erba un fascio, come da Messico, Centroamerica e Colombia, insieme a profughi dal neoliberismo del caudillo, fantoccio Usa, arriva anche la droga che ammazza per le strade e rimpingua le banche che gli hanno fottuto la casa. Del resto il muro, di tremila chilometri, esiste già. L’hanno fatto Bush e Obama e io l’ho filmato (spot: “Messico, angeli e demoni nel laboratorio dell’Impero”).
Curioso come tutti i flagellanti nostalgici della più corrotta e sanguinaria personalità politica emersa dal capitalismo nella sua fase imperialista avvoltolino la loro indignazione nella cartaccia degli spropositi trumpiani, ma ignorino quelli che potrebbero anche diventare sabbia gettata negli ingranaggi della guerra globale. Tipo il rifiuto di scazzottarsi con Putin col rischio di innescare un day after globale, il riconoscimento della sacrosanta russità della Crimea, il raffreddamento di una Nato oggi al calor bianco e di cui ha detto di non vedere l’utilità, la preferenza per un Bashar el Assad al potere piuttosto che l’Isis, la necessità di concentrarsi con la Russia sulla’eliminazione della metastasi jihadista (che potrebbe anche sottintendere il disvelamento delle complicità dello schieramento hillariano con quella metastasi), la sacrosanta condivisione degli scampati all’UE con la rivoluzionaria BREXIT. E, di rilievo assoluto, la dichiarata intenzione di cancellare i trattati di ineguale scambio, TTP, TTIP e Nafta, magari a difesa dei posti di lavoro negli Usa, ma di incommensurabile beneficio per noi.
Barlumi e nuvole
Milizie hillariane
 
E’ vero che a questi barlumi di luce all’orizzonte si affiancano i nuvoloni neri della progettata cancellazione dell’accordo con l’Iran, la negazione del problema climatico, oleodotti devastanti, i salamelecchi ai nazisionisti (cui non sembrano peraltro credere i talmudisti di casa nostra, infoiati appresso a Hillary e contro Trump e affidabili rivelatori delle reali posizioni del sinedrio). Insomma, inutile fasciarsi la festa o accendere ceri prima che l’uomo dalla polentina in testa e che, comunque, ha tirato fuori la classe operaia e contadina americana dall’oblio nella disperazione in cui la gente dell’antagonista l’aveva relegata, stia seduto nella sala ovale, se la veda col Congresso e con il resto del mondo. Se ce lo fanno arrivare.
Intanto è in corsa una sommossa, innescata dall’oligarchia mondialista che gli operai li ha disintegratii, e pompata da quell’unanimismo mediatico che dell’oligarchia è il pifferaio e la prostituta. E’ la sommossa di coloro che, fino a ieri, rischiavano la sommossa di un’altra classe, quella il cui lavoro era finito a schiavi in India, Cina e Messico, i cui salari erano andati trasformandosi in bonus di manager e dividendi di azionisti e le cui case erano finite nei caveau delle banche. E’ la sommossa comandata da chi entro la fine di agosto aveva già speso per le sue guerre 5mila miliardi di dollari, i cui interessi sul debito per finanziare le 7 guerre di Obama, da moltiplicare sotto Clinton, sono di 453 miliardi e arriveranno a mille nel 2023, e che fa guadagnare alla sua industria della sicurezza (leggi: di Stato di polizia) 548 miliardi di dollari l’anno con la scusa del terrorismo (autogenerato). Non meraviglia che, provato da difficoltà mai aspettate, chi ha dato solare evidenza del suo distacco galattico da popolo e realtà, punti al pogrom, forse alla guerra civile, per almeno delegittimare uno che con il resto del mondo non vuole litigare. Uno delegittimato è più facile da assassinare.
Rivoluzioni incompiute.
A Reagan spararono perché aveva posto fine alla guerra fredda. Kennedy lo ammazzarono perché meditava di ritirare le truppe dall’Indocina e aveva rifiutato di firmare il piano Northwoods sottopostogli dai capi di Stato Maggiore, una gigantesca False Flag (vedi in rete), con migliaia di vittime Usa, per dare il colpo di grazie a Fidel Castro.
Robespierre intuiva e Marx e Lenin avevano imparato dalla storia che nessun cambiamento si avvera fin quando la classe dirigente è lasciata integra dalla rivoluzione. Ce ne stiamo accorgendo in tutta l’America Latina, dove rivoluzioni che non hanno tolto di mezzo la classe dirigente nei suoi poteri e mezzi (a partire da media, Ong e quattrini), si stanno aprendo alla controrivoluzione di Washington. S’è visto in Brasile e Argentina e il Venezuela è sotto tiro. E’ un classico errore quello di fare affidamento sulla buona disposizione al compromesso della classe dirigente spodestata (ci rifletta anche Putin). Hugo Chavez, all’apice della forza e del consenso popolare, perdonò e rimise in circolo i golpisti del 2002. E al sabotaggio della distribuzione di viveri operata dalle grandi catene in Venezuela, Maduro non ha voluto rispondere con la nazionalizzazione dell’intera rete.
Trump è uno che fa affari, che negozia e media. L’oligarchia può concedergli l’apparenza del successo in cambio della rinuncia al successo reale. Trump potrebbe anche essere l’altro elemento della coppia di marionette che il puparo in cima alla piramide mette in campo per la truffa della dialettica e della democrazia. Così è accaduto molte volte negli Usa e nei regni della borghesia capitalista. Ma Trump potrebbe anche essere la rara variabile impazzita. Lo farebbe pensare il fatto che abbia contro proprio tutti, da Goldman Sachs a Rothschild, da Rockefeller alle femministe tipo Albright, Rice, Powers, dall’evasore del Lussemburgo e sbronzone UE Juncker al Battaglione Azov, e, si parva licet componere magnis, dal New York Times a Giovanna Botteri, a Norma Rangeri, a Fabio Fazio, a Roberto Saviano, a li mortacci dell’animaccia loro. La combinazione tra una politica che punta al verticismo totalitario, un’economia minata da globalizzazione e migrazione, una geopolitica di guerra e fame, è l’incubo della fase. Se Trump capisce questo, come sembrava da alcune uscite, va sostenuto. E va sostenuto se sono vere le cose che dice su Putin, la Russia, la Siria, Isis, e trattati di libero scambio. Sono dirimenti. Accontentiamoci. Primum vivere.
Lets wait and see.
Pubblicato da alle ore 20:37

CADE UN GIGANTE

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MONDOCANE

SABATO 26 NOVEMBRE 2016

 
 
Con Fidel Castro si spegne la luce che ha aperto e illuminato la strada del riscatto al popolo cubano, a quelli dell’America Latina e del mondo.
La sua rivoluzione, iniziata nel 1956, vittoriosa nel 1959, vive ancora nel cuore e nel progetto dei cubani, a dispetto dei tanti tentativi, aperti e subdoli, di sabotarla, a dispetto dell’isolamento sofferto da Fidel negli ultimi anni. Vive nella resistenza dei popoli aggrediti e saccheggiati dal capitalismo imperialista. Non morrà mai.
 
HASTA SIEMPRE COMANDANTE !
Pubblicato da alle ore 09:09

Rivoluzione monetaria e economica, politica di pace: Donald Trump è un nuovo Kennedy?

Rivoluzione monetaria, economica e sociale all’interno, e politica di pace sul piano internazionale: sono le due promesse di Donald Trump a due giorni dalla sua vittoria elettorale.
 trump
Una svolta profonda nella storia degli Stati Uniti, soprattutto quella più recente, il quarto di secolo che dagli inizi degli anni Novanta ha fatto di Whashington – con alcune eccezioni, vedi le pur precarie opzioni di Obama nelle guerre di Libia e di Siria – una superpotenza iperinterventista sul piano militare, e allo stesso tempo un paese succube come il resto del mondo, della finanziarizzazione globale negatrice di sviluppo e di crescita della ricchezza reale. Quel mondo di Wall Street il cui sostegno alla Clinton, Trump ha non a caso denunciato durante la campagna elettorale.
E’ una svolta probabilmente non invisa al Presidente uscente – vedi il lungo cordiale colloquio di Obama con Trump – e che potrebbe riservare ancora molte sorprese. Una pagina che rimette in discussione molte certezze circolate in tutti i media, attuali e dell’ultimo anno.
Tra le domande, interne ed esterne allo scenario americano: la vittoria di Trump non rappresenta forse anche il ritorno alla politica di una fetta almeno dell’elettorato americano? Chi ha vinto e chi ha perso dopo la sconfitta della Clinton, in Europa e in Medio Oriente? Che fine farà l’alleanza angloamericana protagonista di tutte le guerre postbipolari dal 1991 ad oggi, e rilanciata dalla Brexit? Trump rimetterà veramente in discussione l’accordo nucleare iraniano? Ed è poi così amico di Israele, come ha sostenuto ieri Netanyahu? E ancora: c’è una relazione tra l’accelerazione della guerra all’Isil negli ultimi due mesi – da Mosul a Raqqa a Aleppo – e la campagna elettorale risoltasi solo all’ultimo momento a svantaggio della Clinton?
Sono di ritorno dall’Iran, invitato a svolgere alcune conferenze nelle Università di Teheran e di altre città del paese, e l’osservatorio del paese di Rohani e Ahmadinejad mi ha aiutato a capire alcuni snodi cruciali delle elezioni americane. Per esempio il fatto che, come titola stamane anche una striscia di Rai News 24, i piazzaioli che urlano al fascismo e al razzismo del neopresidente, sono in realtà guidati da professionisti della violenza di piazza, che agiscono per creare il caos in un paese che ha scelto con il voto di domenica la libertà e la pace. “Traducendo” in italiano, ed elevando all’ennesima potenza il nostro scenario nazionale, chi protesta oggi contro Trump, sono gli emuli in salsa americana delle monetine a Craxi di un quarto di secolo fa, e dei black block di tante manifestazioni “antiregime” del nuovo secolo. E’ il “fascismo dell’antifascismo” dell’epoca postbipolare, al servizio dei veri poteri forti che controllano o inquinano la democrazia di tutti i paesi occidentali
Ma vediamo adesso alcuni punti salienti di quanto ruota attorno alla vittoria di Trump.
1) Le elezioni americane e l’accelerazione della guerra all’ISIL. Nelle ultime settimane, la grande alleanza anti-Isil, pur variegata nell’intensità dell’impegno sul terreno militare, pur alle prese con le sue contraddizioni interne – vedi tra l’altro l’ opposizione di Erdogan al secessionismo curdo – ha mostrato una generale tendenza all’accelerazione della guerra al Daesh e ai ribelli antiAssad, da Aleppo a Raqqa a Mosul. La domanda è: c’è una relazione tra il diffuso timore (o aspettativa) nella vittoria della Clinton, e la ricerca di una rapida sconfitta definitiva o comunque di alta valenza militare, dei terroristi islamisti, appoggiati in funzione anti Assad dalla candidata democratica? E’ probabile. E se la risposta è positiva, siamo di nuovo di fronte alla solita questione, al solito punto fermo nella metodologia da seguire per capire le politiche estere dei paesi occidentali (e non solo) rispetto al groviglio mediorientale: se cioè, è stata la paura di una vittoria della Clinton a muovere con maggior determinazione sul terreno di guerra al terrorismo islamista, non solo i russi ma anche una parte dell’Occidente, questo vuol dire che né gli Stati Uniti, né l’Europa sono realtà monolitiche. In ogni ‘campo’ d’azione della diplomazia e delle attività militari dei paesi occidentali, emerge sempre una divisione tra ‘falchi’ e ‘colombe’, tra i sostenitori di una linea bellicista verso Mosca e i suoi alleati, e quelli di un’altra strategia, pronta al dialogo e alla cooperazione con Putin e persino Assad contro il comune nemico terrorista. Sulla cruciale proposta di una no fly zone in Siria prima dell’intervento di Mosca a fianco di Assad, la Clinton e Kerry erano favorevoli, Obama e il coraggioso e buon ebreo Bennie Sanders contrari.
2) La Brexit non è stata solo una rivolta di popolo, è stata ed è anche un tentativo di ritorno in auge dell’interventismo britannico negli scacchieri di crisi. La Brexit quale ci siamo sognati in Italia non esiste, o quanto meno va meglio articolata. La Brexit non è stata tanto o solo la rivolta del popolo contro la crisi e contro i troppi immigrati – secondo una proiezione dei problemi italiani sullo scenario britannico – quanto piuttosto la concretizzazione del desiderio dei poteri forti inglesi – compresa probabilmente l’elite della City – di liberarsi dai lacci e dai condizionamenti di una Unione europea giudicata troppo “moderata” nei confronti della Russia e in quanto tale, incline ad accettare per realpolitk Assad.
Basta guardare ai fatti per capire. La Merkel intesse da sempre rapporti proficui con Mosca, non scalfiti né dalla crisi ucraina né dalla guerra di Siria. Hollande, nell’ultimo vertice della NATO, ha ammonito a non dichiarare la Russia “nemico”, pur accettando un piccolo-medio rafforzamento delle truppe NATO ai confini dello Stato russo. Renzi ha tolto le sanzioni a Mosca e all’Iran, e ha invitato il presidente iraniano Rohani, primo capo di governo europeo (il premier italiano) a rompere il tabù dello scambio di visite con Tehran.
Beninteso, quanto appena detto avviene in modo “silenzioso”, ma è un fatto che i paesi guida dell’UE sono distanti non solo dalle logiche belliciste della guerra di Libia di cinque anni fa, con i sionisti Sarkozy e Cameron scatenati nell’aggressione a Gheddafi, ma anche da quelle di tutto il periodo precedente a quel tragico evento: tutta cioè l’epoca postbipolare, un quarto di secolo cadenzato da conflitti cruenti che hanno fatto centinaia di migliaia di vittime, e da una danza della morte animata per l’appunto dal duetto anglo-americano, “e dietro di loro”, per riproporre quanto esplicitamente dichiarato il 20 marzo 2003 dal presidente iracheno Saddam Hussein nella sua ultima conferenza stampa prima di entrare in clandestinità, “il sionismo maledetto”. Iraq 91, Bosnia 95, Jugoslavia 99, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Georgia 2008, Libia 2011.
La Clinton era pronta a tornare a questa bell’epoque sul terreno siriano, e con lei – ricostruire il duetto angloamericano – la May. Il 20 ottobre scorso, mentre continuavano i bombardamenti russo-siriani sul quartiere di Aleppo in mano ai ribelli islamisti, la premier britannica – non a caso contraria a un riesame della Brexit da parte del Parlamento britannico, come richiesto dall’Alta Corte del Regno Unito – perorava una azione congiunta del mondo occidentale perché venissero bloccati i “disgustosi” bombardamenti di Mosca, e si costringesse Putin a una “soluzione politica” della guerra siriana. Come dire, sì (forse) alla guerra contro l’Isis, ma si anche alla costruzione immediata di un’alternativa a Assad, attraverso la trasformazione dei cosiddetti “ribelli moderati” da nemici della pace – come nella strategia russa, sostenuta o tollerata da Obama – in soggetti politici legittimi per preparare la transizione alla nuova Siria pacificata e stabile. Non è andata così. Gli Stati Uniti di Trump non seguiranno le velleità belliciste della nuova Gran Bretagna della May, ma si collocheranno più o meno a fianco dei paesi dell’UE favorevoli al dialogo con Putin e con Assad. Né Trump può non sapere che la sua richiesta di por fine al progetto nucleare iraniano è solo una battuta propandistica, un impossibile obbiettivo visto che il progetto di cui parla è condiviso da altri paesi occidentali e dalla Russia, e “benedetto” dalle Nazioni Unite. Come ha detto il presidente iraniano Rohani, comunque i risultati delle presidenziali americane non cambieranno nulla delle direttrici della politica interna e estera di Teheran.
3) Anche Israele canta vittoria, ma è un bluff. Quanto appena detto sui rapporti tra Israele e Trump sembra essere smentito dalle reazioni di Tel Aviv alla sua vittoria. Fonti ufficiali dello Stato ebraico riportate da Press TV, dichiarano che con la vittoria del candidato repubblicano il “caso” dello Stato Palestinese è ormai “over”, chiuso. Netanyahu in persona proclama il nuovo capo della Casa Bianca come un grande amico di Israele. Sugli schermi televisivi americani compare addirittura una micro-manifestazione, venti persone al massimo, con una bandiera israeliana inalberata da uno dei dimostranti, e proprio accanto a lui, qualcuno che sventola un panno con su scritto Trump.
Balle: fermo restando che l’opportunismo e le minacce sono due costituenti diffusi dell’agire politico in quale che sia paese del mondo, per adesso, a 24 ore dai risultati delle presidenziali americane, quella appena citata è solo propaganda per salvare la faccia di Netanyahu, per permettergli cioè di ingoiare con minore difficoltà il boccone amaro della disfatta della sua candidata prediletta, Hillary Rodham Clinton. La quale a sua volta rilancia nello stesso stile, prima complimentandosi con il suo avversario, poi, come se nulla fosse accaduto, offrendogli la sua “collaborazione”. Una vera offerta o un immediato pressing sul nemico? Come dire, ti darò consigli ma stai attento a te, perché abbiamo molte cartucce da sparare, persino un archivio pieno delle tue avventure amorose?
Quale che sia la risposta (quella giusta parrebbe proprio la seconda) Trump è ben diverso dalla Clinton. Certo, se non lo ha già fatto, il neo-presidente risponderà alle avances “postume” del primo ministro israeliano in modo formalmente positivo, ma il problema è vedere come si svolgerà nel concreto la sua politica in Medio Oriente e in Europa orientale, e come affronterà anche il problema della crisi da debito che attanaglia gli Stati Uniti come la maggior parte dei paesi occidentali. Qui le differenze sono nette.
4) Due slogans di Trump: contro il Debito, “Print money”. Su Assad e Russia: “we will seek common ground, not hostility, partnership not conflict”.
Cominciamo dall’economia. Mentre l’ombra di Wall Street e del grande capitale bancario e finanziario attornia da sempre l’immagine di Hillary Clinton, Donald Trump si sta muovendo in una direzione opposta: l’annuncio di una drastica riduzione delle tasse, accompagnato da uno sviluppo della produzione e della occupazione, è sembrato a qualche osservatore contradditorio con l’altro obbiettivo dichiarato del Capo della Casa Bianca, la riduzione del debito. Ma non è così: il 9 maggio scorso, ad esempio, Donald Trump se ne uscì con una battuta apparentemente “strana” ma assolutamente logica, parlando del Debito americano: “print money”, stampate le banconote, così si esce dalla crisi. E’ difficile che l’appello dell’esponente repubblicano fosse rivolto alla privata FED, perché se così fosse non ci sarebbe alcuna possibilità di uscita dalla crisi da Debito, né negli Stati né in qualsiasi altro paese. Dunque, l’ “appello” è allo Stato. Trump come Kennedy, Il suo print money come i certificati argentiferi del 1963. Stupefacente. Ammirevole. Anche se problematico.
Il paragone con Kennedy puo’ sembrare irriverente, tanto più che Trump parla un linguaggio “di destra” sull’immigrazione: eppure anche sull’altro corno della politica del neo Presidente, l’alternativa tra pace e guerra nelle relazioni internazionali, il confronto regge. Contro le posizioni belliciste della Rodham Clinton (colei che disse durante la guerra di Libia, come riferito a suo tempo anche da la Stampa, che bisognava ”catturare Gheddafi e ammazzarlo”) Trump ha condotto una campagna elettorale all’insegna della realpolitik e della moderazione: Hillary Clinton ci vuole trascinare verso la III guerra mondiale; Assad è “il male minore” rispetto all ISIS; con la Russia bisogna dialogare (e non far guerra come pretendeva Soros dai paesi europei durante la crisi ucraina di qualche anno fa). E poi, subito dopo l’esito vincente delle presidenziali, la sintesi della sua strategia: in generale e ovunque, “we will seek common ground, not hostility; partnership not conflict” Cercheremo un terreno comune, non l’ostilità; la collaborazione, non il conflitto”. Non è da poco: è Obama, anch’egli sottoposto al pressing della Lobby, centuplicato.
 
5) Di nuovo sconfitta l’ipotesi di una terza guerra mondiale. Concludo con altre due considerazioni. La prima riguarda la previsione di una guerra mondiale, qui e là reiterata più volte negli ultimi anni e di nuovo smentita dai fatti: di nuovo, invece, la Politica ha vinto. Io stesso, da sempre attento ai “due Occidenti” negli USA e nei paesi europei – uno malato di guerra e servo di certo bellicismo vicinorientale, e l’altro favorevole al dialogo e alla collaborazione con la Russia e i Brics – ho temuto per la vittoria della Clinton e le sue conseguenze. Leggendo su un aereo delle Turkish Airlines il Daily news in inglese del quotidiano turco Hurryet, ho visto – un paio di settimane prima delle presidenziali americane – un articolo titolato appunto “La Clinton ci porterà verso la III guerra mondiale”. Ma non è stato così. Il ruolo di Obama è’ stato probabilmente decisivo, nonostante il suo allineamento formale alla candidata democratica durante la campagna elettorale.
La seconda conclusione è che quanto detto in questo articolo non vuol dire che il futuro degli Stati Uniti e dunque del pianeta sia roseo. Gli ostacoli saranno tanti., a cominciare dal terrorismo. Ma la speranza di una svolta vera nella politica internazionale, e forse nelle politiche monetarie, economiche e sociali nazionali di altri governi occidentali, resta forte. Ora si può guardare ai conflitti planetari e alla crisi mondiale, con maggiore ottimismo. Solo un leader in Italia e forse in Europa, pare non capire, papa Francesco: la sua battuta “bisogna costruire ponti, non muri”, è decisamente grave. Il Francesco dell’entrate tutti, fratelli multietnici, e peccate pure con stupri rapine e quant’altro, noi vi confesseremo e vi perdoneremo, sta dicendo a Renzi – il premier del sacrosanto sì al Ponte di Messina – di obbedire al suo buonismo irresponsabile invece che a Trump. C’è da augurarsi invece che se proprio di obbedienza si vuole parlare – ma è ovvio che non è questa la strada – è meglio che questa volta l’Italia obbedisca agli Stati Uniti che al Vaticano. Anche sull’immigrazione, il muro di Trump come simbolo di un controllo dei flussi da parte della Politica, come ai tempi del tentativo fallito della Bossi Fini.
di Claudio Moffa – 12/11/2016
Fonte: Agenzia Stampa Italia