Il predestinato del Club Bilderberg

Dico la mia (e poi mi taccio) sulle elezioni presidenziali francesi. Apprendo da Internet macron attali2delle trame di Jacques Attali, il banchiere gran suggeritore di strategie mondialiste e stratega impegnato nella distruzione di identità, diritti, garanzie sociali in nome del potere finanziario internazionale senza volto (ma con molto culo), quel progressismo liberal che tanto piace anche ai coglioncelli liberali nostrani.
Apprendo quindi che fu Attali nel 2014 a presentare alla riunio…ne di quelli che tramano nel Club Bilderberg, questa sua giovane creatura di plastica in grado di rimpiazzare la rovinosa caduta del piccione Hollande e dare la mazzata finale allo Stato sociale in versione francese.
 
Da subito il promettente Macron si mise all’opera nel governo del Presidente che i francesi avevano scelto in massa dimostrando già allora la forte propensione ad essere fregati alla grande.
Dalla penna di Macron – divenuto ministro del piccione – infatti è uscita la legge che ha distrutto le garanzie del lavoro, premessa antisociale ad una serie di altri provvedimenti “global” come la svendita dei gioielli di famiglia dell’industria francese.
Non ci resta che stare a vedere cosa combinerà su questa strada la marionetta locale del Bilderberg anche se non ci vuole molta fantasia per indovinarlo.
Certo è che le strategie mediatiche dei vampiri internazionali si vanno sempre più affinando e le tecniche di controllo (del pensiero) di chi ancora cerca di contrastarle stanno sempre più diventando poliziesche.
Un altro piccolo esempio ci viene dalle elezioni tedesche di ieri in un Land, lo Schleswig-Holstein, nel quale come avevo facilmente previsto tempo fa sulla mia bacheca fb, i votanti locali hanno potuto scegliere con cosa suicidarsi, se con il cappio o con una revolverata, ovvero tra la Merdel e quella faccia da Kapò (per dirla una volta tanto con una immagine azzeccata da quell’altro bel tipo del Berlusca) di Schulz.
 
Anche in questo caso, gli “alternativi” locali dell’AfD (Alternative für Deutschland) che volavano nei sondaggi poco tempo fa, hanno visto un travaso di elettori dal loro campo a quello della Merdel, tentativo estremo (montanellianamente turandosi il naso) di bloccare l’avanzata del più spinto globalizzatore locale, probabilmente peggiore della democristiana dell’Est.
 
Il risultato, ai fini delle strategie mondialiste non cambia ma anche qui i cosiddetti “antieuropeisti” (che probabilmente sono veri europeisti a leggere la loro stampa!) sono stati messi nell’angolo dal quale difficilmente – almeno per il momento – riusciranno a muoversi.
Quando verrà il tempo che gli infamati messi nei ghetti di destra e di sinistra dai loro nemici “centristi” la smetteranno di finire nella trappola degli schemi del passato e si uniranno per rovesciare il sistema che tutti vuol rendere schiavi senza volto e identità?
 
[Nella foto, burattinaio e burattino: Attali e Macron]
di Amerino Griffini – 08/05/2017 Fonte: Amerino Griffini

Elezioni Francia, vincono Macron e gli euroinomani

macronC’era da aspettarselo, in fondo. In Francia hanno vinto il signor Macron, i globalisti, gli euroinomani e, in generale, quell’élite finanziaria che è classe dominante nel rapporto di forza oggi egemonico. L’antifascismo in assenza di fascismo s’è ancora una volta rivelato il fondamento ideologico dell’ultracapitalismo
a cui anche le sinistre hanno venduto cuore e cervello. Ha vinto – occorre dirlo – l’ultraliberismo de-eticizzato e sans frontières, il volto più indecoroso della mondializzazione classista capitalistica tutta a detrimento di masse popolari, lavoratrici e disoccupate.
Per opporsi a Marine Le Pen, si è votato direttamente il Capitale. Per lottare contro il manganello fascista ormai inesistente si è votato per mantenere il nuovo manganello – realmente esistente – del mercato assoluto, globalista e desovranizzato. Macron è esponente della classe dominante, di cui è un prodotto in vitro. Gli utili idioti che l’hanno supportato è come se avessero sostenuto un’immane repressione delle classe lavoratrici e delle masse nazionali-popolari odiate dall’aristocrazia finanziaria.
In merito alle elezioni francesi Il Manifesto – avanguardia del mondialismo e della lotta per il capitale – titolava: “Speriamo che non sia femmina”. E si rivelava per quello che è, il giornale di quelli che in nome dell’antifascismo accettano il capitale, ossia il nuovo manganello invisibile dello spread e dell’austerity,
dei tagli alla spesa pubblica e della spending review. Accettano esattamente ciò contro cui Marx e Gramsci lottarono per tutta la vita.
Gli sciocchi che hanno appoggiato Macron contro il cosiddetto nazismo della Le Pen farebbero bene ad aprire gli occhi e prendere coscienza del fatto che il solo nazismo oggi esistente è quello dell’Unione Europea e del fiscal compact, del “ce lo chiede il mercato” e dell’austerità depressiva. Hitler non torna con baffetto e svastica: è tornato parlando inglese e condannando tutti i crimini che non siano quelli del mercato, difendendo l’apertura globalista dei confini e la libera circolazione delle merci e delle persone mercificate.
Benvenuti nel tempo del nazismo economico, il nazismo 2.0.
di Diego Fusaro – 08/05/2017

Francia: la sinistra mondialista acclama il nuovo “enfant prodige” Macron, paladino della finanza cosmopolita.

epa05948994 Supporters of French presidential election candidate for the 'En Marche!' (Onwards!) political movement Emmanuel Macron (not pictured) gather at the Carrousel du Louvre to discover the results of the second round of the French presidential elections in Paris, France, 07 May 2017. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Tutto come previsto il risultato al primo turno delle elezioni presidenziali in Francia: vincono i due candidati largamente favoriti, Emmanuel Macron e la Marine Le Pen.

Il primo, il giovane Macron, rappresenta largamente l’establishment della grande finanza e dell’elite politica dominante in Francia, quella collegata con la massoneria ed i circoli dei potentati finanziari sovranazionali.
Che sia di centro o che sia di destra o che appartenga alla sinistra social democratica (quella stessa sinistra squalificata del presidente uscente Francois Hollande), conta poco o nulla. Si tratta soltanto di distinzioni formali dei vecchi schemi del 900 ormai obsoleti.
Infatti non a caso tutti i partiti e gli altri candidati, da Fillon al candidato socialista Benoit Hammon, tutti sconfitti nella contesa elettorale, hanno già proclamato l’intenzione di creare un fronte comune contro la candidata Marine Le Pen, del Front National, considerata un “pericolo” per l’establishment visto il suo programma di uscita dall’euro, abbandono della NATO, difesa delle frontiere e riavvicinamemto alla Russia.
L’unica eccezione il candidato dell’estrema sinistra, Jean-Luc Mélenchon, quello che veniva considerato il Tsipras francese, non ha ancora dato al momento indicazioni precise su chi votare al ballottaggio del secondo turno. Lui è fuori dai giochi ma il suo elettorato non è detto che dia necessariamente i suoi voti al condidato della finanza ipercapitalista Macron. Esiste quindi un margine di rischio per una possibile vittoria di Macron.
In ogni caso, il fronte unito dei globalisti che si andrà a coalizzare contro la Le Pen è caratterizzato dal neoliberismo, quale elemento comune ed ideologia di base.
Si tratta di quel fronte che aborrisce qualsiasi forma di allontanamento della Francia dalla UE e dal sistema dell’euro e che vuole fermamente continuare a mantenere la Francia al servizio degli interessi della grande finanza e della politica di dominazione egemonica USA, quella che vede le nazioni europee come vassalli di Washington, inesistenti sul piano internazionale. In una parola il fronte della conservazione.
Bisogna considerare che Il proletariato e la piccola borghesia francese, vittime della globalizzazione finanziaria, attraverso un voto alternativo ai denominati “populisti” come la Le Pen, stava tentando di uscire dal paradigma liberal-libertario e da quello del pensiero unico. Il panorama politico nazionale francese sta di fatto crollando, con i vecchi partiti storici ormai squalificati ed alcun forze come il FN ed altre, cercano di ricomporlo sulla base di una nuova presa di coscienza dei ceti produttivi marginalizzati dalle politiche neoliberiste dei governi asserviti agli interessi dei potentati finanziari.
 
A questo tentativo di ricomposizione, con tutti i limiti dati dalle caratteristiche della Le Pen e dalle sue ambiguità su alcune tematiche della contrapposizione al sistema globalista, il fronte neoliberista ha risposto ricompattandosi e presentando il suo candidato “enfant prodige”, Emanuel Macron.
Questo giovane “rampollo dell’alta borghesia”, vanta poca esperienza ma dispone di molti titoli: banchiere presso la potente banca Rothshild, specializzato nella Ena, l’alta scuola per quadri amministrativi da cui è uscita una buona parte della elite politica transalpina, con un professato impegno a sinistra, milionario grazie ai buoni affari realizzati con le multinazionali (Nestlè e Pfizer), membro dei circoli liberali che contano, come l’Istituto Montaigne, vicino alla Confindustria, sostenitore dell’immigrazione, della società multiculturale e cosmopolita, fervente sostentore dell’atlantismo e dell’interventismo francese a seguito degli USA (il vecchio “sub imperialismo” praticato dalla Francia in Africa e Medio Oriente).
Su di lui punta il fronte neoliberista, quello della grandi banche, della Confindustria e della oligrarchia europea di Bruxelles per mantenere sistema e privilegi della classe dominante. Non a caso a Macron sono già arrivate le congratulazioni della Merkel e dei responsabili della UE che vedono il lui lo “scampato pericolo” (se proseguirà ad avere i consensi al secondo turno).
 
Esiste però un problema: questo giovane candidato non sembra possedere carisma, al contrario i discorsi li legge e lui stesso dice che a volte non capisce cosa gli scrivono, si limita a ripetere frasi banali e generiche come “innovazione” e “riforme” mentre dimostra una certa prevenzione e disprezzo verso gli strati popolari della società francese definiti da lui in più occasioni come “illetterati” o “avvinazzati”. Macron loda i vantaggi dell’ipercapitalismo ed esalta la corsa all’arricchimento individuale, oltre a sostenere che non esiste una cultura francese ma piuttosto una cultura multipla.
Sarà davvero questo il personaggio a cui gli strati popolari francesi, quelli dei piccoli produttori, agricoltori, artigiani e piccoli commercianti, rovinati dalle politiche di Bruxelles e dalla globalizzazione, daranno il loro voto? Qualche dubbio esiste e qualche speranza per la Marine Le Pen al secondo turno.
Apr 24, 2017 di  Luciano Lago

“Eliminare la vita se troppo costosa”: ecco chi è Jacques Attali, maestro di Macron

Macron Attalil’eugenetica politically correct si basa su criteri economici quindi intoccabili, parola di filantropi. Basta dire anti fa ED IL GALOPPINO DELL’ELITE è SERVITO.

Sei povero? EUTANASIA. Magari con fattura inviata ai parenti, ovvio.


La Commissione Attali e l’Italia del 2008, nessuna sorpresa sul programma tanto caro alle sinistre europeiste
 
Parigi, 30 apr – Studi in ingegneria all’École polytechnique, dottorato in science economiche e specializzazione all’Ena, l’École nationale d’administration dalla quale escono i più importanti dirigenti della pubblica amministrazione francese. Il curriculum di Jacques Attali, è di tutto rispetto, con un cursus honorum che dopo numerose esperienze anche all’Eliseo l’ha portato, oggi, ad essere professore di economia all’Università Paris IX – Dauphine.
Attali è anche l’uomo che ha ‘scoperto’ Emmanuel Macron, presentandolo al presidente Hollande del quale è diventato consigliere. E ora che il candidato di En Marche! si appresta ad arrivare al ballottaggio con non poche chance di spuntarla su Marine Le Pen, è fra i papabili per la carica di ministro dell’Economia. Non sarebbe la prima volta che Attali si presta alla politica, avendo già ricoperto delicati incarichi come quello di collaboratore del presidente Francois Mitterand in un sodalizio cominciato nel 1973 e diventato ancora più stretto quando, nel 1981, l’esponente socialista sarà eletto presidente della repubblica.
 
E proprio del 1981 è l’intervista rilasciata per un libro di Michel Salomon, L’Avenir de la Vie (Il Futuro della Vita), edito per i tipi di Seghers, nel quale Attali spiega la sua visione in merito al futuro dello stato sociale: “Si potrà accettare l’idea di allungare la speranza di vita a condizione di rendere gli anziani solvibili e creare in tal modo in mercato“. Come risolvere il problema? “L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali del nostro futuro”, spiega, aggiungendo che “in una società capitalista, delle macchine permetteranno di eliminare la vita quando questa sarà insopportabile o economicamente troppo costosa“.
 
30/04/2017  Nicola Mattei – Il Primato Nazionale

Ancora sulla necessaria fine di questa “Europa”

guerraun pò come per l’unità d’Italia, la favella che i popoli decisero spontaneamente di unirsi d’amore e d’accordo è assai desueta. I popoli non vogliono le guerre, le decidono sempre quella stessa gentaglia che decise anche la nascita della UE, quella gente parassita dell’elite


Leggo sul profilo Facebook di un amico, storico di professione, studioso dell’Africa e buon conoscitore delle vicende mediorientali, un amaro e preoccupato commento suscitato dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea nel quale egli paventa il rischio, dopo “decenni di pace”, d’impugnare di nuovo le armi uno contro l’altro dopo un crescendo di attriti e rivendicazioni frontaliere e doganali. Teme – conclude l’amico – una Terza guerra mondiale alimentata anche dagli “istinti delle masse”.
 
Stabilito che su quest’ultimo punto non posso non dargli ragione in quanto “le masse”, composte da individui non qualificati a decidere ma illusi di saperlo fare, sono effettivamente una delle sciagure del mondo moderno (purché non ce se ne preoccupi solo quando sostengono i “populismi”), passo ad una rispettosa critica, o meglio una messa a punto su quella che pare essere una comprensibile preoccupazione di chi scorge all’orizzonte, deluso da questa Europa ma ancora “europeista”, foschi scenari, per non dire apocalittici.
I “decenni di pace” sono stati garantiti non dall’UE o dai suoi prodromi (CECA, CEE…), bensì dal fatto che dopo la Seconda guerra mondiale (“secondo tempo” della Prima, che non è possibile attribuire solo alla “competizione interimperialistica” come sostiene una certa storiografia) l’Europa propriamente detta (occidentale ed orientale) è stata divisa in un “condominio” (Usa/Urss) che ha spostato la conflittualità armata negli altri continenti facendosi guerre per interposta persona. Nel frattempo, mentre godevamo della “pace” (intesa come assenza di guerra), internamente le popolazioni europee (in specie quelle occidentali) si sono sfaldate fino a giungere all’odierno triste spettacolo di una società di “nuovi barbari” (o “selvaggi con telefonino”, per dirla alla Blondet), mentre almeno quelle dell’Europa orientale conservano alcuni valori basilari che le rendono ancora maggiormente “vitali” dimostrando con ciò che il sovietismo, se incarcerava i corpi, almeno lasciava liberi gli “spiriti” (l’esatto contrario dell’americanismo).
Dunque, si deve aver paura che, con un’eventuale fine dell’UE, torneremo alle guerre in Europa? Ci può anche stare. Ma questo non avverrà per congenite “tare” degli europei, bensì per il semplice fatto che l’Europa tornerà ad essere campo di battaglia di chi (gli Usa) non sarà disposto a mollarla perché la considera “terra nostra o di nessuno” (per questo è disseminata di ordigni nucleari puntati contro la Russia).
L’unica speranza per noi sarebbe un’alleanza (da pari) con la Russia, in una prospettiva non meramente euro-russa, ma eurasiatica, poiché la Russia è effettivamente il perno del cosiddetto “vecchio mondo” (come lo chiamano gli americani).
L’UE, in definitiva, è una specie di occasione perduta (nella migliore delle ipotesi), ma assai più probabilmente è stata la “gabbia” che, nel torno di tempo tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, è stata approntata affinché gli europei, liberi finalmente dal ricatto del “pericolo comunista”, non andassero liberamente verso una collaborazione coi territori immediatamente confinanti, ovvero quelli dell’immenso spazio eurasiatico e, perché no, quelli al di là del Mediterraneo, dove qualcuno come Gheddafi aveva una visione “africana” e, in prospettiva, euro-africana.
Che cosa resta oggi di questo “sogno europeo” dei cosiddetti “padri fondatori” (molto cosiddetti in quanto non rappresentavano nessuno) dell’Europa Unita?
Restano l’inclusione nella Nato di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia; resta una moneta-merce strutturalmente debito che in pratica ci ha rovinato; restano le “regole”, assurde e paranoiche di questa burocrazia europoide che con la sua “Corte di Giustizia” sanziona a destra e a manca se non ci si adegua alla pseudo-religione dei “diritti”. E mi fermo qui perché l’elenco dei “fallimenti” (se ci fosse stata buona fede) è lungo.
Qualcuno mi deve spiegare perché mai l’UE dovrebbe rimanere in piedi: per farci fare le vacanze senza passaporto? Per non dover cambiare i soldi? Le imprese, da quando è stata adottata (dai più fessi) la “moneta unica” hanno subito solo un salasso, in quanto l’euro è di proprietà di privati che lo vendono (lo “prestano”) agli Stati e dunque alle imprese (e alle famiglie). Stanno cercando addirittura d’imporci un terrificante TTIP, che adeguerebbe tutta la nostra normativa vigente al livello più “liberista”, cioè quello d’Oltreatlantico.
Il concetto di “frontiera” così come quello di “nazionalità” (sostituito da quello di “cittadinanza”) è diventato talmente fluido che sembra di stare in un circolo dove si paga la quota e si ottiene la tessera.
La sicurezza, senza alcun vaglio della posizione di chi ottiene un “permesso di soggiorno”, è diventata chimerica. Non parliamo poi di come, dagli anni Novanta, questa “fortezza Europa” (in verità un colabrodo) ha permesso a un sacco di gente che non ne aveva diritto di spacciarsi per “profugo” (categoria giornalistica in quanto giuridicamente si parla di “rifugiati”), con la ciliegina finale caduta sulla torta quando abbiamo subito (dopo anni di autogol: Iraq 1991 e 2003, passando per l’embargo assassino; Jugoslavia anni Novanta con attacco della Nato nel 1999) la cosiddetta “primavera araba” targata Cia in un modo che definire autolesionistico è puro eufemismo.
 
La disamina qui accennata per sommi capi e in ordine sparso non induce a considerare l’UE un qualche cosa di necessario. Certo, va ripensato il tutto, cioè la questione di una confederazione continentale nell’era della politica dei grandi spazi (altrimenti si finisce nelle “piccole patrie” subito fagocitate dalla globalizzazione), ma si deve cominciare dall’alto, da ciò che qualitativamente è superiore, e cioè dal senso dell’operazione che s’intende compiere; non dal basso, solleticando le masse “desideranti” illudendole delle magnifiche sorti e progressive di un progetto senz’anima strombazzato come un prodotto da supermercato.
 
Posted on marzo 31, 2017 – di Enrico Galoppini

 

L’insoddisfazione economica spinge i giovani elettori francesi verso la Le Pen

Le-pen-2questo popolo cattivo che non sa votare…ed è ignorante..brutta gente le masse…

La difficile situazione economica accresce tra i giovani francesi, specie nelle zone rurali e tra i meno istruiti, la consapevolezza che passeranno buona parte delle loro vite in condizioni materiali peggiori di quelle dei loro genitori. Il Front National della Le Pen, col suo messaggio anti-globalizzazione focalizzato sull’economia, ha intercettato questa frustrazione ed è abile nel ritagliare su misura la propria comunicazione rivolta ai giovani. Il risultato è che, diversamente da quel che sembra accadere in altri paesi, quasi il 40% degli elettori tra i 18 e i 24 anni sostiene il Front National. “Dicono che dovremmo soffrire in silenzio, ma abbiamo intenzione di far sentire la nostra voce”, afferma un giovane sostenitore. Sarà questo il jolly della Le Pen alle prossime elezioni presidenziali? Dal Financial Times.
 
Il ventoso cavalcavia di un’autostrada non corrisponde all’idea più tipica di divertimento del venerdì sera, per un adolescente. Ma Justine Dieulafait e i suoi amici sono in missione – vogliono aiutare la candidata di estrema destra Marine Le Pen a vincere le elezioni presidenziali francesi.
 
Mentre il traffico scorre verso l’esterno dal porto bretone di Saint Malo, la diciottenne e altri 15 giovani “patrioti” sventolano uno striscione gigante: “Giovani con Marine”. Per aumentare l’effetto accendono razzi rossi, bianchi e blu, sollecitando le auto a suonare il clacson in segno di supporto.
“I giovani sono in rivolta”, dice Justine Dieulafait. “Abbiamo avuto 50 anni di destra e di sinistra, e guardi ai milioni tra noi che sono disoccupati, vivono in povertà, senza lavoro né un’abitazione stabile… è ora che il sistema cambi, è il momento di Marine”.
In queste elezioni francesi piuttosto sorprendenti, con i candidati favoriti che crollano durante il percorso e quelli ribelli, tra cui Marine Le Pen, in testa ai sondaggi, Justine Dieulafait e le sue amiche incarnano un altro fenomeno: la forza del voto dei giovani, che sta spingendo il Fronte Nazionale verso il suo miglior risultato di sempre.
 
Secondo un recente sondaggio Ifop, il partito è il più popolare in Francia nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni, in cui conquista il 39 per cento dei voti. Da confrontare con il 21 per cento del candidato centrista Emmanuel Macron e con il 9 per cento del rivale di centro-destra Francois Fillon.
Un simile livello di sostegno a un partito populista di estrema destra da parte dei giovani sembra andare contro le recenti tendenze registrate altrove. Nel Regno Unito, l’anno scorso, i giovani si sono mobilitati contro la Brexit per difendere una visione cosmopolita della nazione. Negli Stati Uniti Donald Trump, con la sua posizione anti-immigrazione e anti-globalizzazione, se l’è cavata male con il voto dei giovani.
 
In Francia, al contrario, i giovani si stanno radunando attorno a un partito che ha paragonato i mussulmani in preghiera lungo le strade con l’occupazione nazista della Francia e ha promesso di lottare contro il libero scambio e l’immigrazione. L’aumento del sostegno negli ultimi anni è marcato: nel 2012 il supporto per il FN tra i giovani era solo al 18 per cento.
 
La Le Pen è la favorita tra i giovani francesi – intenzioni di voto in percentuale divise per fasce d’età
 
Questo sostegno è diventato un altro jolly in una gara dai risultati imprevedibili, dove uno scandalo legato a una questione di finanziamenti ha gravemente danneggiato l’ex favorito di centro-destra François Fillon, mentre il politico indipendente trentanovenne Emmanuel Macron, che non si è mai candidato alla presidenza, guida i sondaggi.
La frustrazione tra i giovani per la mancanza di lavoro e le cattive prospettive economiche costituiscono gran parte del fascino del FN. “Siamo una generazione che rischia di vivere peggio dei nostri genitori”, afferma Dominique, uno dei ragazzi sul cavalcavia, che ha 21 anni e sta lottando per trovare un lavoro.
Sotto il governo socialista di François Hollande la disoccupazione è rimasta ostinatamente alta, il doppio del livello di Regno Unito e Germania. La disoccupazione giovanile è al 25 per cento – dal 18 per cento del 2008.
Joël Gombin, politologo e analista di dati francese, dice che la situazione economica è peggiorata in particolare per i giovani che vivono nelle zone rurali e per quelli che abbandonano più precocemente la scuola a tempo pieno – due caratteristiche spesso in correlazione con il sostegno al FN. “In Francia per un numero crescente di giovani meno istruiti il fatto che passeranno buona parte delle loro vite in una situazione economica precaria è quasi una certezza,” dice.
La disoccupazione giovanile in Francia cresce con la crisi finanziaria – tasso di disoccupazione in percentuale, sotto i 25 anni
 
Un secondo motivo del supporto al FN è che i giovani non ricordano il partito ferocemente xenofobo degli anni ’70. Oltre i 65 anni, tra quelli che invece lo ricordano, il sostegno al FN è solo al 17 per cento.
 
Negli ultimi dieci anni, e in particolare a partire dal 2011 sotto la guida di Marine Le Pen, il partito ha cercato di rimodellare la propria immagine. I funzionari, per esempio, ora parlano di “immigrazione”, piuttosto che di “immigrati”, e si oppongono all’”Islam radicale”, piuttosto che all’ “Islam”, mentre i temi sui quali il partito organizza le sue campagne si sono ampliati oltre la sicurezza e l’immigrazione, per includere un messaggio anti-globalizzazione focalizzato sull’economia.
 
Justine Dieulafait aveva solo 12 anni quando la Le Pen ha preso la guida del partito; il “nuovo FN” è tutto quello che ha conosciuto. “Era un periodo diverso, allora negli anni ’70… il partito di oggi è concentrato sui temi di oggi – posti di lavoro, case e il ripristino della sovranità e della cultura francese “.
Christèle Marchand Lagier, uno studioso del FN che lavora all’Università di Avignone, afferma che la maggior parte dei giovani elettori del FN non ha familiarità con i dettagli del suo programma, ma vuole semplicemente votare contro il sistema. “Si tratta di un voto negativo”, dice.
 
Ma è chiaro che il FN è anche abile nel ritagliare il suo messaggio su misura per il voto giovanile. Per esempio è il partito che in Francia ha la più forte presenza sui social media. E due delle figure di più alto livello nel partito, David Rachline e Marion Maréchal-Le Pen, sono ventenni.
 
Tuttavia non è chiaro quanto di questo sostegno il partito sarà in grado di convertire in voti effettivi, dati i tassi di affluenza alle urne tradizionalmente bassi tra i giovani. Nelle ultime elezioni presidenziali francesi, il 28 per cento di quelli di età compresa tra i 18 e i 24 anni si è astenuto nel secondo turno, più della media nazionale del 20 per cento.
 
Ma questa volta il gruppo sul cavalcavia autostradale almeno sembra determinato a far valere la propria voce. Lo dichiara Dominique: “Dicono che dovremmo soffrire in silenzio – e invece abbiamo intenzione di alzarci e farci sentire.”
di Michael Stothard – 22/03/2017 Fonte: Voci dall’Estero

Non c’è risposta ai populisti

euro-signMa non vi infastidisce questo coro assordante e monotono che ogni santo giorno, dappertutto – tv, radio, giornali, istituzioni, partiti e governi – vi dice sempre la stessa cosa contro il Gatto Mammone del Populismo?
Attenti al populista, ripetono in coro ovunque, è xenofobo, è sessuofobo, è razzista, ci porta fuori dall’Europa, dal Mercato, dalla Modernità. Poi aggiungono che il populismo si fonda sulla paura quando invece è proprio sulla paura del populismo, sul terrore ideologico e mediatico quotidianamente propagato che si fonda l’Appello Permanente contro l’Orco populista, dall’Olanda alla Brexit, dagli Usa all’Ungheria, dalla Polonia alla Germania, dalla Francia all’Italia.
Vogliono spaventarci e poi attribuiscono ai populisti la colpa di lucrare sullo spavento. Imprenditori della paura che denunciano imprenditori della paura…
Mai lo sforzo di capire, di ragionare sul malessere e sul perché mezza Europa, nonostante questo tam tam ossessivo, poi sceglie i populisti o per disprezzo della politica non va a votare. Il problema da cui partire non è l’insorgenza di una patologia chiamata populismo, ma la malattia che origina e giustifica il suo espandersi: il fallimento delle democrazie non più rappresentative, il potere usurpato dalle oligarchie, il disagio sociale e civile per l’immigrazione massiccia e clandestina, la decrescita infelice del capitalismo, gli effetti di ritorno della globalizzazione, la retorica del politically correct.
Nessuno tra i liberali, i moderati, i cristiano-democratici, i social-democratici e le sinistre varie riesce a fare un passo oltre la diffusione della paura o la furbizia pre-elettorale di qualche mossa ruffiana (come è stato in Olanda contro i turchi) per recuperare credibilità e rubacchiare voti ai populisti.
Perché nessuno è in grado di rilanciare in modo più rigoroso, più educato, più realistico o se preferite in modo meno grezzo, meno emozionale, meno improvvisato, una proposta politica fondata sulla sovranità nazionale e popolare, sulla riqualificazione della politica, sulla motivazione ideale delle passioni civili, sul primato del sociale sull’economico?
 
Perché nessuna forza dell’establishment riesce in modo convincente a rappresentare l’amor patrio e il senso della comunità, la tradizione, l’identità e il destino dei popoli e a prendersi cura delle sue fasce più esacerbate e ferite, i giovani e gli anziani, lasciando che di queste cose si occupino solo i populisti?
 
Se l’onda populista è un fenomeno di pancia e di istinti, carente di cultura e di storia, priva di un criterio meritocratico per selezionare i suoi dirigenti, mi dite qual è la forza antipopulista che si fondi sulla cultura e la storia e selezioni la sua classe dirigente per merito e qualità?
Loro saranno piazzisti e demagoghi ma i loro avversari sono mediocri, mezze figure, “personaggetti”, direbbe Crozza. L’unico modo per affrontare e sconfiggere il populismo non è demonizzarlo per escluderlo, ma è riprendere con dignità e competenza le istanze captate dai leader populisti e dai loro movimenti, rilanciando la Grande Politica e rispondendo al disagio dei cittadini.
 
Il populismo crescerà fino a quando non ci sarà nessuno in grado di prenderne il posto in modo più affidabile ed efficace. Ma se la sinistra tradisce il popolo e la destra tradisce la nazione, non lamentatevi poi che cresca come erba selvatica il nazionalpopulismo…
di Marcello Veneziani – 20/03/2017 Fonte: Marcello Veneziani

Perché Renzi odia il reddito di cittadinanza e propone il lavoro di cittadinanza

reddito-minimo-garantitoStraordinario Renzi: di ritorno dalla California, dove si sperimenta il reddito di cittadinanza, annuncia in Italia una tesi opposta: il lavoro di cittadinanza. Dopo la batosta del 4 dicembre deve recuperare il voto di giovani e poveri. Come? Mettendoli a lavorare (su cosa?) in cambio di una “cittadinanza”: qualche spicciolo o bonus. Il lavoro di cittadinanza è una delle tesi della sinistra lavorista. Ad essa va contrapposto il reddito di base come diritto universale di esistenza e sviluppo dell’autonomia della persona. Questo diritto oggi può strutturare una proposta radicale e alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista e dalle accuse infondate storicamente dei lavoristi di sinistra per i quali il reddito di base è una proposta “neoliberista”
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Ma Renzi è davvero stato in California? Oppure ha dato un indirizzo sbagliato ai giornalisti ed è rimasto a casetta? La sua gita nella Silicon Valley è stata inutile: dallo stato dove si discute, e si sta sperimentando un reddito di cittadinanza a Oakland, Renzi ha importato il concetto opposto: il lavoro di cittadinanza. Ovvero: obbligo di lavoro per tutti i precari e disoccupati, gestito dallo Stato garante in ultima istanza del «lavoro pubblico garantito».
Ripresentarsi con la proposta di lavoro cittadinanza senza citare il reddito di cittadinanza sostenuto, non senza problematicità, dai principali esponenti e teorici della Silicon Valley che parlano di robot e automazione la dice lunga sul livello di arretratezza e subordinazione culturale in cui vive la stampa e buona parte della “sinistra” italiana. Parlare di “lavoro di cittadinanza” è surreale all’indomani della bocciatura delle destre neoliberiste all’europarlamento di una tassa sull’automazione e dei robot per finanziare un reddito di base. Benoit Hamon, candidato dei socialisti francesi alle presidenziali (il partito alla cui sedicente “famiglia” politica dovrebbe appartenere il Pd-partito di Renzi), ha sbaragliato la destra social-liberista di Manuel Valls alle primarie con questa proposta che è più avanzata rispetto alle posizioni neoliberiste espresse da Emmanuel Macron, favorito nella corsa all’Eliseo. In base ai primi risultati della sperimentazione di Oakland condotta su mille persone sembra che il reddito dimostri le posizioni di chi da tempo lo sostiene: l’aumento delle tutele contro la precarietà e la disoccupazione non diminuisce la capacità di lavoro, ma rafforza l’autonomia del titolare di un diritto al reddito di base.
Il personaggio-Renzi è dotato di un’enorme capacità di mistificare tutto e il suo contrario e i media ne sono affascinati in un gioco di auto-distruzione che si autoalimenta. Risultato ineguagliato, per il momento, resta il catastrofico (per lui, non per il paese) referendum del 4 dicembre. Ora, il mistificatore ha bisogno di recuperare voti sul “sociale”, i “giovani”, i “poveri”. La proposta sul “lavoro di cittadinanza” mette benzina sul fuoco.
 
“Fermare il progresso e la tecnologia o pensare di rallentare è assurdo”, ha detto l’ex premier ed ex segretario del Pd: “Le invenzioni, dalla stampa all’automobile, hanno avuto sempre ricadute sociali. Compito della politica è ora affrontare i problemi che derivano dalla rivoluzione digitale e i costi in termini di perdita di posti di lavoro”. Ma, aggiunge, “contesto la risposta grillina al problema. Garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione che parla di lavoro non di stipendio. Il lavoro non è solo stipendio, ma anche dignità. Il reddito di cittadinanza nega il primo articolo della nostra Costituzione”, invece “serve un lavoro di cittadinanza”.
Luigi Di Maio, candidato a Palazzo Chigi contro Renzi per i Cinque Stelle, si è chiesto cosa significhi “lavoro di cittadinanza”. Qualcuno ha provato a dare una risposta: sarebbe addirittura una proposta di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, e  di Berlusconi che di recente si è scoperto sostenitore del “reddito di cittadinanza”.
Brunetta starebbe pensando a un lavoro di cittadinanza che impone, per legge, un’occupazione di 3 mesi a chi ne farà domanda. I tre mesi di lavoro daranno diritto a trascorrerne altrettanti con l’indennità di disoccupazione, e così via. Si desume che l’obbligo al lavoro, magari attraverso i vecchi lavori socialmente utili o con i più “moderni” voucher. In questo caso, tutti i cittadini in disagio lavorativo saranno costretti a svolgere nuove corvée o lavori servili di ogni tipo per avere in cambio un sussidio di povertà di ultima istanza (chiamato da Berlusconi, senza vergogna, “reddito di cittadinanza”) in una turnazione trimestrale. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) creata dal Jobs Act di Renzi e i centri per l’impiego, enti che hanno una buona parte dei dipendenti precari o in scadenza a marzo, dovrebbero gestire il nuovo lavoro servile, chiamato “lavoro di cittadinanza”. Resta da capire cosa faranno i richiedenti asilo che, a causa delle disfunzioni strutturali del sistema di asilo e del razzismo dilagante, saranno messi al lavoro (gratuito) per ottenere quello che sarebbe un loro diritto. Il piano Minniti-Morcone rientra, e in che modo, nel lavoro di cittadinanza?
 
Per chi ha una pur minima conoscenza dello stato delle politiche del lavoro, e dei risultati reali (non quelli renziani) del Jobs Act, sa che queste proposte di contrasto alla disoccupazione, tra l’altro in una crisi economica come la nostra, sono fuffa. Vale tuttavia la pena di analizzarle perché da oggi a febbraio 2018 – quando presumibilmente si voterà in Italia, salvo rovesci – questa sarà materia di propaganda. Potrebbe essere un punto dell’agenda del governo Pd-partito di Renzi-Forza Italia-Ncd e vari satelliti.
Renzi è spregiudicato. Quando parla di “lavoro di cittadinanza” allude a una tesi della sinistra lavorista. E’ stata avanzata da Laura Pennacchi (nel 2013; o nel 2017). Questa proposta è contro un reddito di base, soprattutto se incondizionato, accusato di favorire “la scissione del nesso costituzionale tra lavoro e dignità, il quale considera il lavoro non solo come attività ma come processo antropologicamente strutturante l’identità umana”. Prima che se ne appropriasse Renzi, la proposta era stata avanzata in politica da Stefano Fassina (Sinistra Italiana, già viceministro dell’Economia nel governo Letta quando militava nel Pd): “il lavoro di cittadinanza, non reddito di cittadinanza – ha sostenuto Fassina – Che deve servire all’inserimento lavorativo, quindi deve essere condizionato ad attività formative e all’accettazione di offerte dignitose di lavoro. Lo vedo come un veicolo per condurre o ricondurre le persone al lavoro”.
 
Questa sinistra sostiene il ritorno dello Stato a cui affidare il ruolo di “creatore di ultima istanza” di lavoro. Impresa ambiziosa che si ritrova nel piano sul lavoro presentato dalla Cgil e viene tramandato dal tempo in cui alcuni economisti progressisti consigliavano di impiegare persone facendogli scavare le buche. Più di recente se ne è parlato per creare occupazione statale nella manutenzione dei disastrati territori italiani. A Renzi, invece, non interessa un simile ruolo dello Stato, se non limitato all’erogazione degli incentivi alle imprese: 18 miliardi per il Jobs Act. Si appropria del lavorismo e, con la sua personale interpretazione del populismo, lo mescola con l’assistenzialismo statale agli imprenditori in chiave di capitalismo compassionevole. Un patchwork conservatore e liberista, di destra e di sinistra, in chiave anti-Movimento Cinque Stelle.
 
Renzi è impegnato in una battaglia ideologica lavorista contro la proposta workferista del Movimento Cinque Stelle su un presunto (e infondato) reddito di cittadinanza (si tratta di un reddito minimo, come si dimostra qui e qui). Ha trovato nel sintagma “lavoro di cittadinanza” la parola ideale per confondere ancora di più le acque della propaganda da una parte e dall’altra. La mossa è studiata: visto che la micro-scissione dal Pd (e da Sinistra Italiana) della “ditta” Bersani-D’Alema (e Speranza, Scotto, Smeriglio ecc) si chiamerà “Articolo 1 – Movimento dei democratici e dei progressisti), Renzi ha pensato di impadronirsi dell’ingombrante portato giuridico dell’articolo della Costituzione per rubare la scena ai suoi attuali avversari “di sinistra” e scaricarlo contro i Cinque Stelle accusati, a torto, di essere meno lavoristi del Pd.
 
Renzi sostiene queste posizioni da almeno quattro anni. Impadronendosi oggi della parola d’ordine  del “lavoro di cittadinanza”, l’ex premier otterrà l’effetto di neutralizzare la principale – e modesta – proposta di “sinistra” per affrontare, si fa per dire, il problema epocale della precarietà, del lavoro povero, della totale mancanza di tutele universalistiche per la persona e infine dell’automazione che-distrugge-i-posti-di-lavoro. La sinistra non lavorista rischia di restare, come sempre, senza voce. A meno che non rilanci – contro la proposta dei Cinque Stelle e contro il lavorismo di Renzi e della sua “sinistra” – la prospettiva del reddito di base universale. Destinato anche ai residenti stranieri, non solo ai “cittadini”.
 
Impresa difficile perché il lavorismo ha una presa ideologica anche nei quadri dirigenti sindacali, Cgil compresa. Qualche cambiamento c’è stato negli ultimi sei o sette anni nella Fiom e nella Flc, ma il reddito non è mai diventato un argomento di discussione dirimente nel sindacato, a cominciare dalla “Carta dei diritti del lavoro” che la Cgil sostiene con i referendum contro i voucher e sugli appalti. Senza contare che la confederazione sindacale sostiene una proposta di “reddito di inclusione sociale” (Reis), una misura parziale e non universalistica contro la povertà, e non un reddito di base a sostegno della persona vulnerabile nel mercato del lavoro nella società finalizzata al libero e autonomo sviluppo della sua dignità sociale, umana e professionale.
In questa confusione politica e ideologica la battaglia è feroce. A sinistra, tra i Cinque stelle e Renzi non si faranno prigionieri. Chi sta perdendo sono milioni di persone la cui vita migliorerebbe con una riforma universalistica del Welfare familistico, lavorista, burocratico e anacronistico come quello italiano. Gli unici, ad oggi, che sostengono una prospettiva di “reddito minimo garantito” sono in parte in Sinistra Italiana, Possibile di Civati o parte di Rifondazione Comunista, le reti dei movimenti e dei centri sociali, la rete dei Numeri Pari (composta da Libera, Cnca, Rete della Conoscenza, Roma Social Pride), il Basic Income Network-Italia. Molto interesse desta la proposta di “reddito di autodeterminazione” avanzata dal movimento Non una di meno. La novità più interessante nella politica degli ultimi tempi porterò questa rivendicazione in piazza nello sciopero delle donne del prossimo 8 marzo. Queste posizioni che potrebbero evolvere verso un vero reddito di base universale. Una parte ancora poco visibile politicamente, a cui bisognerebbe chiedere più coraggio e azione politica per sfuggire alla tenaglia ideologica del pauperismo, del miserabilismo e di un’equivoca, nostalgica e acritica idea “socialdemocratica” dello stato che oggi unisce lavoristi di destra e di sinistra.
Una precedente campagna sul reddito di dignità, sostenuta da Libera e da centinaia di associazioni e movimenti, è stata cannibalizzata dagli opportunismi dei lavoristi. Il governatore della Puglia Michele Emiliano ha stravolto quella proposta spuria (una forma di reddito minimo garantito) in un sussidio di ultima istanza per i poverissimi con famiglie numerose, sottoponendoli alle condizioni di un workfare ispettivo che prevede penalizzazioni per chi non accetta una manciata di euro in cambio di lavori socialmente utili. Emiliano ha chiamato questa proposta “reddito di dignità”. Uno scippo che ha mostrato la debolezza politica delle istanze che chiedono in Italia una forma di dignità e giustizia sociale. Il consenso per una misura come il reddito resta tuttavia, potenzialmente, molto ampio nel paese. Per questo non dovrebbe restare confinato nei limiti di uno spazio politico ultra-identitario e altrettanto incerto, e infinitamente condizionabile da una duplice dialettica: quella distruttiva pd-centrica oppure quella neutralizzante dei Cinque Stelle.
 
In questa prospettiva bisogna liberare il campo da un equivoco. Il discorso sul reddito di base non è una prerogativa della Silicon Valley, né tanto meno dei liberisti alla Milton Friedman. Di sganciamento del reddito dal lavoro, e di riforma del Welfare, si parla perlomeno dagli anni Settanta in Italia, in Germania e nella sinistra europea più avanzata. Senza contare che un reddito di base non esclude il lavoro, ma libera il soggetto dal suo ricatto, per un libero sviluppo della sua personalità. Un’antica aspirazione del Marx teorico della “forza lavoro” e non del “lavoro”, come ritengono i lavoristi che hanno del marxismo un’immagine umanistica, smithian-ricardiana e certamente non comunista. Da un altro punto di vista, altrettanto radicale, di recente Stefano Rodotà ha proposto la formulazione di un diritto fondamentale al reddito che ha chiamato diritto universale di esistenza. Un diritto che oggi può strutturare ogni proposta alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista.
 
Sostenere che il reddito di base è una proposta neoliberista è dunque un falso storico usato dai lavoristi che parlano di “piena occupazione”. Dire che Milton Friedman propone forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione. Quella dei neoliberisti è solo una delle possibili varianti del reddito di base. Non certo l’unica.
 
Una volta messo in ordine il quadro teorico e storico, è giunto il momento di un’iniziativa politica autonoma sul reddito. Non è mai troppo tardi.
 
***qui e qui le differenze tra reddito minimo garantito, reddito di inclusione sociale, reddito di povertà e reddito di base universale
Quinto Stato
Roberto Ciccarelli 27.02.2017
 

La seconda gamba del Jobs Act: l’Anpal e il management della precarietà di massa

copertina-300x300per fortuna che ci sono tante lotte dure senza paure. SE SI E’ ARRIVATI FIN QUI QUALCUNO COMPLICE E’ STATO. Ed ad ogni SUICIDIO per indigenza CENSURIAMO bel paese dominato dai giusti moralmente superiori
SOLO SE LA COSIDDETTA SOLIDARIETA’ SI TRASFORMA IN UN SISTEMA MAFIOSO-TANGENTISTA VIENE INTRODOTTA IN STA FOGNA DI PAESE

Non solo voucher. Il Jobs Act è un mondo. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) è la sua seconda gamba. Anticipazione del futuro in Italia. Quello che saranno le politiche neoliberali del lavoro e il management della precarietà di massa.  Non senza problemi: l’Anpal che dovrà organizzare i servizi per reinserire i lavoratori precari o disoccupati è tenuta in piedi da 760 precari i cui contratti scadranno il 31 luglio. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
 
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La stagione delle politiche attive del lavoro in Italia è iniziata ad Avellino. Il Presidente del Consiglio Gentiloni e il presidente dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal) Maurizio Del Conte hanno visitato il Centro per l’Impiego della città campana per lanciare un’operazione ambiziosa: introdurre anche nel Belpaese un sistema di workfare secondo i canoni più stringenti del neoliberismo applicato al mercato del lavoro. Un’operazione che può essere compresa in relazione all’approvazione del “reddito di inclusione” nell’ambito di un intervento sottofinanziato, vessatorio e incompleto contro la povertà.
Questo reddito riguarda i poverissimi, capofamiglia di nuclei numerosi al di sotto dei 3 mila euro di Isee; l’assegno di ricollocazione che sarà gestito dai centri dell’impiego monitorati dall’Anpal interessa invece i disoccupati.
La logica è la stessa: il soggetto che non accetta un’offerta di lavoro, e non rispetta il “patto” con lo Stato (o con le agenzie private titolari di un progetto di ricollocazione), sarà penalizzato fino alla perdita del sussidio stesso.
Il set è un centro per l’impiego del Sud, dove ci sono i tassi di disoccupazione e di povertà più alti del paese. Gli attori – Gentiloni e Del Conte (bocconiano, e già autore del Ddl lavoro autonomo) – hanno annunciato le seguenti misure: 30 mila lettere ai disoccupati per “ricollocarli” sul mercato del lavoro; rilancio del fallimentare programma sulla “Garanzia giovani” e del Bonus assunzioni Sud per il 2017, parte superstite degli sgravi erogati dal governo Renzi alle imprese che assumono con il contratto precario “a tutele crescenti”, 18 miliardi in tre anni con esiti deludenti. Sarà creato un nuovo bacino di precari: mille “tutor” garantiranno il sistema del lavoro gratuito dei liceali nelle aziende nell’ambito del sistema “alternanza scuola-lavoro” strutturato da un’altra riforma renziana: la “Buona scuola”. Previsti interventi a supporto della ricollocazione di 1.666 licenziati di Almaviva Contact.
 
Esperimento Almaviva
Il ricollocamento degli ex Almaviva è una sperimentazione che prevede tre strumenti di incentivazione per una somma da investire sui lavoratori licenziati fino a 15mila euro: alle società private che formeranno il lavoratore andranno fino a 2mila euro; alle società di collocamento ma solo nel caso di esito positivo del percorso, un assegno di ricollocazione fino a 5mila euro;  alle aziende che assumeranno il lavoratore con contratto a tempo indeterminato fino a 8mila euro.
I disoccupati continueranno ad usufruire, per tutto il percorso di ricerca di lavoro, della Naspi. in alternativa, sono previsti incentivi per l’auto-impiego fino a 18mila euro a lavoratore, 15mila sul capitale e 3mila per il percorso di accompagnamento all’auto-imprenditorialità, oltre a risorse per la ricollocazione degli over 60, fino a 10mila euro a testa per l’accompagno verso un lavoro di pubblica utilità. L’accesso ai programmi disegnati dal governo sarà volontario. Nella regione Lazio apriranno 5 sportelli, in collaborazione con la regione, per gestire un’operazione complessa. Dal 9 al 16 aprile inizieranno i colloqui individuali con i lavoratori “ricollocandi”.
 
Le proposte di lavoro dovranno essere “congrue” e in linea con le competenze e il salario dell’esperienza precedente del lavoratore. Tutto dipende dalla “domanda che emergerà dal territorio” e dall’interesse di imprese pubbliche e private, società parastatali o amministrazioni pubbliche, ad occupare gli ex licenziati Almaviva. Se il lavoratore rifiuterà l’occupazione perderà il diritto all’indennità di disoccupazione. Su questa operazione il governo investirà 8 milioni di euro rimborsati dal fondo europeo Feg.
Questa sperimentazione permette di squadernare la logica governamentale già presente nelle politiche del lavoro in Italia e che il JobsAct ha cercato di sistematizzare in quella che è stata definita “seconda gamba”. I 30 mila destinatari delle lettere sono stati individuati tra i percettori della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi) da almeno 4 mesi. Queste persone avranno a disposizione un buono fino a un massimo di 5.000 euro per usufruire di servizi di assistenza intensiva alla ricollocazione, presso un centro per l’impiego o un’agenzia per il lavoro accreditata. Va specificato che questa somma non è erogata direttamente al disoccupato, ma agli operatori – pubblici e privati – attraverso un meccanismo che viene definito “incentivante”. L’operatore sarà retribuito solo a risultato raggiunto, cioè alla firma di un contratto di lavoro da parte del lavoratore. L’intervento ha una durata di sei mesi, prorogabile per altri sei nel caso non sia stato consumato l’intero ammontare dell’assegno di ricollocazione.
Management del mercato del lavoro
Su questa base è possibile ipotizzare che per reciproco interesse il lavoratore e l’agenzia a cui si è rivolto possano avere interesse a mantenere in vita la prestazione di disoccupazione. Il primo potrebbe mantenere il sussidio per la sua intera durata; la seconda continuare a prendere il voucher. Nel primo caso, il diritto fondamentale della libera scelta – e il corrispettivo principio costituzionale -saranno aggirati dall’approccio prestazionale e produttivistico proprio del dispositivo del management by objective. Nel secondo caso si rischia di alimentare comportamenti opportunistici nelle strutture private.
 
I “soggetti accreditati” possono anche spingere il loro “cliente” ad accettare qualsiasi offerta che riterranno congrua rispetto al curriculum del lavoratore. Dal numero di ricollocamenti dipende sia la riscossione della percentuale sul fondo destinato al lavoratore sia il rating dell’agenzia interinale che è in concorrenza con le altre, così come lo saranno gli stessi centri per l’impiego in un sistema “misto” dove l’Anpal dovrebbe giocare un ruolo di arbitro e di coordinatrice-monitoratrice delle attività  del pubblico e del privato, dello stato e delle regioni.
Al lavoratore spetterà la scelta di accettare un lavoro oppure ricevere la penalità da parte dello Stato. Per lui le “politiche attive” prevedono una serie micidiale di sanzioni nel caso di rifiuto di un’offerta “congrua” di lavoro, fino alla punizione finale: il rifiuto del sussidio.Su questo concetto di “congruità” si giocherà, presumibilmente, la partita esistenziale, politica ed epistemologica delle “nuove” politiche del lavoro. Il contrasto tra la logica del rating -seguita dal sistema di collocamento scelto dal JobsAct – e quella della libera scelta è palese.
Alla base della “politica attiva del lavoro” esiste l’approccio sanzionatorio e parossistico del work first: il “lavoro purchessia”, basato sui requisiti quantitativi e non qualitativi. Questa logica incide sia sul lavoratore che sui soggetti che li seguono. L’obbligo della scelta può arrivare a negare la libertà del soggetto che ha stretto un “patto” con lo Stato. Il ricollocamento, l’occupazione, la disoccupazione diventano un caso morale, ovvero uno dei dispositivi che governano la vita delle persone oggi nella società, e non solo nel lavoro.
 
Esistono altre ipotesi. Ad esempio, una volta entrati in vigore a livello sistemico, i voucher potrebbero essere liberamente versati nelle casse delle multinazionali private e non in quelle pubbliche, date le attuali e future inefficienze. Il governo elargirà fondi pubblici a privati, ma sarà rimborsato con i fondi europei. La politica, che molto sta puntando sulla finzione delle “politiche attive” potrà comunque appendersi una medaglietta al petto. I giornali potranno titolare sul successo dell’operazione.
 
L’Unione Europea – ispiratrice di questo sistema neoliberale di workfare – potrà brindare al miglioramento delle statistiche sull’occupazione. E i lavoratori? I lavoratori troveranno un altro modo per vivere la loro condizione di disoccupazione attiva o di attivazione occupazionale permanente restando, in fondo, intermittenti del reddito e delle tutele.
E ancora: il soggetto potrebbe preferire non entrare nel quasi-mercato dei sussidi e delle politiche attive istituito con l’Anpal per evitare di essere ricattato, monitorato e disciplinato. In Italia sembra quasi inconcepibile questa eventualità, data l’assenza di una reale politica attiva. Casi simili si registrano in tutta Europa, dalla Francia all’Inghilterra e in Germania. Paesi dove il sistema di ricollocamento esiste. Il restringimento punitivo dei parametri, avvenuto nell’ultimo decennio, sta causando una fuga dal workfare da parte di soggetti che rifiutano di assoggettarsi alle nuove condizioni.
Le politiche attive del lavoro sono un concentrato di politiche neoliberiste con lo scopo di creare un “quasi mercato” dell’offerta di lavoro sia nel pubblico che nel privato. Il loro obiettivo è trasformare la governance inefficiente attuale in un dispositivo manageriale che funziona con premi, obiettivi e competizione tra istituzioni e imprese del reclutamento di forza-lavoro. La politica attiva del lavoro è un governo della vita.
 
Sono precari coloro che aiutano i disoccupati a trovare un lavoro
Ad oggi l’intero sistema dell’Anpal si regge sul precariato di 760 operatori i cui contratti sono stati da poco prorogati al 31 luglio 2017. E poi? Dovrebbero ripetere una selezione che hanno già fatto tra il 2015 e il 2016 per continuare a fare un lavoro che in molti casi svolgono da anni. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
Il caso dei 760 precari di Anpal è significativo. Sono loro che dovrebbero seguire la “ricollocazione” dei licenziati Almaviva. Senza contare i mille “tutor” che dovrebbero seguire e formare le attività dell’alternanza scuola lavoro: una pedagogia neoliberale obbligatoria che serve ad addestrare gli studenti al lavoro inteso come stage permanente o vero e proprio lavoro gratuito che avrà un peso sul voto della maturità.
“È inaccettabile – scrivono gli interessati – che le risorse impegnate in progetti di ricollocazione, come il Piano Almaviva, garantiscano servizi a disoccupati vivendo sulla propria pelle una forte incertezza sul proprio futuro professionale e lavorativo. È necessario che Anpal e il Governo garantiscano l’inizio di un percorso di stabilizzazione che passi attraverso il rispetto dell’intesa quadro del 22 luglio 2015, la salvaguardia della continuità occupazionale dei lavoratori e delle attività di Anpal Servizi e la proroga dei contratti fino al 2020 senza passare per ulteriori selezioni visto che abbiamo già superato vacancies sulla programmazione 2014-2020”.
Non bisogna mai credere agli annunci degli aspiranti stregoni del mercato del lavoro. Sotto la patina dell’ottimismo tecnocratico, dentro le pieghe della neo-lingua, c’è sempre un’intenzione di controllo e governo. C’è sempre il precariato. Un dato può essere utile per dare un senso alle prospettive delle “politiche attive del lavoro” in Italia. Solo in Germania – stella polare delle classi dirigenti italiane sul workfare i mini-jobs e le politiche contro i poveri – nelle politiche del lavoro e nelle politiche attive sono impiegate circa 110 mila persone, oltre 11 volte in più rispetto ai circa 9 mila italiani, di cui circa 2 mila precari.
 
Roberto Ciccarelli 17.03.2017

Biella, suicidio di coppia per due ambulanti sessantenni: “Perdonateci, siamo sul lastrico”

copertina-300x300GRAZIE ITALIA. GRAZIE PER L’INDIFFERENZA MOSTRATA loro non sbarcano non meritano solidarietà, ed i tanti come loro che sono in difficoltà economica

E’ stata la polizia a scoprire i corpi dei coniugi
 
Tragedia nel quartiere Chiavazza. Marito e moglie hanno lasciato messaggi in cui spiegano i motivi del gesto: non riuscivano più a vivere del lavoro al mercato
 
Si sono tolti la vita perché non riuscivano più a vivere con il loro guadagno. E lo hanno fatto insieme. Doppio suicidio a Chiavazza, nel biellese: marito e moglie sessantenni sono stati trovati morti impiccati nel garage della loro casa in via Coda. Erano entrambi venditori ambulanti al mercato ma da qualche tempo con ogni probabilità non riuscivano più, con il loro lavoro, a sopravvivere.
 
A dare l’allarme è stato il proprietario dell’autorimessa dove i coniugi parcheggiavano il camion. Il fatto che da alcuni giorni nessuno lo avesse spostati ha destato dei sospetti. I cadaveri
 
sono stati scoperti oggi dalla polizia, entrata nella villetta. La coppia ha lasciato alcuni messaggi (“Perdonateci, siamo sul lastrico”) per spiegare il doppio suicidio, che sarebbe dovuto a motivi economici. La loro casa era in vendita da due anni, e sembra che marito e moglie sognassero di trasferirsi in Toscana per godersi la pensione: due anni fa, raccontano i vicini, la coppia aveva subito un furto in casa, fatto che aveva lasciato un segno profondo soprattutto nella donna.
di FLORIANA RULLO – 17 marzo 2017