Jobs Act, anche il centro studi di Biagi certifica flop: “Sempre più lavoratori a termine. Boom occupati? Solo over 50”

El-paro-aumenta-el-riesgo-de-pobreza.-Luis-SerranoA due anni dalla riforma, un working paper della fondazione Adapt fa il bilancio. Nonostante gli sgravi contributivi, costati circa 20,3 miliardi di euro, “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale”, cioè invertire il rapporto tra i nuovi contratti a tempo determinato e quelli stabili. Nel 2007 erano a termine 13,7 lavoratori su 100, nel 2016 si è toccato il record di 14,4. Inoltre gli incentivi hanno giocato a sfavore dei giovani, il cui tasso di occupazione resta 8 punti sotto il livello pre-crisi
 
Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili per i datori di lavoro i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto dei sindacati o un’accusa delle opposizioni: basta guardare gli ultimi dati Inps sull’andamento di assunzioni e licenziamenti nel 2016. Ma ora, a due anni esatti dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo di Matteo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato dal giuslavorista Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Brigate Rosse. La valutazione arriva dunque da una fonte cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata.
Le conclusioni dell’analisi, firmata dal direttore generale di Adapt Francesco Seghezzi e dal ricercatore Francesco Nespoli, sono nette: per prima cosa, alla luce dei dati disponibili “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale del Jobs Act, più volte comunicato, di invertire il rapporto tra il flusso dei contratti a tempo determinato e quello dei contratti a tempo indeterminato”, nonostante i generosi sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato concessi dal gennaio 2015 al dicembre 2016 proprio per spingere le stabilizzazioni siano costati alle casse dello Stato una cifra che l’articolo stima in “circa 20,3 miliardi di euro“, l’equivalente di una manovra finanziaria. Infatti appena la decontribuzione si è ridotta, nel 2016, “abbiamo assistito ad una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%)”.
Nel 2016 record di lavoratori a tempo determinato – Risultato: “Complessivamente sia nel 2015 che nel 2016 la percentuale degli occupati a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti è cresciuta. Se infatti nel 2007 13,2 lavoratori dipendenti su 100 avevano un contratto a termine, il numero è calato lievemente durante la crisi per poi tornare a crescere arrivando a 13,7 nel 2015 e al valore record di 14,4 nel 2016“. Tutto considerato, i dati finora disponibili mostrano secondo il paper come “l’investimento fatto non abbia portato ad un cambio strutturale delle preferenze delle imprese e come esso possa prefigurarsi come legato tuttalpiù a una modifica strutturale dei rapporti di convenienza economica delle due diverse tipologie contrattuali”. Per di più, il legame tra decontribuzione e attivazione di contratti suggerisce che le imprese favorite dal Jobs Act siano state “quelle che competono sui costi fissi piuttosto che sull’innovazione“.
“Ripresa occupazionale concentrata nella fascia più anziana” – Se poi si va a guardare quali fasce di età hanno beneficiato maggiormente delle stabilizzazioni, il risultato è quasi paradossale nel contesto di un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa (per non parlare dei Neet): l’unica crescita consistente del tasso di occupazione si è registrata nel gruppo 50-64 anni. Andando ancora più a fondo, si scopre che “la ripresa occupazionale alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni si è concentrata quasi totalmente sulla fascia più anziana della popolazione lavorativa italiana”. Una constatazione che “getta una diversa luce sulle possibili cause”, scrivono i ricercatori: vale a dire che “è quantomeno possibile introdurre tra i fattori l’aumento dell’età pensionabile e la conseguente diminuzione del numero dei pensionati italiani, diminuzione che ha fatto sì che il numero di occupati nella fascia 50-64 aumentasse, contribuendo quindi all’aumento complessivo degli occupati”. Più del Jobs Act, dunque, poté la riforma Fornero. Del resto, il fatto che gli incentivi non fossero differenziati – per esempio più alti per i giovani al primo impiego – “pare avere giocato addirittura a sfavore dei giovani, facendo propendere le imprese verso l’assunzione dei più esperti” anziché puntare su ragazzi da formare.
I contratti a tempo determinato nel 2016 hanno ricominciato ad aumentare – Le conclusioni del paper sono ovviamente basate sui dati ufficiali di Inps e Istat. Si parte dalle rilevazioni dell’istituto previdenziale sui nuovi contratti. Nel 2015 si sono registrati, al netto delle cessazioni e includendo le trasformazioni, 934mila contratti a tempo indeterminato in più. “È indubbio quindi che i provvedimenti, soprattutto quello della decontribuzione, abbiano generato nel 2015 una vera e propria impennata di contratti di lavoro”. Purtroppo però è altrettanto indubbio “che nel 2016 questo trend abbia subito una brusca frenata“: nel 2016 sono stati 82mila (-91%). Al contrario “sul fronte dei contratti a tempo determinato, la cui diminuzione era tra gli obiettivi di policy principali (se non quello primario) del Jobs Act, si assiste ad una dinamica opposta”. Se nel 2015 erano diminuiti di 253mila unità, l’anno scorso (quando lo sgravio contributivo è stato ridotto dal 100 al 40%) sono aumentati di 221mila, +187%.
 
Rispetto a prima della crisi 264mila lavoratori in meno – Passando alla panoramica del mercato del lavoro prima e dopo la riforma, il quadro è altrettanto negativo: “Alla fine del 2016 avevamo in Italia 22.783mila occupati, con un tasso di occupazione pari al 57,3% della forza lavoro. Un dato che confrontato con il 2007 pre-crisi mostra la diminuzione di 264mila lavoratori e soprattutto (considerando anche la crescita della popolazione e la forza lavoro cresciuta di 1,2 milioni di unità) la diminuzione dell’1,5% del tasso di occupazione“.
L’anno scorso 217mila nuovi occupati su 293mila sono stati over 50 – Quanto alla ripartizione dei benefici degli incentivi tra le diverse fasce di età, il tasso di occupazione dei 15-24enni che nel 2007 era al 24,2% e nel 2013 era sceso al 15,6% ha conosciuto solo un mini recupero, arrivando al 16,3% nel 2016: circa 8 punti in meno rispetto al periodo pre-crisi. Dinamica simile per la fascia della prima maturità, tra i 25 e i 34 anni: “se nel 2007 lavoravano 70,6 persone su 100 in tale coorte anagrafica, nel 2013 erano scese a 59,1 per risalire debolmente a 60,5 nel 2016”. Stesso andamento, anche se più contenuto nelle variazioni, per la fascia 35-49 anni. Al contrario, “l’unica crescita consistente si è verificata nel gruppo 50-64 anni che ha visto una crescita costante che ha portato la percentuale degli occupati dal 46,8% del 2007 al 53,8% del 2013 per poi salire ancora al 58,5% del 2016“. Depurare i dati dall’effetto della demografia, che “svuota” le corti più giovani, non migliora la situazione, anzi: “In una stima sul 2016 si evince che su un totale di 293mila occupati in più, sarebbero 217.000 quelli tra i 50 e i 64 anni, 49.000 coloro tra i 35 e i 49 anni e 27.000 tra i 15 e i 34 anni. Nell’ultimo anno quindi ad ogni nuovo occupato tra i 15 e i 49 anni sono corrisposti 2,8 nuovi occupati tra i 50 e i 64 anni”.
Sui licenziamenti troppo pochi dati. Ma sono aumentati quelli per giusta causa e giustificato motivo soggettivo – Meno schiaccianti le evidenze sul fronte dei licenziamenti: ancora oggi, spiegano Seghezzi e Nespoli, “mancano i dati che possano dirci con chiarezza se i contratti cessati in questo modo fossero o meno contratti stipulati dopo l’introduzione delle norme istitutive delle tutele crescenti. Per questo motivo non si può oggi ragionevolmente sostenere né che il Jobs Act abbia generato un aumento di licenziamenti, né il contrario”. Si può però prendere atto del fatto che tra 2014 e 2016 c’è stato un aumento costante dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, mentre è stato più altalenante l’andamento di quelli per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi, diminuiti nel 2015 e aumentati nel 2016.
 
La conclusione del paper è che se un governo intende davvero promuovere le assunzioni a tempo indeterminato è inutile “armarsi e scendere nel campo di battaglia dei numeri che ogni mese vengono diffusi”. Bisogna “discutere l’idea profonda del mercato del lavoro che vogliamo costruire, senza pensare di poter affrontare una grande trasformazione, ormai ammessa da tutti, rinverdendo un poco strumenti vecchi. Una rivoluzione implica risposte all’altezza della sfida, o quanto meno domande per un’analisi meno approssimativa possibile”.
di Chiara Brusini | 14 marzo 2017

DEMENZA DIGITALE

lavoro tecIl ras di quello che una volta era il partito dei lavoratori si è recato recentemente in visita negli Stati Uniti, alla Corte dei capitalisti della Silicon Valley.
L’ ex premier Matteo Renzi, come nel suo stile, ha trionfalisticamente annunziato l’iniziativa transcontinentale motivandola con la necessità di dovere apprendere da quelli che, per capirci, con l’informatizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione e la rete informatica guadagnano denari a palate. E così mandano sul lastrico milionate di aziende e lavoratori.
Chi vi scrive non appartiene di certo alla ristretta cerchia del giglio magico. Allorquando opportunamente interpellato lo scrivente, comunque, si sarebbe adoperato per evitare al leader piddino la defatigante esperienza californiana.
 
Non è. invero, necessario recarsi di persona nella lontana Silicon Valley per intuire i meccanismi che determinano il formidabile successo di aziende come Amazon, Microsoft, Apple, Google, Netflix twitter, starbucks, Adobe. Bisogna però avere l’onestà intellettuale di riconoscere che tale successo fonda su un modello sociale ed economico nefasto.
Pochi sanno che, insieme, tali imprese capitalizzano in borsa oltre 2718 miliardi di dollari. Molto di più del prodotto interno lordo italiano che vale, invece, 1961 miliardi. I vertici di tali colossi del web sono quelli che recentemente si sono messi anche a far politica. Come un sol uomo sono insorti contro la decisione di Trump che aveva bloccato gli ingressi negli Stati Uniti provenienti da stati canaglia.
 
Queste aziende, per capitale e fatturato di questo settore, contano oltre 900.000 dipendenti. Amazon, da sola, impiega 306.800 persone per smistare, a basso costo, pacchi in 14 paesi. Mentre Starbucks, con fatturato decisamente più basso, si serve di 238.000 dipendenti per recapitare dolcetti e caffè americani in tutto il mondo. E’ intuitivo comprendere che costoro si oppongono, allora, alle scelte di contrasto dei flussi immigratori incontrollati non certamente per ragioni umanitarie.
Le ondate di disperati, disponibili a lavorare a basso costo, rappresentano un ineliminabile pilastro del loro successo. Il dumping commerciale che tale aziende praticano postula la disponibilità di un elevatissimo numero di dipendenti disponibili a farsi sfruttare per salari da fame. E l’immigrazione alimenta l’offerta di manodopera disponibile a lavorare a basso costo. Renzi, di ritorno dalla Silicon Valley, avrà finalmente compreso l’ arcano della new economy. Ed a sinistra i nodi giungono al pettine.
 
Sul tema del lavoro, da che parte sta la sinistra? Con Uber, per esempio, o con i tassisti? La questione va correttamente affrontata in termini di principio. Stare con Uber significa accettare quella sharing economy che sta progressivamente annientando il mercato ed il mondo del lavoro. Si tratta di un progressismo peculiare, che piace molto alla grande finanza, agli intellettuali politicamente corretti, foraggiati da contratti che a loro riservano le reti pubbliche o le maggiori testate giornalistiche.
Chiunque non sia in malafede non può più negare che la robotizzazione e la digitalizzazione determinano la drastica riduzione di posti di lavoro e un progressivo aumento della disoccupazione.
Nell’arco di dieci anni, stando ad autorevoli stime, il tasso di disoccupazione passerà dal 10 al 47%. Di fronte a tale stato di cose, ed alle conseguenti prospettive, siamo ormai chiamati tutti ad consapevole presa di posizione universale: o si sta a favore del lavoro oppure ci si schiera a beneficio dei visionari dell’ultratecnica.
La sinistra renziana, invece, promette di tutelare i lavoratori ma intraprende politiche di governo che favoriscono la precarizzazione di tutte le forme di lavoro. Renzi poi una scelta definitiva sembra averla fatta: pubblicamente celebra Google, Apple, Amazon.
Negli Stati Uniti incontra Musk, imprenditore miliardario della new economy, profeta del transumanesimo, che progetta ed investe nella produzione di veicoli senza guidatore e preconizza che uomini l’ibridazione dell’umanità.
Nel frattempo, mentre i vertici del Pd si gingillano ad eludere temi centrali per le prospettive del mondo del lavoro, secondo i dati del Viminale, gli sbarchi segnano un inquietante aumento del 44% rispetto all’anno scorso. Gli immigrati in arrivo sono in gran parte della Nuova Guinea, Costa d’avorio, Nigeria e Senegal, Gambia. Nessuno proviene da scenari di guerra. Si calcola che nel 2017 possa essere superata la cifra dei 200.000 sbarchi. Coloro che si riempiono la bocca di retorica dell’accoglienza – ed il portafoglio di contributi destinati alle strutture di scopo – possono riferirci quali realistiche prospettive di assorbimento, in un mercato del lavoro che va rapidamente assottigliandosi, siamo in condizione di garantire a questi disperati ed ai nostri disoccupati ?
Mar 06, 2017 di Carmine Ippolito
Fonte: Katehon

Otto miliardari ricchi quanto mezzo pianeta. L’incubo del capitalismo è realtà

Homeless Man on the Street

Homeless Man on the Street

tutto questo è stato possibile grazie anche ai difensori “dell’europa delle banche che basta riformarla”, dei difensori della libera circolazione dei capitali,  merci e uomini contro le minacce “Populiste” come il padrone USA vuole.


Il noto non è conosciuto. Così diceva Hegel. E non è conosciuto perché lo diamo per scontato o rinunciamo a ragionarvi serenamente, complice la distrazione di massa che regna a ogni latitudine. Lo sappiamo da anni. Anche da prima che ce lo ricordasse Thomas Piketty nel suo studio sul capitalismo nel ventunesimo secolo.
Il mondo post-1989 non è il mondo della libertà, come ripetono i suoi ditirambici cantori: a meno che per libertà non si intenda quella del capitale e dei suoi agenti. Per il 99% della popolazione mondiale il post-1989 è e resta un incubo: un incubo di disuguaglianza e miseria.
Ce l’ha ancora recentemente ricordato Forbes, la Bibbia dei sacerdoti del monoteismo del mercato deregolamentato. Otto super-miliardari – meticolosamente censiti da Forbes – detengono la stessa ricchezza che è riuscita ad accumulare la metà della popolazione più povera del pianeta3,6 miliardi di persone.
L’1% ha accumulato nel 2016 l’equivalente di quanto sta nelle tasche del restante 99%.
Insomma, ci sia consentito ricordarlo, a beneficio di quanti non l’avessero notato o, più semplicemente, facessero ostinatamente finta di non notarlo: il mondo è sempre più visibilmente diviso tra un’immensa massa di dannati – gli sconfitti della mondializzazione – e una ristrettissima classe di signori apolidi dell’oligarchia finanziaria transnazionale e postmoderna, post-borghese e post-proletaria.
Non vi è più il tradizionale conflitto tra la borghesia e il proletariato nel quadro dello Stato sovrano nazionale: il conflitto – meglio, il massacro a senso unico – è oggi tra la nuova massa precarizzata globale e la nuova “aristocrazia finanziaria” (Marx) cosmopolita e liberal-libertaria, nemica giurata dei diritti sociali e delle sovranità economiche e politiche.
 
La massa degli sconfitti della globalizzazione è composta dal vecchio proletariato e dalla vecchia borghesia: il vecchio proletariato è divenuto una massa senza coscienza di erogatori di forza lavoro sottopagata, supersfruttata e intermittente. La vecchia borghesia dei piccoli imprenditori è stata essa stessa pauperizzata dall’oligarchia finanziaria, mediante rapine finanziarie, truffe bancarie e competivitismo transnazionale. L’oligarchia sempre più ristretta governa il mondo secondo la logica esclusiva della crescita illimitata del proprio profitto individuale, a detrimento del restante 99% dell’umanità sofferente.
 
di Diego Fusaro | 16 gennaio 2017

Trattati di Roma, la nuova offensiva del capitale finanziario (60 anni dopo)

fa così strano sentire un pensiero definito comunista in linea con la difesa delle masse e non a lanciare anatemi contro i “populismi”…


bandiera ue

 
 
Sono trascorsi sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, visti come l’atto fondatore del processo di integrazione capitalista europeo. La data di turno si presta, a ben vedere, all’ondata di celebrazioni che le si abbinano. Ma le dosi massicce di propaganda con cui la CEE/UE è stata venduta ai popoli d’Europa nel corso di decenni, servite ora in dose rafforzata, non riescono a salvarla dal discredito in cui è precipitata e dalla profonda e persistente crisi in cui si trova.
L’anniversario è il pretesto per contrabbandare le più diverse tesi. Il grande capitale e i suoi rappresentanti politici non sono disposti a rinunciare a questo loro strumento.
Questo il punto di partenza per le tesi di salvezza/riforma/rifondazione dell’UE.
Il Parlamento Europeo è di solito molto attivo su questo fronte. Recentemente, ancora una volta ha assunto l’iniziativa. La discussione sul “futuro dell’Europa” ha giustificato l’approvazione di tre relazioni in cui si è delineato il copione previsto per la riforma dell’UE. La destra e la socialdemocrazia le hanno sottoscritte congiuntamente. Non è una novità.
Definire un nemico o una minaccia – “le forze politiche euroscettiche e apertamente anti-europee”, Putin, Trump, il terrorismo – aiuta a giustificare gli obiettivi fissati. Si tratta, in fin dei conti, di scongiurare la minaccia esterna.
Il copione difende “l’aumento delle competenze attribuite al livello europeo”, il che “implica un accordo sulla diminuzione della sovranità nazionale degli stati-membri”. Dimenticano, dunque, le vergognose minacce, i ricatti, le sanzioni, come quelle che sono state indirizzate contro il Portogallo, sotto la copertura dell’attuale legislazione dell’UE. Ma non è abbastanza. Ci vuole di più. Questo perché “la procedura relativa agli squilibri macroeconomici non è attualmente utilizzata in modo sufficiente” e “l’UE necessita di nuove disposizioni legali in materia di politica economica e riforme strutturali fondamentali”.
Le poche decisioni che ancora richiedono l’unanimità tra gli stati-membri – ossia, in pratica, le uniche che ancora li collocano formalmente su un piano di parità – devono essere accantonate e la  regola della votazione per maggioranza qualificata deve prevalere in qualsiasi circostanza (anche se in contrasto con gli attuali trattati).
Va sottolineato che nell’attuale definizione delle “maggioranze” nel Consiglio, in accordo con il Trattato di Lisbona, la Germania ha un peso sette volte maggiore dei voti del Portogallo. Questo per capire chi trae vantaggio dalla fine dell’unanimità…
 
Sempre in linea con la maggiore concentrazione del potere, si propone la creazione di un ministro delle Finanze dell’UE, “a cui dovrebbero essere concessi tutti i mezzi e le capacità necessarie per applicare e far attuare l’attuale quadro di governance economica”. Si, come i prelievi e le sanzioni.
Il bilancio dell’UE deve essere “riorientato”, specialmente per quanto riguarda i fondi strutturali, allo scopo di privilegiare strumenti come i partenariati Pubblico-Privato. Vale a dire: finanziamento pubblico diretto dei monopoli transnazionali, come attualmente già succede con il Piano Juncker.
 
Niente di meno che la demolizione di qualsiasi obiettivo detto di coesione che possa ancora esistere.
Poiché la scalata antisociale non avanza senza il corrispondente attacco alla democrazia e neppure senza un rafforzamento dell’aggressività del sistema, il copione scritto per il futuro dell’UE ha previsto, a grandi lettere, un’inquietante deriva securitaria e militarista. Da un lato, sono resi possibili nuovi attacchi a diritti, libertà e garanzie, in nome della “lotta al terrorismo”, aprendo la porta alla creazione di un sistema di informazioni a livello dell’UE, in collaborazione con strutture di polizia e giudiziarie sovranazionali. Dall’altro lato, è potenziata al massimo la militarizzazione dell’UE nel contesto del rafforzamento della collaborazione con la NATO e anche oltre, con la proposta della creazione di un esercito europeo e il sostegno all’industria europea degli armamenti, puntando all’incremento dell’arsenale militare, messi entrambi al servizio “degli interessi strategici dell’UE”.
 
In modo sintomatico, il copione prevede che “gli stati-membri hanno il dovere di cooperare in modo leale con l’Unione e di astenersi dal prendere qualsiasi misura suscettibile di mettere in discussione l’interesse dell’Unione”.
Resta da dire che tale copione è stato votato favorevolmente dal Partito Socialista, da PSD e CDS e che ha avuto, ha e avrà l’opposizione del Partito Comunista Portoghese e di tutti coloro che non si rassegnano a questo “futuro”che, anche se chi lo annuncia forse ancora non lo sa, in fondo, è già passato…
 
di João Ferreira, parlamentare europeo del Partito Comunista Portoghese da avante.pt  Traduzione di Marx21.it
Notizia del: 24/03/2017

L’autonomia economica a 38 anni. Tra un decennio a 48. L’inferno che nessuno vuole vedere

0-20070un altro grande successo delle istituzioni europee, anti populiste, quelle giuste, globaliste e progressiste. Poi dicono che tocca importare braccia perché non si fanno figli. Ma le femministe si chiedono perché tante donne abortiscono PERCHE’ NON HANNO I MEZZI per mantenere i figli e quindi sono COSTRETTE non “scelgono” di rinunciare ad un figlio?

E’ un genocidio silenzioso.


La Fondazione Bruno Visentini, istituzionalmente collegata alla Luiss, si occupa di analizzare i problemi economici giuridici di maggiore rilevanza per il nostro sistema di imprese e, più in generale, del sistema socio-economico del Paese. La Fondazione ha presentato oggi un interessantissimo rapporto dal titolo: «Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà: generazioni a confronto».

Vi si evince chiaramente una cosa che tutti presentiamo da anni, anche se mai ci viene posta davanti agli occhi nero su bianco. Una cosa che rimuoviamo, altrimenti il nostro Io se ne uscirebbe in frantumi. La rimuoviamo come i traumi, i desideri inappagabili, le più profonde paure.

Questa cosa è che la nostra società, il modo in cui essa è strutturata e in cui vi sono distribuite le risorse, è divenuta un insormontabile ostacolo al normale, al fisiologico sviluppo della vita umana.

Biologicamente la maturità inizia a 18 anni. Questo significa che a quell’età noi siamo pronti per essere autonomi. Bene, nella nostra Italia nel 2004 l’autonomia economica si raggiungeva in 10 anni. In altri termini, mettevi su casa a 28. Nel 2020 per metter su casa dovrai aspettare i 38, oltre dunque la prima fase della maturità.

Per vent’anni la tua psiche sarà costretta ad essere quella di un ragazzo. Per non impazzire. Ma anche essere ragazzi a trent’anni è una forma di profonda alienazione foriera di mille nevrosi.

Nel 2030 si prevede che l’autonomia economica sarà raggiunta soltanto a 48 anni. È incommentabile.

È la sovversione dell’ordine naturale delle cose: per chi ha un’idea sacrale della vita, una cosa più blasfema non può esistere. Per gli scientisti, non può esistere una cosa più stolta.

Stiamo vivendo in un film horror e non ce ne accorgiamo.

Allora ripeto per l’ennesima volta che o si pone rimedio immediatamente al divario generazionale in termini di distribuzione delle risorse o non stupiamoci più di alcuna aberrazione, di alcuna efferatezza, di alcuno scriteriato integralismo: perché quello che abbiamo costruito continuando a guardare il nostro ombelico pasciuto si chiama Inferno.

A presto.

di Edoardo Varini – 23/03/2017 Fonte: linkiesta

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58556

A sessant’anni dai Trattati di Roma: “vertici” e “celebrazioni” che hanno fatto il loro tempo

trattati romail popolo dovrebbe festeggiare la troika che li dissangua a suon di austerità? Ah già si deve altrimenti si è populisti….


Piccolo esempio di come gettano al vento i nostri soldi: i festeggiamenti per i 60 anni del Trattato di Roma che istituì la Comunità Economica Europea.

Pensate a quanto costerà quest’inutile ed autoreferenziale fanfaronata, anche solo dal punto di vista della “sicurezza”. Da giorni cercano di coinvolgerci emotivamente con le “informative dei nostri (?) 007″: l’Isis, i Black Bloc, la Banda Bassotti, Fantomas e pure il Jolly Joker caleranno sulla Città Eterna per metterla a sacco!

Ma se proprio hanno tanta voglia di festeggiare, perché queste nullità “europeiste” non s’incontrano da qualche parte, in un esclusivissimo albergo di montagna, cenano a caviale e champagne, si scambiano baci e abbracci, leggono un paio di banalità dei “padri dell’Europa” e poi se ne tornano ordinatamente a casa loro? D’altronde non è quello che fanno quando si riuniscono per il Bilderberg, la Trilaterale, al Bosco Boemo e via cospirando?

Invece no: devono imporre questa “festa” a Roma perché tutti la devono vedere, spendendo cifre assurde per le delegazioni, la farsa della “sicurezza” (ma chi vi fila!) e l’immancabile parterre di ‘escort dattilografiche’ al seguito, tutti pagati dal mitico ed esangue “contribuente”.  E questo senza citare il disagio che questi “summit” provocano nella cittadinanza, espropriata della città per far posto a Sua Maestà l’oligarchia europoide.

Viene sinceramente il dubbio che uno degli scopi dell’evento sia effettivamente quello di far calare dei “contestatori”, che come al solito spaccheranno tutto, dai cassonetti dell’immondizia alla vetrina della bottega del pizzicagnolo, dalle cabine del telefono alla macchina del ragionier Fantozzi parcheggiata sotto casa, che, si sa, sono i simboli per antonomasia dei “padroni”.

Solo di agenti in servizio, questa orgia auto-celebrativa che poteva essere evitata organizzando una comoda audio-conferenza gratuita su Skype, costerà un capitale che, in tempi di deprecati “sprechi”, dovrebbe far sobbalzare sulla sedia di strapagati grilli parlanti i vari professionisti della berlina per “la Casta” ed i suoi vizi, che invece taceranno come tacciono sempre quando annusano pericoli per il loro quieto vivere.

Eppure è tutto così evidente. Ora, tutto questo dispendio di soldi ed energie per mettere intorno a un tavolo i cosiddetti “grandi della terra” può verificarsi puntualmente ed impunemente perché in giro non c’è manco il barlume di una “coscienza storica”. Ma avendo il sottoscritto una preparazione da storico contemporaneo, non mi può sfuggire un particolare non da poco.

Fino a qualche decennio fa gli “incontri al vertice” erano davvero appuntamenti importanti, preparati per mesi, nei quali si decideva qualcosa. Penso, prima della Seconda guerra mondiale, alle Conferenze di Stresa o di Monaco. Oggi, ogni settimana c’è un “vertice”, fatto tanto per fare, per dare l’impressione che esista una politica estera espressione della volontà dei politici. Un inutile ed indecoroso walzer di facce di bronzo che girottolano con le loro cartelline di cui ignorano i contenuti, con un codazzo di delegazioni da fare spavento, più alberghi e cene e via sperperando, fino all’immancabile foto di gruppo (o di classe, da bravi scolaretti che hanno fatto bene i “compiti”) da dare in pasto alle agenzie e ai tiggì, senza che di tutto ciò – intendiamoci – resti traccia nella Storia…

Ecco, di questi sessant’anni dei Trattati di Roma, di cui non frega assolutamente nulla a nessuno, rimarrà probabilmente solo l’ennesimo ammanco di cassa, di danari nostri estorti dal nostro sudore ed andati in cene, conferenze, parate, alberghi, leccapiedi e pattugliamenti di terra, del cielo e dell’aria; e forse, come sussurra qualche malalingua, in dame di compagnia ed altro “materiale umano” per allietare le notti dei convenuti, di certi particolari convenuti alla “festa” di un’Europa senz’anima nel vero senso della parola.

Sì, perché non è credibile mettere su un piano – quello del “terrorismo” – tutti i cattivi pronti a rovinare la “festa” e presentare come delle mammolette prese a studiare il meglio per noi gli stessi che, un colpo dietro l’altro, “commissariando” le nazioni europee, ci hanno esautorato di ogni sovranità, esponendoci oltretutto al pericolo di “spectre” che, come le migliori inchieste hanno dimostrato (Meyssan, Estulin…), sono fabbricate nello stesso esatto luogo dal quale escono i “rispettabili” cantori della “globalizzazione”, di cui questa “Unione Europea” è una diretta ed evidente espressione.

di Enrico Galoppini – 23/03/2017 Fonte: Il Discrimine

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58553

Francia: la Massoneria attacca il Front National

grand-orient-franc_interna-nuovala massoneria preferisce candidati fedeli alla linea politica ammazzapopolo. Sono dell’elites, disprezzano il popolo. Fa ridere pensare che la loro cosiddetta filosofia umanistica sia dedita al benessere di tutti gli uomini, ste balle propagandistiche sono ormai lampanti a tutti.Ah quanto amavano Hollande, esempio di “opera” in favore del benessere di tutti i francesi no? Tali valori sono compatibili con il loro arricchimento, il famoso 1% contro il 99%. E’un onore essere nemici di questi oligarchi sanguisughe

Francia: la Massoneria attacca il Front National
 
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Massoneria francese si traformò in un saldo  referente ideologico  dei politici francesi. Gli anni ottanta, con Francois Mitterand come presidente, furono l’epoca dorata di questa associazione “discreta”.
“I valori del Front National sono contrari all’umanesimo che si trova nel cuore della filosfia massonica.  Sono queste la parole di Pierre Mollier, il conservatore del Museo della Massoneria di Parigi e membro di rilievo del Gran Oriente di Francia, la principale loggia massonica del paese. Questa loggia è talmente importante che lo stesso presidente francese Francois Mitterand (noto massone) si è recato lo scorso Lunedì a rendere omaggio ai suoi “fratelli di compasso”  ed ha pronunciato un discorso di quasi una ora in cui ha esaltato la massoneria ed ha detto che “la mia presenza costituisce un riconoscimento di quello che avete sempre fatto per la Repubblica. La Repubblica sa quanto vi deve e come sempre sarete pronti a difenderla”.
Appena dopo aver pronunciato queste parole, quando la candidata del Front National alla Presidenza inizia ad essere la sicura candidata a vincere le elezioni della prossima primavera, i portavoce della massoneria (influentissima in Francia)  hanno attaccato la formazione identitaria francese. Loro, i massoni,  la considerano la principale nemica della filosofia massonica.
Oltre ha questo si è comunicato dalla Loggia massonica che tutti i candidati, meno quelli del Front National, sono invitati a partecipare alle sessioni e conferenze organizzate.  Per quanto la massoneria non voglia identificarsi con alcuno dei candidati,  hanno dichiarato: “Nessuno degli aspiranti a vincere le elezioni del 23 Aprile è un massone attivo”, -ha detto Mollier – ma loro sanno ben chiaro chi è il loro nemico: il Front National ed i gruppi Provida (nazionalisti cattolici).
 
Si sapeva che alla massoneria appartengono una buona parte dei politici della sinistra socialista e mondialista come anche molti degli eminenti banchieri e manager di Stato in Francia e che molti di loro furono inclusi nelle liste elettorali alll’epoca di Mitterandi e dello stesso Jacques Chirac (figlio di un massone). Erano gli anni della legalizzazione ed estensione dell’aborto, degli attacchi alla famiglia, dell’eutanasia, ecc..
Dopo quell’epoca la massoneria si è globalizzata e gli attacchi adesso sono diretti contro i concetti di difesa dell’identità e della sovranità delle Nazioni e di una Europa contraria a consegnare la sovranità alle istituzioni della UE.
Questo è il principale confronto che che impostano nelle loro interviste i principali esponenti massoni francesi come Mollier o lo stesso Chistophe Habas, gran maestro del Grande Oriente di Francia.
Tuttavia gli attacchi della Massoneria non soltanto si concentrano contro il Front National e la sua candidata alla Presidenza, Marine Le Pen. La mobilitazione fatta in Francia in difesa del diritto alla vita, da parte di “Manif Pour Tous”, anche questa è stata oggetto di critiche da parte dei massoni ed ha segnalato che gli attacchi contro il “matrimonio gay” e l’aborto sono contrari al laicismo che è l’essenza del regime e dell’ideologia massonica.
Traduzione: L.Lago
Mar 03, 2017

Cosa c’è che non va nel globalismo?

globalismIn base a quello che sino ad ora ho capito, il globalismo è uno schema elaborato dalle elites per distruggere la classe operaia e quella media attraverso la finanza globale imperialista.
Ho anche il sospetto che il globalismo sia una trama ordita per eliminare le culture nazionali e le vere differenze umane sotto le ingannevoli spoglie del «multiculturalismo» e della «diversità».
E’ per questa ragione che mi confondo ogni volta mi capiti di sentire una persona dire di odiare «i ricchi», di essere opposta «all’imperialismo» e di supportare «la classe operaia», pur sostenendo incondizionatamente allo stesso tempo le frontiere aperte ed un governo globale.
Come il sogno irrealizzabile del Marxismo (un’inevitabile ed irreversibile dittatura del proletariato), la seduzione più pericolosa del globalismo consiste nell’idea della sua assoluta necessità storica. La tecnologia ci ha resi un pianeta sempre più interconnesso, per cui (così dicono) l’unica vera soluzione realmente logica e morale dovrebbe essere l’istituzione su scala globale di un’autorità governativa benevola, dotata dell’autorità di tassare, imprigionare, torturare ed abusare.
 
Ma il comunismo ci ha mostrato di essere tutt’altro che inevitabile. Dopo l’apogeo raggiunto il secolo scorso, è praticamente scomparso dalla faccia della terra. Vorrei tanto pensare la stessa cosa dei progetti di un governo monolitico mondiale sottesi a quanto viene amabilmente definito come «globalismo».
Suppongo che feticizzare una sciocca astrazione internazionalista della «classe operaia» globale permetta al globalismo stesso di adattarsi perfettamente alle vostre istanze emozionali e ai vostri complessi borghesi incentrati su un «senso di colpa da ricchi». Tuttavia, se si supporta concretamente la classe operaia statunitense (o ancora meglio: se si appartiene a questa classe), non si può non comprendere che il globalismo è il nostro peggior nemico. Chi ha passato la maggior parte della propria esistenza sotto la pressione di una scelta tanto semplice quanto triste (lavorare o morire di fame) avverte distintamente il disprezzo che le subdole élite globali provano non solo verso la sua persona, ma anche per la sua cultura, la sua umanità e la sua stessa esistenza.
Indipendentemente dai posti di lavoro che questi schizofrenici resi folli dall’avidità confezionino e spediscano all’estero, il loro sogno maggiore è ridurre drasticamente i salari negli stessi USA importando (per vie sia legali che illegali) «migranti» che non hanno niente in comune con la vostra cultura e sono stati istruiti a deridervi come uno scarto evolutivo se vi permettete di lamentarvi che le elites si stanno prendendo gioco di voi mentre distruggono le basi su cui si regge la vostra vita.
Il globalismo sostituisce operai del Mondo Sviluppato con operai provenienti dal Terzo Mondo e chiama i primi «razzisti» (l’equivalente moderno di «negri») se osano avanzare la minima protesta a riguardo. Quindi… se il globalismo può essere una manna dal cielo per le multinazionali e gli operai malesi, per quelli occidentali si è rivelato una botola da cui possono pendere impiccati in qualsiasi istante.
Per la classe operaia occidentale, il globalismo significa regresso, disfatta, dislocazione.  Dopo le elezioni di novembre, il maggiore stratega della Casa Bianca, Steve Bannon, ha descritto cosa è realmente successo: «I globalisti hanno distrutto la classe operaia statunitense ed hanno creato una classe media in Asia. Il problema principale ora consiste in come gli statunitensi possano evitare di essere definitivamente rovinati».
Ma come molti di noi stanno imparando, il semplice comprendere che si sta venendo rovinati (non dico cercare di evitarlo attivamente!) ci rende automaticamente dei nazisti, degli antisemiti, dei suprematisti bianchi e dei patetici provinciali che devono essere sostituiti nella linea di produzione da gente con più melanina e meno soldi.
 
 Quanto più le elites finanziarie perdono le proprie radici e si internazionalizzano, tanto meno fanno finta di trovare un legame comune con gli zotici e le bestie dei paesi che le ospitano. Al contrario, deridono ormai apertamente queste masse.
Ma con sommo orrore e sgomento di questi cosmopoliti ultra-arroganti, i provinciali dei paesi di transito finanziario si stanno svegliando ed hanno realizzato che, nel migliore dei casi, sono visti come un ostacolo al progresso. Nel peggiore dei casi, invece, realizzano che gli architetti globali non avrebbero problemi di sorta a schiacciarli con le asfaltatrici pur di tracciare la via maestra per la loro versione di «progresso».
Chi critica aspramente «i ricchi» pur accettando ingenuamente il globalismo e tutte le sciocchezze utopistiche piazzate in rete non comprende che, quasi senza eccezione, la finanza globale, i mezzi di informazione globali e la cultura accademica globale sono solidamente dietro questo idiota movimento monolitico che predica il commercio libero, le frontiere aperte e la psicopolizia informatica.
Fondazioni umanitarie, organismi o gruppi analitici apparentemente indipendenti e le ONG affermano di perseguire una missione che dovrebbe alleviare i problemi delle masse e mettere i ricchi sotto controllo, tuttavia pochissime persone sembrano dubitare della sincerità dei loro intenti. «I ricchi» infatti stanno appoggiando dei movimenti da cui vengono demonizzati solo superficialmente: in realtà, le strutture appena menzionate stanno rendendo «i ricchi» ancora più ricchi, ma chi dice qualcosa a riguardo viene subito tacciato di nazismo.
Ma a parte la sfrenata ipocrisia economica, l’aspetto più odioso del globalismo selvaggio è il disprezzo infestante che i suoi divulgatori mostrano per le culture nazionali, soprattutto per quelle europee. Nonostante il tributo convenzionale offerto ai cosiddetti diritti di uomini che ritengono di essere donne e quindi vogliono fare i loro bisognini nei bagni delle signore, questi divulgatori mostrano una disinvolta indifferenza verso il seguente fatto: le loro devastazioni finanziarie e culturali, che nessuno ostacola, stanno spazzando via intere culture sul pianeta e le stanno sostituendo con una cultura consumatrice piatta, sradicata, omologata, ideologicamente caotica e compiacente.
Tuttavia, nella loro folle tensione ad un livellamento globale, le forze mondialiste non potranno mai risolvere definitivamente i motivi di conflitto. Il globalismo può solo sostituire le guerre tra nazioni con guerre tra ex-nazioni, trasferendole dai confini, dove prima tali conflitti avevano luogo, alle strade delle città. E’ possibile che, invece di un’armonia globale, sia proprio questo lo scopo finale del globalismo: un conflitto interminabile ed insanabile.
 
C’è un lato tremendamente ironico in tutto questo. Non so se per caso o destino. Il globalismo spesso è un antidoto umano ed una forma di retribuzione karmica in atto contro il colonialismo europeo. Durante i vari dibattiti, il fatto che la Francia abbia colonizzato parti del Maghreb in maniera criminale viene utilizzato come una giustificazione morale dei magrebini che stanno colonizzando demograficamente e culturalmente la Francia. Apparentemente, nessuno ha mai insegnato a questi scaltri sofisti del globalismo che la somma di due mali non dà mai il bene, il risultato sarà piuttosto un inasprirsi dei conflitti e degli spargimenti di sangue.
Essendo io un anticollettivista per natura, trovo orrendo lo spettro di un governo globale retto da figure ufficiali non elette che non tengano in conto alcuno la volontà mia e quella della maggioranza degli esseri umani. Non ho assolutamente voglia di far controllare ogni microsecondo della mia esistenza a persone che si trovano a 5000 miglia lontano da me. Persone a cui non delegherei nemmeno il compito di scaccolarmi.
 
John Lennon può essere ritenuto a buon diritto la prima pop-star globalista, il suo candido «Imagine» del 1971 è venerato come un vero inno al globalismo. In questa canzone Lennon immagina un mondo senza nazioni, senza proprietà privata, senza omicidi, un mondo dove tutti gli uomini cooperano. Mentre immaginava tutto questo, un pazzo ha premuto il grilletto e lo ha ucciso. Lennon cantava che abbiamo bisogno solo d’amore. In realtà, il giorno del suo omicidio lui aveva bisogno solo di un’arma per difendersi.
di Tyler Durden – 01/03/2017 – Fonte: oltrelalinea
(di Tyler Durden, ZeroHedge – Traduzione a cura di Claudio Napoli)

GLI STACCANO LA LUCE, INVALIDO COSTRETTO A FARSI L’AEROSOL NEI BAR

garante-1prima di andare a cianciare di civiltà assente in altrui paesi “da correggere con le bombe”vediamo in casa nostra. Invece staremo dietro ancora alle fantasia dell’ennesimo governo non eletto che blatera di fantomatico reddito di sostegno al reddito..


Sono costretto a farmi l’aerosol nei bar o chiedendo una presa ai vicini, perché mi hanno staccato la luce”. A parlare è un uomo di 64 anni, invalido all’85%, con malattie croniche come asma e diabete e con quattro figli a carico.
“Cerco di tirare avanti con la piccola pensione di invalidità che percepisco, 279,75 euro al mese, ma non ce la faccio a pagare le bollette, specie se, come è accaduto, mi arrivano delle cifre che, con quello che prendo, non posso saldare”.
 
I problemi sono arrivati dopo che la famiglia – che vive in un alloggio popolare – ha stipulato un contratto con Enel Energia.
 
A quel punto le fatture, stando al racconto dell’uomo e di uno dei suoi 4 figli, sarebbero iniziate a lievitare. Prima è arrivata una bolletta a conguaglio di 1.020 euro, poi in sei mesi la bellezza di quasi 2.100 euro.
 
“Ci siamo recati più volte negli uffici del gestore – dice l’uomo – chiedendo una rateizzazione: solo per la bolletta di 1.020 erano disposti a farmela pagare in quattro rate da circa 260 euro. Una cifra che non posso sostenere , ripeto prendo 279 euro, cosa mi resta?”.(…)

Se i Nobel Economia lo criticano,significa che Donald ha ragione

stglitz vs trump
i criteri con cui assegnano il nobel sono chiari da un pezzo….

Sul quotidiano francese LeMonde di venerdi 3 febbraio, con questo titolone : “Joseph Stiglitz : Trump détruit l’ordre géopolitique mondial “ , con sottotitolo “ les perdants de la mondialisation seront les premierès victimes de Trump “,  il premio Nobel  rilascia una intervista che a dir poco mi ha sorpreso .
L’intervistatore gli chiede : “Voi denunciate da anni gli eccessi della mondializzazione fonte di ineguaglianza .Il protezionismo di Trump può esser una soluzione?” . Stiglitz risponde : “ No.L’ironia è che le persone che  ne hanno più sofferto nei 25 anni passati saranno le prime vittime.. “ .
Mio commento : Se Stiglitz spiegasse anzitutto con chiarezza chi sono le vittime e la sua visione sull’origine di questi  eccessi ,dimostrerebbe di aver giustamente meritato il Nobel  e di saper proporre soluzioni. Invece coglie l’occasione per   attaccare  il rischio di populismo politico in Usa ed Europa.
La  risposta giusta è  : Il vero grande disordine si crea negli anni settanta grazie alle dottrine del nuovo ordine mondiale che come prima  azione frenano le nascite (solo in occidente) , e questo fenomeno avvia il processo di disordine economico-geopolitico mondiale. Di per sé la globalizzazione  ha creato un riequilibrio  economico inimmaginabile grazie alla  delocalizzazione produttiva realizzata dai paesi occidentali verso quelli orientali ,per beneficiare dei loro bassi costi di produzione .Pur nell’errore originale ,  ciò  ha permesso  a due terzi del pianeta ( persino in Africa) di avviare piani di crescita economica. Lo squilibrio  si è invece paradossalmente creato nei cosiddetti paesi occidentali ( Usa, Europa in primis) perché da paesi produttori  che erano ,si sono trasformati in paesi consumatori , mentre i paesi asiatici e affini si son trasformati repentinamente in paesi produttori ,ma non ancora consumatori.
L’occidente ha  deindustrializzato creando presupposti per il suo crollo economico. Il cosiddetto  protezionismo nei confronti di alcuni settori industriali diventa ora indispensabile per far riprendere settori trainanti dell’economia ( esposti alla competizione  fondata su forme quasi di schiavismo lavorativo)  e riavviare un nuovo ciclo in paesi come gli Usa, sull’orlo del fallimento economico e sociale. In Occidente ,le vittime son stati i giovani senza lavoro, le persone in età matura  operanti in settori impiegatizi sostituibili dalle tecnologie, gli anziani.
La seconda domanda : “ se il protezionismo non è una risposta come si può proteggere le vittime della mondializzazione ? “.La risposta è da vero premio Nobel .” La priorità è aiutarli a formarsi… “ cioè acquisire nuove competenze e  creare nuovi lavori ….( ci vuole una generazione  per riuscirci?) .
Dice anche che non sarà la rilocalizzazione in patria a creare nuovi impieghi , ma saranno investimenti, per esempio,  nella   sanità, cura degli anziani  , proponendo di trovare le risorse   con tasse e riduzione spese militari  . Ma Stiglitz , premio Nobel per l’economia,  di che sta parlando ? Per creare nuove competenze e nuovi lavori , come si fa se non reimportando in patria quei settori trainanti l’economia , quei settori che creano investimenti e sviluppano tecnologie ?  proprio come l’automobile che sviluppa un indotto che può arrivare a quintuplicare gli effetti  di creazione posti di lavoro  e di investimento , purchè realizzati all’interno del paese.
 
Stiglitz annuncia,  come un oracolo, che prodotte in case le auto costeranno più care per gli americani .  Ma conosce Stiglitz  il potenziale tecnologico americano ( ottenuto proprio grazie agli investimenti nella difesa,che crearono Silicon Valley) che quando applicato a quei settori da rilocalizzare in patria , permetterà  di crescere la competitività domestica  “quasi “ vicino a quella dei paesi a basso costo. Ciò perché questi paesi  , costretti a ridurre le esportazioni  in occidente , per evitare collassi delle proprie economie , dovranno creare domanda interna , aumentando il potere di acquisto, perciò i costi .  Tra poco , se Trump non fa errori ,per molti settori economici ,il costo di produzione domestico in USA   sarà quasi equivalente a quello importato ,ma con un effetto trainante elevatissimo . Grazie alla potenza tecnologica , gli Usa son riusciti  negli ultimi  pochi anni  a diventare persino indipendenti nelle produzioni energetiche .
 
L’intervistatore chiede al premio Nobel se i progetti di fare opere infrastrutturali  beneficeranno la crescita . La risposta è ambigua , si  , forse si potranno fare , ma  conclude ironizzando  che i repubblicani non credono al cambio climatico ..Lasciando immaginare  che Trump lo peggiorerà con le sue scelte.
Successiva domanda è infatti sul  clima : che farà Trump ? Risposta del Nobel in economia : “ Trump sta distruggendo l’ordine geopolitico mondiale avviato dopo la seconda guerra mondiale.” Spiegando che gli Usa ripiegheranno  su sé stessi  fuori dalla comunità internazionale .Ma con una affermazione criptica :” Dans quatre ans, il y aura peut etre un autre président américain qui déciderà  de rejoindre à nouveau le club.”
Quale club , il club di Roma  e affini ?  Intende il  club che ha creato i dissesti della globalizzazione forzandone scelte contrarie a tutte le leggi naturali cominciando dal frenare le nascite nel mondo occidentale ? Ma quale ordine ? Chi ha distrutto l’ordine geopolitico mondiale son stati proprio i predecessori di Trump.
 
Solo nell’ultima domanda Stiglitz da una risposta che condivido (ironicamente) .Gli si chiede se l’Europa deve difendere il libero scambio contro un presidente protezionista .La risposta è “ Bisogna mantenere un sistema mondiale aperto. Se lo si chiude si perde. Ma la mondializzazione deve proteggere i perdenti …e ce n’è anche troppi” .
Bene , ma ripeto la domanda , chi sono i perdenti  e perché lo sono , Stiglitz lo  ha capito ? Io credo che siano quelli che han votato la Brexit, hanno votato Trump e voteranno partiti populisti in Europa . Ma gli Stiglitz hanno  capito perché ? Dalla intervista non si intende . I più deboli  che lui vorrebbe far difendere non vogliono  farsi più difendere da chi vorrebbe lui , avendo  perso fiducia   proprio nel “club” evocato da Stiglitz . Han perso fiducia negli  Obama , Clinton  e compagnia bella . Cioè in coloro che  pretenderebbero oggi di risolvere un problema mondiale agendo sugli effetti anziché sulle cause del problema. E le cause del problema  rifiutano persino di considerarle ,perché , con disprezzo,  le  considerano “morali” . Ed è vero , sono state  la mancanza di  valori morali che han provocato miseria morale che a sua volta ha generato miseria economica e  sociale. L’intervista conferma che l’economia non è una scienza e pertanto il Nobel non dovrebbe neppure  esser riconosciuto, ma conferma anche che sarebbe necessaria una forte Autorità Morale   che  evangelizzasse a dovere  nel mondo globale .
di Ettore Gotti Tedeschi