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VENERDÌ 19 GIUGNO 2020
“Viva gli sciagurati (per lo sciagurato OMS) napoletani” (Anonimo fiorentino)
Le squadre in partita
Da una parte il subimpero del sultano ottomano neo-islamista, padrino di tutto il terroristame che imperversa in Medioriente e Africa, con alle spalle l’impero tenuto in piedi dal Deep State statunitense con il corredo dei “progressisti” imperiali di Soros, di nascosto Israele e, ultimo arrivato, paradossalmente, l’Iran del “moderato” Rouhani, suo rivale in Siria e Iraq.
Dall’altra l’Egitto, maggiore potenza araba, Arabia Saudita, Emirati, il pezzo più significativo del mondo arabo, Bengasi e gran parte della Libia liberata dai jihadisti, la Russia che traccheggia, la Cina che simpatizza da molto lontano. Queste le forze che si fronteggiano oggi nella regione. Il che è individuabile al semplice osservare le mosse dei due opposti schieramenti, ma mistificato e reso ingarbugliato dai servizi mediatici offerti ai soliti attori preferiti.
L’Egitto come lo vorrebbero i suoi nemici
Regeni, la leva con cui sollevare il Medioriente
Si pensi al “manifesto”, arrivato a sostenere lo psicopatico guerrafondaio Bolton contro Trump, e al suo internazionalista “de sinistra” Alberto Negri. Antiamericano da vetrina, ma anche, all’uopo, antisaudita; detesta i turchi in quanto sterminatori di curdi (dichiarati “vincitori dell’Isis” al posto dei siriani, ed effettivi ascari antisiriani degli USA)), ma oggi come oggi, detesta di più al Sisi, da amico dei russi capovolto in “cocco di Trump”. Il suo condirettore, Tommaso Di Francesco, autonominatosi, nelle more dei giudici di Roma e del Cairo, PM, giudice e, domani, boia del presidente egiziano, dichiara Giulio Regeni “barbaramente fatto uccidere dai suoi servizi segreti”. Uno specialista di efficaci messaggi subliminati, questo Negri ex-Sole-24 Ore, come li definisce acutamente un mio amico. Del resto lo accredita nientemeno che Amnesty International. Chi oserebbe contraddire questa santa costola del Dipartimento di Stato?
Quell’Amnesty dei diritti umani sulla cui invenzione di una spia, Caesar, che attribuisce ad Assad qualcosa come 15mila assassinati in carcere (con foto di soldati siriani uccisi in combattimento!), Washington ha ora eretto la mannaia di ulteriori sanzioni genocide alla Siria, straziata da 9 anni, per impedire che mangino anche l’ultima pagnotta e ricevano anche solo il primo mattone per la ricostruzione. Poi, per la gioia dei nostri antifascisti con chiacchiera e distintivo, gli “Antifa” americani, nel quadro della rivolta fatta passare per antirazzista, ma coltivata dal Deep State, hanno creato a Seattle una “libera comune” intitolata a Idlib, quella degli invasori turco-terroristi, vista come avamposto dell’antifascista Erdogan.
L’iniziativa, grazie al poco pubblicizzato, ma evidente e decisivo sostegno diplomatico e jihadista del settore guerrafondaio USA (che, incidentalmente, come ovunque, coincide con quello coronavirale) è in mano al sultano della mezzaluna a stelle e strisce. Riempita la Libia di mercenari jihadisti e truppe corazzate, droni e aerei dell’esercito turco, è riuscito a mantenere in vita i presidi dei Fratelli Musulmani di Tripoli e Misurata, e a respingere l’Esercito Nazionale Libico, liberatore laico del resto della Libia.
Turchi ante portas
Presente con armi e bagagli in Yemen e Somalia, collaboratore dello sterminio di questi popoli a fianco dei regimi fantocci degli USA e a fianco, stavolta, dei sauditi nemici in Libia, ha poi invaso il nord dell’Iraq. Il pretesto, come per la Siria nordoccidentale, glielo hanno fornito i curdi. Incurante della sovranità di un paese che, grazie alle milizie popolari vincitrici dell’Isis, sta riguadagnando un minimo di autonomia e dignità, ovviamente col beneplacito degli occupanti USA, in difficoltà per i continui missili che i patrioti iracheni lanciano sulle loro basi.
Sul piano geopolitico, a queste offensive in terra e aria, ha aggiunto quelle sui mari, dove il nuovo subimpero ottomano si è assicurato, nell’attonita passività di tutti gli interessati, una striscia di mare tra Asia Minore e costa libica che vorrebbe in pratica porsi a difesa di tutto il petrolio e gas dell’immenso serbatoio mediterraneo.
Di fronte a questa davvero colossale operazione espansiva, a parte borbottii innocui di qualche cancelleria (pensate, noi abbiamo Di Maio!), non s’è mossa foglia mediatica, né sospiro dell’ONU, o della merkeliana UE. Neppure quando il turco s’è permesso di prendere a ceffoni l’Italia, cacciando con una nave da guerra dalle acque internazionali attorno a Cipro, il naviglio da ricerca dell’Eni. Neppure quando, il 18 giugno scorso, si è arrivati quasi allo scontro tra Turchia e Francia allorchè una fregata francese, in esercitazione Nato, è stata oggetto di una manovra al limite dell’aggressione da parte di una nave turca. Osservava l’operazione, con tranquilla indifferenza, una flottiglia civile turco-italiana, attiva sulle zone petrolifere.
Tutto questo configura una poderosa strategia offensiva del caposaldo Nato in Medioriente cui è ovviamente consentito dal capofila dell’Alleanza, dai suoi subordinati e dal finto opposto teocratico israeliano (da sempre cogestore del jihadismo terrorista e, anche per questo, intoccabile) di fare tutti i comodi suoi, purchè diretti contro chi anche all’Impero grande dà fastidio. In primis, l’Egitto.
Ma che, davvero l’Egitto…?
Ma che, davvero qualcuno pensava che si potesse lasciare l’Egitto, massima potenza storica, demografica, industriale, laica, della nazione araba, a costruirsi un futuro più influente, prospero e autonomo e a garantire tale condizione anche alla sorella Libia? E a fondare tale futuro prossimo sullo sfruttamento della ricchezza del più grande giacimento marino di idrocarburi del Mediterraneo, Zohr, davanti alle sue coste? Un giacimento affidato all’italiana ENI, alla faccia del branco di famelici pronti al balzo, proprio come Shell, BP, Exxon e le altre nel 1953, al tempo di Enrico Mattei e del nazionalizzatore del petrolio iraniano, Mohammed Mossadeq? Con quest’altro Mossadeq, Abdel Fattah al Sisi, portato alla presidenza da una sollevazione di popolo contro il Fratello Musulmano e amerikano Mohamed al Morsi e che poi, per stramisura, riesce ad aumentare gli introiti dello Stato raddoppiando in un anno il canale di Suez.
Cairo. Manifestazione contro Morsi
Visto questo scenario, come non chiedersi ciò che il buon Alberto Negri, campione di ambiguità geopolitica, e tutti i suoi affini non si chiedono? Se, cioè, questa realtà nel cuore del Mediterraneo, cuneo e transito tra Africa ed Europa, Asia e Atlantico non potesse destabilizzare l’egemonia, in corso di attuazione, dell’affidatario ottomano, in nome anche del suo ruolo di pilastro Nato numero uno nel mondo. Come non chiedersi la ragione di tanta passività, tanta tolleranza, di tutti gli altri interessati alla cornucopia mediterranea e come non rispondersi che, al di là dei rimbrotti politically correct, gli sta bene quello che Erdogan fa e ne sono tutti complici?
Compresi gli apostoli del povero Giulio Regeni “santo subito”. Per la centesima volta – e chi non vuole intendere, intende benissimo – io e molti altri riassumiamo la storia, ostinatamente dimenticata, dello sventurato giovane “ricercatore”. Viene addestrato negli Usa da ambienti dell’Intelligence, collaboratore della multinazionale dello spionaggio “Oxford Analytica”, diretta da John Negroponte (squadroni della morte in Nicaragua e Iraq), Colin McColl (ex-capo del MI6 britannico), e David Young (gestore del caso Watergate), mandato da una docente di Cambridge, rimasta muta dal giorno del ritrovamento del corpo, a installarsi nel covo di spie che è l’American University del Cairo.
Prova a contattare sindacati di opposizione, incappa in un agente governativo, non se ne rende conto, gli offre 10mila dollari per un “progetto” che s’illude di contrasto al “regime”, in questo modo si scopre ed è bruciato. Viene ritrovato nel fosso, torturato, nel giorno in cui la ministra dello sviluppo italiano dovrebbe firmare con Al Sisi accordi commerciali, oltre a quelli con l’ENI, per, se ben ricordo, più di 4 miliardi di euro. L’incontro e gli accordi italo-egiziani saltano. Altri subentrano.
Il più bravo nell’intelligence, il più cretino dei regimi? O il nuovo amico dei russi?
L’operazione Regeni, che, su ovvii suggerimenti di ovvii suggeritori, viene sussunta dall’intero arco costituzionale italico e diffonde i suoi virus anche tra i governi alleati, per quattro anni e per tutto il futuro prevedibile, ne ignora i dati. Però accredita un regime idiota e tafazziano, per quanto dotato della più agguerrita intelligence della regione, che avrebbe eliminato una zanzara, facendola poi ritrovare torturata, con il dito puntato al palazzo presidenziale e rimettendoci accordi di enorme vantaggio. Su questa base il moscerino cocchiero Alberto Negri, suoi affini in tutti i media, i consanguinei Amnesty e HRW, fanno un respiro profondissimo, strapieno di proliferanti virus e, come succede con le nostre mascherine, lo espirano e sparano contro Al Sisi e il suo Egitto. Che diventa il dittatore più sanguinario, quello che non deve difendere il suo paese da un’ aggressione dei cari Fratelli musulmani, sotto forma di terrorismo Isis che decima civili e istituzioni, ma che incarcera e tortura 60mila oppositori. 60mila conosciuti (da chi?), perché altri, in massa, spariscono.
Putin, Al Sisi
Naturalmente Regeni è solo il vessillo dietro al quale marciano gli ottomani e i loro complici, i gelosi dell’ENI, Israele, gli intolleranti nei confronti di qualsiasi ruolo arabo non allineato con i satrapi del Golfo (che di tortura s’intendono molto meglio: vedi gli schiavi massacrati nei lavori per i Mondiali di calcio nel Qatar), i sostenitori di una Libia in mano ai tagliagole di Misurata e ai trafficanti di migranti di Tripoli. E, soprattutto, un Egitto che si allontana dal fare il sussidiario dei suoi ex-colonizzatori e che naviga verso Mosca.
Chi è storicamente il più pratico di assassinii mirati?
Restano due domande. Come mai il Cairo non esce dalla tenaglia Regeni e denuncia il complotto? Difficile la risposta, ma neanche tanto. Uno, forse non ci sarebbero le prove e si scatenerebbe un altro uragano di accuse, calunnie, boicottaggi. Due, se è vero, come sembra, che entrano in ballo elementi destabilizzatori stranieri, denunciarli, magari con molti dannanti indizi, significa entrare in un gioco pericoloso di ritorsioni che comprometterebbe la posizione dell’Egitto nei suoi complicati equilibri per preservare agibilità geopolitica, coesione interna, indipendenza e pace. Per non farsi saltare subito addosso i veri responsabili della tragedia Regeni.
Russia e Cina, amici, ma a ragion veduta
“Datti da fare, compagno”
L’altra domanda: e la Russia? Sempre lì che tentenna, subisce, prova a rimediare, irresoluta. Illudendosi di portare dalla sua parte chi è ontologicamente legato all’imperialismo. Subisce in Siria tregue con Erdogan, il quale sistematicamente ne approfitta per rafforzare la presenza sua e di un’inenarrabile feccia terrorista in Idlib e sabotare ogni sforzo di liberazione dell’esercito siriano. Tace sulle ininterrotte incursioni israeliane che aggravano terribilmente il costo siriano dell’aggressione. Soffre, ma subisce anche, l’iniziativa dei turchi in Libia, sempre nel vano tentativo di mantenere i piedi in due staffe. Politica della seduzione alla quale il supposto sedotto risponde a calci da quelle parti.
Del resto, Mosca delude anche i suoi sostenitori, mai quelli andati in fissa con Putin, allineandosi all’Occidente anche nel modo demenzial-criminale di affrontare l’operazione globalista del Covid.19. C’è dentro anche la Cina, si sa. Può darsi che, alla lunga, nessuna classe dirigente rinunci alla possibilità di conquistare un potere assoluto e definitivo sul proprio popolo. Anche a rischio di distruggerlo, come il 5G cinese prospetta.
Noi, che proviamo a essere “follower” di Cartesio, nel confronto-conflitto con l’Occidente, ci schieriamo senza remora e in misura incondizionata a fianco di questi due paesi. Occidente coloniale, imperialista, neocoloniale, strutturalmente sadico guerrafondaio, che, in base a calcoli matematici, prima ancora di quelli morali, sta al “male assoluto”, di cui si vuole portatore il nazismo, come la bomba atomica sta ai V2. Ciò non ci impedisce di obiettare ai lockdown e alle altre misure disumane e totalitarie per un pericolo che è il topolino partorito dalla montagna. O per un 5G, che è la cosa più genocida mai progettata contro l’uomo, gli animali, le piante.
Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:19
Guido Viale
18.06.2020
Il 16 giugno la Corte dei conti dell’Unione Europea ha bocciato il progetto del Tav Torino-Lione: sballato (cioè falso) il preventivo dei costi, quasi raddoppiati rispetto al progetto iniziale; sballati i tempi di realizzazione (doveva essere completato nel 2015; ora nel 2029; ma non era nemmeno iniziato alla prima data né potrà essere completato alla seconda); sballate le previsioni di merci e passeggeri (cosa che fa del progetto un pozzo senza fondo); sballati soprattutto i benefici ambientali vantati: se le merci da trasportare fossero quelle (false) ipotizzate, si andrebbe in pari con le emissioni climalteranti solo al 2050; ma se fossero anche solo la metà i tempi di recupero raddoppiano.
Niente di nuovo: si sapeva già tutto. Lo sta mettendo in chiaro da ormai 30 anni, mano a mano che il progetto cambia e si precisa, il movimento NoTav della Valsusa, sostenuto da incontestabili pareri tecnici di gran parte dei trasportisti italiani; ma anche dalla Corte dei conti francese e perfino dalla bislacca analisi costi-benefici del prof. Marco Ponti, che pure era basata su assunzioni molto favorevoli al progetto, benché difficilmente sostenibili. Insieme al Tav Torino Lione la Corte ha bocciato sei (compreso il traforo del Brennero) degli otto progetti analizzati, tutti relativi al programma Ten-T (i cosiddetti “corridoi europei”) varato quasi trent’anni fa, contestualmente al trattato di Maastricht, e mandati avanti nonostante che sull’intero programma pesassero sempre nuovi pareri negativi.
Ma fra tutti, per la Corte, il progetto più negativo è proprio il Tav Torino-Lione. Prova evidente che la Commissione europea non si preoccupa se i soldi che distribuisce vengono sprecati. Ma non solo la Commissione. Neanche i paesi cosiddetti “frugali” (ma frugali solo a spese altrui, e da cui si è sfilata da poco la Germania), quelli che hanno mandato a fondo la Grecia e ora minacciano di farlo con l’Italia, e che pretendendo di controllare euro per euro i conti dei paesi che vogliono sottoposti alla loro sorveglianza, hanno mai trovato niente da ridire sullo spreco gigantesco rappresentato dal progetto del Tav Torino-Lione, che va avanti solo grazie ai soldi promessi dalla Commissione. Perché?
Perché in difesa e a sostegno di quel progetto sciagurato si è consolidato in Italia tutto il cosiddetto “partito del Pil”, che va dai sindacati confederali alle destre di Salvini, Meloni e Berlusconi, passando per Confindustria e “madamine SiTav”, ma che ha il suo pilastro portante nel Pd piemontese e nazionale; e che ha propri referenti anche all’estero, nelle associazioni industriali e nelle maggioranze di governo di quasi tutti i paesi dell’Unione. Viva le Grandi opere, anche se inutili e dannose; viva i Grandi eventi, anche se lasciano dietro di sé solo macerie e contribuiscono ad accelerare la catastrofe climatica e ambientale. Perché Grandi opere e Grandi eventi “fanno Pil”, anche se a spese dell’ambiente, delle comunità locali e del welfare nazionale. Non c’è altro modo di promuovere il “loro” sviluppo.
Ora l’Unione europea ha promosso un green deal, variamente intrecciato con i fondi per far fronte alla stasi produttiva del Covid-19. Che farne? Il partito del Pil ha pronta la risposta: Grandi opere! Tunnel, stazioni sotterranee, alta velocità, là dove non ci sono nemmeno i treni per trasportare pendolari e prodotti agricoli, autostrade per incrementare il traffico (anche se l’industria automobilistica langue e languirà per anni; o per sempre), porti per cargo che non navigano più da ben prima della pandemia, nuovi aeroporti anche se il traffico aereo è fermo e farlo riprendere vuol dire far precipitare la crisi climatica; e, naturalmente, Olimpiadi (invernali), anche se quelle estive di Tokyo sono andate a rotoli, trascinando con sé metà del paese. Non manca nemmeno il Ponte sullo Stretto!
Tanto il partito del Pil è sicuro di sé che, a suo nome, durante l’incontro di villa Pamphili, il nuovo presidente di Confindustria non si è nemmeno dilungato a illustrare il “loro” programma per la fase 3. Si è limitato a battere cassa: l’intendenza, cioè i “progetti”, la Grandi opere, seguiranno…
Mancavano a quell’incontro – con l’eccezione di un rappresentante (incatenato) delle centinaia di migliaia di misconosciuti e maltrattati lavoratori migranti, su cui l’azienda Italia ha costruito le sue (scarse) fortune – le forze con cui il partito del Pil, e non solo quello italiano, dovrà fare i conti non appena si riapriranno le piazze: innanzitutto il movimento NoTav dalla Valsusa e tutti i movimenti che in esso si riconoscono; poi i rappresentanti dei milioni di giovani di Fridays for future che non intendono farsi rubare il futuro da programmi così sciagurati; poi le donne di nonunadimeno, che hanno in mente ben altro: la cura della Terra; poi la voce di Francesco, che essendo un papa non ha al suo seguito divisioni corazzate, ma miglia di associazioni di laici e credenti impegnate anch’esse nella cura della casa comune. La partita è aperta.