La legge è uguale per tutti. Tranne per speculatori e polizia

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post — 16 Aprile 2021 at 11:21

La legge è uguale per tutti. Tranne per speculatori e polizia

Condividiamo questa bella risposta di Alberto Perino all’articolo nell’immagine uscito per La Stampa.

Viviamo in un Paese che era definito, una volta, la culla del diritto e che LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI. Questa è la favola che raccontano per tenere buoni i cittadini-sudditi. Ma non è così.
I giudici dicono a Dana e a tutti i NO TAV: Lottate, ma nel rispetto della legge.

Signori Giudici, ma occupare manu militari e recintare terreni che non sono ancora stati espropriati ai legittimi proprietari è rispettare la legge?
Quale legge consente questo sopruso?

Signori Giudici, in base a quale legge lo stato impegna migliaia di sbirri per permettere ad una azienda privata di occupare dei terreni privati non espropriati e di recintarli manu militari ed impedisce al legittimo proprietario di accedere quando e come gli pare ai SUOI terreni?

Signori Giudici, se i gas lacrimogeni al CS vietati per l’utilizzo in guerra dalle convenzioni internazionali perché gravemente tossici per la salute in quanto cancerogeni, teratogeni e mutageni, come possono essere utilizzati contro le popolazioni inermi del proprio Paese?

Signori Giudici sulle pareti dei vostri tribunali campeggia la scritta LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI, come mai non la fate rispettare anche a TELT in Clarea a Chiomonte e alla SITAF a San Didero?
Sapete, i cittadini hanno l’impressione che lo stato faccia le leggi per il gusto di permettere ai “GRANDI E POTENTI” (qui da noi STAF, TERNA, TELT) il gusto di violarle impunemente per ribadire che loro sono loro e i cittadini non sono un cazzo!

Signori Giudici, le leggi le devono solo rispettare i NO TAV e non i devastatori della nostra amata Valle? Vero?

Signori Giudici, mi sembra che siate molto attenti alle nostre pagliuzze e non voliate mai vedere le travi di SITAF e TELT.

Che pena, Signori Giudici

San Didero: la violenza inaudita della polizia (VIDEO)

post — 15 Aprile 2021 at 15:07

San Didero: la violenza inaudita della polizia (VIDEO)

Un giovane No Tav racconta la manifestazione di lunedì 13/04 a San Didero e della violenza che continua ad essere perpetrata dalle forze di polizia in Val di Susa.

Succede proprio in mezzo alla Valle, quando la popolazione decide che non accetta una militarizzazione del proprio territorio per favorire la costruzione di opere inutili come l’alta velocità Torino-Lione e le opere accessorie ad essa collegate.

Succede a San Didero, luogo in cui un giovane No Tav viene violentemente colpito alla testa da uno dei migliaia di lacrimogeni che la polizia ha lanciato in questi giorni, anche ad altezza uomo, anche in mezzo al paese.

San Didero - violenze della Polizia

Salbertrand, Friday for future e notav in presdio alla fabbrica della polvere di Salbertrand

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notav.info

post — 3 Agosto 2020 at 13:09

Si è svolta ieri una partecipata iniziativa informativa a Salbertrand, prima nel centro del paese poi  nel luogo dove dovrebbe sorgere la fabbrica che tratta i materiali di scavo del maxi-tunnel del TAV. I tecnici notav hanno spiegato, carte alla mano, l’impatto del raddoppio della Torino-Lione su questa zona dell’alta valle. Il progetto TAV inizia a diventare più chiaro e mentre i miracolosi benefici per il Progresso propagandati dalla lobby del grande buco si fanno sempre più vaghi, le disastrose ricadute sul territorio diventano via via più concrete. Da segnalare la presenza di numerosi cittadini di Salbetrand giustamente preoccupati per l’impatto del TAV sul proprio territorio, preoccupazione aggravata dalle risposte evasive di TELT davanti ai dubbi posti dai comitati. Riportiamo di seguito il post facebook del Comitato notav di Rivalta e qualche foto dell’iniziativa:

SALBERTRAND. E’ proprio qui che vorrebbero realizzare un fronte di capannoni di 1kmx100m, alti dai 22 ai 27 metri che rimarrebbero almeno 10 anni. Qui milioni di tonnellate di materiale di scavo estratto dalle gallerie del cantiere di Chiomonte, verrebbero triturati e selezionati per vari utilizzi e inviati per il loro smaltimento invadendo il territorio di polveri e di centinaia di migliaia di camion.
Inoltre i capannoni sarebbero costruiti su un’AREA ESONDABILE, dove nessuno avrebbe potuto costruire! A causa di questo i capannoni non potranno essere perfettamente chiusi: e la POLVERE, che fine fa?
Alla faccia della tutela del territorio… A sarà dura!

 

Dai contatti con Al Sisi alla sorveglianza per Assad, chi è Area spa, l’azienda che spia i notav

https://www.notav.info/documenti/dai-contatti-con-al-sisi-alla-sorveglianza-per-assad-chi-e-area-spa-lazienda-che-spia-i-notav/

notav.info

posttop — 21 Luglio 2020 at 14:27

 Nei giorni scorsi abbiamo ricevuto e pubblicato un video inviato da alcuni escursionisti della Val Clarea che, andando per funghi, si sono imbattuti in una vasta rete di telecamere nascoste cablate sotto le rocce e dissimulate dalla polizia in pieno lockdown per spiare i valsusini. Nei video recuperati dai notav si vedono la dirigenza della digos di Torino farsi selfie con le nuove apparecchiature durante la scampagnata e alcuni tecnici che li aiutano nell’istallazione dei dispositivi.

Se sulla figura di palta della mitica polizia politica del capoluogo piemontese non c’è molto da dire visto che ha fatto già sganasciare la metà della rete, vale la pena spendere due parole in più sul profilo dell’azienda che li accompagnava, la Area spa, tra le principali ad aver investito il mercato in piena espansione dei dispositivi per la sorveglianza di massa e protagonista di diversi affari con regimi dittatoriali di tutto il mondo.

In Italia, un pugno di società private si dividono il mercato delle intercettazioni telefoniche e web. Una delle più importanti è un’azienda del varesotto, l’Area spa, specializzata nei dispositivi cosiddetti dual use, apparecchi di spionaggio utilizzabili sia in ambito militare che civile e quindi molto comodi per eludere le legislazioni contro la vendita di armamenti. Fondata nel 1996, Area spa attraversa anni travagliati che  portano la società a più riprese sull’orlo del fallimento fino al 2009 quando arriva la svolta: vince una grossa commessa, circa 17 milioni di euro, per un dispositivo DPI (Deep packet Inspection) che consente di intercettare e analizzare email, conversazioni e ricerche internet dei cittadini siriani per conto dei servizi del presidente Assad. L’affare è denunciato dal giornale Bloomberg nell’autunno del 2011 e le rivelazioni costringeranno cinque anni dopo la procura di Milano ad aprire un’inchiesta che travolgerà l’amministratore delegato di Area, Andrea Fromenti, con le accuse di esportazione illegale di materiale dual use e dichiarazioni non veritiere. Secondo i PM, esattamente nelle settimane in cui il vento delle primavere arabe faceva vacillare il presidente siriano che reagiva lanciando barili di dinamite sui manifestanti dagli elicotteri, gli ingegneri dell’azienda volavano da Milano a Damasco con le apparecchiature nascoste nei bagagli facilitando la feroce repressione dei dissidenti (dopo le rivelazioni di Bloomberg la sede dell’azienda a Vizzola Ticino sarà tra l’altro il bersaglio di un sit-in di rifugiati politici siriani).

Nonostante la vicenda, il MISE nel giugno del 2016 autorizza Area spa a installare attrezzature analoghe a beneficio del regime egiziano di Al Sisi. L’affare avrebbe dovuto andare in porto appena poche settimane dopo la morte di Giulio Regeni e avrebbe avuto come destinatario finale il Technical Research Department (TRD), sorta di unità distaccata dei servizi segreti incaricata di infiltrare e monitorare l’opposizione alla giunta militare. Solo grazie alle pressioni della famiglia del giovane ricercatore italiano la licenza è infine revocata. I dispositivi dovevano essere forniti in tandem con un’altra azienda italiana specializzata nella programmazione di trojan e malware per spiare gli attivisti politici, la Hacking team. Le circostanze sono state rese pubbliche dopo la pubblicazione delle email della società sul portale di wikileaks in cui si possono leggere i centinaia di scambi tra le due aziende lombarde e grazie a cui si evincono anche le simpatie politiche del CEO di Hacking team, David Vincenzetti, che conclude gli scambi con i suoi collaboratori con un pittoresco “Boia chi molla”.

Nel 2017 in un’inchiesta della rete Al Jazeera di cui consigliamo la visione a chiunque voglia farsi un’idea su questo opaco mercato che sta divorando le libertà civili di tutto il mondo, il vice-presidente di Area spaMarco Braccioli, viene ripreso da una telecamera nascosta durante uno scambio in cui si dice pronto a fornire un IMSI catcher al regime sud sudanese. Si tratta di un dispositivo grande come una valigia che consente di agganciare i telefoni cellulari di chiunque nel raggio di qualche decina di metri per poi poter attivare telecamera, microfono, tracciare il gps e persino inviare messaggi come se provenissero dai propri contatti. Nonostante l’embargo, Area spa assicura di potersi appoggiare su un paese terzo come la Tanzania per far arrivare la merce a destinazione. Dettaglio inquietante ma particolarmente rivelatore, nelle immagini Braccioli rassicura il suo interlocutore a proposito degli agganci che ha all’interno dell’apparato statale italiano che gli consentirebbero di snellire le procedure di esportazione.

Perché se Area fornisce i suoi servizi a regimi di tutto il mondo, i suoi principali clienti sono le forze di polizia italiane che usano le tecnologie di sorveglianza per spiare gli attivisti di casa nostra. Anche per questi affari interni, Area spa è finita nuovamente sotto inchiesta prima da parte della procura di Trieste poi di quella di Milano per accesso abusivo a sistema informatico. L’accusa è di aver scaricato sui pc dell’azienda sms, whatsapp, chiamate, intercettazioni e altri dati sensibili che dovrebbero invece essere di sola disponibilità degli inquirenti. Proprio le accuse di aver un proprio archivio privato frutto del lavoro di sorveglianza hanno portato il Consiglio di stato il 20 marzo del 2019 a concludere della legittimità dell’esclusione di Area spa dalle gare per l’aggiudicazione di appalti legati alle intercettazione per mancanza “di onorabilità, sicurezza e affidabilità“.

Mancanza di onorabilità che non ha impedito alla digos di Torino di avvalersi dei servizi di Area durante la pandemia quando, sfruttando un po vigliaccamente il fatto che i valsusini erano confinati a casa e non potevano difendere il proprio territorio, hanno deciso di affidare una ricca commessa all’azienda di Varese.

A vederlo dalla Val Susa, pare proprio che per tutti i governi i cittadini rimangono tali finché rigano dritto. Se osano mobilitarsi sono da trattare come un nemico interno da sorvegliare, infiltrare, molestare e incarcerare usando le stesse tecniche, le stesse tecnologie e addirittura gli stessi servizi forniti dalle medesime aziende.

MONCENISIO A RISCHIO TAV?

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No, non è una sparata, ma un rischio concreto.
Spiego perché.
Il progetto della linea TAV presentato dai proponenti all’inizio degli anni 2000 è stato modificato più volte, ma solo la parte progettuale della doppia galleria (9 metri di diametro per ogni canna) è rimasto sostanzialmente inalterato. 54 km prima, quando il tunnel doveva iniziare a Venaus, diventati 57 di doppia canna (più discenderie, locali tecnici, stazione di Modane ecc) nell’ultima stesura del progetto visto che han dovuto abbandonare Venaus ed iniziare lo scavo a Susa.
Il percorso del tunnel è stato sondato solo nelle parti iniziali e finali a causa della impossibilità a realizzare sondaggi di profondità che vanno dai 1500 a oltre 2000 metri di profondità nelle montagne.
Sostanzialmente non si sa cosa si troverebbe scavando: quale tipo di rocce, quanta acqua a che temperatura e pressione… si sa solo che, e questo è accertato dai dati ottenuti nel tunnel geognostico di Chiomonte (ma sta scritto anche nei progetti) che le temperature interne in fase di scavo arriverebbero a 46 gradi ed anche di più a causa della enorme massa di rocce di copertura, appunto tra i 1500 ed i 2000.
Il tracciato progettato correrebbe sotto al massiccio d’Ambin, che supera addirittura i 3000 metri. Tutto il massiccio oltre che essere stato testato nel passato dalla Minatome francese e dall’ Agip mineraria a causa della presenza di vene di minerali radioattivi, ha la particolarità di essere formato da rocce complesse e molto diverse tra loro. Tra queste oltre che quelle scistose ed amiantifere ed altre contenenti carbone ed amianto ci sono quelle formate da gessi, mi pare vengano chiamate “carbonatiche” Per chi le conosce, in loco vengono chiamate “rocce bianche”. Si tratta di affioramenti presenti nella zona del Moncenisio di rocce bianche, costituite da gessi porosi che si sciolgono e collassano quando restano a lungo nell’acqua.
Questi gessi formano delle “vene” sotterranee e sono friabili, poco consistenti, porose come delle spugne e contengono quindi acqua. Va detto che sono state intercettate a distanze notevoli dal Moncenisio in vene più o meno profonde e quando vengono bucate queste vene c’è sempre una forte venuta d’acqua e si possono trovare cavità sotterranee anche importanti dovute principalmente al fatto che nei millenni l’acqua circolante in queste rocce ne ha fatto sciogliere il gesso.
In particolare furono ritrovate in fase di scavo a Giaglione alcuni anni fa nei lavori della centrale idroelettrica sotterranea dell’AEM.
La cosa causò il blocco dei lavori e la decisione di abbandonare quello scavo impossibile e realizzare un’altra caverna in luogo più sicuro dove non c’erano vene di gessi. Il costo dello spostamento causò mi pare il raddoppio dei costi, ma tanto sapete già chi pagava…
Tornando al Moncenisio, alcuni esperti che ho avuto occasione di ascoltare mi hanno spiegato come si è formata la depressione in cui si è venuto a formare il primo lago originale, la successiva vecchia diga e poi quella attuale. Sostanzialmente quando il Moncenisio fu ricoperto di metri e metri di ghiacci, durante le glaciazioni, l’enorme peso del ghiaccio sovrastante fu sorretto dove le rocce erano consistenti mentre invece causò il collassamento delle “rocce bianche”.
In sostanza fece sprofondare col suo peso gran parte della zona del lago e probabilmente anche altre aree minori verso il Piccolo Moncenisio ed il lago delle Savine.
La foto sotto spiega il fenomeno.
Ora è evidente, perfino nelle poche carte geologiche dei progetti, che le rocce contenenti gessi sono presenti già in varie zone lungo la linea da scavare dove si son fatti i sondaggi (non si dimentichi che la caratteristica di queste gallerie è che sono dritte, e con pendenza costante) e ciò comporta che se ne incontreranno vene consistenti, oltre che depauperare l’acqua in esse contenuta, lo scavo subirebbe rallentamenti o forse blocchi totali.
L’area sotterranea non testata equivale a circa i 2/3 del tunnel, le rocce gessose non consentirebbero lo scavo e non si potrebbe cambiare pendenza o linea di scavo…
un bel problema, lo stesso della centrale AEM!
Tutto sto spiegone direte, e scusate se non sono un geologo, ma i dati ormai esistono e basta metterli insieme! E perché sarebbe a rischio il Moncenisio? Arrivo al punto. Alcuni anni fa un esperimento dimostrò che le acque del Moncenisio arrivavano per via sotterranea fin nei laghi di Avigliana. Si trattò di un esperimento di “colorazione delle acque” del Moncenisio con cui dopo mesi, andando a testare le acque nei dintorni si cercò quello specifico colorante. Sorpresa… fu trovato nei laghi di Avigliana!
Ciò dimostrerebbe che dal Moncenisio per via sotterranea le acque vanno molto lontano, probabilmente infiltrandosi proprio nelle rocce bianche gessose presenti sui suoi fondali e rive.
Eccoci arrivati alla logica evidenza perciò che se si buca per 57 km la montagna sotto all’Ambin per realizzare due gallerie di 9 metri di diametro e si intercetta una vena di gessi collegata in qualche modo coi gessi del lago del Moncenisio… l’acqua scende sempre in basso e…
Se a qualcuno queste righe sembrassero un po’ fantascientifiche niente di male, anche se in realtà il rischio esposto esiste anche nei pensieri dei grandi ingegneri che lavorano per i promotori dell’opera.
In uno dei precedenti progetti, quando si voleva realizzare il tracciato TAV in sotterraneo da Caprie a Bussoleno, sotto al Rocciamelone, venne evidenziato nei progetti il rischio che quelle gallerie potessero intercettare acque provenienti addirittura dal lago di Malciaussia (che è sul versante opposto del Rocciamelone!). Non ricordo ora se in quel caso si facesse però cenno alle rocce carbonatiche che in quella zona non dovrebbero essere comunque molto presenti.
Ancora una precisazione per gli scettici eventuali: a parlare di alte temperature interne in fase di scavo non sono io ma i progetti, ed in un filmato trasmesso dalla RAI lo fanno gli operai che scavavano rivolgendosi a Salvini nel 2019.

Telt comanda e la Questura esegue (VIDEO)

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notav.info

post — 4 Agosto 2020 at 01:57

Si è svolta oggi l’iniziativa annunciata dal Movimento No Tav a Chiomonte. Marisa, convocata sui terreni della baita No Tav oggetto di esproprio da parte dell’azienda Telt, è stata accompagnata da oltre 50 comodatari.

Oltre al jersey posizionato prima del ponte sulla Dora, presenti un ingente schieramento delle forze dell’ordine ed alcuni personaggi con la pettorina di Telt che, oltre a trattare con arroganza Marisa ed il suo avvocato, hanno dato ordini alla questura di Torino.

All’avvocato di Marisa (e dei comodatari) non è rimasto altro da fare che lasciare sul selciato, sotto i piedi di un poliziotto, l’atto da notificare.

Pubblichiamo qui di seguito un video che racconta come sono andate le cose…vedere per credere!

baita esproprio

“La terra non si abusa. Il futuro non si usa”: passeggiata dei No Tav in Valsusa

https://torino.repubblica.it/cronaca/2020/08/01/news/no_tav_la_passeggiata_senza_distanziamento_dei_contrari_alla_torino-lione-263433234/?fbclid=IwAR3zlH8KqKTtf_CpxSctGx6Y8-5r3Ki_nS1O9BefTJzahp5-I5GNuoY0qBw

Dal campo sportivo di Giaglione verso il presidio permanente dei Mulini

di CRISTINA PALAZZO

01 agosto 2020
 

È un’estate di lotta  in Val di Susa contro la Tav. Anche questa mattina decine di giovani NoTav  si sono ritrovati per manifestare contro l’opera Torino-Lione. Hanno organizzato una passeggiata partita dal campo sportivo di Giaglione verso il presidio permanente dei Mulini, che continua da oltre un mese. Ieri sera, invece, sempre nell’ambito del campeggio giovani che andrà avanti fino a domani, si è svolto l’apericena che si è concluso ai cancelli della centrale di Chiomonte con cori e battiture.Ad aprire il corteo lo striscione “La terra non si abusa. Il futuro non si usa”.

In parallelo invece continuano le iniziative dei sindaci per chiedere un incontro con il governo. L’ultima è una lettera firmata dall’Unione Montana Valsusina e spedita ieri a Roma, sperando in una risposta dal governo Conte. Una strada già provata 8 mesi fa, rimasta senza risposta,
per chiedere chiarezza rispetto a “un quadro di indeterminatezza intorno alle ipotesi di realizzazione e ai risultati attesi per il progetto Torino-Lione. Tale situazione è incompatibile con gli obblighi di efficacia e trasparenza connessi con la rilevante entità di risorse pubbliche che dovrebbero essere assorbite da questo progetto”.

Diciassette i sindaci che hanno firmato, capofila il presidente dell’Unione, Pacifico Banchieri, sindaco di Caselette: “Abbiamo sempre espresso dissenso all’opera ma da sindaci siamo pronti a confrontarci” 

Il movimento No TAV è giovane!

https://volerelaluna.it/tav/2020/07/29/il-movimento-no-tav-e-giovane/?fbclid=IwAR1fKajTTXN2cH0Ya6UnjjfQm9fAQmwA32WXSkdgflh6l0EAhoumyhz6OiU

Venerdì 24 luglio si viene svegliati da un messaggio: «stanno sgomberando il presidio dei Mulini in Clarea, i ragazzi sono saliti sui tetti delle baite e sugli alberi, le ruspe avanzano con poliziotti antisommossa». Parte il tam tam, una telefonata a un amico: «c’è anche tuo figlio? sei preoccupato?». «Ma no, adesso salgo a vedere, faranno un po’ di esperienza».

La spiegazione è tutta lì. C’è il passaggio generazionale. Sono venuti su quasi all’improvviso, come funghi. Adesso i giovani sono davvero tantissimi e sempre presenti. Fino a qualche anno fa nelle manifestazioni erano presenti ma in sordina; da qualche tempo si sono presi lo spazio, si presentano in blocco, sono una potenza che si esprime negli occhi e nella determinazione.

Il presidio dei Mulini inaugurato il 20 giugno in occasione dell’allargamento del cantiere di Chiomonte è diventato in poco tempo un luogo vivo. Molti ragazzi e tende da campeggio colorate. Il bosco a proteggere quella radura: l’estate, il caldo, i giovani e meno giovani e la bellezza della Val Clarea, costituiscono un mix perfetto per sentirsi immortali. Se lo scenario nel quale i valsusini si muovono nel praticare l’opposizione non fosse stato da sempre di una bellezza così totale, con un senso collettivo e di comunità forte, forse non saremmo arrivati a trent’anni di lotta.

L’ennesima conferma di essere dalla parte della ragione si trova nella ridicola avanzata delle ruspe per rimuovere barricate di tronchi. I ragazzi sui tetti di losa, abbarbicati con provvigioni, antiche baite che ne hanno viste di ogni sorta e adesso anche questa. Un film: contrapporsi con poliziotti in tenuta antisommossa per tenere la posizione ha del surreale.

Un filmato registra, nel cambio turno, dieci auto della Digos, nove camionette e sei jeep della polizia, cinque camionette dei carabinieri, un’auto e quattro jeep dei carabinieri, due camionette della guardia di finanza, due bus dell’esercito. Una prova di forza incredibile per l’opera più inutile e militarizzata al mondo. Digos, Polizia e cacciatori di Sardegna. Inutile chiedere i costi.

Poi ci sono quelli fatti “prigionieri”. Lo Stato non perdona, una pericolosa settantatreenne insegnate di greco latino e un altrettanto pericoloso pescivendolo in pensione di 65 anni. Ma non mancano altre restrizioni. L’ultima arrivata ad Ermelinda un “avviso orale” dalla Questura di Torino su segnalazione della Digos, un avviso a tenere una condotta conforme alla legge. Il che significa non urlare con quanto fiato si ha in gola (almeno quello) il proprio disappunto (chiamiamolo così per stare sul forbito), di fronte ai cancelli che delimitano lo spazio al cantiere. Ermelinda è solita farsi sentire e l’elenco di altri contrasti, un oltraggio, un foglio di via dal Comune di Giaglione e altro ancora la rende persona “socialmente pericolosa”. Certo Erme non se ne perde una. È determinata come militante e come donna, non si risparmia e mette l’accento sulla questione di genere rivendicato anche con il gruppo fumne No TAV (donne No TAV). Nel 2006 un articolo la descrive così: «quando la stanchezza ha il sopravvento: quando il troppo caldo arrossa i visi, la mancanza di sonno stropiccia i lineamenti, il freddo congela le guance, lei rimane impassibile, nella bellezza vera, mediterranea. Niente di quello che succede attorno può ledere quella sua dignità calabrese, portata con grande orgoglio».    

L’accanimento sulle persone che continuano a tenere viva l’opposizione alla grande opera è davvero pesante e sproporzionato. Il TAV è un dogma. Guai a scalfirlo, si va avanti e basta, costi quel che costa (e proprio il caso di dirlo), passando su tutto: sanità in ginocchio, casse vuote dello Stato, Covid e pandemia.

«Gridatelo dai tetti» è una frase consegnata alla storia da Bartolomeo Vanzetti sulla sua innocenza. Forse deve passare ancora molto tempo prima che si faccia luce su questa storia di oggi con tutto il peso di quanto di inverosimile e di grottesco accade in questa valle alpina per niente pacificata. Ma arriverà.

Tav, Costa: “Con Torino-Lione emissioni per 10 milioni tonnellate di CO2”

https://nuovasocieta.it/tav-costa-con-torino-lione-emissioni-per-10-milioni-tonnellate-di-co2/?fbclid=IwAR1RpEaminxDY3Zjz8cBo23RLBgTYj0NbzJLDZfvN4LaP1SC-684HTRcFXM

La valutazione ambientale fatta dal gestore francese, per quanto riguarda la costruzione del Tav, Treno ad Alta Velocità, il cui passante, dalla Francia in Italia, è in Piemonte, produrebbe nell’aria una quantità pari a 10 milioni di tonnellate di CO2.

“Il gestore dell’infrastruttura francese ha stimato che la costruzione del collegamento Lione-Torino genererà 10 milioni di tonnellate di emissioni di CO2″. Lo ha detto il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, in una conferenza stampa via web con alcuni corrispondenti stranieri.
Costa ha inoltre osservato che: “Poche settimane fa la Corte dei conti europea ha sottolineato che ci vorranno almeno 50 anni per compensare queste emissioni, ben al di la’ degli obiettivi europei per la riduzione delle emissioni”.

La piccola (ma libera) Repubblica dei Mulini. Un racconto della nuova onda No Tav e di come si è formata

https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/07/llibera-repubblica-dei-mulini/?fbclid=IwAR1qmB9q-0h49m4OHnIl9x8gD4zorUJ6LgYuft6iFMY6tG2rFZgmK7EMq6o

di Wu Ming 1 *

La sera del 5 luglio, tornando dalla “battitura” al cancello della zona rossa, il pensiero: qualcuno avrebbe dovuto scriverne, di quella nuova generazione No Tav. Ventenni e anche adolescenti che avevano imparato a stare insieme e organizzarsi nei campeggi del festival Alta Felicità, s’eran fatti le ossa nelle grandi mobilitazioni per il clima del 2019, nella primavera 2020 avevano partecipato ai flash mob planetari seguiti all’uccisione di George Floyd, e al principio di quell’estate erano i protagonisti della rinascita del movimento valsusino. L’ennesima rinascita, dopo alcuni anni difficili.

Chi seguiva le vicende in Valsusa aveva già visto un grosso spezzone «Giovani No Tav» aprire la marcia da Susa a Venaus dell’8 dicembre 2019. Che era stata un successo: perfino La Stampa aveva dovuto scrivere «gli organizzatori […] sono riusciti a portare nella borgata simbolo della lotta No Tav una marea di persone».

Quel giorno Alberto Perino aveva dedicato il suo discorso ai «ragazzi in prima linea».

E adesso erano anche più avanti. Da due settimane tenevano un estremo avamposto in val Clarea: il presidio permanente ai Mulini.

Ai Mulini c’era passato chiunque, dal 2011 in poi, fosse andato a vedere coi propri occhi come andava la lotta No Tav. Era un borghetto abbandonato, lungo la via a mezzacosta che da Giaglione portava al famigerato cantiere, quello che la controparte voleva allargare.

Il nuovo presidio non solo richiamava antichi fasti, ma li citava in modo esplicito: quasi dieci anni dopo lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena, in val Clarea erano tornate le case sugli alberi, usate come torri d’osservazione.

Anche l’Entità osservava i presidianti, ventiquattr’ore al giorno, e spesso li tormentava, tanto che dormire era un’impresa. Nel cuore della notte le guardie suonavano allarmi, o accendevano un faro all’improvviso, illuminando con violenza tende e sacchi a pelo. E se qualcuno s’allontanava di pochi passi dai Mulini per pisciare, poteva incontrare il guanto dei Biechi Blu. Eppure, oltre alla giusta rabbia, nei resoconti di chi era stato al presidio c’era gioia.

E ormai c’erano stati in parecchi. I presidianti riuscivano a darsi il cambio ogni giorno, a gruppi di trenta-cinquanta, aggirando l’assedio dall’alto dei boschi, con la copertura di una «passeggiata solidale». Si partiva da Giaglione in duecento e a un certo punto la banda del cambio-turno s’infrattava e saliva per sentieri, portando con sé viveri, acqua e adrenalina in corpo. Il resto del corteo andava al cancello, a battere il ferro coi sassi e gridare slogan. Quel 5 di luglio, avevo appena assistito alla scena. L’età media di chi percuoteva le sbarre non superava i 22 anni, ed erano in gran parte giovani donne.

Oltre al presidio, la nuova generazione era stata in prima fila nelle recentu iniziative di lotta, alcune delle quali clamorose, come le contestazioni del 24 e del 27 giugno davanti al ristorante di Susa dove pranzavano le forze dell’ordine. La seconda volta, subissati di fischi e slogan, i celerini erano scappati dal paese imboccando un vicoletto, le code tra le gambe.


La notte tra l’1 e il 2 luglio c’era poi stato un cacerolazo – concerto diffuso per tegami e padelle – di fronte all’Hotel Ninfa di Avigliana, dove la polizia alloggiava. «In questo hotel», diceva un comunicato, «alcune truppe d’occupazione pernottano per poi fare blocchi, controlli e intimidazioni lungo tutta la valle durante il giorno. Noi qui non vi vogliamo, voi da qui ve ne dovete andare!».

Come la riapparizione delle case sugli alberi, anche la ripresa di quelle tattiche di disturbo, tipiche del periodo 2012-2014, segnalava che il movimento aveva riafferrato diversi fili della propria storia e li stava dipanando.

Sì, qualcuno avrebbe dovuto raccontarla, l’ennesima – e per molti sorprendente – nuova vampata di conflitto in valle. I media mainstream fingevano di non essersene accorti. Gli azionisti di riferimento volevano tenere il profilo basso. Dopo anni a spacciare wishful thinking del tipo «la lotta No Tav è finita, il movimento è in crisi, l’opera è necessaria ed è a buon punto, indietro non si torna», era spiacevole e difficile fare i conti con certi dati di fatto: la lotta era viva eccome, il movimento si stava rinnovando, la Grande Opera era ferma come al solito, e la sua presunta utilità contestata più che mai, anche dalla nuova amministrazione di Lione e perfino dalla Corte dei Conti europea.

Chi aveva creduto alla propaganda e dato la lotta per morta, avrebbe faticato a capire come – facendo leva su cosa – il movimento avesse superato gli ostacoli del 2018-2019.

2018-2019: un biennio di crisi e nuovi inizi

«Nomi separatori e nomi omologanti»

Contro il movimento No Tav, nel corso degli anni, si erano usate due strategie retoriche: una incentrata sui «nomi separatori» – concetto proposto dal filosofo francese Alain Badiou –, l’altra su quelli che avevo proposto di chiamare «nomi omologanti».

Per poter usare contro un movimento un nome separatore, occorre fare riferimento a un oggetto identitario fittizio: il «cittadino onesto», la «gente normale», «gli italiani»… Chi non somiglia abbastanza all’oggetto identitario fittizio viene marcato con un nome che «permette allo Stato di separare dalla collettività un certo numero di gruppi e giustificare il ricorso a particolari misure repressive» (Badiou, Il risveglio della storia, 2011).

Esempi alla rinfusa di nomi separatori: «i violenti», «gli estremisti», «gli autonomi», «i black block» (scritto proprio così, con l’errore di ortografia), «gli immigrati», «i musulmani, «gli zingari», «gli ebrei», «i terroristi»…

Il ricorso a nomi separatori per diffamare il movimento No Tav e isolarlo dalla popolazione non aveva mai funzionato. L’emblema di quel fallimento era la maglietta «Siamo tutti Black Bloc» indossata da madame in pensione, che la compravano anche in formato bebè per i nipotini. E che dire dell’anziana manifestante in sedia a rotelle con il cartello «Anarco-insurrezionalista valsusina»?

Sin dall’inizio, però, contro il movimento No Tav si erano usati anche nomi omologanti, epiteti che lo avvicinavano all’oggetto identitario fittizio, cioè la maggioranza degli italiani, ma dando a quest’ultima una connotazione negativa, come quando si dice: «la solita cosa fatta all’italiana». Il ricorso a nomi omologanti serviva a presentare la lotta contro la Grande Opera come la solita faccenda di egoismi locali, campanilismi, pastette… Roba da «uomo medio», insomma.

Il primo nome omologante era stato «nimby», ma nemmeno quello aveva funzionato. Anzi, nel corso degli anni il lemma «No Tav» aveva acquisito significati plurimi, ben oltre la vertenza territoriale specifica. Aveva acquisito un carattere di universalità. Essere «No Tav», come aveva fatto notare Serge Quadruppani nel suo Le monde des grands projets et ses ennemis (La Découverte, Parigi, 2018), significava essere contro il Tav e il suo mondo, il mondo capitalistico la cui logica imponeva – tra le molte altre cose – le Grandi Opere Inutili. Rifiutare il sistema delle Grandi Opere era tutto fuorché «nimby». Not in anyone’s backyard.

Contro i nomi omologanti, tuttavia, bisognava stare in guardia. Potevano essere più pericolosi di quelli separatori, perché potevano ottundere e smorzare, smussare e dilavare il conflitto.

«Grillini»: trappola contro l’autonomia No Tav

Dal 2005 alla seconda metà degli anni Dieci la lotta no tav aveva anticipato direzioni e impresso svolte alla politica nazionale, curvando più volte lo spazio-tempo, costringendo tutte le forze in campo a posizionarsi sulla questione: o di qua o di là. Tutto questo le era stato possibile perché aveva tenuto il punto di un no incondizionato, e aveva tenuto quel punto perché era sempre stata una lotta autonoma.

Il progetto a cui il movimento si opponeva non era altro che il risultato della lotta stessa, della continua pressione No Tav. Senza la lotta, si sarebbe realizzato il progetto sulla sinistra idrografica della Dora, quello ritirato a fine 2005 dopo la riconquista del presidio di Venaus. La controparte aveva poi riconosciuto che quel progetto era sbagliato, troppo impattante, dispendioso, e ne aveva proposto uno suppostamente «low cost». Quello che dal 2010 continuava a perdere pezzi e subire varianti.

In Valsusa era stato il capitale a dover rispondere alla lotta. La lotta aveva costretto il capitale al rattoppo, al rabberciamento, a tagli e ridimensionamenti continui. Ogni volta si riconosceva, implicitamente, che prima il progetto non andava bene, adesso invece… Su ciascun singolo punto si recepiva la critica No Tav, ma senza ammetterlo, perché ai No Tav non si potevano riconoscere ragioni. La risposta alla pressione dal basso era dunque presentata come iniziativa presa dall’alto, riconsiderazione, «intelligente rivisitazione» (così il ministro Delrio sulla rinuncia a ben sessanta chilometri di nuova linea, 1 luglio 2016).

Il movimento aveva ottenuto tanti più risultati quanto più era percepito come alieno al teatrino della politica. Evitando di smarrirsi nelle nebbie luccicanti della cronaca partitica spicciola, la lotta aveva saputo rifuggire la «politica politicata», con la sua superficie increspata da polemiche fittizie e il suo fondo di intese trasversali a tutela del sistema.

In quel modo, il movimento No Tav aveva fatto politica vera. Si era anche riappropriato di nessi amministrativi territoriali – in parole povere: aveva fatto eleggere sindaci e giunte – ma sempre concependoli come strumenti e senza credere che una vittoria elettorale fosse già un esito, che ora si potesse «lasciar fare ai nostri eletti». Al contrario, il rapporto tra amministratori No Tav e comitati era una corda tesa.

Nel corso degli anni Dieci, si era definita una nuova strategia di normalizzazione fondata sull’epiteto «grillini», usato come nome omologante per ricondurre il movimento No Tav a una delle forze partitiche in campo, rappresentarlo come forza subalterna nella cornice stereotipata del presunto scontro tra «progressisti» e «populisti».

L’ostentato ma ambiguo appoggio del Movimento 5 Stelle alla lotta No Tav aveva causato discussioni interne e polemiche, e fornito ai nemici buoni appigli, ma finché il partito di Grillo e Casaleggio era rimasto all’opposizione, il movimento era riuscito a non farsi ghermire né dividere.

A partire dal giugno 2018, invece, con l’approdo del M5S al governo e l’insediamento del governo Conte I, la strategia aveva pagato. Il movimento No Tav era stato messo in difficoltà come mai prima.

In parte, ci si era messo da solo, con l’iniziale apertura di credito al governo da parte di alcune sue anime e il prevalere di una linea «attendista»: vediamo se fermano l’opera. Così la soggettività No Tav era rimasta intrappolata nella narrazione delle «tensioni tra forze politiche»: tensioni interne alla coalizione «gialloverde», e tensioni tra il governo e l’opposizione-per-modo-di-dire, cioè il PD, che su Tav e Grandi Opere aveva la stessa posizione della Lega e in fondo, come si sarebbe visto una volta dispersa la fuffa, del M5S.

Quest’ultimo aveva a lungo ostentato il proprio sostegno a svariate battaglie sociali e lotte territoriali. Ma con l’andata al governo le pose barricadere avevano presto lasciato il posto ai completi Gucci o Ermenegildo Zegna, e l’opposizione alle Grandi Opere era evaporata come urina sotto il sole, lasciando solo un lezzo pungente. Nel giro di pochi mesi, i ministri e leader grillini avevano dato il benservito ad almeno tre lotte territoriali affini a quella No Tav: No Terzo Valico, No Tap e No Passante di Bologna.

Tuttavia, il nodo valsusino aveva tardato a sciogliersi. Una certa «desistenza» si era prolungata, e le compagne e i compagni di strada del movimento No Tav – incluso il sottoscritto – si erano trovate in difficoltà. Avevamo sentito il movimento meno vicino, impacciato nel prendere parte alla lotta contro quel governo, che pure era il governo della repressione, dei decreti sicurezza, del razzismo sistematico, degli attacchi ai diritti civili e sociali.

Tra l’estate 2018 e il febbraio 2019 si erano registrati un calo di autonomia nell’immagine della lotta e un calo di universalità del significante «No Tav». Quest’ultimo aveva oscillato pericolosamente verso la caricatura che della lotta aveva sempre fatto il nemico: una vertenza locale e particolaristica.

L’immagine del movimento No Tav aveva perso una parte di autonomia anche perché si era parlato più dell’iter dell’opera che della lotta per fermarla. O meglio: la lotta era parsa dipendere dell’iter anziché, come era accaduto fino ad allora, viceversa.

Ovviamente era giusto e indispensabile parlare dell’iter, fare le pulci anche sul piano tecnico-procedurale: fin dai primordi del comitato Habitat, quella era stata una delle buone pratiche del movimento No Tav. Ma non erano state le «barricate di carta» a rendere «No Tav» un significante per tutte le lotte territoriali: era stata la riconoscibilissima autonomia della soggettività No Tav.

Le barricate di carta funzionavano solo se c’erano anche quelle vere. La “normalizzazione” del movimento No Tav era consistita nell’impantanarlo, nello spingerlo a concentrarsi solo su aspetti procedurali, nel costringerlo a focalizzare sul rinvio dei bandi, ad attendersi chissà cosa dalla nuova analisi costi-benefici, e quant’altro.

Se i nomi separatori nulla avevano potuto contro la libera repubblica dei No Tav, un nome omologante – «grillini» – aveva rischiato di disgregarla.

Ma non c’era riuscito.

L’ultimo tentativo di usare un nome omologante contro i No Tav lo avevano compiuto proprio le schiere di troll del M5S, dopo che la rottura s’era consumata e il partito di Di Maio non poteva più chiedere ai valsusini alcuna desistenza.

Il nome omologante, in quel caso, era stato «leghisti». Alla panzana sui No Tav che alle Europee del 2019 avevano «votato Lega», Davide Gastaldo e il sottoscritto avevano dedicato una disamina su Giap.

L’autonomia riconquistata e il ritorno dei «violenti» (alla buon’ora)

Persino in quella fase di parziale confusione il movimento aveva dato prove di forza, come la manifestazione oceanica dell’8 dicembre 2018, a Torino, in risposta alle «madamine» sìTav.

Torino, 8 dicembre 2018.

Nel frattempo, molto meno visibili delle polemiche, erano cominciate altre storie, si erano esercitate diverse influenze e sviluppate nuove tendenze.

Dentro il grande calderone del festival Alta Felicità – evento cresciuto di anno in anno fin quasi a “sbordare” e risultare gestibile con grande fatica – si erano avviati quelli che una certa tendenza teorica avrebbe chiamato «processi di soggettivazione». Detta più prosaicamente: nei giorni del festival la nuova generazione No Tav, troppo piccola ai tempi delle Libere Repubbliche, aveva vissuto esperienze formative e fondative.

Nel mentre, gli exploit del movimento Fridays For Future facevano prendere coscienza a migliaia di giovani e giovanissime. In Valsusa, quella gioventù si era guardata indietro e intorno, rendendosi conto che lì non si era aspettata Greta Thunberg: la lotta contro il sistema ecocida e climaticida durava da trent’anni. Nell’ottobre 2019, l’assemblea nazionale di FFF Italia aveva preso una posizione nettissima contro la Torino-Lione e altre Grandi Opere.

Intanto si svolgeva la gioiosa epopea della resistenza di Nicoletta Dosio, storia che avrebbe meritato un testo a parte, e che aveva fornito a molte giovani una vera e propria role model, esempio vivente di coerenza e determinazione.

A Bologna, per tutta la fase dello #stareincasa e della paranoia da Covid, nelle strade era rimasta affissa, monito di resistenza, un’immagine di Nicoletta a pugno chiuso. Si trattava di un manifesto di solidarietà realizzato dall’Associazione Bianca Guidetti Serra.

Nei primi mesi del 2019, un rinnovato ricorso a nomi separatori aveva annunciato un’inversione di tendenza. In quel periodo, in un intervento intitolato «Fuori dalle secche», avevo detto che presto sarebbero tornate le accuse di violenza, e il senso era: «Ben vengano!».

Insomma, i semi del rinnovamento e della «ripartenza» No Tav erano germogliati proprio negli anni in cui il movimento era parso più in crisi. Se per vederne i frutti si era dovuta attendere l’estate 2020, era perché c’era stata l’emergenza Covid.

Nella fase dello #stareincasa molte e molti giovani avevano accumulato frustrazione nei confronti della vita «a distanza» – dalla finta didattica agli affetti impossibili – e molta collera peuna gestione dell’emergenza «adolescentofobica», in generale aggressiva nei confronti dei più giovani (lo spauracchio della «movida») e soprattutto perbenista (i lapsus su «congiunti» e «affetti stabili»). Tra chi aveva appena scoperto l’attivismo, durante la reclusione domestica era cresciuta, invisibile a molti radar, la voglia di agire, di tornare a lottare mettendoci il corpo, i corpi. Come al presidio permanente ai Mulini.

[Notazione en passant: l’iniziale “desistenza” No Tav nei confronti del governo Conte I era stata niente se paragonata al vero e proprio collateralismo di certe aree «di movimento» nei confronti del Conte II durante l’emergenza Covid.]

Tornando al giugno-luglio 2020

Il 16 giugno 2020 una relazione della Corte dei Conti Europea aveva espresso seri dubbi sulla Torino-Lione, sul suo iter, sui suoi costi in perenne lievitazione e sui suoi supposti benefici ambientali. Il passaggio più interessante era questo:

«[…] vi è un forte rischio che gli effetti positivi multimodali di molte [infrastrutture di trasporto] siano sovrastimati. Ad esempio, nel 2012 il gestore dell’infrastruttura francese ha stimato che la costruzione del collegamento transfrontaliero Lione-Torino, insieme alle relative linee di accesso, avrebbe generato 10 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Secondo le sue stime, [l’opera] non produrrà un beneficio netto in termini di emissioni di CO2 prima di 25 anni dopo l’inizio dei lavori. Invece, sulla base delle medesime previsioni di traffico, gli esperti consultati dalla Corte hanno concluso che le emissioni di CO2 verranno compensate solo 25 anni dopo l’entrata in servizio dell’infrastruttura. Per di più, quella previsione dipende dai livelli di traffico: se i livelli di traffico raggiungono solo la metà del livello previsto, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate.»

Negli stessi giorni, quasi fosse una stizzita risposta a tali considerazioni, era giunta la notizia di un’imminente estensione del cantiere, con sbancamento del Clarea all’altezza dei Mulini e realizzazione di una passerella sul torrente. Lavori preliminari alla costruzione di un nuovo svincolo di servizio sull’autostrada A32.

Per contrastare quella mossa, il 20 giugno era nato il nuovo presidio. La sera dopo, un grosso dispiegamento di truppe aveva cercato di sgomberarlo, senza riuscirvi. Alcuni No Tav si erano incatenati alle baite, altri erano saliti sugli alberi.

La sera di lunedì 22 si era svolta la prima marcia di solidarietà al presidio, durante la quale c’era stato il primo cambio-turno. La polizia aveva cercato di impedirlo, sparando anche lacrimogeni nei boschi.

Il 26 giugno, al PalaNoTav di Bussoleno, c’era stata una grande assemblea popolare, come non se ne vedevano da tempo.

Il 28 giugno le Fomne No Tav [Donne No Tav] si erano presentate in massa al cancello del cantiere e avevano eseguito la performance femminista internazionale «Un violador en tu camino», con parole adattate alla situazione in Valsusa.

L’1 luglio il nuovo sindaco di Lione, il verde, Grégory Doucet, aveva dichiarato, senza giri di parolela propria netta opposizione al Tav.

Il giorno dopo era cominciato il campeggio itinerante No Tav, intorno al cantiere, in luoghi comunicati giorno per giorno, con iniziative varie.

Il pomeriggio del 4 luglio, tornato in Valsusa dopo lunghi mesi, avevo assistito a un’assemblea sotto il tendone del campeggio, su un prato lungo la statale 24 da cui si vedeva il forte di Exilles, e partecipato a un piccolo corteo spontaneo. La sera, cenando alla «Locanda del Priore» di Vaie, Maurizio mi aveva raccontato per filo e per segno le ultime settimane.

In cielo, proprio accanto alla luna piena, erano visibilissimi Giove e Saturno. Ero felice di essere di nuovo in valle, sia pure per un solo weekend.

La mattina dopo era domenica, e ci eravamo concessi un’escursione. Diretti al rifugio Avanzà e poi al Lago della Vecchia (che, avremmo scoperto, non si vedeva più: lo aveva riempito una frana), camminavamo proprio sopra la val Clarea. Volgendo lo sguardo a est potevo vedere l’intera Valsusa, stretta e lunga, con le sue vie di comunicazione serpeggianti fino a Torino. La città era visibile là in fondo, vaga ma punteggiata di riflessi.

5 luglio 2020, dando le spalle al Lago della Vecchia. Quota 2671 mt.

Mentre eravamo lassù, i siti di informazione locale sparavano titoli allarmistici e smodati, perché di fronte all’uscita del cantiere qualcuno aveva seminato chiodi a quattro punte, i famosi «triboli», che avevano bucato qualche pneumatico.

Molti anni prima, operai e braccianti avevano usato regolarmente i triboli contro i mezzi motorizzati della Celere di Scelba. Nel 2020, di fronte a qualche gomma forata, si gridava scompostamente. La deputata renziana Silvia Fregolent parlava addirittura di «terrorismo» e «forze eversive». Nelle ore successive, la notizia sarebbe arrivata in cronaca nazionale.


Di tutto quel che stava capitando in valle, la miseria del mondo-del-TAV fingeva di vedere solo una manciata di chiodi.

Eppure era un sollievo: meglio «violenti» che «grillini».

Se con quei chiodi pensavano di dividere il movimento, beh, allora soffrivano di gravi amnesie. Il dibattito sul «terrorismo» e sul «sabotaggio» i No Tav lo avevano già fatto nel 2013-14, e non era andato come sperava la controparte.

Risonanze

Ridiscesi a fondovalle, avevamo partecipato alla passeggiata con battitura e cambio-turno, poi eravamo andati a cena da Simone e Laura. La chiacchierata aveva preso una piega musicale, e s’era parlato molto di Franco Battiato. Nel descrivere una sua composizione del 1977, intitolata Za, avevo trovato una similitudine con la storia dei No Tav.


Za
 si basava principalmente sulla ripetizione, per quasi venti minuti, di un accordo di pianoforte, un accordo in mi maggiore suonato variando gli intervalli, la pressione sui tasti e – soprattutto – l’ordine e i tempi di rilascio delle dita dalla tastiera. Ogni volta l’accordo produceva risonanze che ancora aleggiavano quando le dita tornavano a battere, producendo risonanze leggermente diverse che si aggiungevano al ricordo acustico delle precedenti, in una progressiva stratificazione.

Dopo qualche minuto, se si ascoltava senza preconcetti, quasi ci si dimenticava dell’accordo: si ascoltavano le sue risonanze. Si capiva che erano queste ultime a formare la melodia. Battiato aveva composto musica non con le note, ma con gli aloni intorno alle note.

Se invece si restava bloccati all’accordo e si ascoltava solo quello, magari scuotendo la testa e ridacchiando, facendo battutine, citando Le vacanze intelligenti con Sordi, non si percepiva nessuna variazione, non si capiva cosa stesse accadendo.

La storia dei No Tav era come quella composizione. Era una storia di risonanze, ogni azione ne produceva di nuove che interagivano col ricordo di quelle precedenti. A produrre senso non erano tanto le azioni stesse, ma le loro risonanze, ciò che si stratificava nel tempo.

Le case sugli alberi, le azioni di disturbo davanti a ristoranti e alberghi… Ai detrattori poteva sembrare soltanto revival, ripetizione di accordi già sentiti. Ma a suonare quegli accordi era una nuova generazione, e producevano nuove risonanze.

Wu Ming 1 è autore di Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav (Einaudi, 2016) e di svariati reportage, articoli e interventi su storia e presente del movimento.

Questo reportage è dedicato a Emilio Scalzo, storico attivista No Tav arrestato mentre impaginavamo.