Se il popolo vale più della finanza

se il popolo deve valere più della finanza sei uno schifoso populista xenofobo
 
L’endorsement del mondo finanziario a ridosso di importanti votazioni è ormai diventata un’abitudine. Si tratta nello specifico della diffusione di notizie, dati e previsioni di scenari trasmessi da colossi della finanza, che descrivono le reazioni dei mercati rispetto ad un possibile esito delle votazioni. Un’abitudine cresciuta di pari passo con l’espansione dell’economia finanziaria, ma il cui peso specifico è divenuto rilevante negli ultimi dieci anni. Ecco alcuni esempi.
 
A ridosso delle elezioni politiche italiane del 2006 il settimanale inglese The Economist, principale voce del mondo finanziario anglosassone, così scriveva: “L’Italia necessita di riforme radicali, ma Berlusconi, in teoria un liberista economico, ha fatto quasi nulla”. Sempre a ridosso delle elezioni italiane, questa volta nel 2008, il Wall Street Journal, organo di stampa ufficiale di Wall Street, così “minacciava” l’elettorato italiano: “Berlusconi ci ha deluso…si è rivelato un nemico corporativo del Libero Mercato”.
La sequela si è ulteriormente acuita nell’ultimo biennio. Pochi giorni prima del Referendum consultivo proposto in Grecia dal Governo Tsipras nel luglio 2015 alcuni analisti della banca d’affari americana Goldman Sachs pubblicarono una ricerca sui possibili scenari post-voto. Goldman Sachs affermava che l’approvazione popolare del pacchetto di riforme e le dimissioni del Governo Tsipras avrebbero portato “stabilità nei mercati e investimenti nel Paese”, mentre una mancata approvazione popolare avrebbe causato “una minaccia concreta di Grexit” e un periodo di instabilità politica ed economica.
 
Il Referendum greco si è risolto con il rifiuto dei greci di accettare il pacchetto di riforme proposto da Commissione europea, BCE e FMI, tuttavia non vi è stata né una Grexit né instabilità politica. Tali scenari molto spesso non hanno alcun riscontro con la realtà.
 
Sono state però le due votazioni del 2016, il Referendum del Regno Unito e le presidenziali americane, ad aver mostrato fino a dove possono arrivare le minacce del mondo finanziario e quanto poco infine contino sull’andamento reale dell’economia.
 
Nell’aprile del 2016, a due mesi dal Referendum britannico, l’Ocse, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, pubblicava un’ipotesi di scenario in caso di vittoria del Brexit in cui la perdita netta per famiglie nel Regno Unito sarebbe stata di almeno 3200 sterline entro il 2030.
 
Il 3 giugno del 2016 a rimarcare i toni ci pensò Jamie Dimon, CEO di Jp Morgan, che definì il Brexit “una terribile minaccia”, prospettando il taglio di “4.000” lavoratori impiegati nella filiale londinese. Sempre nel giugno 2016 Goldman Sachs faceva sapere attraverso una nota: “Se si deciderà di votare per lasciare l’Ue, l’incertezza aumenterà così come accadde dopo il crack di Lehman Brothers”. A pochi giorni infatti dalle votazioni i mercati parevano rispecchiare le minacce verbali dei loro attori: come riportato da Wall Street Italia il 16 giugno 2016 “l’indice FTSE 100 della Borsa di Londra è sceso sui minimi in quattro mesi…l’azionario del Regno Unito ha perso un valore di mercato pari a 100 miliardi di sterline”.
 
Delineato un simile scenario, ci si sarebbe dovuti aspettare che la popolazione terrorizzata votasse in massa per il “Remain”. Invece il Brexit ha vinto con il 51.9% di preferenze. Non solo ha vinto, ma ha smentito tutte le minacce portate durante la campagna elettorale. Secondo le stime fatte nel settembre 2016 da UBS, colosso svizzero di servizi finanziari, “il PIL britannico continuerà a crescere dell’1.9%”.
Mentre Repubblica, in un editoriale del 23 settembre 2016, mostrava il seguente grafico dove la borsa di Londra risultava essere quella più in salute tra le piazze affari europee.
 
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Anche Joe Grice, capo economista dell’Office for National Statistics britannico, commentò positivamente il Brexit: “In effetti lo shock non c’è stato. Fino ad ora sembra che il risultato del Referendum non abbia avuto effetti di rilievo sull’economia nazionale. Diciamo che il Regno Unito non è caduto al primo ostacolo”. In tutto questo la sterlina è sì crollata del 15% l’8 ottobre scorso, tuttavia tale svalutazione era dovuta, come riportato dal portale Bloomberg, all’errore di alcune “automated trades” di Tokyo (macchine che eseguono transazioni automatiche). Il valore della sterlina da allora è in continua ripresa, ad oggi una sterlina vale 1,24087 dollari statunitensi (il 5% in più rispetto all’8 ottobre).
 
Le elezioni presidenziali americane ci hanno regalato un analogo teatrino. Sulla rivista Foreign Policy del 26 ottobre 2016 si fece espressamente riferimento al fatto che “Wall Street stia disperatamente cercando la vittoria della Clinton…perché i banchieri odiano l’incertezza, e l’incertezza è una delle cose che la presidenza Trump potrebbe portare”. Remy Briand, amministratore delegato della società di ricerca Msci (Morgan Stanley Capital International) così definì la possibilità di una vittoria di Trump: “Con le politiche populiste si può avere una reale possibilità di tornare a tassi d’inflazione senza crescita. È uno scenario difficile da ignorare”. Mentre un’altra minaccia era arrivata da Jack Ablin, direttore della banca privata Bmo, una delle “Big Five” banks in Canada, il quale affermò come “ai mercati piaccia molto avere democratici nello Studio Ovale”. In un articolo uscito sull’Unità il 7 novembre 2016 il seguente grafico mostra come il mercato azionario Usa abbia “registrato sempre risultati migliori durante le presidenze democratiche”.
 
Ancora il Foreign Policy ci svela che i servizi finanziari hanno donato 65 milioni di dollari per la campagna della Clinton, mentre Trump ne ha ricevuti solo 716,000.
 
Come accaduto qualche mese fa nel Regno Unito, anche i cittadini statunitensi se ne sono fregati dell’ “incertezza” e hanno scelto il candidato più minaccioso per i mercati finanziari. La differenza tra quanto minacciato e realtà risulta dei fatti ancor più evidente negli USA rispetto al dopo Brexit. Lunedì 21 novembre infatti il Dow Jones ha raggiunto quota 18.956,69 punti (+0.5%), lo S&P500 è salito dello 0.75% toccando quota 2.198,18 punti e anche il Nasdaq è salito fino allo 0.9%. Una congiuntura positiva che non si vedeva dal 1999.
 
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Tant’é che sia il portale Bloomberg che il Financial Times si sono improvvisamente riscoperti sostenitori del tycoon, dopo mesi di campagna pro Clinton. Bloomberg scrive che questo risultato è frutto dell’ “ottimismo intorno alla Trumponomics e agli stimoli fiscali che abbiamo chiesto per anni”, mentre il Financial Times ammette che il potezionismo trumpista giovi alle piccole e medie imprese americane. Il rialzo al 10% della media impresa Russell 2.000 lo dimostra. In un periodo storico in cui sembra che il peso del singolo cittadino sia nullo in confronto a quello di aggregati economici dal fatturato plurimiliardario, queste due votazioni hanno dimostrato il contrario. Il popolo è ancora in grado di scegliere di testa sua e i mercati finanziari non crollano a seguito di votazioni, per quanto importanti possano essere. Tutte le grandi crisi economiche nella storia, dal giovedì nero del 1929, passando per la crisi argentina del 1999, fino al crollo dei subprime del 2008, sono state causate da meccanismi interni al sistema finanziario. In nessun modo la votazione popolare può distruggere un sistema economico.
 
novembre 25 – 2016 – di Michele Crudelini

Il referendum che nessuno fa mai

Quando giustamente si chiede che i cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere orientata verso la guerra. Mentre era in corso la campagna referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy: «La stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e dell’Africa, è operativa».

La maggioranza degli italiani, sfidando i poteri forti schierati con Renzi, ha sventato il suousa piano di riforma anticostituzionale. Ma perché ciò possa aprire una nuova via al paese, occorre un altro fondamentale No: quello alla «riforma» bellicista che ha scardinato l’Articolo 11, uno dei pilastri basilari della nostra Costituzione. Le scelte economiche e politiche interne, tipo quelle del governo Renzi bocciate dalla maggioranza degli italiani, sono infatti indissolubilmente legate a quelle di politica estera e militare. Le une sono funzionali alle altre. Quando giustamente ci si propone di aumentare la spesa sociale, non si può ignorare che l’Italia brucia nella spesa militare 55 milioni di euro al giorno (cifra fornita dalla Nato, in realtà più alta). Quando giustamente si chiede che i cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere orientata verso la guerra. Mentre era in corso la campagna referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy:

«La stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e dell’Africa, è operativa».

Realizzata dalla General Dymanics – gigante Usa dell’industria bellica, con fatturato annuo di 30 miliardi di dollari – quella di Niscemi è una delle quattro stazioni terrestri Muos (le altre sono in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). Tramite i satelliti della Lockheed Martin – altro gigante Usa dell’industria bellica con 45 miliardi di fatturato – il Muos collega alla rete di comando del Pentagono sottomarini e navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti terrestri in movimento, in qualsiasi parte del mondo si trovino. L’entrata in operatività della stazione Muos di Niscemi potenzia la funzione dell’Italia quale trampolino di lancio delle operazioni militari Usa/Nato verso Sud e verso Est, nel momento in cui gli Usa si preparano a installare sul nostro territorio le nuove bombe nucleari B61-12. Passato sotto quasi totale silenzio, durante la campagna referendaria, anche il «piano per la difesa europea» presentato da Federica Mogherini: esso prevede l’impiego di gruppi di battaglia, dispiegabili entro dieci giorni fino a 6 mila km dall’Europa.

Il maggiore, di cui l’Italia è «nazione guida», ha effettuato, nella seconda metà di novembre, l’esercitazione «European Wind 2016» in provincia di Udine. Vi hanno partecipato 1500 soldati di Italia, Austria, Croazia, Slovenia e Ungheria, con un centinaio di mezzi blindati e molti elicotteri. Il gruppo di battaglia a guida italiana, di cui è stata certificata la piena capacità operativa, è pronto ad essere dispiegato già da gennaio in «aree di crisi» soprattutto nell’Europa orientale. A scanso di equivoci con Washington, la Mogherini ha precisato che ciò «non significa creare un esercito europeo, ma avere più cooperazione per una difesa più efficace in piena complementarietà con la Nato», in altre parole che la Ue vuole accrescere la sua forza militare restando sotto comando Usa nella Nato (di cui sono membri 22 dei 28 paesi dell’Unione). Intanto, il segretario generale della Nato Stoltenberg ringrazia il neo-eletto presidente Trump per «aver sollevato la questione della spesa per la difesa», precisando che «nonostante i progressi compiuti nella ripartizione del carico, c’è ancora molto da fare». In altre parole, i paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto maggiore. I 55 milioni di euro, che paghiamo ogni giorno per il militare, presto aumenteranno. Ma su questo non c’è referendum.

di Manlio Dinucci – 06/12/2016 Fonte: Il Manifesto

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=57860

 

Il tramonto della classe politicante globalista

 personaggi politici al vertice dei governi occidentali, per lungo tempo avevano esercitato il potere nei loro paesi dando le spalle alla cittadinanza ed occupandosi prevalentemente degli interessi dei grandi gruppi finanziari e della stabilità dei mercati.
Al momento di presentarsi alla verifica del loro consenso, sono stati sfiduciati dalle loro opinioni pubbliche e ne hanno pagato il prezzo. Cameron, Obama, Hollande e Renzi non ripeteranno mai le fotografie di rito tutti assieme. Rimane ancora la Mekel come l’unica eccezione, in apparenza, perchè la sua popolarità è ormai in caduta libera presso la sua opinione pubblica.
Se si voleva avere la conferma della distanza creatasi fra le elite ed i propri cittadini, questa è stata dimostrata in modo inoppugnabile in questo 2016 e si è potuto comprovare che i cittadini (in grande maggioranza) si sono stancati delle decisioni prese dalle elites mondiali e sulla base delle loro impostazioni neoliberiste.
E’ accaduto in primis nel Regno Unito con la consumazione del Brexit, poi negli Stati Uniti con la vittoria di Trump e, più di recente, in Italia con le dimissioni di Matteo Renzi, dopo che questi è risultato sonoramente bocciato nel referendum sulla riforma della Costituzione.
Le decisioni prese da Bruxelles hanno prodotto un disastro sociale nei paesi europei con la scomparsa dei diritti e delle tutele sociali mentre la crisi dei rifugiati ha creato una situazione di destabilizzazione sociale e di allarme che ha prodotto un diffuso malcontento nelle opinioni pubbliche dei paesi europei, tanto che vari leaders europei (nell’Est Europa) hanno voltato le spalle a Bruxelles ed alla Merkel e hanno rifiutato le politiche della Commissione Europea in nome del recupero della sovranità.
La distanza della oligarchia di Bruxelles dai cittadini è apparsa enorme in particolare su questioni come quella dell’accoglienza dei migranti e profughi, sulle problematiche realtive alle sanzioni alla Russia e sulla bellicosa politica attuata dalla NATO che ha fatto tornare l’Europa in un pericoloso clima di “Guerra Fredda”.
 
Le inchieste ed i sondaggi di opinione hanno fallito le loro rilevazioni ed i risultati sono apparsi per loro una “sgradevole sorpresa”.
I sondaggi d’opinione avevano fallito già nel Regno Unito e questo è parso evidente al momento del Brexit. I britannici hanno votato a favore dell’uscita della UE, dopo che David Cameron aveva convocato un referendum per difendere la permanenza nella UE (remain).
 
Il premier britannico è stato sostituito dall’esponente conservatrice Theresa May che è stata incaricata di negoziare con Bruxelles l’uscita dalla UE.
Obama o Clinton: arriva  Trump
Ancora peggio negli USA dove, in occasione delle presidenziali. il candidato indicato da Obama e da tutto l’establishment, Hillary Clinton veniva indicto come “vincente”, mentre il suo rivale, Donad Trump, veniva fatto oggetto di una campagna denigratoria da parte dei media.
 
Il nuovo presidente, eletto negli USA per assumere la il cambiamento nel paese, è stato Trump, cosa che non è stata apparentemente gradita dalle elites mondiali che si sono subito organizzate per neutralizzare i possibili effetti negativi della sua nomina.
Hollande ed il Front National in Francia
I livelli di popolarità raggiunti dal presidente della Repubblica francese Hollande sono caduti nel punto più basso della Storia costituendo un record di impopolarità. Hollande, pressato dai suoi, è stato costretto a scendere dal suo piedistallo di vanagloria ed ha dovuto rassegnarsi a rinunciare ad una sua candidatura. Fatto enorme nella storia politica francese.
 
In un paese in forte declino economico e con problematiche di sicurezza e di minacce terroristiche, grazie alla sconsiderata politica di Hollande, emerge il partito nazionalista ed identitario della Marine Le Pen, la leader del Front National che sconfessa le politiche globaliste e di subordinazione a Washington ed a Bruxelles tenute da Hollande.
La Le Pen raccoglie un mare di consensi fra le classi popolari e fra i ceti operai e dei piccoli produttori, infuriati cone la UE e con il governo pseudo socialista. A contrastare la Le Pen l’establishment francese ha predisposto la candidatura di una figura della destra conservatrice e globalista mascherata: Francois Fillon.
Matteo Renzi è l’ultimo caso
Un leader non eletto ma nominato dall’alto che si era presentato come” rottamatore” ma che in realtà era eterodiretto per fare le riforme che gli venivano richieste dai potentati finanziari transnazionali. La sinistra globalista non voleva ammettere un fatto che pure era sotto gli occhi di tutti: Renzi era stato un personaggio cooptato dall’alto in posizione di capo dell’esecutivo ed era restìo a osservare le regole, quelle dei post comunisti e dei post democristiani. Lui si sentiva forte e voleva esercitare un potere quasi assoluto, nel governo e nel partito.
Per ottenere quel potere e non dover rispondere a vari contrappesi, ha avuto la trovata che era sembrata geniale: riformare la Costituzione. In realtà anche quella era una decisione venuta dall’alto. Lui si è immedesimato ed è partito a testa bassa a fare promozione e propaganda per la sua riforma delle riforme.
Quello che una buona parte dei cittadini italiani hanno compreso è che la riforma costituzionale targata Renzi/Boschi era in realtà un marchingegno che, con il pretesto dell’efficientismo e della riduzione dei costi della politica, aveva la sua essenziale finalità nel togliere ogni residua sovranità al popolo e inserire la clausola della supremazia delle norme europee in Costituzione.
Una buona parte dei cittadini italiani hanno poi percepito l’insicurezza, l’invasione di migranti travestiti da profughi ed alloggiati in comodi alberghi, la miseria sempre più diffusa, l’affossamento del ceto medio, l’emigrazione dei giovani per mancanza di lavoro, l’eliminazione dei diritti e la folle politica di sudditanza dell’Italia alle direttive USA e della Comunità Europea (dominata dagli interessi della Germania), tutte conseguenze prodotte dai governi globalisti al servizio delle centrali di potere sovranazionali.
All’elenco dei trombati manca adesso solltanto la Merkel, la sola rimasta al suo posto ma arriverà anche il suo turno. Il malcontento nell’opinione pubblica tedesca cresce di settimana in settimana. Solo questione di tempo.
Le foto di gruppo della classe politica  globalista, gli Obama.gli Hollande, i Cameron, la Merkel ed i Matteo Renzi, rimarranno soltanto come un  ricordo sbiadito di una fase storica da dimenticare. Il tempo delle autocelebrazioni è ormai finito.
Dic 07, 2016
di  Luciano Lago