Prova per il Mose, ma le paratoie si bloccano: non si chiudono per troppi detriti

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Test questa mattina all’alba a Punta Sabbioni: cinque paratoie restano sollevate. Il motivo? Gli alloggiamenti in fondo al canale si riempiono di spazzatura e detriti vari rendendo necessario l’intervento di una squadra di sommozzatori per pulire “manualmente” questi vani e permettere la chiusura della barriera. Un intervento già effettuato 22 volte da febbraio solo sulla barriera di Punta Sabbioni.

16 DICEMBRE 2019 13:40di Giorgio Scura

VENEZIA – Il Mose non si chiude. Questa mattina all’alba c’è stata una prova a Punta Sabbioni, dove è presente ma non ancora completamente funzionante una delle tre barriere per difendere Venezia. Durante queste prove di emersione e di successiva immersione cinque paratoie sono rimaste emerse. Il motivo? Gli alloggiamenti di queste paratoie, fissate al fondo del canale da cerniere, si sono riempite di sabbia e detriti e questo ne impedisce la chiusura. In pratica, quando si alzano, questi immensi cassoni lunghi 20 metri, alti quasi 30 e spessi fino a 5, creano un “risucchio” che trascina negli alloggiamenti detriti e spazzatura di ogni genere che impediscono alle paratoie di rientrare nella loro posizione. Sul posto è dovuta intervenire una squadra di sommozzatori che è scesa sul fondale per pulire manualmente questi vani, con l’aiuto di due gru, come testimoniano i video e le foto in possesso di Fanpage. Le operazioni di pulizia sono andate avanti per tutta la giornata e al momento non sono concluse: i test dovrebbero andare avanti fino a giovedì, in vista di una prova generale alla quale sarà invitata la stampa, ma la data ancora non c’è, ovviamente, visto che ancora il sistema non funziona.

Il Mose non si chiude a causa di detriti e spazzatura: pulizie continue
219870195Pubblicato da Giorgio Scura

Un problema, questo, che si è già verificato diverse volte, che pare essere strutturale e al momento non ha una soluzione. In pratica quindi, ogni volta che il Mose entrerà in funzione e che quindi le paratoie vengono riempite di aria compressa e fatte emergere, bisognerà andare a pulire gli alloggiamenti sul fondo. Come? Ancora non si sa, visto che le pompe presenti, evidentemente, non bastano, o non funzionano. Perché se da una parte l’intervento umano sembra l’unica strada, dall’altra i costi per gestire decine di squadre di sommozzatori che ogni volta si immergano per permettere al Mose di abbassarsi è una follia economica. L’ennesima. Così qualcuno pensa a robot marini, una specie di spazzini del mare che possano essere immersi al posto dei sub e tenere gli alloggiamenti sgombri. Peccato che questi robot, al momento, non esistono, quindi non si sa quando potrebbero entrare in funzione, quanto potrebbero costare effettivamente e quanto questo andrà a influenzare i tempi di realizzazione dell’opera (consegna lavori annunciata per fine 2021) e i costi di manutenzione, già ora spropositati. Da febbraio ad oggi, infatti, solo per quanto riguarda questa barriera, sono stati effettuati 22 test di sollevamento per la pulizia di questi alloggiamenti.

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Tunnel sotto il Baltico: la Cina prenota il tesoro dell’Artico

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Scritto il 15/8/19

L’Artico si scioglie e la Cina è già lì: per il grande affare. Lo spiegano, sul “Corriere della Sera”, Milena Gabanelli e Luigi Offeddu. «Le prime prenotazioni on line, 50 euro l’una, sono state vendute subito dopo l’annuncio ufficiale: il più lungo tunnel sottomarino del mondo (100 km) sarà scavato dal 2020 sul fondo del Mar Baltico, fra la capitale estone Tallinn e quella finlandese, Helsinki. Lo scaveranno e pagheranno quasi tutto i cinesi: 15 miliardi di euro, più 100 milioni offerti da un’impresa saudita». Il colossale investimento, a oltre 6.300 chilometri da Pechino, non è lontano dalla loro “Via della Seta marittimo-terrestre”, che dovrebbe collegare circa 60 paesi di tre continenti. Uno dei suoi tratti vitali sarà la “Via Polare della Seta”, che sfrutterà i mari artici sempre più liberi dai ghiacci grazie al riscaldamento del clima. Oggi, per viaggiare da Shangai a Rotterdam attraverso la rotta tradizionale del canale di Suez, bisogna navigare per 48-50 giorni. Con la Via Polare si scende a 33 giorni. La nuova tratta «accorcerà di una settimana anche il viaggio che unisce Atlantico e Pacifico costeggiando Groenlandia, Canada e Alaska, rispetto al passaggio attraverso il canale di Panama». Tutto pronto: «Navi cinesi hanno già collaudato entrambe le rotte. A fine maggio, il vice primo ministro russo Maxim Akimov ha annunciato che anche Mosca potrebbe unirsi al progetto di Pechino».
La Cina è pronta a fare il suo gioco, raccontano Gabanelli e Offeddu: da una parte, marcare la sua presenza commerciale, politica e militare nel mondo, e dall’altra sfruttare il sottosuolo dell’Artico. «Parliamo del 20% di tutte le riserve del pianeta: fra cui petrolio, gas, uranio, oro, platino e zinco». Pechino ha già commissionato i rompighiaccio, fra cui – gara appena chiusa – uno atomico da 152 metri con 90 persone di equipaggio (costo previsto: 140 milioni di euro). Sarà il più grande rompighiaccio al mondo e potrà spaccare uno strato ghiacciato spesso un metro e mezzo. La Cina ha iniziato anche i test per “l’Aquila delle nevi”, un aereo progettato per i voli polari, e sta studiando l’impiego di sommergibili in grado di emergere dai ghiacci. Spiega il “Giornale cinese di ricerca navale”, subito monitorato dagli analisti occidentali: «Sebbene il ghiaccio spesso dell’Artico provveda una protezione naturale per i sottomarini, tuttavia costituisce anche un rischio per loro durante il processo di emersione». Segue uno studio dettagliato sulle manovre da eseguire. «Tutte le superpotenze compiono queste ricerche, però la Cina non è uno Stato artico come la Russia o gli Usa». Eppure, aggiungono Gabanelli e Offeddu, nel 2018 si è autodefinita uno “Stato quasi-artico”, irritando il segretario di Stato americano Mike Pompeo, secondo cui «ci sono solo Stati artici e non artici, una terza categoria non esiste».
Ma Pechino “tira dritto”, e lo fa soprattutto in Groenlandia, «portaerei naturale di fronte agli Usa e al Canada, dove il riscaldamento del clima sta sciogliendo 280 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno: un dramma mondiale, che però agevola l’estrazione di ciò che sta sotto». Per questo, osservano Milena Gabanelli e Luigi Offeddu, con le sue compagnie di Stato la Cina ha acquistato o gestisce i 4 più importanti giacimenti minerari della Groenlandia. «All’estremo Nord, nel fiordo di Cjtronen, c’è quello di zinco, gestito al 70% dalla cinese Nfc, considerato il più ricco della Terra. È strategico perché si trova di fronte all’ipotetica “Via Polare della Seta”, quella del passaggio verso Canada e Usa, e perché potrebbe placare la domanda di zinco della Cina, salita del 122% dal 2005 al 2015». Poi c’è il giacimento di rame di Carlsberg, proprietà della Jangxi Copper, colosso di Stato considerato il massimo produttore cinese di rame nel mondo (il suo ex-presidente, intanto, è stato appena condannato a 18 anni per corruzione). Pechino ha inoltre in mano la miniera di ferro di Isua (della General Nice di Hong Kong) e infine Kvanefjeld, nell’estremo Sud: una riserva mai sfruttata di uranio e “terre rare”, cioè i metalli usati per costruire missili, smartphone, batterie e hard-disk.
Kvanefjeld, accessibile solo via mare, è proprietà della compagnia australiana Greenland Minerals Energy e al 12,5% della compagnia di Stato cinese Shenghe Resources, considerata la maggiore fornitrice di “terre rare” sui mercati internazionali. Con un investimento da 1,3 miliardi di dollari, documenta il reportage sul “Corriere”, il giacimento potrà fornire una delle più alte produzioni al mondo di “terre rare”. «La quota azionaria della Shenghe è limitata, ma il suo ruolo nel progetto no», spiegano Gabanelli e Offeddu, «perché il prodotto estratto da Kvanefjeld sarà un concentrato di “terre rare” e uranio, i cui elementi dovranno essere processati e separati». E questo «accadrà soprattutto a Xinfeng, in Cina, dove gli stabilimenti sono già in costruzione». Nel progetto c’è anche un nuovo porto, nella baia accanto al giacimento. «La Cina possiede già oltre il 90% di tutte le “terre rare” del mondo, dunque ne controlla i prezzi». E ora, «con quel che arriverà da Kvanefjeld, chiuderà quasi il cerchio». Nei lavori del porto è coinvolto anche il colosso di Stato cinese Cccc, «già messo sulla lista nera della Banca Mondiale per una presunta frode nelle Filippine». I dirigenti della Shenghe, nel gennaio di quest’anno, «hanno formato una joint-venture con compagnie sussidiarie della China National Nuclear Corporation».
La sigla del colosso edilizio Cccc, continuano Gabanelli e Offeddu, è riemersa nella gara d’appalto lanciata dal governo groenlandese per tre nuovi aeroporti intercontinentali (a Nuuk, Ilulissat e Qaqortoq) che dovrebbero assicurare all’isola collegamenti diretti con gli Usa e l’Europa. Nel 2018 sei imprese sono state ammesse: l’unica non europea era la Cccc. «Ma la sua offerta ha preoccupato gli Usa (nell’isola c’è la base americana di Thule, che può intercettare i missili in arrivo su Washington) e la Danimarca (che ha un diritto di veto sulle questioni che toccano la sicurezza)». Così, i danesi hanno lanciato all’ultimo momento un’offerta d’oro, «rilevando un terzo della compagnia groenlandese che appaltava la gara», e così la Cccc è stata esclusa. «Ma lo scorso 5 aprile è stata annunciata una nuova gara per il “completamento” delle piste e dei terminal a Nuuk e Ilulissat, altro affare milionario, e i cinesi hanno tentato di rientrare grazie a joint-venture formate con imprese olandesi, canadesi e danesi». Tutto procede: i lavori inizieranno a settembre.
Secondo Gabanelli e Offeddu, Pechino ha messo a segno un altro successo nordico, questa volta a Karholl, in Islanda: si tratta dell’osservatorio meteo-astronomico battezzato “Ciao”, acronimo di China-Iceland Joint Arctic Science Observatory, interamente finanziato dai cinesi. Alto tre piani ed esteso su 760 metri quadrati, controlla i cambiamenti climatici, le aurore boreali, i percorsi dei satelliti. E, per inciso, anche lo spazio aereo della Nato. Non è di poco conto, infatti, il risvolto strategico-militare della nuova geopolitica cinese nell’Artico: il vice responsabile del nuovissimo osservatorio è Halldor Johannson, che in Islanda è anche portavoce di Huang Nubo, «il miliardario imprenditore ed ex dirigente del Partito comunista cinese che nel 2012 tentò di comprare per circa 7 milioni di euro 300 chilometri di foreste islandesi, dichiarando di volerne fare un parco naturale e turistico». Anche su quelle foreste – annotano Gabanelli e Offeddu – passavano (e passano) le rotte della Nato, su cui ora “vigilerà” l’indesiderata superpotenza cinese.

L’Artico si scioglie e la Cina è già lì: per il grande affare. Lo spiegano, sul “Corriere della Sera”, Milena Gabanelli e Luigi Offeddu. «Le prime prenotazioni on line, 50 euro l’una, sono state vendute subito dopo l’annuncio ufficiale: il più lungo tunnel sottomarino del mondo (100 km) sarà scavato dal 2020 sul fondo del Mar Baltico, fra la capitale estone Tallinn e quella finlandese, Helsinki. Lo scaveranno e pagheranno quasi tutto i cinesi: 15 miliardi di euro, più 100 milioni offerti da un’impresa saudita». Il colossale investimento, a oltre 6.300 chilometri da Pechino, non è lontano dalla loro “Via della Seta marittimo-terrestre”, che dovrebbe collegare circa 60 paesi di tre continenti. Uno dei suoi tratti vitali sarà la “Via Polare della Seta”, che sfrutterà i mari artici sempre più liberi dai ghiacci grazie al riscaldamento del clima. Oggi, per viaggiare da Shangai a Rotterdam attraverso la rotta tradizionale del canale di Suez, bisogna navigare per 48-50 giorni. Con la Via Polare si scende a 33 giorni. La nuova tratta «accorcerà di una settimana anche il viaggio che unisce Atlantico e Pacifico costeggiando Groenlandia, Canada e Alaska, rispetto al passaggio attraverso il canale di Panama». Tutto pronto: «Navi cinesi hanno già collaudato entrambe le rotte. A fine maggio, il vice primo ministro russo Maxim Akimov ha annunciato che anche Mosca potrebbe unirsi al progetto di Pechino».

La Cina è pronta a fare il suo gioco, raccontano Gabanelli e Offeddu: da una parte, marcare la sua presenza commerciale, politica e militare nel mondo, e dall’altra sfruttare il sottosuolo dell’Artico. «Parliamo del 20% di tutte le riserve del pianeta:Orsi polarifra cui petrolio, gas, uranio, oro, platino e zinco». Pechino ha già commissionato i rompighiaccio, fra cui – gara appena chiusa – uno atomico da 152 metri con 90 persone di equipaggio (costo previsto: 140 milioni di euro). Sarà il più grande rompighiaccio al mondo e potrà spaccare uno strato ghiacciato spesso un metro e mezzo. La Cina ha iniziato anche i test per “l’Aquila delle nevi”, un aereo progettato per i voli polari, e sta studiando l’impiego di sommergibili in grado di emergere dai ghiacci. Spiega il “Giornale cinese di ricerca navale”, subito monitorato dagli analisti occidentali: «Sebbene il ghiaccio spesso dell’Artico provveda una protezione naturale per i sottomarini, tuttavia costituisce anche un rischio per loro durante il processo di emersione». Segue uno studio dettagliato sulle manovre da eseguire. «Tutte le superpotenze compiono queste ricerche, però la Cina non è uno Stato artico come la Russia o gli Usa». Eppure, aggiungono Gabanelli e Offeddu, nel 2018 si è autodefinita uno “Stato quasi-artico”, irritando il segretario di Stato americano Mike Pompeo, secondo cui «ci sono solo Stati artici e non artici, una terza categoria non esiste».

Ma Pechino “tira dritto”, e lo fa soprattutto in Groenlandia, «portaerei naturale di fronte agli Usa e al Canada, dove il riscaldamento del clima sta sciogliendo 280 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno: un dramma mondiale, che però agevola l’estrazione di ciò che sta sotto». Per questo, osservano Milena Gabanelli e Luigi Offeddu, con le sue compagnie di Stato la Cina ha acquistato o gestisce i 4 più importanti giacimenti minerari della Groenlandia. «All’estremo Nord, nel fiordo di Cjtronen, c’è quello di zinco, gestito al 70% dalla cinese Nfc, considerato il più ricco della Terra. È strategico perché si trova di fronte all’ipotetica “Via Polare della Seta”, quella del passaggio verso Canada e Usa, e perché potrebbe placare la domanda di zinco della Cina, salita del 122% dal 2005 al 2015». Poi c’è il giacimento di rame di Carlsberg, proprietà della Jangxi Copper, colosso di Stato considerato il massimo produttore cinese di rame nel mondo (il suo ex-presidente, intanto, è stato appena Il tunnel sotto il Baltico tra Estonia e Finlandiacondannato a 18 anni per corruzione). Pechino ha inoltre in mano la miniera di ferro di Isua (della General Nice di Hong Kong) e infine Kvanefjeld, nell’estremo Sud: una riserva mai sfruttata di uranio e “terre rare”, cioè i metalli usati per costruire missili, smartphone, batterie e hard-disk.

Kvanefjeld, accessibile solo via mare, è proprietà della compagnia australiana Greenland Minerals Energy e al 12,5% della compagnia di Stato cinese Shenghe Resources, considerata la maggiore fornitrice di “terre rare” sui mercati internazionali. Con un investimento da 1,3 miliardi di dollari, documenta il reportage sul “Corriere”, il giacimento potrà fornire una delle più alte produzioni al mondo di “terre rare”. «La quota azionaria della Shenghe è limitata, ma il suo ruolo nel progetto no», spiegano Gabanelli e Offeddu, «perché il prodotto estratto da Kvanefjeld sarà un concentrato di “terre rare” e uranio, i cui elementi dovranno essere processati e separati». E questo «accadrà soprattutto a Xinfeng, in Cina, dove gli stabilimenti sono già in costruzione». Nel progetto c’è anche un nuovo porto, nella baia accanto al giacimento. «La Cina possiede già oltre il 90% di tutte le “terre rare” del mondo, dunque ne controlla i prezzi». E ora, «con quel che arriverà da Kvanefjeld, chiuderà quasi il cerchio». Nei lavori del porto è coinvolto anche il colosso di Stato cinese Cccc, «già messo sulla lista nera della Banca Mondiale per una presunta frode nelle Filippine». I dirigenti della Shenghe, nel gennaio di quest’anno, «hanno formato una joint-venture con compagnie sussidiarie della China National Nuclear Corporation».

La sigla del colosso edilizio Cccc, continuano Gabanelli e Offeddu, è riemersa nella gara d’appalto lanciata dal governo groenlandese per tre nuovi aeroporti intercontinentali (a Nuuk, Ilulissat e Qaqortoq) che dovrebbero assicurare all’isola collegamenti diretti con gli Usa e l’Europa. Nel 2018 sei imprese sono state ammesse: l’unica non europea era la Cccc. «Ma la sua offerta ha preoccupato gli Usa (nell’isola c’è la base americana di Thule, che può intercettare i missili in arrivo su Washington) e la Danimarca (che ha un diritto di veto sulle questioni che toccano la sicurezza)». Così, i danesi hanno lanciato all’ultimo momento un’offerta d’oro, «rilevando un terzo della compagnia groenlandese che appaltava la gara», e così la Cccc è La Via Polare della Setastata esclusa. «Ma lo scorso 5 aprile è stata annunciata una nuova gara per il “completamento” delle piste e dei terminal a Nuuk e Ilulissat, altro affare milionario, e i cinesi hanno tentato di rientrare grazie a joint-venture formate con imprese olandesi, canadesi e danesi». Tutto procede: i lavori inizieranno a settembre.

Secondo Gabanelli e Offeddu, Pechino ha messo a segno un altro successo nordico, questa volta a Karholl, in Islanda: si tratta dell’osservatorio meteo-astronomico battezzato “Ciao”, acronimo di China-Iceland Joint Arctic Science Observatory, interamente finanziato dai cinesi. Alto tre piani ed esteso su 760 metri quadrati, controlla i cambiamenti climatici, le aurore boreali, i percorsi dei satelliti. E, per inciso, anche lo spazio aereo della Nato. Non è di poco conto, infatti, il risvolto strategico-militare della nuova geopolitica cinese nell’Artico: il vice responsabile del nuovissimo osservatorio è Halldor Johannson, che in Islanda è anche portavoce di Huang Nubo, «il miliardario imprenditore ed ex dirigente del Partito comunista cinese che nel 2012 tentò di comprare per circa 7 milioni di euro 300 chilometri di foreste islandesi, dichiarando di volerne fare un parco naturale e turistico». Anche su quelle foreste – annotano Gabanelli e Offeddu – passavano (e passano) le rotte della Nato, su cui ora “vigilerà” l’indesiderata superpotenza cinese.

Auto e batterie elettriche, l’insostenibile costo ambientale e sociale delle materie prime

http://europa.today.it/ambiente/auto-elettriche-materieprime.html?fbclid=IwAR1AHuy6ty2dlMXRCpO9qpHAL0MCPzme1apn90pxLNZ4F4Ip-QvcAmXBTxM

Un rapporto di Transport & Environment punta il dito contro “l’accertato sfruttamento minorile nelle miniere del Congo” e “i problemi ambientali legati all’estrazione del litio in Sud America”. Proposto un piano di regolamentazione per rendere sostenibile l’intera filiera

“Spostare le emissioni”

L’estrazione mineraria delle materie prime delle batterie e il processo di trasformazione finale “richiedono quantità significative di energia che potrebbero generare emissioni di gas serra così elevate da ridurre i benefici climatici marginali derivanti dall’uso di veicoli elettrici anziché di quelli con motore a combustione”. In altre parole, “le emissioni vengono spostate da una ‘conduttura’ all’altra”, creando una filiera che “richiederebbe nuove normative”. 

Le variabili in gioco

Il rapporto analizza quindi in precedenti studi scientifici in materia di misurazione di tale impatto ambientale, soffermandosi sulle varie difficoltà di calcolo dovute a troppe variabili, quali le tecniche di lavorazione, il luogo di produzione e persino i metodi di trasporto delle batterie. Un capitolo a parte è dedicato anche all’utilizzo della batteria, alla sua vita media, al numero di ricariche e allo smaltimento delle celle, che a sua volta apre nuove problematiche legate al riciclo. 

Il problema delle materie prime

Ma in mezzo a tante complessità, emerge un punto fermo sull’estrazione delle materie prime. La produzione di batterie agli ioni di litio si avvale infatti “dell’attività estrattiva artigianale nella Repubblica Democratica del Congo” e “in alcune aree del Sud America”. Il rapporto fa quindi riferimento ad altre due ricerche che hanno rivelato “lo sfruttamento di manodopera, anche minorile” nei siti minerari africani e “problemi ambientali” legati all’attività estrattiva in Cile.

Le miniere che sfruttano i bambini

Lo studio sulle miniere congolesi fa luce sullo sfruttamento della manodopera minorile per l’estrazione di cobalto, che viene compiuta, come denuncia una videoinchiesta del Wall Street Journal, senza rispetto delle più elementari norme di sicurezza. Un’altra inchiesta giornalistica pubblicata dal Guardian rivela che sarebbero 35mila i bambini “dai sei anni in su” impiegati nelle attività estrattive, su una forza lavoro totale del comparto che impiega 255mila persone. 

La riserva naturale in pericolo

L’altro studio citato mette in relazione l’estrazione del litio in Cile con l’impatto ambientale nel lago salino Salar de Atacama, nella parte settentrionale del Paese. “Abbiamo identificato le attività di estrazione del litio come uno dei principali fattori di stress per il degrado ambientale locale”, scrivono gli autori dello studio, che punta il dito contro il comparto minerario locale, responsabile “del declino della vegetazione, dell’aumento delle temperature diurne, di una tendenza al calo dell’umidità del suolo e all’aumento delle condizioni di siccità nelle aree di riserva nazionale”.

L’appello

T&E fa dunque notare come non esista “una legislazione attuale a livello Ue che regolamenti l’uso del lavoro forzato o minorile nei prodotti venduti in Europa” e “tantomeno esiste una legislazione che regoli il danno ambientale al di fuori dell’Ue”. L’organizzazione chiede quindi un intervento del legislatore europeo al fine di assicurare la tracciabilità delle materie prime ed il rispetto dei valori etici ambientali nella filiera che si appresta a rimpiazzare quella dei motori a combustibili fossili.

Entro 3 anni la Bolivia sarà il più grande esportatore di litio del mondo

http://www.greenreport.it/news/energia/entro-3-anni-la-bolivia-sara-il-piu-grande-esportatore-di-litio-del-mondo/?fbclid=IwAR3KeJi1K8x9augEOX5jw7EJ_1TNatK2LhIk9y_2W4yMhyB6xNHFEYUOI1E

Il miracolo economico del socialismo indigeno di Evo Morale che guarda alla green economy

[3 Gennaio 2019]

Il vicepresidente della Bolivia, Álvaro García Linera, ha detto in un’intervista concessa a Patria Nueva e Btv che «Con l’incremento dell’industria dello sfruttamento del litio nei salares di Pastos Grandes y Uyuni (Potosí) e Coipasa (Oruro), questa nazione diventerà la prima potenza di esportazione di questo metallo. Questo rivoluzionerà il mondo scientifico boliviano, rivoluzionerà l’industria boliviana, le entrate della Bolivia, questo non è un sogno, abbiamo appena iniziato». L’investimento previsto è di 740 milioni di dollari

E la Bolivia punta a diventare un Paese industriale della green economy, con la costituzione di una joint venture tra lo Stato plurinazionale boliviano  e un consorzio tedesco per la realizzazione di impianti di idrossido di litio, solfato di potassio, idrossido di magnesio, solfato di sodio, catodi e batterie, con un investimento previsto in circa 1,2 miliardi di dollari.

E’ previsto anche un investimento da 2,3 miliardi di dollari per produrre, solfato di potassio, acido borico, bromuro di sodio, carbonato di litio idrogeno e cloruro di litio e litio metallico nei salares di Pastos Grandes e Coipasa .

García Linera ha ricordato che il 50% delle riserve mondiali di litio si trovano in Bolivia e che entro 3 anni quello che era il più povero Paese sudamericano diventerà il numero uno al mondo per la produzione di litio: «Con i soli Pastos Grandes e Coipasa, calcoliamo che i guadagni per la Bolivia saranno di un miliardo di dollari, in più c’è Uyuni, facilmente, il litio, a prezzi bassi, darà 2,5 miliardi di dollari di profitti».

Se gli altri governi di sinistra dell’America Latina sono assediati dalle destre e stanno sprofondando, come il Nicaragua. in una mutazione familistica e reazionaria di un sogno di giustizia e libertà, o come il Venezuela in una crisi di un modello clientelare basato sullo sfruttamento del petrolio, la Bolivia del socialismo indigeno di Evo Morales sembra in buona salute e segna performances economiche invidiabili. Come ha detto Garcia Linera, «La Bolivia di ieri era quella dell’arretratezza, della povertà assoluta e della stagnazione; la Bolivia di oggi guarda al progresso, che, con grande entusiasmo, sta creando benessere; Abbiamo smesso di essere un Paese povero per diventare un Paese a reddito medio. Ci sono ancora molti bisogni, ma abbiamo fatto passi da gigante e, se continueremo su questo trend di progressi, in circa 8 anni avremo un reddito simile a quello del Cile o dell’Argentina. Queste sono conquiste di tutti boliviani perché il cambiamento è stato fatto grazie alla lotta di tutta la popolazione del Paese».

Il vicepresidente boliviano ha sottolineato che «La Bolivia è, per il sesto anno, cinque consecutivi, il campione” dell’economia continentale con la più alta crescita economica in America Latina, il 4,5%. Questa non è una coincidenza (…) La Bolivia ancora una volta il campione sudamericano in economia e il segreto della crescita è una miscela di quattro cose: mercato interno, mercato esterno, distribuzione della ricchezza e ruolo dello Stato nell’economia. Questo modello economico, costruito con così tanto sforzo, deve essere mantenuto perché è un modello vincente, abbiamo battuto tutti i vicini; dobbiamo preservare queste quattro caratteristiche che ci ha permesso di raggiungere i risultati attuali».

Il Paese andino in pieno boom economico ha un debito estero basso: il  23%, in rapporto al Pil perché il balzo in aventi della Bolivia socialista è impressionante per un Paese in via di sviluppo: l’economia del Paese è passata dai 9,5 miliardi di dollari del  2005 ai 40,8 miliardi di dollari, oltre il 400% in più, e García Linera può tranquillamente affermare che «Questo non è mai accaduto in Bolivia, è un miracolo economico (…) che cambierà il panorama geopolitico del continente e cambierà la posizione della Bolivia di fronte al Cile, l’economia è quella che decide se si può parlare in condizioni uguali». Il vicepresidente si riferisce alla rivendicazione della Bolivia di un accesso al mare con il recupero di una parte del territorio perso in una vecchia guerra.

Inoltre, in Bolivia sono state trovate nuove riserve di idrocarburi per 10 trilioni di piedi cubici, per un valore di circa 70 miliardi di dollari e il governo dice che non si seguirà la strada fallimentare del Venezuela ma quella della Norvegia: queste entrate verranno investite per garantire il benessere delle generazioni future. Inoltre la Bolivia ora si potrà permettere di importare meno gas e Garcia Linera ha annunciato che «La Bolivia sta battendo un record continentale perché ha perforato fino a  7.800 metri di profondità e, se la Pachamama  sarà generosa con il Paese, troveremo idrocarburi».

Prima che Evo Morales diventasse presidente della Bolivia, l’azienda petrolifera di Stato Yacimientos Petrolíferos Fiscales Bolivianos (Ypfb) valeva 100 milioni di dollari, ora vale 15 miliardi di dollari e sta  aprendo altri mercati «L’industrializzazione del gas che si sviluppa in Bolivia  dalle mani di un presidente contadino», ha riassunto  García Linera  che poi ha vantato un altro risultato: «La produzione di etanolo, che consente l’uso di questo biocarburante per evitare la contaminazione, che si ottiene mescolando benzina con l’alcol proveniente dalla canna da zucchero, che è viene praticata in altri Paesi da più di 30 anni. Questa è una rivoluzione perché l’etanolo permetterà all’economia di crescere dell’1% in più, la crescita agricola sarà di 4 punti, la crescita dell’industria di quasi 0,7 punti, smetteremo di sovvenzionarla con 143 milioni di dollari perché non compreremo più additivi dall’estero, la Ypfb migliorerà le sue entrate di 300 milioni, produrrà 27 mila nuovi posti di lavoro nell’industria, nella distribuzione, nell’agricoltura; sostituiremo 80 milioni di litri di benzina importata, le colture di canna da zucchero saranno aumentate del 38% e smetteremo di emettere il 6% di gas serra. E’ un grande traguardo per l’economia boliviana: risparmia denaro, genera occupazione, espande l’agricoltura, è rispettosa dell’ambiente e farà crescere l’economia». Grazie a questo, nel  2019 la Bolivia potrebbe smettere completamente di importare biodiesel da olio di soia e olio di palma coltivato in Amazzonia.

A questo si aggiunge che la Bolivia sta aumentando fortemente la produzione di energia rinnovabile  eolica, solare, geotermica e idroelettrica e geotermica per sostituire l’uso di gas: «Dell’energia totale prodotta, il 12%, lo facciamo con le energie alternative, il nostro obiettivo è che queste, fino al 2025, saliranno al  50%», ha detto il vicepresidente.

Il socialismo boliviano punta a migliorare i guadagni delle micro, piccole e medie imprese, anche sovvenzionando il consumo di energia elettrica, garantendo il rifornimento di gas, di acqua e altri benefit. Il  miracolo economico del socialismo indigeno si riflette anche  sul risparmio interno e nel miglioramento delle condizioni di vita delle persone  che sono sempre più in grado di accedere al credito per comprarsi una casa.

Una crescita che va anche a vantaggio dell’agricoltura, la cui produzione è cresciuta a 13,6 milioni di tonnellate su 2,5 milioni di ettari di terreno coltivato, ma si prevede un aumento di mezzo milione di ettari all’anno. Morales ha chiesto ai boliviani di produrre più cibo per far crescere una società sana e per le esportazioni che vanno a beneficio dell’economia nazionale.Álvaro García Linera ha concluso: «L’’agricoltura ha mercato, si stanno aprendo mercati e scommettere in una maggiore produzione è una buona scommessa e vogliamo incrementarla molto di più».

Per giornale spagnolo “inutile” la bomba nucleare più potente sviluppata dall’Urss

https://it.sputniknews.com/mondo/201911028247961-per-giornale-spagnolo-inutile-la-bomba-nucleare-piu-potente-sviluppata-dallurss/?utm_source=push&utm_medium=browser_notification&utm_campaign=sputnik_it

Tsar Bomba (foto d'archivio)

© Sputnik . Mikhail Voskresensky
22:34 02.11.2019

Il 30 ottobre del 1961 l’Unione Sovietica testò la cosiddetta Tsar Bomba (nota anche come Bomba Zar o RDS-220 – ndr) nell’Artico, ma in realtà un ordigno così grande si rivelò inadatto per una vera guerra, si legge in un articolo del quotidiano spagnolo La Vanguardia.

In particolare, la Tsar Bomba, secondo il giornalista, non poteva essere lanciata a grande distanza. Inoltre gran parte della sua energia sarebbe andata dispersa nello spazio sotto forma di radiazione, sostiene l’autore dell’articolo.

L’Urss voleva intimidire le potenze capitaliste con una dimostrazione dell’insuperabile tecnologia sovietica, ma di fatto era solo un enorme bluff, si afferma nell’articolo. La leadership sovietica ne era consapevole e voleva nasconderlo, ipotizza l’autore dell’articolo.

La RDS-220 è una bomba aerea termonucleare sviluppata in Unione Sovietica tra il 1956 e il 1961 da un gruppo di fisici nucleari guidati dall’accademico Igor Kurchatov.

© SPUTNIK . MIKHAIL VOSKRESENSKIY
La copia della Tsar Bomba

Il test di questo ordigno nucleare si svolse il 30 ottobre 1961: un aereo Tu-95V sganciò la bomba nel poligono di test nucleari di Sukhoi Nos, sull’isola Novaya Zemlya. La potenza dell’esplosione venne misurata in 58.6 megatoni.

La Tsar Bomba è il più potente dispositivo esplosivo fabbricato nella storia dell’umanità. È entrato nel Guinness dei primati come il più potente ordigno termonucleare ad aver superato un test.

Partiti in Germania i primi treni ad idrogeno al mondo, ecologici ed a zero emissioni

Pubblicato il: 19 Settembre 2018

treni idrogeno germania

La Germania da Lunedì può vantare un primato mondiale

infatti in bassa Sassonia, sono già attivi da 2 giorni e stanno già circolando i primi due treni ad idrogeno del mondo, destinati a cambiare radicalmente il trasporto su rotaia.

Manderanno in pensione le locomotive a diesel, infatti sono ecologici, non inquinanti dato che emettono vapore acqueo, silenziosi e hanno 1000 chilometri di autonomia.

i due treni, Coradia iLint hanno iniziato a viaggiare lunedì scorso percorrendo i 100 chilometri di ferrovie tra Cuxhaven, Bremerhaven e Buxtehude Bremervörde, in Bassa Sassonia, a ovest di Amburgo, e sono stati lanciati su rotaia dalla compagnia francese Alstom.

treni idrogeno germania

i due treni sono di colore blu e al momento sono in grado di raggiungere i 140 km/h, sono dotati di celle a combustibile che convertono l’idrogeno immagazzinato sul tetto e l’ossigeno ambientale in elettricità.

Le batterie agli ioni di litio verranno utilizzate anche per immagazzinare l’energia recuperata durante la frenata, che viene riutilizzata nelle fasi di accelerazione.

Hanno un’autonomia di 1000 chilometri prima di essere ricaricati, e la parte migliore è che utilizzando acqua ed energia elettrica sono totalmente a zero emissioni inquinanti.

i treni stanno viaggiando per conto dell’autorità locale dei trasporti (LNVG) e dell’operatore regionale EVB e possono viaggiare per l’intera giornata prima di essere ricaricati.

Già prevista per il 2021 la consegna di altri 14 treni e il posizionamento di una stazione di rifornimento fissa negli spazi di EVB, secondo un contratto firmato lo scorso anno per il valore di 81 milioni di euro, nel 2021 la rete Evb sarà dunque interamente composta da treni a idrogeno

La bella notizia è che la Germania anche se è la prima ad avere investito nella tecnologia Green, non è l’unica che lo sta facendo,

la Francia per esempio punta a far correre i primi treni ad idrogeno entro il 2022 e la società Alstom ha confermato di essere in trattativa per la produzione di treni ad idrogeno anche con Regno Unito, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia, Canada e Italia,

Nel nostro paese le prime regioni a manifestare il loro interesse sono state il Trentino e la Toscana che stanno valutando l’utilizzo di fondi europei per cofinanziare l’operazione.

Stefani Schrank product manager di Alstom spiega:

il treno a idrogeno comporta un costo maggiore all’inizio rispetto a uno diesel ma dopo 10 anni l’investimento è già in pari e in attivo per i rimanenti 20 anni della vita del prodotto.

treni idrogeno germania

 

Altro che TAV, la Cina rivela un prototipo di treno a levitazione magnetica capace di raggiungere i 600 km/h (VIDEO)

https://veritaglobale.altervista.org/altro-tav-la-cina-rivela-un-prototipo-treno-levitazione-magnetica-capace-raggiungere-600-kmh-video/?fbclid=IwAR0MJ-AmnzVna5hVlTywXWozb4XfxWeDeh29UQAVeCG5wAHtpvSkuasanSg

Il dibattito in Italia è fermo intorno a una obsoleta linea TAV che dovrebbe collegare Torino e Lione per trasportare più velocemente fantomatiche merci. Intanto in Cina il progresso tecnologico prosegue senza sosta tanto che Pechino ha appena mostrato al mondo un nuovo prototipo di treno veloce, a levitazione magnetica, capace di raggiungere i 600 km/h.

La China Railway Rolling Stock Corporation (CRRC) ha presentato il primo prototipo di un nuovo treno a levitazione magnetica che promette di ridurre drasticamente i tempi di percorrenza tra Shanghai e Pechino. Il treno può raggiungere velocità incredibili di 600 chilometri all’ora (372 miglia orarie) perché utilizza i magneti per librarsi sopra i binari, risultando in un viaggio essenzialmente privo di attrito e molto fluido.

Il treno è stato costruito dalla controllata di CRRC Qingdao Sifang nella città di Qingdao, a metà strada tra Pechino e Shanghai. Ding Sansan, capo del team di ricerca e sviluppo del team di Maglev e vicecapo ingegnere dell’azienda, ha dichiarato a China Daily: “Il prototipo ha già raggiunto la levitazione statica ed è in condizioni ideali”, osservando che gli ingegneri sperano mettere in funzione il treno di prova nel 2021.

I treni Maglev rimangono una tecnologia in gran parte futuristica, anche se esistono alcune linee maglev.
La Cina ha lanciato la prima linea funzionale al mondo nel 2002 a Shanghai utilizzando la tecnologia acquistata dalla Germania; può raggiungere velocità di 430 km / h. Il Giappone ha testato un treno a levitazione magnetica nel 2015 che può raggiungere i 603 km / h e spera di avere una linea maglev in funzione entro il 2027.

Ding ha osservato che l’obiettivo di questa nuova linea è di sostituire in gran parte i viaggi aerei tra le due metropoli. Con un viaggio in aereo, compreso il tempo di preparazione, circa 4,5 ore e un viaggio in Cina sulla linea ferroviaria ad alta velocità di circa 5,5 ore, Ding spera che la nuova linea di maglev impiegherà circa 3,5 ore.

Xinhua ha notato all’inizio di quest’anno che la Cina vanta oltre 29.000 chilometri di ferrovie ad alta velocità – due terzi del totale mondiale.

https://www.lantidiplomatico.it

Parlamento UE approva schedatura di massa: dati biometrici di 350 milioni di persone

https://www.imolaoggi.it/2019/04/23/parlamento-ue-approva-schedatura-di-massa-dati-biomentrici-di-350-milioni-di-persone/

Il Parlamento europeo ha votato la scorsa settimana per collegare una serie di sistemi di controllo delle frontiere e di migrazione in una gigantesca banca dati contenente i dati biometrici di cittadini dell’UE e di paesi terzi.

Questo nuovo database sarà noto come Common Identity Repository (CIR) ed è impostato per unificare i record su oltre 350 milioni di persone. Per la sua progettazione, CIR aggregherà sia i documenti di identità (nomi, date di nascita, numeri di passaporto e altri dettagli di identificazione) che quelli biometrici (impronte digitali e scansioni facciali) e metterà i suoi dati a disposizione di tutte le autorità di frontiera e di polizia. Il suo ruolo principale sarebbe quello di semplificare il lavoro ai posti frontiera e quello delle forze dell’ordine dell’UE che saranno in grado di cercare dati in un sistema unificato molto più velocemente, piuttosto che cercare individualmente in database separati.

La scorsa settimana, i funzionari UE hanno dichiarato: “I sistemi coperti dalle nuove norme includeranno il sistema di informazione Schengen, Eurodac, il sistema di informazione visti (VIS) e tre nuovi sistemi: il sistema europeo di casellari giudiziari per cittadini di paesi terzi (ECRIS-TCN), il sistema di ingressi / uscite ( EES) e il Sistema europeo di informazione e autorizzazione dei viaggi (ETIAS) “.

Il Parlamento europeo e il Consiglio europeo hanno promesso “salvaguardie adeguate” per proteggere il diritto alla privacy dei cittadini e regolamentare l’accesso dei dati ai funzionari.

L’UE gestisce uno dei più grandi database biometrici del mondo

Da quando i piani per creare questo database biometrico condiviso sono stati resi pubblici, lo scorso anno, i sostenitori della privacy hanno criticato l’UE, definendo la creazione di CIR come il “punto di non ritorno” nella creazione di un “database centralizzato europeoo del genere Grande Fratello”.

Una volta installato e funzionante, CIR diventerà uno dei più grandi database di tracciamento delle persone nel mondo, proprio come i sistemi utilizzati dal governo cinese e dal sistema indiano di Aadhar.

Negli Stati Uniti, la protezione doganale e di frontiera (CBP) e il Federal Bureau of Investigations gestiscono database biometrici simili.

L’esistenza del database viene giustificata dalla necessità di dotare le forze dell’ordine di strumenti migliori per il monitoraggio di migranti e criminali; tuttavia, c’è sempre il timore che il sistema venga lentamente esteso fino a  includere e rintracciare le persone che non sono oggetto di indagini penali e perfino i turisti che viaggiano nella UE.

www.zdnet.com

Clima impazzito? ”No,è guerra climatica ”. Parla il generale Fabio Mini

https://www.jedanews.it/blog/guerra-climatica-generale-mini/?fbclid=IwAR0aA5KAtrAjUqrU6u891WgylxN4N4F2XOYDVa0Ot2Xl5lwi_7DXiGcQ3R8

Mai come ora  ci rendiamo conto che il clima è impazzito.Ecco il motivo spiegato dal Generale Mini:”E’ guerra climatica,clima modificato con agenti chimici”.

Riportiamo qualche passo significativo della testimonianza di questa persona, il cui ultimo incarico militare è stato il Comando delle forze NATO in Kossovo, e quindi non è stato un generale di “cartone”, come si dice in gergo di coloro che non  hanno mai ricoperto ruoli di Comando, e sicuramente conosce l’argomento di cui tratta e  anche solo per questo, dovrebbe essere ascoltato.
“La guerra ambientale non è più solo una ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo, si passa per pazzi.”

“Negare l’informazione è già un atto di guerra. Non c’è solo la disinformazione ma c’è una pratica militare che si chiama ‘denial of service’ ovvero si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione. E questo è già un vero e proprio atto di guerra. Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni e questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami dell’Indonesia. L’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione, a causa di anelli mal funzionanti o volutamente non funzionanti, ne ha impedito la comunicazione.”

 “La bomba climatica è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando in gran segreto per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che purtroppo non è più fantascienza.”

“La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni.”

Il Generale racconta che nel lontano 1946, lo scienziato neozelandese Thomas Leech, lavorò in Australia per conto dell’Università dell’Auckland, con fondi americani e inglesi, per provocare piccoli tsunami. Il “Progetto Seal” ebbe successo, spaventò lo scienziato che interruppe gli esperimenti, e che poi sicuramente sono stati ripresi e perfezionati.
“I militari hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta.”
“Nell’ambito militare non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa.”

Non è solo un problema di mancanza di moralità, ma secondo il Generale si va anche oltre: “La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti.”

Con l’articolo su Limes, il Generale aveva già divulgato il progetto dell’Aereonautica Militare Statunitense del 1995. In “Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025” si delineavano i piani non “di possedere il clima”, ma di controllare il meteo, lo spazio atmosferico e condurre operazioni belliche in sicurezza, dice sempre il Generale. “Per esempio, irrorando le nubi con ioduro di argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle o spostarle. Oggi siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025.”

Fonte : nogeoingegneria.com
Redatto da: veritaoltreilsistema.com

Incubo 5G, il Governo aumenta di 110 volte l’elettrosmog? Il libro denuncia di Martucci per Grillo (Ministro Salute): “Cittadini come cavie umane, si viola Codice di Norimberga!” E’ già tardi?

Dopo l’estate tutti gli “italiani saranno esposti a campi elettromagnetici ad alta frequenza, con densità espositive e frequenze sino ad ora inesplorate. Dopo Settembre l’operazione avrà respiro nazionale. Sottovalutare o ignorare il valore delle evidenze scientifiche disponibili non appare eticamente accettabile”. Pericoloso lascito dai predecessori: ignorati gli appelli precauzionali dei medici ISDE che continuano ad invocare una sensata moratoria, per compiacere Europa e lobby del 5G il Governo Conte potrebbe aumentare di 110 volte il valore limite di campo elettrico emesso dalle stazioni radio base (antenne di telefonia mobile), sommergendo la popolazione con un’irradiazione elettromagnetica multipla e cumulativa di dubbia innocuità, per altro già documentata come (potenzialmente) cancerogena da innumerevoli e accreditati studi nonché (seppur tra le polemiche per una classificazione 2B al ribasso!) dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Lo spauracchio è nella bozza di decreto stesa dal dicastero dell’ex ministro Galletti il 18 Aprile scorso e ora al vaglio di Sergio Costa. C’è scritto: considerati gli attuali limiti di legge (6 V/m nella rilevazione su 24 ore e dentro la struttura degli edifici) una “barriera per lo sviluppo della tecnologia” di quinta generazione (5G), il ministro dell’ambiente (di concerto con l’omologa della salute) decreterebbe l’applicazione di nuovi standard per i valori di attenzione “sulla base delle evidenze scientifiche in materia” da tradurre in ben 61 V/m, ovvero innalzando di 110 volte l’elettrosmog (in fisica il vettoriale delle radio frequenze è calcolato al quadrato, cioè campo elettrico+magnetico) per favorire nuove bande simultanee (s’aggiungeranno alle attuali 2G, 3G, 4G) e migliaia di nuove micro-antenne ubiquitarie (si pensa una sul tetto di ogni 12 abitazioni o sui lampioni della luce!) da disseminare senza tregua ovunque, in ogni angolo delle città ma pure in campagne e parchi. Cosa ci aspetta?
 
Snobbato il fronte precauzionista, l’unico criterio seguito sarebbe in ossequio (reverenziale!) ai desiderata degli operatori delle telecomunicazioni, recentemente riuniti a Roma da Eunews per chiedere “una revisione al rialzo dei limiti sulle emissioni elettromagnetiche”, giudicate restrittive, cioè da esplodere verso l’alto al grido di “serviranno molte antenne”!
La prerogativa, ad esclusivo appannaggio del business per l’ipercomunicazione di massa stimato in 225 miliardi di euro fino al 2025, vorrebbe l’assenza (sic!) di una dimostrata evidenza scientifica sugli effetti per la salute dell’uomo esposto alle irradiazioni, ritenuta ingiustificata l’applicazione del principio di precauzione da un punto di vista tecnico ed epidemiologico. Ma è davvero così? Ci possiamo fidare di Wi-Fi, wireless e 5G? E su quali premesse di tutela per la salute pubblica? Oppure c’è qualcosa che non ci viene detto? Qualcosa che ci tengono nascosto?
Per confutare quest’assioma stereotipato, fondato su ricerche superate e di dubbia indipendenza, ho scritto l’inchiesta “Manuale di autodifesa per elettrosensibili. Come sopravvivere all’elettrosmog di wi-fi, telefoni cellulari, smartphone e antenne di telefonia. Mentre arrivano 5G e wi-fi dallo spazio!”
 
Manuale di autodifesa per elettrosensibili_cop_fronte
 
(il libro uscirà ai primi di Luglio per Terra Nuova Edizioni), una libera (e scevra da condizionamenti) panoramica sui subdoli rischi dei pervadenti campi elettromagnetici, tracciato il perimetro del pericolo ambientale d’Era Elettromagnetica (patito in primis dagli ammalati – sempre più numerosi – di Elettrosensibilità), svelando incongruenze, distorsioni metodologiche e conflitti d’interesse alla base del cosiddetto fronte negazionista, passate in rassegna le maggiori sentenze di tribunale sul nesso giuridicamente accertato telefonino=cancro e gli studi (migliaia!) sugli effetti non termici di wireless e antenne di telefonia mobile.
 
Riporto: “I governi e le agenzie pubbliche di protezione della salute si nascondono di solito dietro obsolete linee guida ufficiali, che sono state redatte quando si pensava che l’unico modo in cui la radiazione da radiofrequenza poteva influenzare la salute era per l’intensità del campo sufficientemente alta o per l’eventuale potere di riscaldamento, come se il corpo umano fosse una bambola di plastica riempita di liquidi. Questo è falso perché innumerevoli studi scientifici hanno dimostrato che possono arrecare danni alla salute dei campi elettromagnetici molto al di sotto dei livelli delle linee guida ufficiali. Ci sono oggi forse 4 o 5 miliardi di cellulari in uso nel mondo e l’effetto cumulativo può mettere in pericolo l’essere umano”. E poi: “La strategia dell’industria è quella di finanziare studi a basso rischio che assicureranno risultati positivi, e poi di usarli per convincere i media e il pubblico che sono le prove dell’inno¬cuità dei cellulari”.
Infine: “L’anello debole della catena è comunque sempre il cittadino, che a fronte di una serie di disponibilità tecnologiche sicuramente utili e appaganti si trova comunque esposto a un rischio quantomeno possibile”.vero – che Fiorella Belpoggi (per l’Istituto Ramazzini direttrice della più grossa ricerca al mondo sugli effetti biologici delle radiofrequenze delle antenne, anticipata nei risultati parziali del 2018) ha ripetuto che “abbiamo identificato un pericolo. Non può accadere come è successo con il benzene, per il quale ci sono voluti 30 anni affinché fossero presi provvedimenti”, tanto che secondo Lorenzo Tomatis (fondatore IARC, Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) far finta di nulla oggi “equivale ad accettare che un effetto potenzialmente dannoso di un agente ambientale può essere determinato solo a posteriori, dopo che quell’agente ha avuto tempo per causare i suoi effetti deleteri”.
Infatti (che lo si sappia!), ricerca e medicina forzatamente seguono a rimorchio la più veloce innovazione tecnologica, con l’inevitabile conseguenza che per attendere riscontri medici definitivi bisogna attendere (anche) 10, 15, 20 anni dal momento in cui è stato lanciato l’Hi-Tech sul mercato (in soldoni, con affanno si studiano gli effetti del 3G quando in commercio esce il 5G!). Quindi la misura del problema la conosce, eccome!
 
Non possiamo aspettare decenni per farci (colpevolmente) ripetere dai governanti di turno, “scusate, c’eravamo sbagliati, l’elettrosmog è certamente cancerogeno!”, con chissà quale conta per le persone eventualmente colpite e danneggiate. Per questo, in conferenza a Firenze, venerdì ho preso un impegno pubblico: manderò il mio libro (in uscita a giorni) al neo-ministro Giulia Grillo perché non possa dire di non sapere. Da consapevole attivista e poi all’opposizione, s’è battuta anche in Parlamento per scongiurare l’incubo MUOS in Sicilia, partecipando persino ad un dibattito pel riconoscimento di Sensibilità Chimica Multipla ed Elettrosensibilità.Non vorrei che, sostituita la Lorenzin, come suoi illustri predecessori anche la Grillo finisse per avallare una scellerata manovra politico-lobbistica (e non di precauzione sanitaria) che dopo ferragosto ci catapulterebbe (tutti quanti, nessuno escluso) in un pericoloso punto di non ritorno: la tutela della salute pubblica viene prima del 5G! Altrimenti si rischia di violare apertamente il Codice di Norimberga, trasformando la popolazione civile in cavie umane su cui sperimentare nuove tecnologie. E questo non è (assolutamente) ammissibile.
di Maurizio Martucci mercoledì 27 giugno 2018
 
 
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