Generale Russo Venaus

La riforma Renzi non é (solo) una riformaccia nel merito: la Costituzione andrebbe riscritta per intero

La Renzi-Boschi-Jp Morgan non è una riforma e non è soltanto una riformaccia: è una riformicchia. Sì è vero, tocca ben 47 articoli della Costituzione, alla rinfusa. Mira a svuotare, di fatto, quel poco e maldestro federalismo introdotto nel 2011 dal centrosinistra che riscrisse il Titolo V (le materie oggi “concorrenti” fra Stato e Regione tornerebbero, nelle intenzioni dei neo-centralisti renziani, di esclusiva spettanza di Roma, «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»). Prevede un comico abbassamento del quorum nei referendum, non più il 50% degli aventi diritto ma la metà dei votanti alle ultime politiche, con il contentino dei nuovi referendum propositivi e d’indirizzo (e non più soltanto abrogativi, alzando tuttavia il numero di firme a 800 mila, a 150 mila per le leggi di iniziativa popolare).

Fa risparmiare la miseria di 48 milioni per ridurre da 315 a 100 i senatori, e 8,7 milioni chiudendo il Cnel (unica novità da sottoscrivere in toto: già nel 1978, l’ex presidente della Costituente, il comunista Terracini, sottolineava che anziché essere «la sede naturale della mediazione fra lavoratori e datori di lavoro», non si era mai discostato dall’essere «un organo inesistente»). Illude di spingere sulla velocità di approvazione delle leggi, falso clamoroso: di leggi se ne sfornano a iosa, il ritmo dipende unicamente dalla volontà politica dei partiti, dalla qualità dei peones in aula e in commissione, dalle loro beghe, tattiche e giochetti di retrobottega.

Se sommiamo il tutto, cosa resterebbe in mano se vincesse il Sì? Quel che serve al signor Renzi per compiacere i comitati d’affari stranieri, blandire l’elettorato alla Cracco che si beve il riformismo purchessia, gettare le fondamenta di un partitone di centro che contemporaneamente elida gli scocciatori della sinistra interna Pd e assorba i senza fissa dimora a destra. Cercando di riuscire là dove tre commissioni bicamerali dal 1983 a oggi (Bozzi, De Mita, D’Alema) non sono riuscite, passando così alla Storia. O di uscirne comunque bene, personalmente più forte, se gli dicesse male nel caso di vittoria del No ma con un Sì sopra il 40%. Perché tutti quei voti favorevoli, dal primo all’ultimo, se li intesterà lui e solo lui,in un referendum che è in realtà un referendum su Renzi. Vince anche se perde, il Machiavelli per meno abbienti.

Ma, per cambiare l’Italia come da slogan governativo, bisognerebbe cambiarla interamente, la sacra Carta. Che sacra non è: scritta da mortali in un determinato periodo storico, è un prodotto storico, mortale e rivedibile. Non è l’appendice dei Dieci Comandamenti. E con tutto il rispetto, chi se ne importa di cosa scrive l’Economist (che non è il Vangelo e non è nemmeno così straniero e neutro: il primo azionista col 43% è la Exor degli Agnelli). Il bicameralismo andrebbe abolito tout court, anziché perpetuarlo in un Senato-pastrocchio, ridotto a camera d’evasione romana per consiglieri regionali e sindaci che potranno frequentarlo poco e quindi male (ma col beneficio dell’immunità parlamentare). Senza per altro assicurare che la “navetta” (l’andirivieni legislativo fra i due rami del Parlamento) sia eliminata, visto che il Senato continuerà a poter inserirsi sempre, sia pur entro 30 giorni, mantenendo potestà piena su leggi costituzionali e garantendosi di far tornare alla Camera quelle riguardanti le Regioni e i trattati internazionali (cioè in pratica il nevralgico campo dei rapporti con l’Unione Europea). Il federalismo andrebbe rafforzato, o per meglio dire fatto seriamente. Non come oggi, litigiosamente, vedi la battaglia vinta alla Consulta dalla Regione Veneto a guida Zaia contro il decreto Madia, che Renzi ha avuto gioco facile a girare a suo favore, come esempio di un’Italia «bloccata».

Ma soprattutto sarebbe il caso di fare le persone serie, indire un’Assemblea Costituente e ripensare la Costituzione fin dall’articolo 1, dato che la sovranità non appartiene più al popolo italiano da un pezzo. Sicuramente a partire dal 2012, quando di soppiatto fu stravolto l’articolo 81 introducendo non già il pareggio di bilancio, come si vuol far credere, ma costituzionalizzando il debito: l’«indebitamento» diventa ammissibile in casi di calamità naturali o per combattere i cicli economici negativi, tanto che è stato abrogato il divieto di stabilire nuove spese o tributi; e questo per rispettare gioiosamente il Fiscal Compact, il pazzesco trattato europeo del 2012 che ci impegna a ridurre il debito di 50 miliardi l’anno fino al 2032, condannandoci ad una politica di austerità (tasse e tagli) eretta a norma costituzionale. A questo punto il nostro quotidiano lavoro su cui si fonda la beneamata Repubblica, ammesso e non concesso sia mai stato un valore, è diventato un disvalore: perché dovremmo lavorare per pagare un debito inestinguibile in un’Europa-gabbia? No, non basta un Sì. Magari bastasse. Meglio votare No.

di Alessio Mannino – 27/11/2016

Fonte: vvox

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=57786

La riforma Renzi non é (solo) una riformaccia nel merito: la Costituzione andrebbe riscritta per interoultima modifica: 2016-12-05T00:19:29+01:00da
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