La scissione dell’atomo. Riflessioni sulla sinistra più a destra del mondo

Un piccolo esempio dalle parole di un amico su FB:

E quindi,per arginare i “populismi” in Europa avete prima tifato prima un olandese che redarguiva il governo Monti perché ha creato pochi esodati, ne voleva qualche altro milioncino…

E oggi in Francia Macron ,iper eurocrate, che “consigliava ” all’Italia per contenere il debito un forte taglio alle pensioni e il prolungamento dell’età pensionabile (2012 ) Ma che belle persone..
Auguroni!


 
sotto segue art: Globalisti, sovranisti, nazionalistipopolo-sovrano
La scissione dell’atomo. Riflessioni sulla sinistra più a destra del mondo
 
Potrebbe sembrare un titolo provocatorio. Soprattutto considerata la matrice destrorsa di chi scrive. Ma così non è, dal momento che il sottoscritto si considera seguace della destra più a sinistra del mondo. Ricordo una frase di Almirante: «Se parliamo di Dio, Patria e Famiglia, non c’è nessuno più a destra di noi. Se parliamo di Stato Sociale, non c’è nessuno più a sinistra di noi.»
 
Ma lasciamo stare “quella” destra, e torniamo a “questa” sinistra, di cui oggi (scrivo queste note domenica mattina) si deciderà il destino. E – sia detto per inciso – insieme al destino del PD si deciderà il destino del sistema elettorale italiano: se si dovrà rimanere ancorati al sistema anglosassone dei grandi contenitori fungibili (centro-destra e centro-sinistra, repubblicani e democratici, conservatori e laburisti, eccetera); o se, invece, si dovrà prendere atto dell’anima pluralista (e proporzionalista) della democrazia italiana, muovendosi in direzione di aggregazioni omogenee e non di insalate miste, a sinistra come a destra.
Succeda quel che succeda, comunque, una cosa è certa: in quello che è il contenitore della pseudo-sinistra ufficiale, si è ormai raggiunto il limite massimo di sopportazione verso le politiche di estrema destra economica che hanno raggiunto l’acme con il Vispo Tereso: dall’abolizione dell’articolo 18 alle “tutele crescenti” del Jobs Act, dalla “buona scuola” alla gestione familistica delle crisi bancarie, dalla prosecuzione della funesta pratica delle privatizzazioni alle leggi elettorali liberticide, fino a quella assurda riforma costituzionale (strabocciata dagli elettori) che recepiva i “consigli” della J.P.Morgan e delle banche d’affari americane.
Certo, una parte non secondaria nell’esasperare la situazione l’ha anche avuta la presunzione, la prepotenza, la supponenza, l’arroganza, il padreternismo del ragazzo. È chiaro ed evidente che il Renzi ha gestito tutta la vicenda all’insegna del suo “Io” smisurato, da “Enrico stai sereno” in poi: le riforme scritte nel presupposto di essere sempre lui a vincere le elezioni, la promessa di lasciare tutto se fosse stato sconfitto al referendum, l’incredibile “abbiamo scherzato”, ed infine la pretesa di imporre la sua leadership al PD attraverso un congresso-lampo “cotto e mangiato”, anche a rischio di portare quel partito al tracollo elettorale.
 
Tutto questo ha di sicuro inciso sul redde rationem in atto. Ma – mi ripeto – a determinare la svolta drammatica di questi giorni è stato un altro fattore: la presa di coscienza che il partito erede del PCI persegue oggi una linea politico-economica che è oggettivamente di destra, di estrema destra. E non mi riferisco certo alla destra politica, quella che Almirante esaltava nella tutela dello Stato Sociale. Mi riferisco all’altra destra, alla destra economica, quella dei Rotschild e di Wall Street, quella della BCE e del Fondo Monetario Internazionale, quella del debito pubblico e della speculazione finanziaria, quella della globalizzazione e delle privatizzazioni, quella delle pensioni “contributive” e dell’addio al posto fisso, quella della riduzione della spesa pubblica e del massacro sociale.
Orbene, è a questa destra bieca, retrograda, antipopolare che la sinistra italiana si è sottomessa e allineata. Ma – a
ttenzione – questo è un processo che è iniziato ben prima di Matteo Renzi. Il ragazzotto toscano è soltanto il tragico punto d’arrivo di una abiura che viene da lontano: almeno dagli anni ’70, quando i “miglioristi” di Giorgio Napolitano teorizzavano la “moderazione salariale” in funzione anti-inflattiva, quando si buttavano al macero decenni di cultura gramsciana e li si sostituiva con l’intellettualismo radical-chic di “Repubblica” e della spocchia scalfariana.
Andazzo che aveva una brusca impennata con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, quando la classe dirigente del PCI si convinceva dell’ineluttabile trionfo del capitalismo anglosassone e si apprestava a montare sul carro del vincitore. Nel 1991 Achille Occhetto gestiva il congresso che segnava lo scioglimento del PCI e la nascita di un Partito Democratico della Sinistra che avrebbe dovuto «unificare le forze di progresso».
 
Ed eccole le forze di progresso, prodighe di smorfiette e pacche sulle spalle per quella “grande forza democratica” che si apriva alla modernità, alla moderazione e, in una parola, al mercato. I “progressisti” che facevano gli occhi dolci ai comunisti pentiti erano quelli delle ali sinistre di DC e PSI, quelli che, dopo aver tenuto a battesimo la privatizzazione del sistema bancario italiano (con Andreatta nel 1981 e con Amato nel 1990), volevano sbolognarsi adesso anche la grande, preziosa industria pubblica del nostro Paese. Il guru della alienazione dei beni pubblici era un giovane virgulto della loro serre: Romano Prodi, allievo prediletto di Beniamino Andreatta, che sarà il dominus incontrastato delle privatizzazioni nella sua qualità di Presidente dell’IRI (1982-89, poi 1993-94). Prodi aveva tutte le carte in regola per fare carriera in uno schieramento della più ortodossa destra economica: a parte i numerosi incarichi ministeriali, sarà consulente della Goldman Sachs (1990-93 e poi dopo il 1997), e financo amico di quello stramiliardario Georges Soros che, con un attacco speculativo mirato, aveva messo in ginocchio la lira italiana nel 1992. Quello stesso Soros – sia detto tra parentesi – a cui il prof. Prodi propizierà poi una laurea honoris causa dall’università di Bologna (1995).
 
Ebbene, era proprio a Romano Prodi che il PDS (di cui era frattanto divenuto segretario Massimo D’Alema) si rivolgeva nel 1995 per chiedergli di capitanare l’alleanza di tutte le sinistre contro l’odiato Berlusconi. Nasceva così l’Ulivo (PDS + Margherita democristiana) che andava a vincere le elezioni del 1996. Prodi diventava Presidente del Consiglio, con i brillanti risultati che si ricordano.
 
Ammaliato dalla travolgente esperienza politica dell’Ulivo, il PDS faceva un altro passo verso la socialdemocratizzazione: cambiava ancora nome, si trasformava in DS, Democratici di Sinistra, e si affidava alla guida illuminata di Walter Veltroni, il più “amerikano” dei compagni, quello del ”Yes we can” (1998).
 
Poi – tutti insieme appassionatamente – DS, Margherita e Ulivo si scioglievano e confluivano nell’ultima creatura: il PD, Partito Democratico, stesso nome del fratello maggiore americano (2007).
Il resto è storia recente, fino all’arrivo del Vispo Tereso (dicembre 2013) ed ai suoi trionfi. La Sinistra, intanto, è andata dispersa. Prossimamente – forse – se ne occuperà “Chi l’ha visto?”.
 
P.S. Per una singolare coincidenza, mentre il PD marcia – forse – verso la scissione, alla sua sinistra nasce un’altra formazione politica, Sinistra Italiana. Si tratta di una iniziativa “di nicchia”, ma certamente di una iniziativa seria. Non credo, invece, che altre proposte – come quella di Pisapia – abbiano molto da dire al “popolo della sinistra”.
 
 
di Michele Rallo – 26/02/2017
Fonte: Michele Rallo
Globalisti, sovranisti, nazionalisti
In realtà le cose per me sono piuttosto semplici, e passano per l’idea di uno Stato che intervenga nei processi economici a fini di giustizia sociale. Da una parte ci sono i globalisti, dall’ altra i sovranisti. Tra i globalisti possono annidarsi perfino dei nazionalisti, i quali possono sì cavalcare il tema del ritorno ad una maggiore sovranità nazionale degli stati con più o meno forza e declinare quello del protezionismo con diverse sfumature, ma fondamentalmente non sono contro l’ idea che il capitale possa (anzi, in qualche caso: debba, perfino) circolare liberamente (cosa che alla fine limita moltissimo la sovranità nazionale; basti pensare, solo per fare un esempio, al tema delle politiche fiscali) e, insomma: a loro della sovranità popolare e soprattutto della giustizia sociale non importa proprio un fico secco, perché il più delle volte si tratta solo di liberisti appena un po’ più moderati di quegli altri. Guai però a dire che lo Stato debba tornare a dirigere i processi economici (come nei Trenta gloriosi), per carità, vade retro! Per loro, lo Stato è sempre la Bestia da affamare, e il suo ruolo in economia è molto limitato: al massimo, potrà intervenire per «correggere le “disfunzionalità” dei mercati e la rigidità di strutture di prezzo troppo complicate che bloccherebbero la scelta del consumatore» (testuale da un discorso del primo ministro inglese May, che in un’altra occasione ha auspicato che dopo la Brexit il proprio paese diventi ancora più “globale”). Ordo-liberismo puro, o quasi (l’ideologia dell’UE senza l’UE).
I sovranisti, invece, sono contro la globalizzazione liberista “senza se e senza ma”; sono per limitare fortemente la libera circolazione di capitali, merci, servizi e forza lavoro, perché hanno a cuore la giustizia sociale. Sono autenticamente democratici, perché sanno molto bene che l’unico modo per legittimare il potere è quello di fare in modo che coincida con la sovranità popolare, e al tempo stesso hanno capito molto bene che la sovranità popolare non è possibile senza la sovranità nazionale; quindi, non sono nazionalisti ma patrioti.
di Luca Russi – 26/02/2017 Fonte: Appelloalpopolo

Contro la sinistra globalista

populismo=frontiere chiuse=danni economici per il capitalismo
Populismo=terzo stato spalleprotezionismo=anticapitalismo=fascismo=nemico nr 1
Ergo: nuovo ordine compagni combattere il populismo IN DIFESA DEL CAPITALISMO/IMPERIALISMO/COLONIALISMO GLOBALE
 

I teorici operaisti italiani di matrice “negriana”, che trovano spazio sulle colonne del giornale “Il Manifesto”, detestano la sinistra che scommette su quelle lotte popolari che mirano alla riconquista di spazi di autonomia e sovranità, praticando il “delinking”. Ma così facendo diventano l’ala sinistra del globalismo capitalistico.
Correva l’anno 1981 quando il Manifesto recensì il mio primo libro (“Fine del valore d’uso”). Era una stroncatura che non ne impedì il successo e, alla lunga, risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore. Quel breve saggio, uscito nella collana Opuscoli marxisti di Feltrinelli, analizzava infatti gli effetti delle tecnologie informatiche sull’organizzazione capitalistica del lavoro e, fra le altre cose, prevedeva – cogliendo con notevole anticipo alcune tendenze di fondo – che la nuova rivoluzione industriale avrebbe drasticamente ridotto il peso delle tute blu nei Paesi occidentali, favorendo i processi di terziarizzazione del lavoro, e avrebbe consentito un massiccio decentramento della produzione industriale nei Paesi del Terzo mondo.
Il recensore (di cui non ricordo il nome) liquidò queste tesi come una ridicola profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è andata a finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al ruolo che il Manifesto svolgeva a quei tempi, ospitando un confronto alto fra le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua capacità di assolvere a questo compito si è decisamente appannata, eppure una caduta di livello come quella della “recensione” che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro (“La variante populista”, DeriveApprodi) fa ugualmente un certo effetto. Ho messo fra virgolette la parola recensione, perché – più che di questo – si tratta di una tirata ideologica contro i populismi – etichettati come protofascisti – che incarna il punto di vista d’una sinistra “globalista” schierata al fianco del liberismo “progressista” contro questo nemico comune.
Ma torniamo al libro: anche in questo caso l’intenzione è stroncatoria, ma la disarmante superficialità con cui ne vengono criticate le tesi stride con il notevole spazio dedicato all’impresa: una pagina intera per liquidare un saggio che viene definito confuso, contraddittorio e pretenziosamente ambizioso!? Non sarebbe bastato un colonnino o, meglio ancora, non era semplicemente il caso di ignorarlo? Evidentemente, c’è chi giudica le mie idee pericolose al punto da giustificare tanto impegno, peccato che il “killer” non si sia dimostrato all’altezza del compito, limitandosi a stiracchiare quattro ideuzze che avrebbero potuto stare comodamente in venti righe. Mi sono chiesto se valesse la pena di spendere energie per replicare visto che, da quando è uscito il libro, ho ricevuto tali e tanti attacchi –  e insulti – che ormai mi rimbalzano. Alla fine ho deciso di farlo, perché ritengo che le quattro ideuzze di cui sopra incarnino una visione che merita di essere duramente contrastata.
Prima ideuzza: Formenti è cattivo, insiste nell’adottare quello stile corrosivo della polemica politica che è sempre stato – da Marx in avanti – tipico di una certa sinistra anticapitalista, ma questa modalità reattiva (tornerò fra poco sul senso di tale aggettivo) “col passare del tempo” (stiamo parlando di mode letterarie?) ha finito per “prendere di aceto”. Analoga accusa mi era stata rivolta tre anni fa da Bifo, a proposito di un precedente lavoro (Utopie letali): Formenti è “antipatico”, fa le pulci a tutti e così via. È una critica che esprime bene la visione di quei seguaci della “svolta linguistica” che rifiutano apriori la possibilità/necessità di difendere la “verità” di un punto di vista di parte (di classe, politico, culturale): per costoro il conflitto non è mai ontologico, oppone solo opinioni, punti di vista soggettivi, “narrazioni” che non competono per il potere ma per “informare” di sé il mondo (è la concezione “debole” dell’egemonia gramsciana, tipica dei cultural studies angloamericani).
Seconda ideuzza: a questa modalità reattiva del discorso, corrisponde una pratica politica fondata sul rancore e sul risentimento che “sono il contrario esatto di ogni attitudine costituente”. Purtroppo Bascetta non ci illumina su quale dovrebbe essere questa “attitudine costituente”, in compenso ci fa capire: 1) che l’odio di classe e il rancore per i torti subiti sono incompatibili con qualsiasi progetto di trasformazione sociale; 2) che chi crede perfino di poter indicare i colpevoli dei torti in questione è destinato a finire nelle braccia dei demagoghi fascisti. Questo doppio passaggio è denso di significati impliciti: sul piano filosofico, implica l’abbandono della prospettiva marxista in favore di quella nietzschiana (da cui le pippe contro il risentimento e la natura reattiva dell’odio sociale), sul piano politico implica la negazione dell’esistenza stessa di un nemico di classe (effetto di un foucaultismo sui generis che neutralizza il conflitto fra soggettività antagoniste, sostituendolo con un percorso di autonomizzazione/autovalorizzazione).
 
Ma perché la visione antagonista del conflitto sarebbe destinata a portare acqua al mulino dei fascisti? Perché – terza ideuzza – chi ne è sedotto è portato ad affidare il proprio riscatto alla figura di un redentore, a un capo carismatico. Ergo, il populismo è un incubatore del fascismo.
Nei giorni precedenti il Manifesto aveva pubblicato un interessante dossier su Podemos, seguito da un bell’articolo di Loris Caruso sul congresso di Vistalegre; invece nell’articolo di Bascetta non vengono fatte sostanziali distinzioni fra populismi di destra e di sinistra, al punto che, anche se ciò non viene esplicitamente detto, il lettore potrebbe dedurne che Trump e Sanders, Marine Le Pen e Podemos, Alba Dorata e M5S vanno considerati tutti sullo stesso piano, a prescindere dalle loro differenze (ivi compreso il ruolo diverso giocato dai rispettivi leader). Del resto, Bascetta si guarda bene dal discutere la mia analisi critica delle teorie sul populismo di Laclau e Mouffe, nonché il mio tentativo di reinterpretarle alla luce sia delle categorie gramsciane di egemonia, blocco sociale, guerra di posizione, ecc. sia delle esperienze pratiche della rivoluzione boliviana, di Podemos, e della campagna presidenziale di Sanders.
Insomma: i rancorosi e gli odiatori, quelli che oppongono alto e basso, popolo ed élite, che cercano a tutti costi il nemico (che se la prendono con le banche, con le multinazionali e con le caste politiche che ne gestiscono gli interessi), quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando le disiecta membra di un corpo sociale fatto a pezzi dalla ristrutturazione e dalla finanziarizzazione capitalistiche, invece di godersi la libertà individuale e i diritti civili che la civiltà ordoliberista ci regala (o meglio, regala a un’esigua minoranza di “cognitari” e ai suoi intellettuali organici) non sono altro che una massa indifferenziata di bruti, un popolo bue (“demente” lo ha definito Bifo, riferendosi agli operai e alla classe media impoverita che ha votato Trump in America e Brexit in Inghilterra) pronto a militare sotto le insegne del “nazional operaismo” (altra definizione coniata da Bifo).
A questo punto manca solo di prendere in esame la quarta e ultima ideuzza, quella relativa all’apologia del globalismo contro le mie tesi sul conflitto fra flussi e luoghi. Ma prima ritengo utile riprendere alcune recenti riflessioni di Nancy Fraser sulle responsabilità delle sinistre “sex and the city”.
 
Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, scrive la Fraser riferendosi alle elezioni americane e alla Brexit, <<questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi>>.
Ma la vittoria di Trump, aggiunge, <<non è solo una rivolta contro la finanza globale. Ciò che i suoi elettori hanno respinto non era il neoliberismo tout court, ma il neoliberismo progressista>>. Ed ecco la definizione che dà di questo termine: <<Il neoliberismo progressista è un’alleanza tra correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ), da un lato, e settori di business di fascia alta “simbolica” e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley, e Hollywood), dall’altro>>.
 
Attraverso questa alleanza, scrive ancora facendo eco alle tesi di Boltanski e Chiapello (“Il nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis) , le prime prestano involontariamente il loro carisma ai secondi: <<Ideali come la diversità e la responsabilizzazione, che potrebbero in linea di principio servire scopi diversi, ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e quelle che un tempo erano le vite della classe media>>.
In questo modo l’assalto alla sicurezza sociale è stato nobilitato da una patina di significato emancipatorio e, mentre le classi subordinate sprofondavano nella miseria, il mondo brulicava di discorsi su “diversità”, “empowerment,” e “non-discriminazione.” L’”emancipazione” è stata identificata con l’ascesa di una élite di donne, minoranze e omosessuali “di talento” (la “classe creativa” celebrata da Richard Florida e dagli altri cantori della rivoluzione digitale) nella gerarchia dei vincenti. <<Queste interpretazioni liberal-individualiste del “progresso” gradualmente hanno sostituito le interpretazioni dell’emancipazione più espansive, anti-gerarchiche, egualitarie, sensibili alla classe, anti-capitaliste che erano fiorite negli anni ’60 e ’70>>.
 
Ma nemmeno dopo che il Partito Democratico ha scippato la candidatura a Sanders, spianando la strada alla vittoria di Trump, questa sinistra ha aperto gli occhi: continua a cullarsi nel mito secondo cui avrebbe perso a causa di un “branco di miserabili” (razzisti, misogini, islamofobi e omofobi) aiutati da Vladimir Putin (sulle differenti interpretazioni delle cause della vittoria di Trump, vedi il corposo dossier curato da Infoaut). Nancy Fraser li invita invece a riconoscere la propria parte di colpa, che è consistita <<nel sacrificare la causa della tutela sociale, del benessere materiale, e della dignità della classe lavoratrice a false interpretazioni dell’emancipazione in termini di meritocrazia, diversità, e empowerment>>.
Invito inutile: Bascetta e soci sono ben lontani dal recitare un simile mea culpa. Se lo facessero, dovrebbero accettare l’invito di Nancy Fraser a riconoscersi nella campagna contro la globalizzazione capitalista lanciata dal populista/socialista Sanders. Vade retro!
Per costoro i discorsi sulla necessità che popoli e territori lottino per riconquistare autonomia e sovranità praticando il “delinking” (ricordate Samir Amin: anche lui fascista?) dal mercato globale, sono eresie “rossobruniste”.
 
Questo perché sono incapaci di distinguere fra mondializzazione dei mercati (che è una caratteristica immanente del capitalismo fin dalle sue origini) e globalizzazione, che è la narrazione legittimante (curioso errore per chi vede solo narrazioni…) su cui si fonda l’egemonia ordoliberista; per cui non riescono nemmeno a vedere la crisi della globalizzazione – della quale il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera invita a prendere atto  in un suo recente articolo mentre Toni Negri ne ha negato l’evidenza in una penosa intervista televisiva. Una cecità che arriva al punto di paragonare (vedi l’ultima parte del pezzo di Bascetta) l’apprezzamento di Sanders nei confronti del ripudio dei trattati internazionali TTIP e TTP da parte di Trump, e quello di Corbyn nei confronti della Brexit, al voto dei crediti di guerra da parte dei partiti socialisti della Prima Internazionale (sic!).
Che altro aggiungere? Mi aspetto a momenti la loro adesione al manifesto con cui Zuckerberg si candida a leader dell’opposizione liberal a Trump e a punto di riferimento del globalismo dal volto umano (a presidente dell’umanità ha ironizzato qualcuno). Un Impero del Bene hi tech e ordoliberista che non mancherà di piacere alle élite cognitarie. Viste le premesse, potremmo perfino vederli inneggiare all’annunciato ritorno di Tony Blair, che minaccia di sfidare Corbyn per rianimare il New Labour e, perché no, aderire alla campagna promossa da media mainstream, caste politiche ed élite finanziarie contro le fake news veicolate dalla Rete infiltrata dai populisti. Così il politically correct assurgerà definitivamente a neolingua e quelli che, come il sottoscritto, spargono l’aceto della polemica, verranno finalmente messi a tacere.
di Carlo Formenti – 24/02/2017 Fonte: Micromega

Distruggete i populisti e salvate la globalizzazione!

globalizzazioneAlcuni articoli sono rivelatori. Uno di questi lo ha pubblicato La Stampa, lo scorso 15 febbraio, a firma di Charles A. Kupchan. E voi direte: chi è? Semplice: è uno dei principali pensatori dell’establishment americano. Docente di affari internazionali alla Georgetown University e membro del Council on Foreign Relations, dal 2014 al 2017 è stato assistente speciale per la Sicurezza nazionale del presidente Barack Obama. Tanto per intenderci.
Uno dei pochi ad aver colto l’importanza di questo articolo è stato il sito di analisi Piccole Note, secondo cui ci troviamo di fronte a un Manifesto della Controrivoluzione globale.
Kupchan, da intellettuale di rango, analizza il successo della Brexit e di Trump, a mio giudizio correttamente.
In lotta per guadagnare un salario di sussistenza, a disagio con la diversità sociale alimentata dall’immigrazione, e preoccupati per il terrorismo, un numero considerevole di elettori delle democrazie occidentali ha la sensazione di aver tutto da perdere dalla globalizzazione – e vuole abbandonarla. Giusto. La legittima rabbia di questi elettori rende chiaro che i nostri sistemi politici post-industriali non hanno fatto abbastanza per gestire la globalizzazione e garantire che i suoi benefici fossero condivisi più ampiamente nelle nostre società. Qualunque cosa si pensi di Donald Trump, la sua ascesa rivela che c’è un disperato bisogno di riformulare il patto sociale che sostiene il centrismo democratico e il sostegno popolare a un ordine liberale internazionale.
Il punto, secondo Kupchan, è che Trump e i populisti non sono in grado di rispondere a tale necessità. E dunque occorre porre rimedio alla loro vacuità programmatica onde scongiurare il rischio che la Pax Americana e la Pax Britannica, che hanno fornito le basi dell’attuale mondo globalizzato, naufraghino definitivamente. Già, ma come?
E qui il discorso diventa davvero interessante.
In primo luogo, i centristi di tutte le convinzioni politiche devono unirsi per offrire un nuovo patto sociale che rappresenti un’alternativa credibile alle false promesse economiche dei populisti.
 
Kaplan parla di “nuove iniziative in materia di istruzione, formazione professionale, politica commerciale, politica fiscale e minimi salariali“. Sapendo però che
 
“la globalizzazione è destinata a durare. Ma la disomogeneità dei suoi effetti distributivi dev’essere affrontata per il bene della politica democratica.
 
Seguiamo il suo ragionamento e veniamo al secondo punto, leggetelo con attenzione:
 
Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati.
E tenetevi forte sul terzo:
Se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale.
Cosa vuol dire tutto questo? Traduco:
1) L’élite che da quasi 30 anni promuove la globalizzazione ha individuato correttamente le radici del problema ma non ha alcun progetto credibile su come risolverlo. Le idee abbozzate da Kupchan potrebbero essere bollate, a loro volta, come “populiste” per la loro vacuità e nascondono una contraddizione per ora insanabile. In un passaggio, l’ex consigliere di Obama scrive che “i posti di lavoro che stanno diminuendo di numero soprattutto per l’automazione, non a causa del commercio estero”. Ma se questo è il problema: come pensano di risolverlo? Mistero.
2) Kupchan invoca le istituzioni. Scusate, ma non capisco: non sono stati proprio gli ambienti transnazionali a promuoverne scientemente lo sradicamento a livello nazionale e, contestualmente, il trasferimento di poteri a quelle sovranazionali? Non è paradossale che a invocare i “contrappesi istituzionali” siano coloro che li hanno screditati e talvolta vanificati?
Ben più significativa è l’affermazione successiva: Cosa vuol dire che “i media, l’opinione pubblica e l’attivismo (…) devono essere pienamente adoperati?” Notate bene che Kapchan non parla di “alcuni media” o di “testate sulle nostre posizioni” ma di media, di opinione pubblica in senso assoluto, e usa il termine “adoperare”, come se l’establishment a cui appartiene avesse il potere di orientare l’insieme dei media.
Scusate – si potrebbe e si dovrebbe obiettare – ma non siamo in democrazia? La stampa non è libera? In teoria sì ma di fatto il mainstream è ormai sinonimo di conformismo, che a tratti sfocia nel pensiero unico. Anche in Occidente. Tema che chi legge questo blog conosce bene, obiettivo che si ottiene ricorrendo alle tecniche di spin che descrivo da 10 anni (vedi il saggio “Gli stregoni della notizia Da Kennedy alla guerra in Iraq. Come si fabbrica informazione al servizio dei governi”).
 
La novità è che tali tecniche venivano usate per sostenere i governi, a cominciare dalla Casa Bianca. Ora apprendiamo che possono essere usate anche contro di essa se il presidente, come Trump, non è gradito, sebbene legittimamente eletto.
E lo stesso vale per il riferimento all’attivismo ovvero a quei movimenti delle masse improvvisi e insistenti, che evidentemente non sono frutto di una spontanea presa di coscienza delle folle, ma di attente regie che, sfruttando metodi ben noti agli specialisti, raggiungono l’effetto voluto. Al riguardo segnalo l’ottimo saggio del giornalista del Tg5 Alfredo Macchi Rivoluzioni s.p.a. Chi c’è dietro la primavera araba.
Metodi che finora venivano impiegati fuori dai Paesi occidentali, ad esempio incentivando le Rivoluzioni colorate, ma Kupchan afferma che debbano essere utilizzate anche negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali.
Il messaggio implicito complessivo è inquietante: “Possiamo usare i media e le masse contro i populisti”. E lo stanno già facendo.
3) Stupefacente è la terza ammissione. Essendo la Casa Bianca e Downing Street fuori controllo, deve essere l’Unione europea a difendere la globalizzazione. E allora si spiega perché il fidatissimo e duro Shulz si candidi a Berlino, con l’obiettivo di scalzare una Merkel in fase calante, troppo debole. E si capisce perché si suggerisca all’impresentabile presidente della Commissione europea Juncker di farsi da parte per lasciare spazio a un falco come il finlandese Jyrki Katainen.
 
Ma ancora una volta emerge una contraddizione: l’impopolarità dell’Unione europea, alimentata da politiche così rigide da sfociare nell’ottusità, rappresenta una delle ragioni del successo dei movimenti populisti. Come può un Moloch come la Ue (e sul suo liberalismo sorvoliamo…) costituire il fulcro in difesa degli interessi globalisti e al contempo diventare il promotore del cambiamento per riconquistare una classe media impoverita e arrabbiata?
Insomma, l’analisi è corretta, gli obiettivi sono chiari – vogliono salvare la globalizzazione – ma senza il sostegno di riforme credibili e convincenti. Chiara invece è la determinazione nel voler distruggere l’onda “populista” e di fermare Trump, anche ricorrendo a metodi, che vanno oltre la normale dialettica politica.
Andiamo bene.
di Marcello Foa – 26/02/2017 – Fonte: Marcello Foa

“Ho perso 97mila dollari per colpa tua”: le accuse del driver al fondatore di Uber


Non è decisamente un buon periodo per protesta-tassisti-taxi-uber co-fondatore e attuale amministratore delegato di Uber: al di là dei problemi che il suo servizio di “noleggio” di auto con conducente sta avendo in Europa, negli Stati Uniti ci sono state molte polemiche sulla sua decisione di fare parte dei consulenti del presidente Trump , oltre a molte cause da parte di autisti e aziende concorrenti.
La notte dello scorso febbraio, Kalanick si trovava a Houston, aveva appena assistito al Super Bowl di football americano ed era in compagnia di due amiche quando ha utilizzato la sua app per chiamare un’auto del servizio Uber Black e farsi riportare a casa. A prenderlo è arrivato il 37enne Fawzi Kamel, che lavora per Uber dal 2011 e come molti (taxisti o autisti di auto a noleggio) ha installato all’interno dell’abitacolo una piccola telecamera per tenere sotto controllo quello che succede nell’auto. Con cui ha ripreso la discussione col suo datore di lavoro.
 
Arrivati a destinazione, dopo che le sue amiche sono scese dall’auto, Kalanick saluta quello che è a tutti gli effetti un suo dipendente, che non si lascia sfuggire l’occasione di un confronto col “capo”: «Non so se si ricorda di me», gli dice, incominciando a parlargli di com’è davvero la vita di un conducente di Uber, di come sia difficile fare quadrare i conti, accusandolo di averli messi in difficoltà. Kalanick si difende, ammette che il 2016 è stato un anno difficile, promettendo un taglio del numero di “black car” in circolazione nelle città, così da ridurre la concorrenza fra autisti e (possibilmente) aumentare i loro guadagni.
A Kamel non basta, e gli animi si scaldano: «Ci hai chiesto di fornire un servizio migliore – dice – ma contemporaneamente di abbassare le tariffe. Stai regalando le corse». Kalanick prova a giustificarsi: «Dovevamo farlo, c’è un sacco di concorrenza, ci avrebbero tagliato fuori dal mercato». La replica è chiara e durissima: «Quale mercato? Il mercato era tuo, l’avevi creato tu, avresti potuto applicare le tariffe che volevi, invece hai scelto di regalare le corse ai clienti».
Il riferimento dell’autista è al modello di business di Uber, che secondo molti non starebbe in piedi , perché il prezzo pagato dai clienti basterebbe a pagare appena il 40-50% di una corsa, con il resto “coperto” da investitori privati, che stanno versando soldi nelle casse dell’azienda a fondo perduto. Ma che presto potrebbero smettere di farlo, rischiando di mandarla a gambe all’aria.
 
La conversazione prosegue, e davanti a un esterrefatto Kalanick, Kamel alza il tiro: «Non ci fidiamo più di te – gli dice – La gente non si fida più di te, io ho perso 97mila dollari per colpa tua (probabilmente fra i costi delle corse e l’acquisto dell’auto usata per lavorare, ndr), ho fatto bancarotta per colpa tua». È a quel punto che Kalanick perde la pazienza: «Str…», dice, prima di avvicinarsi alla portiera della macchina per scendere, aggiungendo che «il problema è che la gente non si prende le responsabilità per quello che fa, provando a dare agli altri la colpa dei suoi errori. Buona fortuna, amico!». Ieri, dopo che Bloomberg ha diffuso il video della conversazione fra lui e l’autista, Kalanick ha provato a fare una piccola retromarcia: «Quelle critiche mi hanno fatto capire che devo crescere come leader, ho bisogno di farmi aiutare nella guida dell’azienda, devo maturare».
 
Chissà come l’ha presa Kamel, che comunque, come succede per ogni corsa di Uber, ha avuto la possibilità di dare un voto al suo passeggero (così come il passeggero può fare con lui): a Kalanick ha assegnato una stella, il minimo. Ovviamente.
 
Ieri, dopo che Bloomberg ha diffuso il video della conversazione fra lui e l’autista, Kalanick ha ammesso di aver esagerato, in una dichiarazione inviata a tutti i dipendenti: «Ho trattato Fawzi in maniera irrispettosa, me ne vergogno e mi scuso con lui. Quelle critiche mi hanno fatto capire che devo cambiare e crescere come leader, che ho bisogno di farmi aiutare nella guida dell’azienda e devo maturare. Ed è quello che ho intenzione di fare».
Pubblicato il 01/03/2017
Ultima modifica il 01/03/2017 alle ore 12:45
 
emanuele capone

L’allarme di Brzezinski sul risveglio sociale

ooh ma che guaio questo populismo e sti popoli con la fissa di voler decidere il proprio destino….Loro sono l’elités, sanno quello che è meglio per il popolo….perché mai sto popolo vorrebbe decidere….

Zbigniew-BrzezinskiLa presa di consapevolezza collettiva e i social network sono una minaccia per lo sviluppo dell’agenda globale… Durante un recente discorso in Polonia, l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski e massimo guru del “Nuovo Ordine Mondiale” e della necessità di “drogare i popoli con il tittainment” (succhiare latte dalle mammelle), una versione moderna della massima imperiale romana “ludi et circenses” per soffocare le istanze dei popoli -ha avvertito i colleghi elitisti che un movimento mondiale di “resistenza” al “controllo esterno” guidata da “attivismo populista” sta minacciando di far deragliare la transizione verso un nuovo ordine mondiale.
Definendo l’idea che il 21 ° secolo è il secolo americano “una disillusione condivisa”, Brzezinski ha dichiarato che il dominio americano non è più possibile a causa dell’accelerazione del cambiamento sociale guidato da “comunicazioni di massa istantanee come la radio, la televisione e Internet”, che hanno stimolato un crescente “risveglio universale della coscienza politica di massa.”
L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ha aggiunto che questo “aumento in tutto il mondo dell’attivismo populista sta dimostrando ostile alla dominazione esterna del tipo che ha prevalso nell’età del colonialismo e dell’imperialismo.”
Brzezinski ha concluso che “la resistenza populista persistente e fortemente motivata di coscienza politica e dei popoli risvegliati e storicamente avversi al controllo esterno ha dimostrato di essere sempre più difficile da eliminare.”
Anche se Brzezinski ha commentato in tono neutro, il contesto in cui ha parlato, unitamente alle sue precedenti dichiarazioni, indicherebbe che questa non è una celebrazione della “resistenza populista”, ma una perplessità per l’impatto che questo sta avendo sul tipo di “controllo esterno” che Brzezinski ha sostenuto più volte.
Queste considerazioni sono state effettuate a un evento per il Forum europeo per le nuove idee (EFNI), un’organizzazione che sosterrebbe la trasformazione dell’Unione europea in un anti-democratico federale superstato, il tipo stesso di “controllo esterno” a cui messa in pericolo è stata sottolineata da Brzezinski durante il suo speech.
In questo ambito, bisogna comprendere che l’argomentazione di Brzezinski sulla “resistenza populista” di notevole ostacolo per l’imposizione di un nuovo ordine mondiale è da interpretare più come un avvertimento che come riconoscimento/celebrazione.
Tieni anche in considerazione ciò che Brzezinski ha scritto nel suo libro Between Two Ages: il ruolo dell’America nell’era tecno-digitale, in cui ha sostenuto il controllo delle popolazioni da parte di una classe politica tramite la manipolazione digitale.
“L’era digitale comporta la comparsa graduale di una società più controllata. Una tale società sarebbe dominata da una élite, libera da valori tradizionali. Presto sarà possibile esercitare una sorveglianza quasi continua su tutti i cittadini e mantenere file completi ed aggiornati che contengono anche le informazioni più personali di ogni cittadino. Questi file potranno essere accessibili in realtime da parte delle autorità “, ha scritto Brzezinski.
 
“Nella società digitale la tendenza sembra essere verso l’aggregazione dei supporti individuali di milioni di cittadini non coordinati, facilmente alla portata di personalità magnetiche ed attraenti che sfruttano le più recenti tecniche di comunicazione per manipolare le emozioni e controllare le decisioni”, ha scritto nello stesso libro. La preoccupazione improvvisa di Brzezinski per l’impatto di una popolazione politicamente risvegliata globale non è figlia dell’idea che Brzezinski si identifichi con la stessa causa. Brzezinski è il fondatore della potente Commissione Trilaterale, un luminare del Council on Foreign Relations ed un partecipante regolare del Bilderberg. Una volta è stato descritto dal presidente Barack Obama come “uno dei nostri pensatori più importanti”. Questa non è affatto la prima volta che Brzezinski ha lamentato la crescita di una opposizione populista alla dominazione da parte di una piccola elite.
Era stato nel corso di un meeting del CFR del 2010 che Brzezinski aveva avvertito i colleghi globalisti colleghi che un “risveglio politico globale”, in combinazione con lotte interne tra le élite, minacciava di far deragliare la transizione verso un governo mondiale.
Nota caprina: e noi, allora, ne avevamo parlato. Perchè quando Brzezinki parla, è sempre opportuno ascoltare con attenzione.
di Felica Capretta – 19/02/2017
Fonte: controinformazione

Se i Nobel Economia lo criticano,significa che Donald ha ragione

stglitz vs trump
i criteri con cui assegnano il nobel sono chiari da un pezzo….

Sul quotidiano francese LeMonde di venerdi 3 febbraio, con questo titolone : “Joseph Stiglitz : Trump détruit l’ordre géopolitique mondial “ , con sottotitolo “ les perdants de la mondialisation seront les premierès victimes de Trump “,  il premio Nobel  rilascia una intervista che a dir poco mi ha sorpreso .
L’intervistatore gli chiede : “Voi denunciate da anni gli eccessi della mondializzazione fonte di ineguaglianza .Il protezionismo di Trump può esser una soluzione?” . Stiglitz risponde : “ No.L’ironia è che le persone che  ne hanno più sofferto nei 25 anni passati saranno le prime vittime.. “ .
Mio commento : Se Stiglitz spiegasse anzitutto con chiarezza chi sono le vittime e la sua visione sull’origine di questi  eccessi ,dimostrerebbe di aver giustamente meritato il Nobel  e di saper proporre soluzioni. Invece coglie l’occasione per   attaccare  il rischio di populismo politico in Usa ed Europa.
La  risposta giusta è  : Il vero grande disordine si crea negli anni settanta grazie alle dottrine del nuovo ordine mondiale che come prima  azione frenano le nascite (solo in occidente) , e questo fenomeno avvia il processo di disordine economico-geopolitico mondiale. Di per sé la globalizzazione  ha creato un riequilibrio  economico inimmaginabile grazie alla  delocalizzazione produttiva realizzata dai paesi occidentali verso quelli orientali ,per beneficiare dei loro bassi costi di produzione .Pur nell’errore originale ,  ciò  ha permesso  a due terzi del pianeta ( persino in Africa) di avviare piani di crescita economica. Lo squilibrio  si è invece paradossalmente creato nei cosiddetti paesi occidentali ( Usa, Europa in primis) perché da paesi produttori  che erano ,si sono trasformati in paesi consumatori , mentre i paesi asiatici e affini si son trasformati repentinamente in paesi produttori ,ma non ancora consumatori.
L’occidente ha  deindustrializzato creando presupposti per il suo crollo economico. Il cosiddetto  protezionismo nei confronti di alcuni settori industriali diventa ora indispensabile per far riprendere settori trainanti dell’economia ( esposti alla competizione  fondata su forme quasi di schiavismo lavorativo)  e riavviare un nuovo ciclo in paesi come gli Usa, sull’orlo del fallimento economico e sociale. In Occidente ,le vittime son stati i giovani senza lavoro, le persone in età matura  operanti in settori impiegatizi sostituibili dalle tecnologie, gli anziani.
La seconda domanda : “ se il protezionismo non è una risposta come si può proteggere le vittime della mondializzazione ? “.La risposta è da vero premio Nobel .” La priorità è aiutarli a formarsi… “ cioè acquisire nuove competenze e  creare nuovi lavori ….( ci vuole una generazione  per riuscirci?) .
Dice anche che non sarà la rilocalizzazione in patria a creare nuovi impieghi , ma saranno investimenti, per esempio,  nella   sanità, cura degli anziani  , proponendo di trovare le risorse   con tasse e riduzione spese militari  . Ma Stiglitz , premio Nobel per l’economia,  di che sta parlando ? Per creare nuove competenze e nuovi lavori , come si fa se non reimportando in patria quei settori trainanti l’economia , quei settori che creano investimenti e sviluppano tecnologie ?  proprio come l’automobile che sviluppa un indotto che può arrivare a quintuplicare gli effetti  di creazione posti di lavoro  e di investimento , purchè realizzati all’interno del paese.
 
Stiglitz annuncia,  come un oracolo, che prodotte in case le auto costeranno più care per gli americani .  Ma conosce Stiglitz  il potenziale tecnologico americano ( ottenuto proprio grazie agli investimenti nella difesa,che crearono Silicon Valley) che quando applicato a quei settori da rilocalizzare in patria , permetterà  di crescere la competitività domestica  “quasi “ vicino a quella dei paesi a basso costo. Ciò perché questi paesi  , costretti a ridurre le esportazioni  in occidente , per evitare collassi delle proprie economie , dovranno creare domanda interna , aumentando il potere di acquisto, perciò i costi .  Tra poco , se Trump non fa errori ,per molti settori economici ,il costo di produzione domestico in USA   sarà quasi equivalente a quello importato ,ma con un effetto trainante elevatissimo . Grazie alla potenza tecnologica , gli Usa son riusciti  negli ultimi  pochi anni  a diventare persino indipendenti nelle produzioni energetiche .
 
L’intervistatore chiede al premio Nobel se i progetti di fare opere infrastrutturali  beneficeranno la crescita . La risposta è ambigua , si  , forse si potranno fare , ma  conclude ironizzando  che i repubblicani non credono al cambio climatico ..Lasciando immaginare  che Trump lo peggiorerà con le sue scelte.
Successiva domanda è infatti sul  clima : che farà Trump ? Risposta del Nobel in economia : “ Trump sta distruggendo l’ordine geopolitico mondiale avviato dopo la seconda guerra mondiale.” Spiegando che gli Usa ripiegheranno  su sé stessi  fuori dalla comunità internazionale .Ma con una affermazione criptica :” Dans quatre ans, il y aura peut etre un autre président américain qui déciderà  de rejoindre à nouveau le club.”
Quale club , il club di Roma  e affini ?  Intende il  club che ha creato i dissesti della globalizzazione forzandone scelte contrarie a tutte le leggi naturali cominciando dal frenare le nascite nel mondo occidentale ? Ma quale ordine ? Chi ha distrutto l’ordine geopolitico mondiale son stati proprio i predecessori di Trump.
 
Solo nell’ultima domanda Stiglitz da una risposta che condivido (ironicamente) .Gli si chiede se l’Europa deve difendere il libero scambio contro un presidente protezionista .La risposta è “ Bisogna mantenere un sistema mondiale aperto. Se lo si chiude si perde. Ma la mondializzazione deve proteggere i perdenti …e ce n’è anche troppi” .
Bene , ma ripeto la domanda , chi sono i perdenti  e perché lo sono , Stiglitz lo  ha capito ? Io credo che siano quelli che han votato la Brexit, hanno votato Trump e voteranno partiti populisti in Europa . Ma gli Stiglitz hanno  capito perché ? Dalla intervista non si intende . I più deboli  che lui vorrebbe far difendere non vogliono  farsi più difendere da chi vorrebbe lui , avendo  perso fiducia   proprio nel “club” evocato da Stiglitz . Han perso fiducia negli  Obama , Clinton  e compagnia bella . Cioè in coloro che  pretenderebbero oggi di risolvere un problema mondiale agendo sugli effetti anziché sulle cause del problema. E le cause del problema  rifiutano persino di considerarle ,perché , con disprezzo,  le  considerano “morali” . Ed è vero , sono state  la mancanza di  valori morali che han provocato miseria morale che a sua volta ha generato miseria economica e  sociale. L’intervista conferma che l’economia non è una scienza e pertanto il Nobel non dovrebbe neppure  esser riconosciuto, ma conferma anche che sarebbe necessaria una forte Autorità Morale   che  evangelizzasse a dovere  nel mondo globale .
di Ettore Gotti Tedeschi

Usa, le mail trafugate a George Soros finiscono online: “È architetto di ogni colpo di Stato degli ultimi 25 anni”

tttw5questi sì che sono hackers anti sistema. Che cattivi, questo magnate multimiliardario non ha a cuore altro che il bene degli ultimi….


Dc Leaks pubblica i file rubati dai database della Open Society Foundation dell’imprenditore ungherese americano: “A causa sua e dei suoi burattini gli Stati Uniti sono considerati come una sanguisuga e non un faro di libertà e democrazia”

Ci sono i dossier sulle elezioni Europee del 2014 ma anche quelli sul voto nei singoli Stati, i fascicoli sui finanziamenti elargiti alle organizzazioni non governative di tutto il mondo e persino i rapporti sul dibattito politico in Italia ai tempi della crisi dell’Ucraina. Sono solo alcuni dei documenti rubati dai database della Open Society Foundation di George Soros. Appena pochi giorni fa Bloomberg aveva raccontato che, oltre ad aver violato i server del partito Democraticoavrebbero anche trafugato le mail dell’imprenditore americano.
E adesso Dc Leaks ha varato soros,dcleaks.com, un portale interamente dedicato ai documenti trafugati dalle caselle mail del magnate statunitense. Nove categorieUsa, Europa, Eurasia, Asia, America Latina, Africa, World bank, President’s office,Souk – migliaia di documenti consultabili online o da scaricare in pdf.
 
Dentro c’è un po’ di tutto: commenti sulle elezioni nei Paesi di mezzo mondo, rapporti sui “somali nelle città europee” e sul bilancio di previsione statunitense, ma anche dossier sulla crisi tra Russia e Ucraina con una serie di allegati che spiegano la posizione dei vari stati Europei sulla vicenda.
In homepage, poi, c’è un post che spiega il motivo della pubblicazione dei file. “George Soros – scrivono gli hacker –  è un magnate ungherese- americano, investitore , filantropo, attivista politico e autore che, di origine ebraica. Guida più di 50 fondazioni sia globali che regionali. È considerato l’architetto di ogni rivoluzione e colpo di Stato di tutto il mondo negli ultimi 25 anni . A causa sua e dei suoi burattini gli Stati Uniti sono considerati come una sanguisuga e non un faro di libertà e democrazia. I suoi servi hanno succhiato sangue a milioni e milioni di persone solo per farlo arricchire sempre di più. Soros è un oligarca che sponsorizza il partito Democratico, Hillary Clinton, centinaia di uomini politici di tutto il mondo. Questo sito è stato progettato per permettere a chiunque di visionare dall’interno l’Open Society Foundation di George Soros  e le organizzazioni correlate. Vi presentiamo i piani di lavoro , le strategie , le priorità e le altre attività di Soros. Questi documenti fanno luce su uno dei network più influenti che opera in tutto il mondo”.
agosto 18, 2016

Il trucco per cui i francesi voteranno di nuovo un socialista. Dei Rotschild

macron mediane è passata di acqua sotto ai ponti da quando il “potere” temeva “le sinistra”. Stessi giochetti, basta una parola: pericolo “destra” ed i soldatini delle banche serrano i ranghi.  Il candidato di sinistra prima collabora con le porcate, poi “si stacca” come se niente fosse e “fonda” una corrente/movimento/partito. Sempre il solito squallido clichè. Ed ecco il “nuovo” Tsipras “L’antisistema” esaltato dal sistema.

Sembrava impossibile, dopo l’esperienza tristissima di Hollande, ormai al 4% dei sondaggi tanto che non s’è  ripresentato, e la gauche spaccata fra quattro  candidati. Era uscito il libro “Gli ultimi 100 giorni del Partito Socialista”; dove l’umorista Bruno Gaccio riferiva che la morte imminente era dovuta alle malattie che lo rodevano da 35 anni: Liberoencefalite degenerativa, Bordelloplastia, Debussolite Retrattile, Sindrome di Valls-sette, Sordità profonda, Cecità totale”. La sepoltura era prossima.

Il ritorno al potere del centro-destra sembrava ormai certo. Il vincitore a mani basse era dato Francois Fillon: scelto alle primarie, centro-destra, abbastanza a destra per raccattare al ballottaggio i voti di Marine Le Pen, pro-Ue è vero, ma anche filo-Putin. I sondaggi lo favorivano.
Poi, il trappolone. Le Canard Enchainé (“da lustri strofinaccio della Cia”, per Nicolas Bonnal) tira fuori lo scandalo:  Fillon ha pagato alla moglie Penelope uno stipendio come assistente parlamentare (500 mila euro lordi  in 8 anni), e  la signora ha preso 5 mila euro mensili alla Révue des Deux Mondes, a cui ha collaborato dal 2012 al 2013. I 500 mila in 8 anni fanno colpo; ma sono, in realtà, la dotazione che Fillon ha ricevuto come parlamentare per le spese connesse, poteva non impiegare un assistente e tenerseli tutti per sé senza commettere alcun reato. Altra cosa è  l’impiego ben pagato della signora alla Révue. I media cominciano a dire che prendeva 5 mila euro mensili, per la redazione “di due o tre note di lettura”.
Il giorno stesso della rivelazione del Canard, la magistratura “apre un fascicolo”. E il giorno dopo, fulminea, già manda con fanfare e sirene spiegate la polizia a fare una perquisizione alla Révue des Deux Mondes, per sospetto di “impiego fittizio”. La strana fulminea rapidità della magistratura, la grancassa mediatica assordante, hanno avuto l’effetto: Fillon è crollato nei sondaggi, lui ha chiesto scusa e si presenta comunque, ma non sarà lui a sfidare Marine per vincerla al secondo turno.
Perché nessuno si illuda, la Le Pen non andrà mai all’Eliseo. Anche  se oggi è al primo posto nelle preferenze degli elettori (26%, tutti gli altri candidati la seguono a distanza) al secondo turno tutto l’elettorato “antifacho” concentra i voti sull’avversario di Marine, chiunque sia. E’ così ed è sempre stato così.
Il punto è che a sfidare la Le Pen non sarà un esponente del centro-destra, Fillon. E chi sarà dunque? Uno della “sinistra”, diciamo così: Emmanuel Macron. Uno che oggi ha fondato il suo movimento  (“En  Marche”, come le sue iniziali) ma che è stato ministro di Valls e di Hollande fino all’agosto scorso, quando si è staccato dai PS per fingersi indipendente. Un PS  che s’è messo una nuova maschera appena in tempo.
Immediatamente esaltato e promosso dai media come colui che incarna “il rinnovamento e la modernità”, ultra-europeista, liberista (come Hollande), “Superare destra e sinistra, la folla lancia l’anti-Le Pen al grido Europa! Europa!”,  ha scritto il Fatto Quotidiano.
Insomma si è capito: stessa zuppa di prima. E’ bastato che Marine Le Pen presentasse il suo programma politico perché le Borse europee crollassero, i “mercati” si terrorizzassero, e lo spread dei titoli nostri, ma anche francesi, si allargasse: ed è tutta una manfrina, perché non esiste nessuna possibilità che la signora entri all’Eliseo per attuare quel programma. Fa’ parte della messinscena del drammone “Il Fascismo alle Porte”, la recita della paura che  susciterà nell’elettorato il riflesso pavloviano di andare a votare chiunque per fermare il Front National. Già adesso, i sondaggi dicono che al ballottaggio Macron prenderà il 65 % contro Marine al 35.
Vediamo dunque che tipo di socialista è Macron, che la Francia si terrà all’Eliseo per un mandato o due. Anzitutto: è un banchiere d’affari della Rotschild. C’è entrato  nel 2008  come analista – per i buoni uffici di Jacques Attali (j) ministro di Mitterrand e maitre à penser, ed è salito in carriera fino a diventare “partner”, socio di David de Rotschild, che è un intimo di Sarkozy (j) e di Alain Minc (j).
E’ un ragazzo svelto a imparare. Si occupa di fusioni ed acquisizioni: sostanzialmente vende aziende francesi a multinazionali, americane o no. Nel 2012, affianca e consiglia la Nestlé nell’accaparramento del settore “latti per l’infanzia” della Pfizer, soffiando il lucroso settore alla Danone che lo voleva. E’ un affare valutato a 9 miliardi di euro. Le  commissioni lucrate allora dal giovanotto sono tali che, si dice, “Macron è al riparo dal bisogni fino alla fine dei suoi giorni”. Un super-milionario. In quell’attività, ovviamente si è fatto una quantità di complicità e amicizie nel salotti buoni che contano, conosce tutti i segreti, i misteri, i progetti  nel mondo dei veri grandi ricchi; tanto più che spesso nelle fusioni ha operato come “consulente acquirente”, mettendoci il suo capitale insieme a quello del cliente.
La Banca Rotschild presta volentieri i suoi giovani più brillanti al governo, ministri, segretari generali dell’Eliseo, aggiunti, capi di gabinetto…”Ad ogni cambiamento di governo – ha scritto il Nouvel Osbservateur – Rotschild riesce a piazzare qualche collaboratore fra gli incartamenti del potere. Chiama ciò “mettersi al servizio”. Macron perpetua la tradizione”,  divenendo ministro dell’Economia dell’Industria e del Digitale  dal 2014. Nell’agosto scorso, come detto, si dimette per fondare il suo movimento: forte il sospetto che sia stata una dimissione concordata nel quadro del vasto progetto  – in cui è entrato anche il trappolone per Fillon – per mantenere il potere agli stessi circoli.  Siamo, molto al disopra della Gauche-Caviar. Molto prossimi alla Squadra e al Compasso, ma sopra ancora. Siamo, se così si può dire, alla Gauche-Rotschild.
Quindi la liberazione della Francia è ancora una volta rimandata. Macron è un superliberista e promotore del mercato unico mondiale.
Articoli dedicati a Macron in confronto a quelli dedicati ai tre candidati della sinistra (Jean-Luc Mélenchon, Arnaud Montebourg e Benoît Hamon) messi insieme.(vedi immagine sopra)
I media mainstream, che a volte sono profeti,  hanno subito capito di quante virtù è pieno il candidato, e l’hanno elevato a forza di servizi speciali, sempre più in alto nei sondaggi: l’ottobre 2014, solo l’11 per cento degli interpellati desiderava che Macron avesse un ruolo più importante nella politica; il 6% degli operai, il 4% degli artigiani. Oggi i sondaggi lo dicono la personalità politica preferita dai francesi.
A  meno che…
Il  6 febbraio, Sputnik e Russia Today hanno cominciato a dire che Julian Assange ha trovato dei particolari compromettenti su Macron. Cose che avrebbero a che fare con i circoli intimi della Clinton, e il capo della campagna di Hillary John Podesta, se capite cosa intendo:
podesta macron
Il deputato Nicolas Dhuicq (Les Républicains) ha  cominciato a spifferare quello che sembra un segreto di Pulcinella: “Macron è il coccolino dei media francesi, che sono proprietà di certe persone, come sappiamo tutti”. No, quali persone? Non sappiamo, noi. “Fra gli uomini che lo sostengono, si trova il celebre uomo d’affari Pierre Bergé, compagno di lunga data di Yves Saint-Laurent, apertamente omosessuale e promotore delle nozze omosessuali. C’è una ricchissima lobby gay dietro di lui. Non dico altro”.
Chissà. Magari i siluri degli hacker russi che hanno affondato Hillary, sono già caricati per colare a picco Macron.
posted by Redazione febbraio 7, 2017

Endgame for globalization

globalizQuando trasmisero il Live Aid ricordo che, appena maggiorenne, assistetti a tutta la kermesse. C’erano i gruppi più amati, in particolare quelli della new wave degli anni ’80, tra cui anche il gruppo di “Bono”, allora tra quelli più innovativi in ambito musicale. “Bono” era destinato a diventare figura molto umanitaria, in virtù della quale si guadagnò amicizie molto ma molto altolocate. Pur essendo attratto dalla musica e incapace di formulare un giudizio politico-culturale, ricordo che però rimasi perplesso di fronte a tanta bontà, essendo stato fin da ragazzo incline allo scetticismo.
Il Live Aid era il lancio dell’ideologia della globalizzazione, in anticipo sul crollo dell’Unione Sovietica che fu poi l’evento epocale causa della sua nascita, ma evidentemente esso era nell’aria e più o meno previsto da chi ha conoscenze che vanno al di là di quelle dei comuni mortali (ovviamente non intendo in senso ultraterreno, ma quel tipo di conoscenze hanno agenzie specializzate).
Nasceva la cultura della globalizzazione che si innestava sulla precedente cultura peace & love, rivolta soprattutto a quei giovani che poi saranno gli adulti degli anni successivi. Il mondo era(no) loro. Non ci dovevano essere più frontiere e chi non era d’accordo era razzista (un essere abietto, sbagliato, da correggere, al di fuori della comune umanità). Non ci dovevano essere barriere alla penetrazione del capitale, accompagnato dal volto seducente e ribelle della cultura mediatica statunitense e occidentale. In breve, la globalizzazione era la strategia di dominio globale degli Usa.
Certo, ogni tanto gli Usa dovevano mostrare il volto meno buono, mostrando la loro onnipotente capacità di “riportare all’età della pietra” gli stati riottosi (“stati canaglia”), ma in genere questo era compito dall’ala destra, nel complesso l’ideologia della globalizzazione è stata un”ideologia universalista di sinistra. E quando la sinistra ha dovuta anch’essa bombardare è stato per ragioni strettamente umanitarie (“bombardamenti umanitari”).
C’è stato un periodo in cui gli Stati Uniti potevano ragionevolmente pensare di diventare l’unica potenza mondiale, durante l’era Eltsin e quando la Cina era ancora gli inizi del suo esploit economico. Ma la sola penetrazione finanziaria e culturale non basta, gli Stati Uniti dimenticavano il ruolo dello Stato (pur disponendo di ottimi studi prodotti dal mondo accademico sul ruolo dello Stato nella nascita del mondo moderno). La Russia risaliva la china anche grazie al ruolo di un uomo sorto dagli apparati dello Stato più coercitivi. La Cina, pur approfittando degli investimenti esteri, manteneva il controllo attraverso lo Stato sulla propria economia. Mentre negli Usa la fuoriuscita dei capitali, indeboliva la potenza industriale statunitense e finanziarizzava l’economia senza ottenere gli sperati risultati geo-politici.
Allora si è imposta la grande svolta protezionista, fine della globalizzazione, da oggi due grandi regole: “si assume e si compra americano”. Nella misura in cui tale svolta implica il riconoscimento dell’esistenza di altre potenze ritengo che contenga un elemento razionale e che sia sostanzialmente positiva. Pare inoltre che tra gli ispiratori ci sia Kissinger, il quale seppur sia stato nel suo periodo d’oro non esattamente uno stinco di santo (non “tanto buono” come Obama), fu uno degli artefici del “mondo bipolare”, al quale, considerata l’instabilità dell’epoca successiva, non possiamo che guardare con nostalgia.
La Clinton e Bush figlio si sono incontrati, hanno preso il caffé insieme in intimità, hanno scoperto di aver maggior affinità rispetto a quanto pensavano prima e hanno cercato di unire le forze, ma non è servito. La svolta è stata accolta male molto male dal mondo mediatico e dal mondo politico. In Europa, Napolitano appena dopo la vittoria di Trump ha suonato subito i tamburi di guerra, il papa dei migranti ha paragonato Trump ad Hitler.
Sono gli strepiti di una classe politica e mediatica formatasi durante l’epoca della globalizzazione e ora destinata ad essere dismessa, oppure ci sono conflitti più profondi? Per dirlo con maggiore certezza ci vorrebbero ancora quel tipo di conoscenze non disponibili ai comuni mortali, però credo sia più probabile la prima ipotesi, visto che anche i “mercati” hanno accolto in modo positivo la svolta. Nell’ipotesi contraria, assisteremo alla invasione live degli zombies. In ogni, caso ritengo che questa svolta non potrà essere del tutto indolore.
La deriva dei globalisti era diventata molto ma molto preoccupante con le continue provocazioni contro la Russia (anche se ovviamente fatte a fin di bene), quindi salutiamo la nuova epoca, consapevoli però che non mancherà di innescare nuovi conflitti, per affrontare i quali si spera provvederemo ad essere meglio attrezzati.
di Gennaro Scala – 31/01/2017 Fonte: Gennaro Scala

“L’epoca della globalizzazione ha finito il suo tempo ”

ma che terribile prospettiva, populisti populisti!!

Evo-Morales

Evo Morales, pres. Bolivia
La frenesia per un imminente mondo senza frontiere, il frastuono per la constante erosione degli stati-nazionali in nome della libertà d’impresa e la quasi religiosa certezza che la società mondiale finirà per amalgamarsi in un unico spazio economico, finanziario e culturale integrato, sono appena crollate di fronte all’annichilito stupore delle èlites globaliste del pianeta.
La rinuncia della Gran Bretagna a continuare nell’Unione Europea – il progetto più importante di unificazione statale degli ultimi cento anni – e la vittoria elettorale di Trump – che ha innalzato le bandiere di un ritorno al protezionismo economico, ha preannunciato la rinuncia ai trattati di libero commercio ed ha promesso la costruzione di mesopotamiche mura di frontiera –, sono tutti elementi che hanno annichilito l’illusione liberista e globalista che è stata quella più grande e di maggiore successo dei nostri tempi.
E che tutto questo provenga dalle due nazioni che 35 anni fa, protette dalle loro corazze di guerra, annunciavano l’avvento del libero commercio e la globalizzazione come l’inevitabile redenzione dell’umanità, ci parla di un mondo che si è capovolto o, ancor peggio, dove sono venute meno le illusioni che lo hanno mantenuto sveglio per un secolo.
La globalizzazione come meta-narrazione, è questo, come orizzonte politico ideologico in grado di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, oggi va esplodendo in mille pezzi. E attualmente non c’è al suo posto niente di mondiale che articoli quelle aspettative comuni. Quello che esiste è uno spaventato ripiego all’interno delle frontiere e il ritorno a un tipo de tribalismo politico, alimentato dalla rabbia xenofoba, di fronte a un mondo che ormai non è il mondo di nessuno.
L’estensione  geopolitica del capitalismo
Chi ha iniziato lo studio della dimensione geografica del capitalismo è stato Karl Marx. Il suo dibattito con l’economista Friedrich List sul capitalismo nazionale, nel 1847, e le sue riflessioni sull’impatto della scoperta delle miniere d’oro della California nel commercio transpacifico con l’Asia, lo collocano come il primo e più meticoloso analista dei processi di globalizzazione economica del regime capitalista. Di fatto, il suo contributo non è fondato sulla comprensione del carattere mondializzato del commercio che inizia con l’invasione europea dell’America, ma sulla natura planetariamente espansiva della stessa produzione capitalista. (………………)
La globalizzazione economica (materiale) è un fatto inerente al capitalismo. Il suo inizio si può datare, a partire da 500 anni fa, da quando poi andrà rafforzando, in modo frammentario e contraddittorio, ancora molto di più.
Se seguiamo gli schemi di Giovanni Arrighi, nella sua proposta di cicli sistemici di accumulazione capitalista a capo di uno Stato egemone: Genova (secoli XV-XVI), Paesi Bassi (secolo XVIII), Inghilterra (secolo XIX) e Stati Uniti (secolo XX), ciascuna di queste egemonie è stata accompagnata da un nuovo rafforzamento della globalizzazione (prima commerciale, poi produttiva, tecnologica, cognitiva e, infine, ambientalista) e da un’espansione territoriale delle relazioni capitaliste. Invece, quello che costituisce un avvenimento recente all’interno di questa globalizzazione economica è la sua costruzione come progetto politico-ideologico, speranza o senso comune; cioè, come orizzonte d’epoca capace di unificare ed omologare le credenze politiche e le aspettative morali di uomini e donne appartenenti a tutte le nazioni del mondo.
La fine della storia
La globalizzazione come storia o ideologia d’epoca non ha più di 35 anni. Era iniziata con i presidenti Ronald Reagan e Margaret Thatcher, liquidando lo Stato del welfare, privatizzando le imprese statali, annullando la forza sindacale operaia e sostituendo il protezionismo del mercato interno con il libero mercato, elementi che avevano caratterizzato le relazioni economiche dalla crisi del 1929.
Certo, è stato un ritorno amplificato alle regole del liberismo economico del XIX secolo, inclusa la connessione in tempo reale dei mercati, la crescita del commercio in relazione al prodotto interno lordo (PIL) mondiale e l’importanza dei mercati finanziari, che già erano stati presenti in quel momento. Invece, ciò che ha differenziato questa fase del ciclo sistemico da quella che aveva prevalso nel XIX secolo, è stata l’illusione collettiva della globalizzazione universale, la sua funzione ideologica leggittimatrice e la sua ascesa come supposto destino naturale e finale dell’umanità.
Coloro i quali si sono affiliati emotivamente a quel credo del libero mercato come pretesa salvezza finale non sono stati semplicemente i governanti dei partiti politici progressisti, ma anche i mass media, i centri universitari, opinionisti e leader sociali. Il crollo dell’Unione Sovietica e il processo che Antonio Gramsci chiamò trasformismo ideologico degli ex socialisti divenuti convinti neoliberisti, ha chiuso il cerchio della vittoria definitiva del neoliberismo globalizzatore.
Certo! Se davanti agli occhi del mondo l’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), che era considerata fino allora il referente alternativo al capitalismo di libera impresa, abdica dalla lotta e si arrende davanti alla furia del libero mercato – e se per di più quelli che erano i combattenti por un mondo diverso, pubblicamente e in ginocchio, abiurano le loro precedenti convinzioni per proclamare la superiorità della globalizzazione sul socialismo di Stato –, ci troviamo di fronte alla costruzione di una narrativa perfetta del destino naturale e irreversibile del mondo: il trionfo planetario della libera impresa e del mercato.
L’enunciazione della fine della storia hegeliana con cui Francis Fukuyama ha caratterizzato lo spirito del mondo, aveva tutti gli ingredienti di un’ideologia d’epoca, di una profezia biblica: la sua formulazione come progetto universale, il suo scontro contro un altro progetto universale demonizzato (il comunismo), la vittoria eroica (fine della guerra fredda), la sconfitta degli Stati Nazionali e la conversione degli infedeli.
La storia era arrivata alla sua meta: la globalizzazione neoliberista. E, a partire da quel momento, senza avversari antagonisti da affrontare, la questione ormai non era lottare per un mondo nuovo, ma semplicemente aggiustare, amministrare e perfezionare il mondo attuale, perché non c’erano alternative ad esso. Per quel motivo, nessuna lotta valeva la pena strategicamente, poiché tutto ciò che si fosse tentato di fare per cambiare il mondo avrebbe finito per arrendersi di fronte al destino inamovibile dell’umanità, che era la globalizzazione.
È sorto così un conformismo passivo che si è impossessato di tutte le società, non solo delle élites politiche e imprenditoriali, ma anche di ampi settori sociali che hanno aderito moralmente alla narrativa dominante.
La storia senza fine né destino
Oggi, quando ancora echeggiano gli ultimi petardi dl la lunga festa della fine della storia, risulta che proprio quella che era uscita come vittoriosa, la globalizzazione neoliberista, è morta lasciando il mondo senza finale né orizzonte vittorioso; cioè senza alcun orizzonte. Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina.
I primi passi falsi dell’ideologia della globalizzazione si fanno sentire agli inizi del XXI secolo in America Latina, quando operai, plebe urbana e ribelli indigeni non ascoltano il comando della fine della lotta di classe e si mettono insieme per prendere il potere dello Stato. Combinando maggioranze parlamentari con azioni di massa, i governi progressisti e rivoluzionari implementano una varietà di opzioni post-neoliberiste, mostrando che il libero mercato è una perversione economica suscettibile di essere rimpiazzata da modi di gestione economica molto più efficienti e solidali per ridurre la povertà, generare uguaglianza e dare impulso alla crescita economica.
Con questo, la fine della storia comincia a mostrarsi come una singolare truffa planetaria e di nuovo la ruota della storia – con le sue infinite contraddizioni e opzioni aperte – si mette in marcia. Successivamente, nel 2009, negli Stati Uniti, il tanto vilipeso Stato, che era stato oggetto di scherno in quanto considerato ostacolo alla libera impresa, è tirato per la giacchetta da Barack Obama per statalizzare parzialmente le banche e salvare dalla bancarotta i banchieri privati. L’efficientismo imprenditoriale, colonna vertebrale dello smantellamento statale neoliberista, è così ridotto in polvere dalla propria incompetenza nell’amministrare i risparmi dei cittadini.
Poi arriva il rallentamento dell’economia mondiale, in particolare del commercio delle esportazioni. Durante gli ultimi 20 anni, questo cresce al doppio del prodotto interno lordo (PIL) annuale mondiale, però a partire dal 2012 a stento riesce a raggiungere la crescita di quest’ultimo, e già nel 2015 è persino minore, e con questo la liberalizzazione dei mercati ormai non è più il motore dell’economia planetaria né la prova della irresistibilità dell’utopia neoliberista.
Infine, i votanti inglesi e statunitensi inclinano la bilancia elettorale in favore di un ripiegamento verso Stati protezionisti – possibilmente chiusi da mura –, oltre a rendere visibile un malessere ormai planetario contro la devastazione delle economie operaie e della classe media, causato dal libero mercato planetario.
Oggi, la globalizzazione ormai non rappresenta più il paradiso desiderato nel quale riposano le speranze popolari né la realizzazione del benessere familiare agognato. Gli stessi paesi e basi sociali che la sbandieravano decenni fa, sono diventati i suoi maggiori detrattori. Siamo di fronte alla morte di una delle maggiori truffe ideologiche degli ultimi secoli.
È certo che nessuna frustrazione sociale resta impunita.
Esiste un costo morale che, in questo momento, non illumina alternative immediate, anzi – è il cammino tortuoso delle cose – le chiude, almeno temporaneamente. E c’è che alla morte della globalizzazione come illusione collettiva non si può contrapporre l’emergenza di un’opzione capace di catturare e incanalare la volontà desiderosa e la speranza mobilitante dei popoli colpiti.
La globalizzazione, come ideologia politica, connaturata al grande capitale, ha trionfato sulla sconfitta dell’alternativa del socialismo di Stato, della statalizzazione dei mezzi di produzione, il partito unico e l’economia pianificata dall’alto. La caduta del muro di Berlino, nel 1989, rappresenta teatralmente questa capitolazione.
Pertanto, nell’ immaginario planetario è rimasta una sola strada, un solo destino mondiale. Quello che sta succedendo ora è che pure quell’unico destino trionfante muore. Cioè: l’umanità rimane senza destino, senza direzione, senza certezza. Però non è la fine della storia – come preconizzavano i neoliberisti –, bensì la fine della fine della storia. È il nulla della storia.
Ciò che resta oggi nei paesi capitalisti è un’inerzia senza convinzione che non seduce, un mucchietto decrepito di illusioni marcite e, nella penna degli scrivani fossilizzati, la nostalgia di una globalizzazione fallita che non illumina più i destini.
Perciò, con il socialismo di Stato sconfitto e il neoliberismo morto suicida, il mondo resta senza orizzonte, senza futuro, senza speranza mobilitante. È un tempo di incertezza assoluta nella quale, come ben intuiva William Shakespeare, tutto il solido svanisce nell’aria. Ma proprio per questo è pure un tempo più fertile, perché non si hanno certezze ereditate alle quali aggrapparsi per ordinare il mondo. Queste certezze bisogna costruirle con le particelle del caos di questa nube cosmica che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate.
Quale sarà il nuovo futuro mobilitante delle passioni sociali? Impossibile saperlo. Tutti i futuri sono possibili a partire dal niente ereditato. Il comune, il comunitario, la comunità solidale, è una di quelle possibilità che è radicata nell’azione concreta degli esseri umani e nella loro imprescindibile relazione metabolica con la natura.
In ogni caso, non esiste società umana capace di fare a meno della speranza. Non esiste essere umano che possa prescindere da un orizzonte, e oggi siamo costretti a costruirne uno. Questo è comune agli umani e questo comune è ciò che può condurci a disegnare un nuovo destino distinto de questo emergente capitalismo erratico che ha appena perduto fiducia in se stesso.
* vicepresidente della Repubblica di  Bolivia
Fonte: La Jornada di Alvaro Garcia Linera*
Feb 04, 2017
Traduzione: Juan Manuel De Silva