I valori anti Trump: lo sfruttamento del lavoro

Nike e marchi sfruttamentoOrmai sappiamo che chi detta l’agenda alla cosiddetta società civile disgustata dal popolo (visto chi la comanda non dovrebbe destare alcuna sorpresa) è gente come Soros, un magnate speculatore, ma ora anche i “grandi marchi” o meglio, le corporate come ci insegna Repubblica sono usciti allo scoperto. Si sà, le multinazionali sono tanto tanto solidali e anti razziste, sfruttano chiunque più o meno allo stesso modo e questo è grande indice di progresso a quanto pare per i moralizzatori del mondo. Ora il dumping sociale è trasformato in “inclusione” sociale, in integrazione quindi lo sfruttamento E’ UNA COSA BUONA.

Starbucks aprirà a Milano ed in vista probabilmente dei cambiamenti climatici decide di sostituire le piante autoctone con piante tipiche di climi caldi. Un emblema, così ragiona il capitale. Plasma, modifica a piacimento il creato, inclusi GLI UMANI. Starbucks non condivide la politica migratoria di Trump, fa sapere che assumerà i “rifugiati”. Dove più che in Italia può sfruttare clandestini e manodopera a nero, se non nel regno del CAPORALATO?

Avvisate comunque Starbucks che i richiedenti asilo, in attesa di riconoscimento dello status di rifugiati, NON POSSONO LAVORARE, per legge, almeno per i primi 6 mesi. Ma per quanto importa loro delle leggi ed in Italia non siamo famosi per farle rispettare.

NIKE fa sapere di non condividere le politiche migratorie di Trump, è una questione di morale. E dato che lotta contro le discriminazioni, SFRUTTA tutti i lavoratori in modo eguale.

Immagino che risulti in linea con i loro “valori” così come i valori della cosiddetta società civile, lo sfruttamento di manodopera, inclusa quella minorile. Ne prendiamo atto trattasi di rispetto dei diritti umani da imporre in giro per il mondo onde non essere tacciati di essere retrogradi.

Rimando solo ad un link Multinazionali del dolore. Caso quattro: Nike, articolo del 2013

Riporto l’inizio:

La Nike, multinazionale americana che produce e distribuisce in tutto il mondo scarpe e palloni di calcio, sfrutta la manodopera a basso costo soprattutto nei paesi dell’Asia come la Cina, la Thailandia, l’Indonesia, la Corea del Sud, il Vietnam. Il salario medio giornaliero di un lavoratore è di 50 centesimi per circa 12 ore di lavoro e gli operai, spesso bambini, sono esposti perennemente alle malattie perché lavorano a stretto contatto con i vapori di colle, solventi e vernici.  Le ribellioni e gli scioperi sono oppressi con torture e spesso uccisioni da parte delle polizie locali.

Cara Nike, di cosa hai paura? Di dover produrre le tue scarpe e ammenicoli negli Usa se negli Usa li vuoi vendere? Sei terrorizzata a dover pagare il minimo salariale ai lavoratori americani che certo non è quello che corrispondi ad un minore del Pakistan?

Il colonialismo di oggi si chiama globalizzazione

global brand

Forse il primo compito di un pensiero autenticamente critico dovrebbe consistere oggi nel favorire la deglobalizzazione dell’immaginario. Impiego questa formula – “deglobalizzazione dell’immaginario” – richiamandomi a Serge Latouche, che ha parlato a più riprese di “decolonizzazione dell’immaginario”: su questo punto, condivido la sua prospettiva, precisando però che oggi il nuovo colonialismo si chiama globalizzazione.
È, per così dire, il “colonialismo 2.0”: con cui si coartano tutti i popoli del pianeta all’inclusione neutralizzante del modello unico liberal-libertario globalista. Si tratta – come ho detto – di una “inclusione neutralizzante”, giacché la mondializzazione include e insieme neutralizza: include, giacché tutto riassorbe e nulla lascia fuori di sé (ciò che ancora non è incluso è diffamato come antimoderno, reazionario, populista, totalitario, ecc.); e neutralizza, perché, nell’atto stesso con cui annette, disarticola le specificità plurali dei costumi, delle culture, delle lingue. Le sacrifica sull’altare livellante del modello unico classista e reificante del consumatore individuale e senza radici, anglofono e senza identità.
Il mondialismo si caratterizza, in effetti, anche per questo: aspira a vedere ovunque il medesimo, ossia se stesso, il piano liscio del mercato senza barriere e senza frontiere, nei cui spazi stellari tutto scorre senza impedimento nella forma della merce e dei capitali finanziari: è anche e soprattutto per questa ragione che la tarda modernità assume la forma, per citare il compianto Zygmunt Bauman, di una “società liquida” a scorrimento illimitato dei capitali, delle merci e degli esseri umani ridotti a “merci” o a “capitale umano”.
Deglobalizzare l’immaginario – sia chiaro – non significa tornare alla società di “ancien régime”: non significa, cioè, far tornare indietro la ruota della storia. Significa, al contrario, riscontare l’insufficienza e le contraddizioni del mondo globalizzato: e, di lì, articolare un pensiero che si ponga a base di una nuova fondazione del vivere comunitario, andando al di là tanto della cattiva universalità del globalismo, quanto delle forme premoderne nel frattempo tramontate. Ben sapendo, ovviamente, quant’è difficile sistematizzare ciò che ancora non c’è.
di Diego Fusaro – 22/01/2017
Fonte: Fanpage

Levin: gli Usa hanno interferito nelle elezioni in 45 paesi

la-na-hacking-electionMentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”:
«Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo».
Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.
Per la Cia, il Cremlino avrebbe tentato di aiutare Donald Trump a conquistare la presidenza? «Eppure, nessuno dei due paesi può dirsi estraneo a tentativi di ingerenza nelle elezioni di altri paesi». Gli Stati Uniti, per di più, vantano record ineguagliati in questo campo: «Hanno una storia lunga e impressionante di tentativi di influenzare le elezioni presidenziali in altri paesi», scrive Shane Dixon Kavanaugh, in un post ripreso da “Voci dall’Estero” in cui si documentano i risultati del recente studio condotto da Dov Levin, ricercatore in scienze politiche dell’Università Carnegie-Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania. E’ un fatto: gli Usa hanno «cercato di influenzare le elezioni in altri paesi per ben 81 volte tra il 1946 e il 2000».
Spesso lo hanno fatto «agendo sotto copertura», con tentativi che «includono di tutto: da agenti operativi della Cia che hanno portato a termine con successo campagne presidenziali nelle Filippine negli anni ’50, al rilascio di informazioni riservate per danneggiare i marxisti sandinisti e capovolgere le elezioni in Nicaragua nel 1990». Facendo la somma, calcola Levin, gli Usa avrebbero condizionato le elezioni in non meno di 45 paesi in tutto il mondo, durante il periodo considerato. E nel caso di alcuni paesi, come l’Italia e il Giappone, gli Stati Uniti hanno cercato di intervenire «in almeno quattro distinte elezioni».
I dati di Levin, aggiunge Shane Dixon Kavanaugh, non includono i golpe militari o i rovesciamenti di regime che hanno seguito l’elezione di candidati contrari agli Stati Uniti, come ad esempio quando la Cia ha contribuito a rovesciare Mohammad Mosaddeq, il primo ministro democraticamente eletto in Iran nel 1953. Il ricercatore definisce l’interferenza elettorale come «un atto che comporta un certo costo ed è volto a stabilire il risultato delle elezioni a favore di una delle due parti».
Secondo la sua ricerca, questo includerebbe: diffondere informazioni fuorvianti o propaganda, creare materiale utile alla campagna del partito o del candidato favorito, fornire o ritirare aiuti esteri e fare annunci pubblici per minacciare o favorire un certo candidato. «Spesso questo prevede dei finanziamenti segreti da parte degli Usa, come è avvenuto in alcune elezioni in Giappone, Libano, Italia e altri paesi».
Per costruire il suo database, Levin si è basato su documenti declassificati della stessa intelligence americana, come anche su una quantità di report del Congresso sull’attività della Cia. Ha poi esaminato ciò che considera resoconti affidabili della Cia e delle attività americane sotto copertura, nonché ricerche accademiche sull’intelligence statunitense, resoconti di diplomatici della guerra fredda e di ex funzionari sempre della Cia. «Gran parte delle ingerenze americane nei processi elettorali di altri paesi sono ben documentate, come quelle in Cile negli anni ’60 o ad Haiti negli anni ’90», senza contare il caso di Malta nel 1971: secondo lo studio di Levin, gli Usa avrebbero cercato di condizionare la piccola isola mediterranea strozzandone l’economia nei mesi precedenti all’elezione di quell’anno. «I risultati della ricerca suggeriscono che molte delle interferenze elettorali americane sarebbero avvenute durante gli anni della guerra fredda, in risposta all’influenza sovietica che andava espandendosi in altri paesi», sottolinea Shane Dixon Kavanaugh.
«Per essere chiari, gli Usa non sarebbero stati gli unici a cercare di determinare le elezioni all’estero. Secondo quanto riportato da Levin lo avrebbe fatto anche la Russia per 36 volte dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine del ventesimo secolo. Il numero totale degli interventi da parte di entrambi i paesi sarebbe stato dunque, in quel periodo, pari a 117». Eppure, anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, nonostante venisse a mancare l’alibi della guerra fredda, il grande nemico a Est, gli Stati Uniti «hanno continuato i propri interventi all’estero, prendendo di mira elezioni in Israele, nella ex Cecoslovacchia e nella stessa Russia nel 1996». In altre parole: se la Russia di Putin ha archiviato le attività “imperiali” dell’Urss, l’America ha invece raddoppiato la posta: secondo Levin, dal 2000 a oggi gli Usa hanno pesantemente interferito con le elezioni in Ucraina, Kenya, Libano e Afghanistan, per citarne solo alcuni dei paesi sottoposti alle “attenzioni elettorali” di Washington.
Scritto il 20/1/17

26.000 bombe per asciugare le lacrime di Obama. (E Trump quante ne lancera’ ?)

obama bombsMA QUANTE BELLE BOMBE…
26.172: sono le bombe che Barack Obama ha lanciato nel 2016 in sette paesi diversi: Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan.
Di queste oltre il 90% (24.287) sono state lanciate su Siria e Iraq nell’ambito della Operation Inherent Resolve (OIR), la campagna contro lo Stato Islamico. Gli Stati Uniti hanno prodotto il 79% dei bombardamenti complessivi che la coalizione ha effettuato.
La stima, come sottolinea Micah Zenko analista e curatore della ricerca, è da ritenersi al ribasso perché ogni “strike” può comportare più bombe; ed inoltre perché i numeri sugli interventi aerei in Siria e Iraq non sono certi.
Rispetto al 2015, l’America di Obama ha sganciato oltre 3.000 bombe in più e bombardato un paese, la Libia, che non era stato tra gli obiettivi.
Ovviamente in questo conteggio non sono calcolate le operazioni segrete che Obama ha dispensato per il mondo; le centinaia di “bombardamenti mirati” con droni anche in territori non inclusi nelle guerre ufficiali (come Africa), o gli appalti autorizzati dal Pentagono e dalla Cia a contractors e società private per condurre attività di guerra sotto traccia.
A tutto questo dobbiamo aggiungere che Obama nei suoi sette anni, è stato il Presidente Usa che ha autorizzato il maggior numero di vendite d’armi in Medio Oriente nella storia americana (lo abbiamo spiegato in questo articolo con numeri e cifre).
Niente male per un Nobel per la Pace.
Il problema è che tutto questo sforzo bellico che annovera Obama tra i presidenti più guerrafondai di sempre, non è servito a evitare il fallimento della politica estera americana.
E LA DOTTRINA OBAMA?
La dottrina Obama, elogiata dalla sinistra internazionalista e umanitaria, doveva far dimenticare quella di George Bush e invece l’ha fatta rimpiangere; doveva ricostruire l’immagine dell’America disintegrata dall’arroganza del Presidente cowboy e dal fallimento delle guerre in Afghanistan e Iraq e invece quell’immagine l’ha ancora più abbattuta mantenendo in vita le stesse guerre di Bush e aumentando crisi internazionali e fronti di guerra: è sotto Obama che hanno preso forma l’Isis e il suo Califfato; è Obama che ha dato il via libera alla guerra in Libia, alimentato il conflitto siriano, aiutato la crisi nello Yemen e le destabilizzazioni delle Primavere arabe; e con Obama che la tensione con la Russia ha raggiunto un clima da Guerra Fredda; è con Obama che si è consumata la tragica farsa della rivoluzione ucraina e della Guerra civile che sta mettendo a rischio la stabilità nell’Europa orientale.
La sua dottrina doveva fondarsi su due capisaldi:
1) “Light Footprint” o “Impronta Leggera”, cioè diminuire l’interventismo esplicito; non più “stivali sul terreno” ma azioni impercettibili che avrebbero dovuto ottenere massimo risultato con il minimo sforzo (e minimo rischio). L’eliminazione di Bin Laden nel 2011, sembrò avvalorare questa strategia.
D’altronde se il terrorismo islamista era senza territorio a che serviva occuparne uno? Salvo poi accorgersi che l’Isis un territorio se lo stava costruendo grazie ai soldi degli alleati sauditi e alle trame occulte della Cia.
2) “Leading from behind” o “Guidare da dietro le quinte”. La strategia tipica di chi tira il sasso nascondendo la mano. Potremmo tradurla con un “agire nell’ombra”; come in Ucraina per esempio dove è stato molto più comodo finanziare con svariati miliardi di dollari la rivoluzione che ha portato alla guerra civile e poi infilare i propri dipendenti del Dipartimento di Stato dentro il nuovo governo di Kiev.
OBAMA? UN’ALLUCINAZIONE
Il giudizio sereno e veramente obiettivo su di lui potrà essere consegnato solo dopo che il tempo avrà attraversato le ultime convulsioni di questi 8 anni.
Eppure quelle lacrime si asciugano velocemente pensando all’ipocrisia di quella retorica pacifista che ha accompagnato questi anni; alle bombe e alle guerre (umanitarie ovviamente) giustificate dalla protezione che il mondo ovattato dei media, degli intellettuali, degli attori di Hollywood, dei maggiordomi europei, gli hanno dato e continuano a dargli.
Obama è stato una grande allucinazione; non solo in politica estera. Secondo un recente sondaggio Gallup, la presidenza Obama ha peggiorato la condizione dei neri, la questione razziale e il divario tra ricchi e poveri; i punti forti della sua visione del mondo.
Donald Trump non ha vinto grazie a Putin; ha vinto grazie ad Obama ed al suo fallimento.
E ora, mentre ci apprestiamo ad assistere all’insediamento del nuovo Presidente Trump, guardiamo con stupore le lacrime che Obama ha versato nel suo discorso di commiato; probabilmente lacrime sincere di un uomo che non è riuscito ad essere all’altezza del ruolo che la storia improvvisamente gli aveva dato ed il mondo si aspettava.
Ma le 26.000 bombe sganciate nel 2016 e le decine di migliaia di altre bombe gettate negli otto anni della sua Presidenza asciugano quelle lacrime di speranze  fallite.
Fonte: Comedonchisciotte
di Giampaolo Rossi – 21/01/2017

Russofobia in Danimarca. Ministro danese: i russi sono sul punto di attaccare Ospedali, infrastrutture, reti elettriche

Europa della solidarietà, SOCIOPATICA. Poi lancia l’appello per una colletta alla NATO, MA CHE CASO…….

Il ministro della Difesa danese, Hjort Frederiksen, ha dichiarato ai media che “i Attacco-Russia-NATOrussi vogliono attaccare la Danimarca per distruggere la loro democrazia”. Il ministro ha lanciato una serie di gravi accuse contro Mosca, dicendo che ” la Russia rappresenta una minaccia diretta, spaventosa e seria contro la nostra patria. Dobbiamo mettere in chiaro a noi stessi che siamo in pericolo e dobbiamo operare in base a questo”, queste le dichiarazioni del politico al giornale danese Berlingske.
Frederiksen ha voluto mettere per iscritto la sua prima intervista, visto che è stato nominato al suo posto a 69 anni di età. In cambio il politico, che in passato era stato ministro delle finanze, ha parlato per tutta l’intervista della “minaccia russa”. “Gruppi di commandos russi sono pronti per attaccare Ospedali, infrastrutture, reti elettriche, entrare nei sistemi informatici, creare frastorno nei sistemi sanitari, ha detto Frederiksen, riferendosi ad una informativi pubblicata il mese scorso dai servizi di intelligence del paese così come da altre conversazioni con altri politici occidetali e sistemi di sicurezza.
E per quale motivo la Russia dovrebbe attaccare un piccolo paese che non ha frontiere in comune? “Per estendere la paura e l’insicurezza fra la popolazione e paralizzare la nostra gente”, dice il ministro.
“E ‘un modo per destabilizzare i nostri paesi e le democrazie in modo molto fisico e tangibile, e questo pone una domanda pressante sulle nostre risorse per difenderci da questi attacchi”, ha detto Frederiksen.
Le accuse di Frederiksen fanno eco a quelle di funzionari dei servizi segreti degli Stati Uniti, che hanno pubblicato un rapporto la scorsa settimana,  da cui si deduce  che la Russia ha ordinato gli hacker di immischiarsi nelle elezioni degli Stati Uniti, in particolare con l’emissione dei  messaggi di posta elettronica relativi al candidato democratico Hillary Clinton. Il Cremlino ha ripetutamente negato l’accusa di interferenza.
“Dobbiamo spendere di più per la NATO per fermare i russi dal tentare qualsiasi cosa”.
Il politico ritiene inoltre che i missili Iskander-M che la Russia ha dispiegato nella sua enclave occidentale di Kaliningrad costituiscono un pericolo immediato per la Danimarca.
“Possiamo confermare che i russi stanno completando  in questo momento l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad che possono raggiungere Copenaghen. Questo è ovviamente un rischio maggiore “, ha detto Frederiksen.
Mosca afferma  che i missili sono una risposta al continuo spiegamento  del sistema di  scudo missilistico di difesa degli Stati Uniti in tutta l’Europa orientale, ed ha rinforzato i suoi altri armamenti nella regione, a seguito di un aumento della presenza della NATO ai confini russi. L’alleanza occidentale sta cercando di limitare le ambizioni presunte  di Mosca nella regione attraverso l’operazione NATO ” Atlantic Resolve”, avviata in seguito alla frattura causata dal conflitto in Ucraina nel 2014, e comprende il trasferimento di truppe e attrezzature modernizzate  per l’Europa orientale.
Frederiksen ha anche detto che “una maggiore attività militare” della Russia nella regione artica, in cui entrambe, Mosca e Copenhagen, hanno rivendicazioni territoriali – quest’ultima attraverso la Groenlandia -sarebbero  un’altra potenziale fonte di conflitto, che deve richiedere “monitoraggio estensivo”.
Come soluzione, i sostenitori di  Frederiksen hanno aumentato il budget  delle spese militari, anche se hanno rifiutato di specificare se la Danimarca ha lo scopo di raggiungere l’obiettivo  della NATO del 2 per cento del PIL che deve essere  speso per la difesa (attualmente si spende 1,17 per cento).
“La NATO deve essere la nostra difesa comune e il nostro deterrente. Dobbiamo mostrare la forza che ci vuole, e quindi spendere il denaro necessario per evitare che i russi possano  provare qualsiasi cosa. Questo è fondamentalmente ed è questa  l’essenza del nostro pensiero “, ha detto Frederiksen.
Come gesto simbolico, Frederiksen ha sottolineato l’importanza del dispiegamento di 200 soldati danesi come parte del nuovo 5.000- della forza  di reazione rapida in Europa orientale il prossimo anno.
“Non è, naturalmente, perché pensiamo che i 200 soldati danesi possono fermare l’esercito russo. Ma dovrebbero sapere che la difesa territoriale della zona circostante inizia lì e attraversando la linea, poi la comune solidarietà nella NATO avrà effetto deterrente,” detto Frederiksen.
Il giornale ha riferito che l’ambasciata russa ha rifiutato di commentare le accuse.
Nota: Un caso da manuale di evidente psicosi causata dalla campagna di “Russofobia” scatenata in tutto l’Occidente.
Fonte: Russia Insider – Gen 16, 2017
Traduzione: Luciano Lago

Fine dell’Impero Statunitense: Navi da Guerra Russe Appena Arrivate nelle Filippine

Il noto critico americano di politica estera e linguista, il prof. Noam Chomsky, ha navi russe Maniladichiarato svariate volte che il potere degli Stati Uniti è costantemente diminuito dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Come nota Chomsky, nel 1945, gli Stati Uniti possedevano “metà della ricchezza mondiale, una difesa incredibile, controllavano l’intero emisfero occidentale, i due oceani, e le sponde opposte di entrambi gli oceani.”
 
In quel contesto – e nel contesto degli Stati Uniti che dichiaravano guerra in più paesi in giro per il globo, con la più avanzata tecnologia militare al mondo – è difficile comprendere come questo sia potuto succedere. Ma Chomsky non ha torto.
 
Cominciando negli anni ’40 da quella che fu definita “la perdita della Cina”, gli Stati Uniti hanno cominciato lentamente a perdere territori del sud-est asiatico, cosa che portò l’America a scatenare brutalmente le Guerre Indocinesi. Come nota Chomsky, distruggendo il Vietnam del Sud nella duramente criticata Guerra del Vietnam – una mossa progettata per impedire al Vietnam di raggiungere l’indipendenza e magari diventare uno stato comunista – gli Stati Uniti mandarono un messaggio al resto dell’Indocina: se una nazione avesse tentato di liberarsi dal controllo statunitense-europeo, sarebbe stata bombardata e cancellata dalla faccia della terra. Al tempo la strategia funzionò; come nota Chomsky, al 1965, ciascuno stato della regione era retto da una dittatura, pronta a governare in modo conveniente agli interessi di politica estera americani. Come mostrato dai recenti sviluppi nella regione asiatica, comunque, il successo di questa strategia “da bulli”, ha avuto vita decisamente breve.
In ogni caso, gli Stati Uniti hanno perso anche il Sud America. Secondo Chomsky, la “perdita” del Sud America si evince facilmente: “Un segno tangibile è che gli Stati Uniti sono stati cacciati da ogni singola base militare in Sud America. Stiamo cercando di ripristinarne qualcuna, ma al momento non ce ne sono.”
Nel corso degli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno cominciato a perdere anche il Medio Oriente. In Iraq, gli Stati Uniti col loro sostegno hanno contribuito all’ascesa al potere di Saddam Hussein, e addirittura hanno appoggiato la sua guerra di aggressione contro il vicino Iran. Poi, l’USA voltò le spalle a Hussein, attaccando l’Iraq nel 1991 sotto la presidenza di George H.W. Bush. Come risultato, gli Stati Uniti hanno imparato almeno una preziosa lezione dal bombardare l’Iraq nei primi anni ’90: che la Russia non sarebbe intervenuta nelle ambizioni dell’America in Medio Oriente.
 
Il Medio Oriente era pertanto pronto per essere conquistato, e continuò ad esserlo fino alla Guerra Siriaca. Quello che la gente non capisce, comunque, è che gli Stati Uniti non stanno sottomettendo con le bombe il Medio Oriente grazie al loro immenso potere, ma perché il loro potere, la loro influenza, il loro controllo su tutta la regione, li stanno in realtà perdendo.
 
Come dovrebbe essere piuttosto chiaro a chiunque segua il conflitto, la Russia ha rimpiazzato gli Stati Uniti come giudice, giuria e carnefice (e presunto mediatore di pace) nella quinquennale Guerra Siriaca,  riprendendosi con successo la metropoli di Aleppo dai gruppi ribelli appoggiati dalla Nato.
 
L’avanzata della Russia in Medio Oriente ha avuto conseguenze in tutto il mondo. Nell’ottobre dello scorso anno, gli Stati Uniti hanno ufficialmente “perso” la loro morsa sulle Filippine. Nonostante in precedenza siano stare viste come fondamentali alleate degli Stati Uniti, vitali per contrastare l’influenza della Cina nella  regione asiatico-pacifica, le Filippine si sono vantate apertamente e orgogliosamente dei loro nuovi legami con Russia e Cina.
A quanto pare, le Filippine si sono messe in gioco. Le navi da guerra russe sono arrivate nel territorio filippino questo martedì. A detta della Marina delle Filippine, la loro è soltanto una visita “di cortesia”, ma si dovrà duscutere di future esercitazioni congiunte. Un reportage di Sputnik News russo sembrava contraddire questa possibilità, affermando che le navi erano là appositamente per condurre esercitazioni congiunte con le forze filippine allo scopo di combattere la pirateria marittima e il terrorismo.
 
“Potete scegliere di collaborare con gli Stati Uniti d’America, o con la Russia” ha detto il vice ammiraglio russo Eduard Mikhailov, in un discorso tenuto al porto di Manila. “Ma da parte nostra, possiamo aiutarvi in qualsiasi modo voi abbiate bisogno. Siamo sicuri che nel futuro eseguiremo esercitazioni assieme. Forse si tratterà solo di manovre, di impiego di sistemi di combattimento, e così via.”
Mikhailov sembrava anche indicare che altri stati nella regione, come Cina e Malesia, entro i prossimi anni si coordineranno con le potenziali esercitazioni. La Russia ha anche offerto alle Filippine armi sofisticate, incluso aerei e sottomarini.
Agli Stati Uniti rimane solo un’ultima mossa: circondare i confini della Russia con truppe e missili Nato, cosa che stanno facendo piuttosto rapidamente. Prima o poi, comunque, gli Stati Uniti dovranno ammettere il loro effettivo declino nella classifica mondiale, e non avranno altra scelta che imparare a coordinare gli affari globali col benestare di Russia e Cina.
Parliamoci chiaro – qual’è l’alternativa?
 
gennaio 11 2017
– DI DARIUS SHAHTAHMASEBI –
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da: MARTINA QUAGLIOZZI

Il Presidente egiziano Al Sisi denuncia i patrocinatori del terrorismo ed i loro piani contro l’Egitto

quando in Egitto furono “installati” i Fratelli Musulmani al potere tanto cari all’amministrazione Killlary Obama l’Egitto era un paradiso secondo i media occidentali nonostante i massacri di cristiani e musulmani moderati. Ora che c’è Al Sisi molto vicino alla Russia ovviamente l’Egitto è una dittatura che ovviamente gli Usa sono chiamati a rimuovere. Almeno questo l’intento del Premio Nobel per la pace che ha sganciato più di 26.000 bombe in 7 nazioni. E si fa puzza per Regeni, strano eh?

Chi ha interesse a destabilizzare l’Egitto?
Forse l’opinione pubblica europea potrebbe pensare che quanto avviene in paesi al sisi russiacome l’Egitto non ci riguardi, che sia un paese lontano e molto distante dall’ambiente e dalle questioni dell’Europa. In realtà l’Egitto, il più popoloso paese arabo, si trova nel Mediterraneo proprio di fronte alle coste del sud Europa ed in circa 3 ore di aereo è facilmente raggiungibile da qualsiasi capitale europea.
Risulta che l’attuale presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, proprio oggi ha denunciato i piani contro il suo paese orditi e finanziati da certi paesi e dai loro servizi di intelligence, quelli che il mandatario egiziano ha chiamato come “discepoli del male”.
In dichiarazioni rilasciate alla BBC, Al Sisi ha detto che l’Egitto si trova in guerra contro il terrorismo e che questo viene finanziato con immenso denaro da alcuni paesi.
Il presidente non ha fatto nomi in concreto ma, secondo alcuni esperti, le sue dichiarazioni fanno riferimento agli stessi stati che hanno finanziato il terrorismo in Siria, in Iraq ed in altri paesi. Uno di questi, secondo i media egiziani è il Qatar.
L’Egitto ed il Qatar mantengono relazioni molto tese per causa dell’ampio appoggio fornito da Doha ai F.lli Mussulmani e per la partecipazione di questi ultimi agli attacchi terroristici contro la sicurezza che hanno afflitto l’Egitto dopo l’arrivo al potere dell’ex generale Al Sisi nel 2013.
Molti di questi attacchi contro la polizia e le forze di sicurezza, così come per quelli avvenuti contro i luoghi di culto cristiani in Egitto (dei cristiani copti) vengono attribuiti dal governo alla setta dei F.lli Mussulmani, dei quali alcuni rami si sono fortemente radicalizzati ed hanno promesso lealtà al Daesh (ISIS) ed a altri gruppi estremisti.
Da rilevare che tutti questi attentati si sono intensificati da quando il Cairo è entrato in guerra contro il terrorismo islamista ed ha partecipato, inviando un suo contingente, al conflitto in Siria sostenendo il Governo di Damasco assieme all’Iran ed alla Russia. Da quel momento si sono deteriorate le relazioni dell’Egitto con l’Arabia Saudita e con il Qatar, guarda caso i paesi, alleati dell’Occidente, che sono considerati patrocinatori ed ispiratori del terrorismo di marca salafita.
Al Sisi, in una recente intervista televisiva, si è riferito alla feroce lotta che i soldati egiziani sostengono nel Sinai contro i terroristi ed ha segnalato che i militari egiziani hanno ritrovato negli ultimi tre mesi una tonnellata di esplosivi e milioni di lire egiziane e dollari nordamericani in nascondigli che appartenevano ai terroristi, i quali, con tutta evidenza, godono di finanziamenti esterni.
Il governo egiziano di Al Sisi ha mostrato una mano dura nei confronti del movimento dei F.lli Mussulmani, in particolare con la repressione e la condanna a morte, fatto senza precedenti, di oltre 500 membri dei fratelli musulmani, in Egitto, per il loro ruolo avuto nell’attacco, tortura e omicidio di un poliziotto egiziano, e questo era avvenuto al culmine di un’illuminante e onnicomprensivo giro di vite della sicurezza nella centrale nazione araba del Nord Africa. Questa mossa ha creato un effetto raggelante che ha ammutolito le masse altrimenti violente dei fratelli musulmani e portato a mettere ordine nelle strade, con il prevenire sommosse e disordini promossi da questa setta.
La mossa dei giudici egiziani aveva attirato la condanna prevedibile del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, oltre all’ostilità manifesta di tutti i principali media occidentali che rimproverano ad Al Sisi il suo pugno di ferro contro l’opposizione radicale islamista nel paese.
Gli ambienti della sinistra europea accusano Al Sisi di violare i diritti umani e reprimere l’opposizione ma si tratta degli stessi ambienti e degli stessi media che non levano una parola nei confronti dei Governi di Arabia Saudita, Qatar e delle altre Monarchie petrolifere che reprimono ferocemente il dissenso ed applicano le pene capitali (con taglio della testa) contro i dissidenti e le persone accusate di reati quali l’apostasia e “crimini” di natura sessuale. Un evidente doppio standard quando si tratta di regimi favorevoli agli interessi occidentali.
Gli Stati Uniti appoggiavano in Egitto il precedente Governo di Mohamed Morsi , ispirato dai F.lli Mussulmani e risulta che il Dipartimento di Stato ha finanziato per anni la setta dei F.lli Mussulmani nell’evidente tentativo di spaccare il mondo islamico esacerbando la rivalità tra le masse sunnite in funzione anti iraniana e favorendo l’influenza dei loro stretti alleati, Arabia Saudita e Qatar, che cercano di prendere la guida dei paesi sunniti contrastando la crescente influenza iraniana e sciita nella regione. Vedi: Egypt, the Muslim Brotherhood and America’s War on Syria
Questo spiega il perchè gli Stati Uniti, attraverso le varie ONG, avevano finanziato le “primavere arabe” che si volevano far passare per un processo spontaneo, quando in realtà erano sobillate da agitatori esterni, dietro il pretesto dei “diritti umani ” e della “democrazia”, in funzione di un cambio di regime che gli USA hanno mirato a realizzare sia in Egitto che in Libia, in Siria ed altrove.
In Libia questo cambio di regime si è verificato grazie all’intervento della NATO, in Siria il cambio di regime, che ha dato luogo ad un sanguinoso conflitto, è fallito grazie alla resistenza di Bashar al-Assad, del popolo e dell’Esercito siriano (con l’aiuto dei russi), in Egitto il tentativo è fallito grazie al colpo di Stato militare del generale Al Sisi.
 
Questo spiega tutta la velenosa propaganda mediatica occidentale scatenatasi contro Assad, accusato di essere un “tiranno sanguinario”, per aver osato opporsi all’imperialismo anglo-USA-saudita.
 
Attualmente gli Stati Uniti continuano a fingere di sostenere il governo del Cairo, ma sono in realtà completamente dalla parte del regime della fratellanza musulmana, che era guidata di Muhammad Morsi, delle sue folle in piazza e delle numerose reti di ONG in Egitto che ne sostengono e difendono le loro attività.
L’ultima di tali ONG ad apparire era stata l’Iniziativa egiziana per i diritti personali (EIPR) che veniva citata anche dal del New York Times. L’EIPR è finanziata , tra gli altri, dall’ambasciata d’Australia a Cairo, e svolge lo stesso noto ruolo che altre ONG finanziate dagli occidentali hanno avuto durante la “primavera araba” del 2011, coprendo violenze e atrocità dell’opposizione e usando i “diritti umani” per condannare le repressioni della sicurezza effettuati in risposta dallo Stato.
Tanto più è divenuto pressante, per il Dipartimento di Stato USA, l’obiettivo di un “regime change” al Cairo, da quando l’Egitto si è riavvicinato alla Russia di Putin ed ha sottoscritto con questa importanti contratti di cooperazione nel campo civile e militare.
Non si può escludere che le centrali di potere di Washington mirino a destabilizzare l’Egitto, ripetendo lo stesso tentativo fallito in Siria, mediante l’appoggio alle sette più estremiste e la sobillazione di gruppi terroristi come il Daesh che, guarda caso, hanno iniziato ad attivarsi nel paese (in particolrae nel Sinai) da quando il Governo del Cairo ha cambiato la sua politica e la sua rete di alleanze, voltando le spalle all’Arabia Saudita ed al Qatar ed riavvicinandosi alla Siria ed alla Russia.
Le conseguenze di una eventuale destabilizzazione dell’Egitto sarebbero nefaste per tutta le regione ed in particolare per l’Europa che si troverebbe alle prese con un’altra situazione, tipo Libia, moltiplicata X 10, visto che si tratterebbe del più grande paese arabo con 82 milioni di abitanti. Le trame dei circoli di potere di Washington non si fermano davanti a nulla e contano, come sempre, sulla passiva e suicida collaborazione dei governi europei. di Luciano Lago
Gen 12, 2017  Fonti: Al Mayadeen