Distruggete i populisti e salvate la globalizzazione!

globalizzazioneAlcuni articoli sono rivelatori. Uno di questi lo ha pubblicato La Stampa, lo scorso 15 febbraio, a firma di Charles A. Kupchan. E voi direte: chi è? Semplice: è uno dei principali pensatori dell’establishment americano. Docente di affari internazionali alla Georgetown University e membro del Council on Foreign Relations, dal 2014 al 2017 è stato assistente speciale per la Sicurezza nazionale del presidente Barack Obama. Tanto per intenderci.
Uno dei pochi ad aver colto l’importanza di questo articolo è stato il sito di analisi Piccole Note, secondo cui ci troviamo di fronte a un Manifesto della Controrivoluzione globale.
Kupchan, da intellettuale di rango, analizza il successo della Brexit e di Trump, a mio giudizio correttamente.
In lotta per guadagnare un salario di sussistenza, a disagio con la diversità sociale alimentata dall’immigrazione, e preoccupati per il terrorismo, un numero considerevole di elettori delle democrazie occidentali ha la sensazione di aver tutto da perdere dalla globalizzazione – e vuole abbandonarla. Giusto. La legittima rabbia di questi elettori rende chiaro che i nostri sistemi politici post-industriali non hanno fatto abbastanza per gestire la globalizzazione e garantire che i suoi benefici fossero condivisi più ampiamente nelle nostre società. Qualunque cosa si pensi di Donald Trump, la sua ascesa rivela che c’è un disperato bisogno di riformulare il patto sociale che sostiene il centrismo democratico e il sostegno popolare a un ordine liberale internazionale.
Il punto, secondo Kupchan, è che Trump e i populisti non sono in grado di rispondere a tale necessità. E dunque occorre porre rimedio alla loro vacuità programmatica onde scongiurare il rischio che la Pax Americana e la Pax Britannica, che hanno fornito le basi dell’attuale mondo globalizzato, naufraghino definitivamente. Già, ma come?
E qui il discorso diventa davvero interessante.
In primo luogo, i centristi di tutte le convinzioni politiche devono unirsi per offrire un nuovo patto sociale che rappresenti un’alternativa credibile alle false promesse economiche dei populisti.
 
Kaplan parla di “nuove iniziative in materia di istruzione, formazione professionale, politica commerciale, politica fiscale e minimi salariali“. Sapendo però che
 
“la globalizzazione è destinata a durare. Ma la disomogeneità dei suoi effetti distributivi dev’essere affrontata per il bene della politica democratica.
 
Seguiamo il suo ragionamento e veniamo al secondo punto, leggetelo con attenzione:
 
Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati.
E tenetevi forte sul terzo:
Se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale.
Cosa vuol dire tutto questo? Traduco:
1) L’élite che da quasi 30 anni promuove la globalizzazione ha individuato correttamente le radici del problema ma non ha alcun progetto credibile su come risolverlo. Le idee abbozzate da Kupchan potrebbero essere bollate, a loro volta, come “populiste” per la loro vacuità e nascondono una contraddizione per ora insanabile. In un passaggio, l’ex consigliere di Obama scrive che “i posti di lavoro che stanno diminuendo di numero soprattutto per l’automazione, non a causa del commercio estero”. Ma se questo è il problema: come pensano di risolverlo? Mistero.
2) Kupchan invoca le istituzioni. Scusate, ma non capisco: non sono stati proprio gli ambienti transnazionali a promuoverne scientemente lo sradicamento a livello nazionale e, contestualmente, il trasferimento di poteri a quelle sovranazionali? Non è paradossale che a invocare i “contrappesi istituzionali” siano coloro che li hanno screditati e talvolta vanificati?
Ben più significativa è l’affermazione successiva: Cosa vuol dire che “i media, l’opinione pubblica e l’attivismo (…) devono essere pienamente adoperati?” Notate bene che Kapchan non parla di “alcuni media” o di “testate sulle nostre posizioni” ma di media, di opinione pubblica in senso assoluto, e usa il termine “adoperare”, come se l’establishment a cui appartiene avesse il potere di orientare l’insieme dei media.
Scusate – si potrebbe e si dovrebbe obiettare – ma non siamo in democrazia? La stampa non è libera? In teoria sì ma di fatto il mainstream è ormai sinonimo di conformismo, che a tratti sfocia nel pensiero unico. Anche in Occidente. Tema che chi legge questo blog conosce bene, obiettivo che si ottiene ricorrendo alle tecniche di spin che descrivo da 10 anni (vedi il saggio “Gli stregoni della notizia Da Kennedy alla guerra in Iraq. Come si fabbrica informazione al servizio dei governi”).
 
La novità è che tali tecniche venivano usate per sostenere i governi, a cominciare dalla Casa Bianca. Ora apprendiamo che possono essere usate anche contro di essa se il presidente, come Trump, non è gradito, sebbene legittimamente eletto.
E lo stesso vale per il riferimento all’attivismo ovvero a quei movimenti delle masse improvvisi e insistenti, che evidentemente non sono frutto di una spontanea presa di coscienza delle folle, ma di attente regie che, sfruttando metodi ben noti agli specialisti, raggiungono l’effetto voluto. Al riguardo segnalo l’ottimo saggio del giornalista del Tg5 Alfredo Macchi Rivoluzioni s.p.a. Chi c’è dietro la primavera araba.
Metodi che finora venivano impiegati fuori dai Paesi occidentali, ad esempio incentivando le Rivoluzioni colorate, ma Kupchan afferma che debbano essere utilizzate anche negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali.
Il messaggio implicito complessivo è inquietante: “Possiamo usare i media e le masse contro i populisti”. E lo stanno già facendo.
3) Stupefacente è la terza ammissione. Essendo la Casa Bianca e Downing Street fuori controllo, deve essere l’Unione europea a difendere la globalizzazione. E allora si spiega perché il fidatissimo e duro Shulz si candidi a Berlino, con l’obiettivo di scalzare una Merkel in fase calante, troppo debole. E si capisce perché si suggerisca all’impresentabile presidente della Commissione europea Juncker di farsi da parte per lasciare spazio a un falco come il finlandese Jyrki Katainen.
 
Ma ancora una volta emerge una contraddizione: l’impopolarità dell’Unione europea, alimentata da politiche così rigide da sfociare nell’ottusità, rappresenta una delle ragioni del successo dei movimenti populisti. Come può un Moloch come la Ue (e sul suo liberalismo sorvoliamo…) costituire il fulcro in difesa degli interessi globalisti e al contempo diventare il promotore del cambiamento per riconquistare una classe media impoverita e arrabbiata?
Insomma, l’analisi è corretta, gli obiettivi sono chiari – vogliono salvare la globalizzazione – ma senza il sostegno di riforme credibili e convincenti. Chiara invece è la determinazione nel voler distruggere l’onda “populista” e di fermare Trump, anche ricorrendo a metodi, che vanno oltre la normale dialettica politica.
Andiamo bene.
di Marcello Foa – 26/02/2017 – Fonte: Marcello Foa

“Ho perso 97mila dollari per colpa tua”: le accuse del driver al fondatore di Uber


Non è decisamente un buon periodo per protesta-tassisti-taxi-uber co-fondatore e attuale amministratore delegato di Uber: al di là dei problemi che il suo servizio di “noleggio” di auto con conducente sta avendo in Europa, negli Stati Uniti ci sono state molte polemiche sulla sua decisione di fare parte dei consulenti del presidente Trump , oltre a molte cause da parte di autisti e aziende concorrenti.
La notte dello scorso febbraio, Kalanick si trovava a Houston, aveva appena assistito al Super Bowl di football americano ed era in compagnia di due amiche quando ha utilizzato la sua app per chiamare un’auto del servizio Uber Black e farsi riportare a casa. A prenderlo è arrivato il 37enne Fawzi Kamel, che lavora per Uber dal 2011 e come molti (taxisti o autisti di auto a noleggio) ha installato all’interno dell’abitacolo una piccola telecamera per tenere sotto controllo quello che succede nell’auto. Con cui ha ripreso la discussione col suo datore di lavoro.
 
Arrivati a destinazione, dopo che le sue amiche sono scese dall’auto, Kalanick saluta quello che è a tutti gli effetti un suo dipendente, che non si lascia sfuggire l’occasione di un confronto col “capo”: «Non so se si ricorda di me», gli dice, incominciando a parlargli di com’è davvero la vita di un conducente di Uber, di come sia difficile fare quadrare i conti, accusandolo di averli messi in difficoltà. Kalanick si difende, ammette che il 2016 è stato un anno difficile, promettendo un taglio del numero di “black car” in circolazione nelle città, così da ridurre la concorrenza fra autisti e (possibilmente) aumentare i loro guadagni.
A Kamel non basta, e gli animi si scaldano: «Ci hai chiesto di fornire un servizio migliore – dice – ma contemporaneamente di abbassare le tariffe. Stai regalando le corse». Kalanick prova a giustificarsi: «Dovevamo farlo, c’è un sacco di concorrenza, ci avrebbero tagliato fuori dal mercato». La replica è chiara e durissima: «Quale mercato? Il mercato era tuo, l’avevi creato tu, avresti potuto applicare le tariffe che volevi, invece hai scelto di regalare le corse ai clienti».
Il riferimento dell’autista è al modello di business di Uber, che secondo molti non starebbe in piedi , perché il prezzo pagato dai clienti basterebbe a pagare appena il 40-50% di una corsa, con il resto “coperto” da investitori privati, che stanno versando soldi nelle casse dell’azienda a fondo perduto. Ma che presto potrebbero smettere di farlo, rischiando di mandarla a gambe all’aria.
 
La conversazione prosegue, e davanti a un esterrefatto Kalanick, Kamel alza il tiro: «Non ci fidiamo più di te – gli dice – La gente non si fida più di te, io ho perso 97mila dollari per colpa tua (probabilmente fra i costi delle corse e l’acquisto dell’auto usata per lavorare, ndr), ho fatto bancarotta per colpa tua». È a quel punto che Kalanick perde la pazienza: «Str…», dice, prima di avvicinarsi alla portiera della macchina per scendere, aggiungendo che «il problema è che la gente non si prende le responsabilità per quello che fa, provando a dare agli altri la colpa dei suoi errori. Buona fortuna, amico!». Ieri, dopo che Bloomberg ha diffuso il video della conversazione fra lui e l’autista, Kalanick ha provato a fare una piccola retromarcia: «Quelle critiche mi hanno fatto capire che devo crescere come leader, ho bisogno di farmi aiutare nella guida dell’azienda, devo maturare».
 
Chissà come l’ha presa Kamel, che comunque, come succede per ogni corsa di Uber, ha avuto la possibilità di dare un voto al suo passeggero (così come il passeggero può fare con lui): a Kalanick ha assegnato una stella, il minimo. Ovviamente.
 
Ieri, dopo che Bloomberg ha diffuso il video della conversazione fra lui e l’autista, Kalanick ha ammesso di aver esagerato, in una dichiarazione inviata a tutti i dipendenti: «Ho trattato Fawzi in maniera irrispettosa, me ne vergogno e mi scuso con lui. Quelle critiche mi hanno fatto capire che devo cambiare e crescere come leader, che ho bisogno di farmi aiutare nella guida dell’azienda e devo maturare. Ed è quello che ho intenzione di fare».
Pubblicato il 01/03/2017
Ultima modifica il 01/03/2017 alle ore 12:45
 
emanuele capone

I Rotschild: 8 volte più ricchi degli 8 più ricchi

questa disparità sicuramente invoca un cambiamento, basta chiedere gentilmente e cortesemente ai ricchi, banchieri in primis di smettere di arricchirsi alle spalle dei popoli e redistribuire equamente, chiedendo per piacere vuoi che non collaborino generosamente?


Per un  giorno, i media hanno parlato della ricerca di  Oxfam International   da  cui risulta che la ricchezza degli 8 principali miliardari supera quella della metà povera della popolazione mondiale, 3,6 miliardi.  Gli otto sono

Bill Gates   con  75 $  miliardi
Amancio Ortega – $ 67 mdi
Warren Buffett – 60,8 $ mdi
Carlos Slim Helu – 50 $ mdi
Jeff Bezos – 45,2 $ mdi
Mark Zuckerberg – 44,6 $ mdi
Larry Ellison – 43,6 $ mdi
Michael Bloomberg – 40 $ mdi
Addizionate insieme, le loro ricchezze valgono  426, 2 miliardi di dollari.
Questa disparità   estrema, ha concluso  Oxfam, “invoca un cambiamento fondamentale nel modo in cui gestiamo le nostre economie,  perché funzionino per tutti, non solo per alcuni”.
Nel novero dei primi otto non appare il nome Rotschild. Per varie ragioni:  qui non abbiamo a che fare con  persone fisiche, ma con una dinastia,  i  cui membri presiedono  a fiduciarie private a capitale fisso – niente società per azioni (scalabili),  ma   solo aziende familiari, accuratamente sottratte  ai mercati finanziari goym, e partecipazioni  incrociate.
Insomma  è ancora la struttura  instaurata dal capostipite  del 18mo secolo, Mayer Amschel Rotschild.  Basato in Germania,  l’avo   sparse i suoi cinque figli nelle diverse capitali  europee, ciascuno muniti di capitale e conoscenze per  aprirvi  una banca d’affari: Parigi e Francoforte, Londra, Vienna e Napoli (era  allora uno degli stati dalle finanze più  prospere).  E’  stata dunque  la prima multinazionale del credito,   che profittò delle guerre europee scatenate dalla  Rivoluzione  giacobina  e da Napoleone.  Prestando agli stati  che la guerra indebitava (tipicamente,  all’impero austro-ungarico,  a quello britannico), da cui accettava titoli e buoni del Tesoro, e cogliendo  tutte le buone occasioni per prendere il controllo finanziario delle più diverse industrie,  a  corto di liquidità.
Il figlio che ebbe maggior successo fu  quello che si stabilì a Londra  Nathan Meyer  Rotschild:  sposò  Hanna Barent Cohen da  cui ebbe 7 figli e   una cospicua dote finanziaria;  nel 1811, durante le guerre napoleoniche, finanziò  di fatto lo sforzo bellico britannico quasi da solo  – senza trascurare di finanziare in segreto anche il Bonaparte.   Il 18 luglio 1815  fu  un corriere della  Rothschild & Sons  che informò il governo britannico che a  Waterloo le cose si mettevano male per Napoleone; il governo non ci credette, e allora Nathan  stette al gioco:  si  mise a svendere titoli del debito inglese, come se sapesse che presto sarebbero stati carta straccia.
Gli altri ricchi inglesi, nel panico, lo imitarono; la Borsa collassò. Mani forti anonime  (agenti dei Rotschild) avevano già fatto  incetta di titoli a prezzi da liquidazione fallimentare;  quando arrivò la notizia che a Waterloo Napoleone  aveva perso, Nathan era il padrone della London Stock Exchange.
Ancora nel 2015  il Regno Unito sta restituendo a rate i capitali presi  a prestito dai Rotschild.
Oggi,  le ricchezze  della dinastia restano inimmaginabili; essa riesce in gran parte a dissimularle con il metodo delle  ditte   non quotate, dove non si pubblicano bilanci, dove lavorano e sono impiegati direttamente i membri della famiglia, matrimoni fra consanguinei,  eredi che continuano a collaborare strettamente; da due secoli, non è mai apparso alla luce un litigio fra i parenti, che abbia prodotto un  frazionamento di ricchezze, capitali e imprese.  Non  a caso il motto della famiglia, sotto lo scudo rosso, è (in latino) “Concordia, Integritas, Industria”.
Oltre alle finanziarie N.M. Rotschild &  Son di Londra e la Edmond de Rotschild Group  in Svizzera,  la dinastia ha incalcolabili partecipazioni in istituti di credito,  nel settore immobiliare,  minerario ed energetico.  I vigneti che l’uno o l’altro membro hanno in Francia, in Sudafrica, in California, Sudafrica ed Australia, sono   attività da tempo libero.    Le partecipazioni che contano, in “investimenti globali”, non sono affatto visibili. E’ dubbio se i Rotschild siano oggi quello che fu la ditta di Nathan, che divenne praticamente il banchiere centrale   d’Europa,   coprendo debiti pubblici,  salvando banche nazionali,  finanziando infrastrutture  pubbliche durante la rivoluzione industriale.
Sicché non si può valutare se dice il vero il sito Investopedia, che   ha provato a fare una valutazione approssimativa  e decreta (senza specificare i cespiti e le attività)  che la ricchezza  che  la dinastia controlla oggi ammonta a 2  trilioni di dollari:  2 mila miliardi.  Se fosse vero, vuol dire che i Rothschild  sono otto volte più  ricchi degli otto più ricchi miliardari.
I milionari annusano il collasso, e scappano  (dalla società che hanno creato)
Non certo i Rotschild, ma i “mezzi milionari”, i gestori di hedge funds,   i fondatori di startups di successo,  i ricchi in  milioni (ma non miliardi), stanno comprando bunker di lusso  in  rifugi   anti-atomici  riciclati in condomini costosissimi, assoldando squadre di guardie armate,   investendo in campi d’aviazione  in Nuova Zelanda: almeno secondo un articolo del New Yorker  che sta facendo   rumore  fra quelli che contano.  Perché i nuovi ricchi   temono una rivolta sociale:  “Le  tensioni prodotte dall’acuta disparità di reddito  stanno diventando così’ forti, che alcuni dei più  agiati del mondo stanno prendendo misure per proteggersi”-
new-zealand-airstrip
In vendita in Nuova Zelanda: pista d’atterraggio.
Una volta, i “preppers”, quelli che si preparano a lottare e sopravvivere in un collasso sociale totale accumulando proiettili e scatolame  in qualche deserto americano, erano la “frangia lunatica”  fatta  per lo più da reduci di guerra tornati disturbati dall’Irak, o complottasti paranoici; gente senza tanti mezzi comunque.  Adesso sono le menti  brillanti di SIlicon Valley  a prepararsi  all’Armageddon, sia quello naturale (terremoto della faglia di Sant?Andrea)  sia il collasso sociale e politico della società.
Antonio García Martínez,   40 anni, ha   ammesso di aver acquistato “due ettari di bosco in un’isola del Nord  Pacifico e d’averla attrezzata con generatori, pannelli solari, casse di munizioni”. Il fondatore di PayPal , Peter Thiel, ha non solo comprati terreni in Nuova Zelanda, ma fondato là una ditta  che aiuta i suoi pari (pari-reddito) a cercare là ridenti rifugi. Nei fatti,   nei primi 10 mesi  del 2016, mani straniere  hanno acquistato 3500 chilometri quadrati in  Nuova Zelanda. Il posto così lontano è oggetto  dei loro appetiti, anche  perché  ritenuto sicuro   se scoppia una epidemia globale…
Reid Hoffman, creatore di LinkedIn, ha raccontato al giornalista dell New Yorker: “Dire che  hai comprato una casa in Nuova Zelanda è  come un ammicco  fra noi.  Si fa’ la stretta di   mano massonica e ci si scambiano notizie del tipo: niamo, “Sai, conosco un mediatore che vende vecchi silos per missili ICBM,  a prova di atomica…”.  O si discute su temi come: “Bisogna comprarsi un aereo privato. Bisogna  prendersi cura anche della famiglia del  pilota. Devono essere sull’aereo”.
E’   istruttivo vedere  come abbiano  paura della società  che  loro stessi hanno creato,  e  ne vogliano fuggire. Come pensano di salvare se stessi per via individuale, accumulando munizioni   generatori solari,   trincerandosi coi propri pari in condomini fortificato:   uno spasimo terminale di individualismo americano    e di spirito del West,  con i carri in circolo contro gli  indiani.
Se avessimo avuto una più equa distribuzione del reddito, messo più fondi e energia nelle scuole pubbliche, nei parchi, nelle arti o  e nella sanità pubblica,   avremmo tolto molta della rabbia che si sente nella società.  Le  abbiamo tutte smantellate, queste cose”, ammette Rob Johnson , che ha fondato un Institute  for  New Economic Thinking (istituto per  un nuovo pensiero economico),  dove  cerca di  riproporre  le strane idee  della società come un sistema di corresponsabilità  a questi  ricchi spaventati.  Ma lamenta la mancanza di “spirito di responsabilità  verso il  prossimo”  e l’apertura  alla possibilità, fra   i ricchi, di una più decisiva politica fiscale di redistribuzione.