Francia: Le banche rifiutano qualsiasi finanziamento al Front National della Marine Le Pen

le banche sono etiche, finanziano solo i politically correct, quelli che non sono populisti ed amano le banche e la Ue che le salva, e loro ci salvano dai populisti. Un amore di democrazia. Un gesto che dimostra chi è a servizio e chi no.

Francia: Le banche rifiutano qualsiasi finanziamento al Front National della Marine Le Pen

Marine Le Pen, presidente del Front National e candidata alle elezioni Risultati immagini per le pen banchepresidenziali francesi del prossimo anno, si trova nettamente davanti al suo rivale Fillon, secondo gli ultimi sondaggi, cosa che ha messo della paura in tutto lo schieramento compatto dei globalisti, di destra e di sinistra, di Bruxelles e del resto d’Europa, di fronte alla prospettiva concreta  di un possibile asse Parigi-Washington-Mosca.

Tuttavia la Le Pen ha il suo “tallone d’Achille” e questo è il denaro (che non ha).
A differenza di un Donald Trump, che ha potuto superare l’opposizione del sistema delle grandi banche di Wall Street (tutte concordi a sostenere la Clinton), grazie alle sue ingenti risorse che gli hanno permesso di autofinanziare la sua campagna presidenziale, la Marine non dispone di risorse proprie e necessita di crediti bancari per coprire i circa 20 milioni di euro dei costi stimati di tale campagna.

Le banche francesi hanno già dimostrato di essere chiuse a qualsiasi richiesta della candidata sovranista: neppure un centesimo per lei.

I leaders del Front National hanno comprensibilmente lanciato grida di allarme e parlano di ” disciriminazione basata sull’ideologia”. Si afferma che “rappresenta un vero scandalo il fatto che la banche francesi non si adeguino al gioco della democrazia”, come si è lamentato in radio il segretario generale del FN, Nicolas Bay. “Ci sono alcuni candidati che, con meno consensi di Marine Le Pen, hanno ottenuto grossi crediti. Questo dimostra un vero problema basato sulle opinioni politiche”.

In realtà questa è una manifestazione di ingenuità visto che il programma politico del FN minaccia direttamente gli interessi delle Grandi banche, considerando che  si tratta di un programma antiglobalista che si propone di sottrarre il potere ai grandi potentati finanziari transnazionali.

Se fino a ieri, così per dire, sarebbe stato considerato inammissibile un atteggiamento discriminatorio di questo tipo da parte delle banche, da alcuni mesi a questa parte, l’establishment francese ha omesso di guardare alla forma o di fingere che ciascun potere sia indipendente dagli altri, per scatenare una guerra a morte contro il sovranismo del FN. Se cade Parigi, dopo il Brexit e la vittoria di Trump, non soltanto il progetto europeo potrebbe avere i giorni contati, ma anche lo stesso globalismo sulla scena mondiale potrebbe subire un colpo irreversibile.

Esste però un “piano B”, che tuttavia si cerca di frustrare: l’amico russo. Cattive notizie: lo scorso Luglio la Banca Centrale russa ha revocato la licenza bancaria alla First Czech Russian Bank, con sede a Mosca, principale finanziatore del partito della Le Pen, che ancora non ha trovato un sostituto come entità di credito che possa finanziarla, secondo il suo consigliere, Wallerand de Saint Just.

Sant Just continua a cercare, ma non risulta facile, con tutto il settore chiuso ermeticamente di fronte alla possibilità di una vittoria lepenista; sarebbe un modo troppo evidente, per citare Lenin, di “vendere la corda con cui farsi impiccare”.
Secondo Le Parisien, in Agosto vi erano delle banche di investimento nord americane disponibili ad anticipare fino a 20 milioni di dollari ma, all’ultimo momento, si sono tirate indietro (su pressioni di qualcuno).
Il dilemma è complicato. Da un lato, la Le Pen sa che potrebbe ottenere ogni finanziamento che vuole in una Russia di Putin più che entusiasmata da una sua candidatura.

Tuttavia, da un altro lato non ignora che, su questo finanziamento si monterebbe poi una campagna di diffamazione mediatica simile a quella orchestrata intorno alla risibile tesi della manipolazione delle elezioni presidenziali negli USA.  Alla Le Pen rimproverebbero di aver vinto con “l’oro di Mosca”. Già i servizi di intelligence francesi si erano messi in allarme per le dichiarazioni della Le Pen a favore della Siria, quando il governo Hollande forniva armi ed istruttori ai gruppi terroristi anti Assad.

Per adesso la Le Pen continua la sua campagna con l’autofinanziamento dei suoi sostenitori ma, arrivando a Febbraio, se il FN non ottiene un cospicuo finanziamento, rischia di non poter ottenere il risultato a cui aspira per mancanza di mezzi economici, quelli che invece non mancano al candidato della destra bancaria e globalista Fillon.

Anche se ottenesse i finanziamenti, la Le Pen sa bene che non avrà la vita facile. Infatti, come insegna l’esperienza delle recenti elezioni austriache o delle passate elezioni regionali, tutto l’arco delle forze politiche globaliste ed europeiste, di destra e di sinistra, si unirebbero per sbarrare il passo ai sovranisti della Le Pen, visti come un pericolo mortale dalla oligarchia di Bruxelles e dalla sinistra mondialista. Questo nonostanche che i sondaggi le siano sorprendentemente favorevoli tanto da attribuire alla Le Pen il 29% dei consensi. Tuttavia al secondo turno, le probabilità di ottenere la vittoria, sono molto basse.

Naturalmente non è il momento di dare molta fiducia ai sondaggi, viste le esperienze fatte in altri paesi. I partiti della sinistra globalista, pur di evitare la vittoria della Le Pen, hanno scelto Fillon come loro candidato, come unico modo di assicurarsi la elezione, nonostante questi sia un candidato della destra gollista e rappresenti gli interessi del grandesi.e capitale finanziario. Il sodalizio fra la sinistra ed il grande capitale è ormai consolidato in Francia come in Italia e negli altri pa

L’unico fattore che potrebbe sconvolgere i pronostici della vigilia è rappresentato dall’influenza sull’opinione pubblica della esplosiva questione migratoria e dell’avanzata islamica in Francia, cosa questa che potrebbe procurare qualche “amara sorpresa” nel fronte globalista e portare dei risultati inaspettati anche al secondo turno.
Su questo si fondano le speranze della Le Pen e dei suoi sostenitori sovranisti.

Fonte: La Gaceta.es

Traduzione e sintesi: Luciano Lago Da  Dic 30, 2016

http://www.controinformazione.info/francia-le-banche-rifiutano-qualsiasi-finanziamento-al-front-national-della-marine-le-pen/

Attenzione: stanno tentando di rovesciare Trump!

i simpatici paladini della democrazia detestano quando il popolo sbaglia a votare e si impegnano a mettere una pezza, certo per il bene di quei popoli che tanto disprezzano

Quella di lunedì, negli Stati Uniti, dovrebbe essere una tranquilla giornata di democrazia. I Grandi elettori si riuniscono nella capitale di ogni Stato per eleggere il presidente, rispecchiando il voto popolare. Di solito è una formalità ma questa volta rischia di non essere tale.

Uno dei migliori commentatori americani, Paul Craig Roberts, denuncia apertamente un tentativo di un colpo di stato (leggi qui), altri giornalisti nei giorni scorsi avevano evidenziato lo stesso pericolo, come Michael Snyder. Ma ieri sera anche la Washington Post ha dato conto di quel che sta avvenendo: i grandi elettori di ogni Stato, che dovrebbero semplicemente ribadire il risultato delle urne, stanno ricevendo incredibili pressioni al fine di indurli a non votare per Trump.

mappa-elettorale-USA-2016Sono letteralmente bombardati di email e di telefonate in cui si evidenzia la pericolosità di Trump e in cui vengono evidenziati i rischi dell’America,mentre la Cia, l’Fbi e ovviamente Obama continuano a denunciare le interferenze russe nell’elezione nel tentativo, vano, di dimostrare che l’elezione non era regolare. Tentativo vano, perché fino ad oggi non è stata presentata alcuna prova. Secondo il Washington Post anche i grandi elettori democratici sono sottoposti a pressioni analoghe da parte di attivisti repubblicani, di cui peraltro, però, non si capisce il senso, considerato che Hillary ha perso. Ci sarà qualche caso ma irrilevante.

Le pressioni sono esercitate sui Grandi Elettori degli Stati che hanno votato per Trump e il significato è fin troppo chiaro: le élite globaliste che hanno governato l’America e indirettamente il mondo occidentale, sta per uscire dalla stanza dei bottoni, visto che il magnate non ha piazzato i loro uomini nei dicasteri chiave. Quell’élite sta tentando di tutto per impedire che Trump entri davvero alla Casa Bianca a ribalti la politica estera e di sicurezza perseguita finora, a cominciare dai rapporti con la Russia e dalla lotta all’Isis e corregga quella sulla globalizzazione incentivando la riscoperta di un “patriottismo imprenditoriale” sugli investimenti e sui posti di lavoro.

Attenzione: quel che sta avvenendo in queste ore è gravissimo ed è assolutamente incompatibile con i principi democratici. Speriamo che i Grandi Elettori non si lascino suggestionare.
Se davvero Trump venisse rovesciato prima ancora di entrare in carica, gli Stati Uniti perderebbero qualunque legittimità di fronte al proprio popolo e al mondo.

Alle élite importa poco. A noi sì, tantissimo.

Link: http://blog.ilgiornale.it/foa/2016/12/18/attenzione-oggi-potrebbero-rovesciare-trump-e-privarlo-della-vittoria/

Crisi di sistema e populismo

È noto che per un sistema sociale complesso come quello liberal-capitalista attuale è essenziale tener sotto controllo tutti quegli eventi che potrebbero determinare una crisi di tipo strutturale. Vale a dire che le alternative in base alle quali si articola il conflitto politico devono essere compatibili con il “normale” funzionamento del sistema medesimo[1]. Praticamente, le alternative non selezionate dal sistema non devono essere conosciute o esplicitamente tematizzate dalla stragrande maggioranza dei cittadini. nwoLa scelta deve avvenire tra alternative che il sistema ha già selezionato, ossia tali da non danneggiare gli interessi politici ed economici del gruppi dominanti. Pertanto, l’ordine istituzionale si fonda non tanto sul consenso effettivamente esistente quanto piuttosto sulla sopravvalutazione del consenso effettivo e soprattutto sul fatto che tale sopravvalutazione riesca ad avere successo. In altri termini, il meccanismo mediante il quale si “pro-duce” il consenso in una moderna “democrazia” liberale è una finzione istituzionale, non la ricerca di un effettivo consenso, ma una formula rituale di giustificazione ideologica della politica, benché essenziale per il funzionamento del sistema sociale.
 
In sostanza, questo significa che la tecnologia sociale e la manipolazione del consenso devono far sì che non vengano mai messi seriamente in discussione quei procedimenti che permettono di prendere decisioni collettivamente vincolanti, “assorbendo” incertezza ed eliminando alternative pericolose per il sistema. Attraverso tali meccanismi si può allora avere la ragionevole certezza che prevalga ciò che il sistema seleziona, accrescendone la capacità di autoregolazione e sottraendo l’esperienza al rischio di una problematizzazione consapevole. Tuttavia, è palese che il sistema liberal-capitalistico non si sviluppa automaticamente, sia perché genera delle “aspettative” (crescenti) che deve necessariamente soddisfare – alimentando di conseguenza un conflitto che non può essere sempre risolto grazie ai meccanismi che regolano il sistema –sia perché la stessa formazione sociale liberal-capitalistica egemone (che di fatto è il “gendarme” che deve garantire il “normale” funzionamento del sistema liberal-capitalistico) deve “competere” con altre formazioni sociali. Il sistema sociale liberal-capitalistico si configura dunque come un sistema relativamente aperto sia sotto il profilo endogeno che sotto il profilo esogeno, ovverosia deve far fronte a due tipi di sfide, quelle che provengono dall’interno e quelle che provengono dall’esterno.
Logico allora che gli strateghi del polo atlantico dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica abbiano agito su due piani contemporaneamente per consolidare l’egemonia degli Stati Uniti: sul piano economico e finanziario promuovendo la gigantesca espansione del capitalismo finanziario (in particolare con l’abolizione della legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act, durante l’amministrazione Clinton) che avrebbe portato alla crisi finanziaria del 2007-08; sul piano geopolitico intervenendo militarmente in Afghanistan e in Iraq, e ristrutturando la Nato al fine di saldare all’Atlantico il continente europeo e soprattutto la Germania ora nuovamente unita.
 
Nondimeno, già negli anni Ottanta del secolo scorso era chiaro, nonostante che fossero evidenti i segni della crisi irreversibile del sistema sovietico, che la base produttiva degli Stati Uniti non era in grado di “sostenere” un progetto di egemonia globale[2]. Del resto, lo storico francese Fernand Braudel vedeva nella prevalenza del capitalismo finanziario sull’economia “reale” il tipico “segnale dell’autunno” per il potere dello Stato capitalistico egemone[3]. Infatti, allorquando la crescita della produzione e dello scambio di merci, che contraddistingue un ciclo di accumulazione del capitale, si imbatte nei propri limiti, si è in presenza non solo di una crisi economica ma anche di una crisi della potenza capitalistica egemone, a cui i gruppi dominanti cercano di rimediare con una forte espansione del capitale finanziario. Ma la prevalenza del capitalismo finanziario è soltanto un rimedio temporaneo che non può evitare il “terremoto geopolitico” che si origina dal declino relativo della potenza egemone.
Un declino accentuato dal “contraccolpo” derivante dall’avere scatenato gli “spiriti animali” del capitalismo a livello mondiale e che ha visto nel giro di qualche lustro la Cina diventare la prima potenza industriale, favorita proprio da quella globalizzazione che doveva invece “suggellare” il dominio del sistema liberal-capitalistico imperniato sull’egemonia degli Stati Uniti.
Non sorprende allora che il cosiddetto “unipolarismo statunitense” sia durato solo qualche lustro e che gli Usa da un lato, abbiano dovuto concedere sempre più spazio a pericolosi e “irresponsabili” (per usare un eufemismo) attori geopolitici “subdominanti” come le petromonarchie del Golfo, al fine di ridisegnare la cartina geopolitica del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale in funzione degli interessi del polo atlantico; dall’altro, abbiano cercato di rafforzare la loro posizione in Europa per contrastare la rinascita della potenza russa sotto Putin, favorendo un’espansione della Nato ai confini occidentali della Russia e innescando così una crisi internazionale che se non ci fossero le armi nucleari probabilmente sarebbe già sfociata in un’altra guerra mondiale.
Com’era prevedibile questa “strategia del caos” ha creato le condizioni perché il terrorismo islamista si diffondesse a “macchia d’olio” non solo in Medio Oriente e in Africa ma anche nel Vecchio Continente, e al tempo stesso si generasse un’immigrazione massiva e incontrollata (che alcuni analisti considerano come una sorta di arma di distruzione di massa) verso l’Europa, stretta nella morsa di una crisi sociale ed economica che l’introduzione dell’euro e le politiche liberiste adottate dall’oligarchia euroatlantista hanno solo contribuito a rendere sempre più grave.
In definitiva, la crisi dell’attuale sistema liberal-capitalistico e in particolare dell’Unione Europea si configura ormai come una vera e propria crisi di sistema, dato che gli effetti “perversi” della crisi dell’egemonia statunitense si sommano a quelli di una crisi non solo economica ma politico-sociale del sistema liberal-capitalistico che non solo non riesce più a soddisfare “aspettative” che esso stesso (inevitabilmente) genera, ma nemmeno è più in grado di eliminare o di “rimuovere” alternative che non sono “in linea” con gli interessi dell’oligarchia euroatlantista.
Il cosiddetto “populismo”, che sta mettendo radici ovunque in Occidente, è perciò la reazione comprensibile all’incapacità del sistema liberal-capitalistico di “autoregolarsi”. La vittoria di Oki in Grecia (benché poi, in un certo senso, “tradita” dalle classe politica greca), la politica del governo ungherese, la Brexit, la crescita di movimenti populisti in diversi Paesi europei, lo stesso successo di Trump e last but not least la vittoria del No in Italia (che ha bocciato un riforma “pasticciata” della costituzione che prevedeva perfino che i parlamentari non fossero più i rappresentanti della Nazione e di fatto cedeva ulteriore sovranità nazionale agli eurocrati) sono tutti segnali che un nuovo “vento politico” sta facendo traballare le istituzioni politiche occidentali.
 
Si badi però che il paragone, caro a molti analisti neoliberali, con gli anni Trenta, è del tutto privo di fondamento. Difatti, il nazionalismo aggressivo negli anni Trenta aveva di mira la ridefinizione degli equilibri mondiali attraverso un “regolamento bellico dei conti”, ritenuto peraltro inevitabile sia dalle potenze revisioniste (le cosiddette “have nots”) che dalla stessa Unione Sovietica. Viceversa, l’esigenza di difendere la sovranità nazionale (sia pure riconoscendo la necessità di incastonare i singoli Stati in “grandi spazi” geopolitici e geoeconomici) non è altro che l’esigenza di rimediare ai “guasti” e ai disastri causati dalle politiche liberiste e aggressive del polo atlantico e in specie dell’oligarchia euroatlantista, allo scopo di difendere i diritti sociali ed economici dei popoli europei (e non solo europei) contro lo “strapotere” e l’arroganza dei “mercati”.
 
È in questa prospettiva geopolitica quindi che è necessario interpretare la carenza di cultura politica e perfino le “contraddizioni” (alcune delle quali certamente preoccupanti) che caratterizzano i diversi movimenti politici che i media mainstream definiscono sprezzantemente populisti. D’altronde, è lecito ritenere che il populismo, benché in quanto tale non sia di per sé un’alternativa “credibile” al sistema liberal-capitalista, sia il necessario “brodo di cultura” perché una tale alternativa possa davvero prendere forma, sebbene si possa essere sicuri che le élites occidentali vi si opporrebbero con ogni mezzo. Invero, nella presente fase storica, anziché sognare utopie anticapitalistiche, si dovrebbe considerare già un grande successo riuscire a favorire la cooperazione tra i popoli e mettere di nuovo il mercato “al servizio” del Politico, ovvero della giustizia sociale e dei bisogni “reali” degli individui. Comunque sia, non sarà la demonizzazione del populismo che potrà risolvere la crisi del sistema liberal-capitalistico, anche se non si può affatto escludere che quest’ultimo, pur di difendere gli interessi di un’oligarchia plutocratica e di una middle class (sedicente) cosmopolita, continui a generare conflitti e squilibri d’ogni sorta.
di Fabio Falchi – 06/12/2016
Fonte: Eurasia

[1] Fondamentale sotto questo aspetto è l’opera di Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979.
[2] A tale proposito si veda Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989.
[3] Ha approfondito questo tema (benché in un’ottica decisamente economicistica) Giovanni Arrighi nel saggio Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 2014.

Il tramonto della classe politicante globalista

 personaggi politici al vertice dei governi occidentali, per lungo tempo avevano esercitato il potere nei loro paesi dando le spalle alla cittadinanza ed occupandosi prevalentemente degli interessi dei grandi gruppi finanziari e della stabilità dei mercati.
Al momento di presentarsi alla verifica del loro consenso, sono stati sfiduciati dalle loro opinioni pubbliche e ne hanno pagato il prezzo. Cameron, Obama, Hollande e Renzi non ripeteranno mai le fotografie di rito tutti assieme. Rimane ancora la Mekel come l’unica eccezione, in apparenza, perchè la sua popolarità è ormai in caduta libera presso la sua opinione pubblica.
Se si voleva avere la conferma della distanza creatasi fra le elite ed i propri cittadini, questa è stata dimostrata in modo inoppugnabile in questo 2016 e si è potuto comprovare che i cittadini (in grande maggioranza) si sono stancati delle decisioni prese dalle elites mondiali e sulla base delle loro impostazioni neoliberiste.
E’ accaduto in primis nel Regno Unito con la consumazione del Brexit, poi negli Stati Uniti con la vittoria di Trump e, più di recente, in Italia con le dimissioni di Matteo Renzi, dopo che questi è risultato sonoramente bocciato nel referendum sulla riforma della Costituzione.
Le decisioni prese da Bruxelles hanno prodotto un disastro sociale nei paesi europei con la scomparsa dei diritti e delle tutele sociali mentre la crisi dei rifugiati ha creato una situazione di destabilizzazione sociale e di allarme che ha prodotto un diffuso malcontento nelle opinioni pubbliche dei paesi europei, tanto che vari leaders europei (nell’Est Europa) hanno voltato le spalle a Bruxelles ed alla Merkel e hanno rifiutato le politiche della Commissione Europea in nome del recupero della sovranità.
La distanza della oligarchia di Bruxelles dai cittadini è apparsa enorme in particolare su questioni come quella dell’accoglienza dei migranti e profughi, sulle problematiche realtive alle sanzioni alla Russia e sulla bellicosa politica attuata dalla NATO che ha fatto tornare l’Europa in un pericoloso clima di “Guerra Fredda”.
 
Le inchieste ed i sondaggi di opinione hanno fallito le loro rilevazioni ed i risultati sono apparsi per loro una “sgradevole sorpresa”.
I sondaggi d’opinione avevano fallito già nel Regno Unito e questo è parso evidente al momento del Brexit. I britannici hanno votato a favore dell’uscita della UE, dopo che David Cameron aveva convocato un referendum per difendere la permanenza nella UE (remain).
 
Il premier britannico è stato sostituito dall’esponente conservatrice Theresa May che è stata incaricata di negoziare con Bruxelles l’uscita dalla UE.
Obama o Clinton: arriva  Trump
Ancora peggio negli USA dove, in occasione delle presidenziali. il candidato indicato da Obama e da tutto l’establishment, Hillary Clinton veniva indicto come “vincente”, mentre il suo rivale, Donad Trump, veniva fatto oggetto di una campagna denigratoria da parte dei media.
 
Il nuovo presidente, eletto negli USA per assumere la il cambiamento nel paese, è stato Trump, cosa che non è stata apparentemente gradita dalle elites mondiali che si sono subito organizzate per neutralizzare i possibili effetti negativi della sua nomina.
Hollande ed il Front National in Francia
I livelli di popolarità raggiunti dal presidente della Repubblica francese Hollande sono caduti nel punto più basso della Storia costituendo un record di impopolarità. Hollande, pressato dai suoi, è stato costretto a scendere dal suo piedistallo di vanagloria ed ha dovuto rassegnarsi a rinunciare ad una sua candidatura. Fatto enorme nella storia politica francese.
 
In un paese in forte declino economico e con problematiche di sicurezza e di minacce terroristiche, grazie alla sconsiderata politica di Hollande, emerge il partito nazionalista ed identitario della Marine Le Pen, la leader del Front National che sconfessa le politiche globaliste e di subordinazione a Washington ed a Bruxelles tenute da Hollande.
La Le Pen raccoglie un mare di consensi fra le classi popolari e fra i ceti operai e dei piccoli produttori, infuriati cone la UE e con il governo pseudo socialista. A contrastare la Le Pen l’establishment francese ha predisposto la candidatura di una figura della destra conservatrice e globalista mascherata: Francois Fillon.
Matteo Renzi è l’ultimo caso
Un leader non eletto ma nominato dall’alto che si era presentato come” rottamatore” ma che in realtà era eterodiretto per fare le riforme che gli venivano richieste dai potentati finanziari transnazionali. La sinistra globalista non voleva ammettere un fatto che pure era sotto gli occhi di tutti: Renzi era stato un personaggio cooptato dall’alto in posizione di capo dell’esecutivo ed era restìo a osservare le regole, quelle dei post comunisti e dei post democristiani. Lui si sentiva forte e voleva esercitare un potere quasi assoluto, nel governo e nel partito.
Per ottenere quel potere e non dover rispondere a vari contrappesi, ha avuto la trovata che era sembrata geniale: riformare la Costituzione. In realtà anche quella era una decisione venuta dall’alto. Lui si è immedesimato ed è partito a testa bassa a fare promozione e propaganda per la sua riforma delle riforme.
Quello che una buona parte dei cittadini italiani hanno compreso è che la riforma costituzionale targata Renzi/Boschi era in realtà un marchingegno che, con il pretesto dell’efficientismo e della riduzione dei costi della politica, aveva la sua essenziale finalità nel togliere ogni residua sovranità al popolo e inserire la clausola della supremazia delle norme europee in Costituzione.
Una buona parte dei cittadini italiani hanno poi percepito l’insicurezza, l’invasione di migranti travestiti da profughi ed alloggiati in comodi alberghi, la miseria sempre più diffusa, l’affossamento del ceto medio, l’emigrazione dei giovani per mancanza di lavoro, l’eliminazione dei diritti e la folle politica di sudditanza dell’Italia alle direttive USA e della Comunità Europea (dominata dagli interessi della Germania), tutte conseguenze prodotte dai governi globalisti al servizio delle centrali di potere sovranazionali.
All’elenco dei trombati manca adesso solltanto la Merkel, la sola rimasta al suo posto ma arriverà anche il suo turno. Il malcontento nell’opinione pubblica tedesca cresce di settimana in settimana. Solo questione di tempo.
Le foto di gruppo della classe politica  globalista, gli Obama.gli Hollande, i Cameron, la Merkel ed i Matteo Renzi, rimarranno soltanto come un  ricordo sbiadito di una fase storica da dimenticare. Il tempo delle autocelebrazioni è ormai finito.
Dic 07, 2016
di  Luciano Lago

JUNCKER CONDANNA COME IRRESPONSABILI GLI ELETTORI ITALIANI CHE HANNO VOTATO NO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE

allarme allarme Sono euroscettici che avanzano, PERICOLO per la democrazia (quella che non consente le elezioni per il bene del popolo, s’intende) i populismi spaventano le elites tecnocratiche banchiere affariste.

junkerIl britannico Express commenta la reazione del presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, alla vittoria del NO nel referendum costituzionale italiano. In una pervicace negazione della realtà, Juncker continua a parlare di irresponsabilità e populismo degli elettori del NO e però confida che alla fine il popolo “si renderà conto” che essere dentro la UE è una buona cosa.
(Di fronte a queste uscite delle istituzioni europee, quale migliore risposta di una distaccata ironia…)
di Rebecca Perring, 06 dicembre 2016
Jean-Claude Juncker ha decretato che gli elettori italiani che hanno votato “NO” al referendum costituzionale sono degli irresponsabili, e si è spinto a mettere in discussione il loro buon senso.
Ma il disperato boss di Bruxelles è ancora aggrappato al sogno del progetto europeo, quando afferma che “la gente si renderà conto che stiamo meglio se stiamo insieme“.
L’eurocrate capo ha fatto una serie di cupe osservazioni a seguito del risultato del referendum italiano, risultato che ha ulteriormente destabilizzato il già pericolante progetto dell’Unione europea.
Il duro verdetto del referendum, che ha portato il primo ministro italiano Matteo Renzi a presentare le dimissioni dopo che l’Italia ha votato contro la sua proposta di riforma costituzionale, si avvia a spianare la strada agli euroscettici del Movimento Cinque Stelle. La loro ascesa rappresenterebbe una spinta per il paese verso l’uscita dall’eurozona,  farebbe crollare l’euro e metterebbe in dubbio tutte le politiche economiche.
Dopo la sconfitta di Renzi, Juncker si è espresso così: “Il risultato italiano è una delusione, c’era la possibilità di rendere il paese efficiente e l’hanno sprecata. Viviamo in tempi pericolosi.”
Alla televisione pubblica olandese NPO ha detto: “Gli elettori del NO, i populisti, pongono dei quesiti ma non danno alcuna vera risposta.
A volte pongono le giuste domande, ma non hanno le risposte giuste. I populisti non si assumono responsabilità.
Le sue accuse sono giunte dopo aver sottolineato come alcuni leader euroscettici siano stati coinvolti nelle trattative per portare la Gran Bretagna fuori dal malridotto blocco europeo.
Ad ogni modo, nonostante i suoi commenti sensazionalisti, il presidente della commissione Ue non ha perso le speranze sul futuro dell’unione, e ha detto che il progetto sopravviverà.
Ha aggiunto: “Credo che alla fine dei conti prevarrà il buon senso europeo. La gente si renderà conto che stiamo meglio se stiamo insieme.
I commenti di Juncker arrivano dopo che una serie di politici di destra hanno esultato per la decisione dell’Italia e hanno acclamato la vittoria del NO come la fine della crisi della Ue.
dicembre 07 2016