Lavoratori e pensionati pagano l’82% dell’Irpef. Ne vogliamo parlare?

https://contropiano.org/news/news-economia/2020/04/26/lavoratori-e-pensionati-pagano-l82-dellirpef-ne-vogliamo-parlare-0127215?fbclid=IwAR2z0HKixxSvpCS_WyWm-WW7Xu2576ppUMgy8ziyFbmE43-1ca3hWZc96dw

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato i dati sulle dichiarazioni dei redditi persone fisiche (Irpef) e sulle dichiarazioni IVA per l’anno di imposta 2018.

I contribuenti risultano essere circa 41,4 milioni avendo presentato i modelli di dichiarazione “Redditi Persone Fisiche e “730”, oppure attraverso la Certificazione Unica (CU), in crescita nel 2018 di circa 162.000 soggetti (+0,4%) rispetto all’anno precedente.

Il reddito complessivo totale dichiarato ammonta a circa 880 miliardi di euro (+42 miliardi rispetto all’anno precedente, +5%) per un valore medio di 21.660 euro, anch’esso in crescita del 4,8% rispetto al reddito complessivo medio dichiarato l’anno precedente.

Questo incremento del reddito complessivo – dice il Mef – è dovuto all’aumento dei redditi da pensione, lavoro dipendente e lavoro autonomo. Ed anche le imposte pagate su lavoro e pensioni nel 2018 sono aumentate di 5,537 milioni di euro. Ne sono invece entrate meno dalle imprese. Il gettito dell’imposta sul reddito delle società (Ires) evidenzia una flessione del 7,2% determinata dagli effetti finanziari derivanti dalla riduzione dell’aliquota Ires dal 27,5% al 24% e degli effetti dell’applicazione del c.d. superammortamento e iperammortamento.

Si conferma come la stragrande maggioranza delle imposte dirette siano rappresentate dai redditi da lavoro dipendente e da pensione, che rappresentano circa l’82% del reddito complessivo dichiarato. Di questo i redditi da pensione no il 29% del totale del reddito complessivo.

Come abbiamo visto, il reddito complessivo dichiarato è di circa 880 miliardi di euro ma con molte disuguaglianze al proprio interno.

L’analisi territoriale mostra che la regione con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (25.670 euro), seguita dalla provincia di Bolzano (24.760 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso (15.430 euro). Rimane notevole la distanza tra il reddito medio delle regioni centro-settentrionali e quello delle regioni meridionali.
Viene confermato come i redditi da lavoro dipendente e da pensione rappresentino l’82% del reddito dichiarato. Il reddito medio più elevato è quello del lavoratore autonomo con 46.240 euro, mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori titolari di ditte individuali è di 20.940. Circa 120 euro in più del reddito medio dichiarato al Fisco dai lavoratori dipendenti. A 17.870 euro si ferma , invece, il reddito dichiarato dai pensionati. Il tipo di reddito più dichiarato in termini di frequenza e di importo, è quello da lavoro dipendente (52,6% del reddito complessivo) seguito da quello dei pensionati (29,3% del reddito complessivo).

I soggetti con un reddito complessivo maggiore di 300mila euro dichiarano il 6,0% dell’imposta totale. Dalla distribuzione dell’imposta per classi di reddito complessivo emerge che i contribuenti con imposta netta e redditi fino a 35mila (83% del totale) dichiarano il 43% dell’imposta netta totale, mentre il 57% è dichiarata dai contribuenti con redditi superiori a 35mila euro (17% del totale contribuenti). I lavoratori dipendenti dichiarano oltre 462 miliardi di euro che ricomprendono anche collaborazioni coordinate e continuative, collaboratori a progetto (823mila soggetti), pari al 4,3% dell’ammontare complessivo del reddito da lavoro dipendente.

Dai dati infine risulta che l’imposta netta Irpef è pari in media a 5.270 euro e viene dichiarata da circa 31,2 milioni di soggetti, pari a circa il 75% del totale dei contribuenti. Ma a questa vanno aggiunte le addizionali Irpef locali introdotte da Regioni e Comuni, si tratta di 17.3 miliardi di imposte in più pagate direttamente sulle buste paga.

L’addizionale regionale Irpef nel 2018 è ammontata a circa 12,3 miliardi di euro (+3,1% rispetto al 2017) con una imposta media pari a 420 euro. L’imposta più alta si registra nel Lazio (620 euro), mentre quella più bassa si rileva in Basilicata e in Sardegna (280 euro).

L’addizionale Irpef comunale è stata pari invece a 5 miliardi di euro, in aumento del 3,6% rispetto al 2017, con un importo medio pari a 190 euro.

Insomma lavoratori e pensionati si accollano la maggior parte delle imposte dirette ma ricevono in cambio sempre meno servizi e aumentano le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Ne vogliamo parlare?

26 Aprile 2020 – 

CORONAVIRUS in DIRETTA VIDEO: NON sarà il VACCINO a tirarci fuori da QUESTO INCUBO. Parla la VIROLOGA Ilaria Capua

https://www.ilmeteo.it/notizie/coronavirus-in-diretta-video-non-sar-il-vaccino-a-tirarci-fuori-da-questo-incubo-parla-la-virologa-ilaria-capua-183615/amp

Articolo del 13/05/2020 ore 19:30
di Team iLMeteo.it Meteorologi e Tecnici

Ilaria Capua

Le parole di Ilaria Capua sovrastano di negatività i segni e le attese di speranza https://www.youtube.com/watch?v=UKqg2RAo3_Arelegati al vaccino al quale il mondo intero ci sta lavorando già da mesi. Secondo la virologa, non sarà il vaccino che ci porterà fuori nell’immediato da questo incubo chiamato CORONAVIRUS. Bisogna vedere i risultati che avrà in termini di efficacia e poi ci sono tanti altri problemi, come ad esempio la distribuzione a livello mondiale e nazionale. Per fare vaccini sicuri ci vuole tempo e attenzione. La strada è ancora molto lunga, difficile ed incerta, colma di incognite: prima fra tutte il vaccino deve essere INNOCUO, ovvero non deve dare problemi e in secondo luogo deve essere EFFICACE, ovvero deve effettivamente proteggerci dal virus. A seguire incognite sui tempi di produzione e distribuzione a 7 miliardi di persone nel mondo.

La virologa Capua ha inoltre sottolineato che: “il lockdown che è stato adottato in Italia è stato molto duro, ha sconvolto il paese e ha lasciato il segno. Ora siamo pronti per una ripartenza intelligente. In questo momento mi permetto di chiedere ai giornalisti, a chi si occupa di scienza, ai divulgatori di far passare questo messaggio: ognuno deve fare il suo pezzetto. Sappiamo che questo virus si trasmette in determinate situazioni. La trasmissione avviene nella stragrande maggioranza dei casi perché c’è una vicinanza fisica tra una persona infetta e una non infetta”.

La Capua ha continuato: “dobbiamo comportarci da persone serie, la responsabilità è nelle nostre mani. Il distanziamento fisico è una barriera naturale tra un soggetto infetto e un soggetto sano. Lavarsi le mani riduce il contagio e riduce altre problematiche legate alla sanità pubblica. Le regole non possono essere attuate solo dal governo, i cittadini devono essere protagonisti e devono sentirsi responsabili. Bisogna evitare i raggruppamenti di tante persone in ambienti chiusi. Immaginiamo una ripartenza intelligente, ognuno si renda conto di essere un tassello essenziale per ridurre il contagio e far ripartire l’Italia”, dice ancora.

Inoltre, sempre la virologa Ilaria Capua, ribadisce, contrariamente alle scelte del Governo, perchè i parrucchieri non possono tornare a lavorare adottando tutte le misure anti contagio. “Se i parrucchieri riuscissero ad applicare delle misure di contenimento, con appuntamenti fissati bene e senza attesa, non vedo per quale motivo non si possa tornare a lavorare“. Parola di virologa, insomma. Perché Giuseppe Conte e il Governo allora non agiscono in tal senso?

NESSUN VACCINO ci porterà fuori dall'INCUBONESSUN VACCINO ci porterà fuori dall’INCUBO

Frode agli ospedali di Torino e Cuneo, dipendenti rubavano strumenti chirurgici per restituirle al fornitore

https://www.quotidianopiemontese.it/2020/05/11/frode-agli-ospedali-di-torino-e-cuneo-dipendenti-rubavano-stumenti-chirurgici-per-restituirle-al-fornitore/?fbclid=IwAR2EV_AkulZm3vUTqYvESKbgad8EyGXupXgvL5SDhEEXsq5gjIMjAZMnpVM

Gli agenti del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Cuneo hanno dato esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo per oltre 2 milioni di euro, nei confronti di due persone – B.P. (55 anni, residente a Scalenghe), M.L. (72 anni, residente a Vinovo), oltre ad un dipendente pubblico, S.C. (60 anni, residente a Torino), dipendente dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Scienza e della Salute” di Torino.

Le attività, coordinate prima dal Procuratore della Repubblica di Cuneo – Dott. Onelio Dodero – e, successivamente, dall’Ufficio giudiziario del capoluogo regionale – Dott.ssa Monica Abbatecola – giungono a conclusione dell’Operazione Titanio che, nel settembre scorso, aveva portato all’arresto di un imprenditore torinese, il già citato M.L., e di un pubblico dipendente dell’Azienda Ospedaliera di Cuneo, I.A. (58 anni, residente a Mondovì), nonché all’emissione nei loro confronti di un decreto di sequestro per un milione di euro.

Il fulcro del meccanismo fraudolento ora scoperto era la caposala del blocco operatorio dell’ospedale Sant’Anna di Torino, cui era demandato l’incarico di effettuare gli ordini del materiale chirurgico.
All’arrivo del materiale, la stessa procedeva a sottrarre circa la metà dei dispositivi chirurgici consegnati che, successivamente, restituiva fraudolentemente alla società fornitrice.
Parallelamente, la dipendente infedele sottraeva, occultandolo poi all’interno del nosocomio, un ulteriore quantitativo di merce, facendo così figurare vi fossero solo esigue quantità rimaste nelle scorte, tali da sovrastimare il reale fabbisogno e generare la (falsa) necessità di ulteriori ordini di materiale chirurgico.

L’attività svolta dalle Fiamme Gialle cuneesi, nell’ambito delle operazioni “Titanio” e “Titanio 2”, ha quindi permesso di segnalare, complessivamente, alla competente Corte dei Conti, un danno all’erario, patito dalle due Aziende ospedaliere di Cuneo e Torino, per circa 3 milioni di euro.

Quelli che “perdiamo 1000 euro al giorno” e denunciano 12mila euro all’anno

https://www.modena.gaiaitalia.com/2020/05/07/quelli-che-perdiamo-1000-euro-al-giorno-e-denunciano-12mila-euro-allanno/?fbclid=IwAR1qzftmHTUON8xWMrwTYY4A0Z-LBexx7YFhqZsBo2M-AIFw3K1k3NGdMaM

di Giovanna Di Rosa #Lopinione twitter@modenanewsgaia #Crisi

Mentre un’enorme quantità di denaro dovrebbe arrivare da ogni dove per tutti i cittadini che ne hanno bisogno dopo il flagello Covid-19 che ha costretto alla chiusura forzata attività ed imprese di ogni tipo e mentre da un lato la burocrazia italiana, ed europea, rallenta fortissimamente le cose, quando non le blocca, dall’altro certi poteri non vedono assolutamente di buon occhio che il previsto enorme flusso di denaro sia gestito dall’attuale maggioranza di Governo, certi scellerati minacciano la crisi di governo in un momento come questo, e c’è anche dell’altro Che fa un po’ più ridere.

Mentre, crediamo da questa provincia, era partita la straordinaria idea delle lastre di plexiglass in spiaggia per dividere gli ombrelloni trasformando così i cubicoli in forni all’aperto, mancavano i 10 kg di patate omaggio da arrostire in loco, affinché si potessero fare le vacanze, una vera priorità mentre le persone morivano a centinaia, perché la vita è dei vivi; mentre eravamo già diventati tutti virologi e la maggior parte di noi raccontava da un account o da un altro che “sicuramente sono stata contagiata dal Coronavirus perché ho avuto un pizzicorino di gola e starnutito sei volte”, e via con “i guarda anche io ché addirittura ho sofferto di stitichezza nello stesso momento”, assistiamo a racconti fantascientifici su quanto ogni attività starebbe perdendo ad ogni giorno di chiusura – mentre chi dovrebbe preparare un decreto che dica stop alla riscossione degli affitti fino a totale riapertura giocherella con le minacce di lasciare il governo.

Abbiamo ascoltato persone dire: “Perdo mille euro al giorno”, che farebbe un totale di 365mila euro all’anno; altri dire “perdiamo diecimila euro a settimana”, che farebbe 520mila euro all’anno. Le frasi in questione uscivano dalla bocca di commercianti – baristi, parrucchieri, pasticceri, ristoratori – che son quelli che piangono miseria, non ti rilasciano lo scontrino e storcono il naso se gli chiedi la fattura. E se vai a guardarci bene, o li ascolti attentamente nelle loro conversazioni da bar inevitabilmente pubbliche, inutile che sia proprio io a raccontarvi le virtù della discrezione da bar, sono quelli la cui dichiarazione dei redditi ammonta a 12mila, ventimila o venticinquemila euro.
Quindi delle due, una: o frodano il fisco o raccontano palle per farsi grandi.

Sono approfittatori che cercano di trarre profitto anche dalle pandemie e dalle morti altrui? Sono quelli che incolpano un governo dopo l’altro di tassarli fino a dove non batte il sole e poi vanno in vacanza alle Maldive? Sono quelli che affittano un posto letto (in nero) a un migrante a 450 € al mese e poi che schifo i migranti, prima gli Italiani, come se il “prima gli italiani2 non lo praticassero già?  Sono quelli che vanno in piazza con certa destra che si attacca i cartelli al collo, dimenticando quello che spiegherebbe molte cose e dovrebbe recitare “Sono quello che froda lo Stato e costringe i soliti a pagare le tasse”? Non lo sappiamo. Noi in piazza non c’andiamo. No. Non è agorafobia. E’ schifo.

P.S. Questo articolo studiatamente provocatorio a detta di qualcuno “ha reso l’Italia peggiore di quello che è” – che importanza ci date, esagerati!

(7 maggio 2020)

©gaiaitalia.com 2020 – 

L’eccidio di Bava Beccaris

https://www.ildeposito.org/eventi/leccidio-di-bava-beccaris?fbclid=IwAR1f97PxBBAdWLT2o2lgB88QG34d0xPoM7Vubn_eP9coRTUgAM2Mw2xy78U

8 Maggio 1898 (Italia)

Bava Beccaris, generale dell’esercito, in occasione dei “moti del pane” di Milano del 6, 7, 8, 9, maggio1898, sparò sui dimostranti con il cannone. Alcuni parlarono di 127 morti, altri, tra cui i giornali, contarono 500 vittime. Il generale fu premiato dal re Umberto I (re “buono”) con la croce di Grand Uffciale dell’ordine militare dei Savoia. Il 29 luglio del 1900, a Monza, Umberto I venne assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, emigrato negli Stati Uniti, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio 1898 e l’offesa per la decorazione conferita a Bava Beccaris.

RIPARTONO I MEDICI RUSSI. NELL’INDIFFERENZA DI POLITICA E DELLA PEGGIOR INFORMAZIONE “GIORNALISTICA” DELLA STORIA REPUBBLICANA ITALIANA

https://umbertomarabese.blogspot.com/2020/05/ripartono-i-medici-russi.html?spref=fb&fbclid=IwAR3KXtVeRVxSy2PX0_G6ntWwzGVTpdc4oFtEJDjjRykrrWacCN6iYuier18

venerdì 8 maggio 2020

Ripartono i medici russi. Indifferenza di media e politica, ma arriva il grazie più importante

 PS: << Indifferenza “vergognosa-criminale” di media e politica….in compenso e sotto voce,  arriva il grazie più importante da…”Maria Beatrice Stasi, direttore generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII “…!

umberto marabese

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Notizia del: 07/05/202

Nel momento di maggior difficoltà per la storia recente del nostro paese ci sono stati paesi che sono stati al nostro fianco e paesi che non solo ci hanno voltato le spalle, ma ci hanno letteralmente ostacolato. Il cortocircuito del circo mediatico e politico è stato totale dopo anni a descrivere i primi come “nemici” da combattere e i secondi come “alleati” da servire fino al paradosso e al ridicolo.

Come sempre, la base popolare italiana è molto più avanti di una misera classe politica e della peggior informazione della storia repubblicana come dimostrano sondaggi! come questi….

Il popolo non è caduto nelle trappole bufalare di chi oggi fa finta che nel momento dell’emergenza totale e dell’impreparazione di un sistema sanitario collassato per i tagli imposti dagli “alleati” c’erano i “nemici”.

Ripartono oggi i medici russi dopo aver bonificato due milioni di metri quadrati di territorioDue milioni quadrati! Ripartono dopo gli insulti subiti dal gruppo Fiat con sede fiscale in Olanda che controlla ormai in modo monopolista l’informazione italiana. E ripartono nell’indifferenza generale di una classe politica incompetente che si è ritrovata impreparata a dover giustificare anni di servilismo a presunti “alleati”.

32 sanitari russi, 28 medici e 4 infermieri, dopo un periodo di training all’Ospedale di Bergamo, hanno lavorato al Presidio della Fiera dal 6 aprile, occupandosi in particolare dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Oggi sono ripartiti per il loro paese. A parte le parole di circostanza del ministro Guerini al suo collega russo Sergej Shoygu per il “professionale operato degli 8 team medici” e i ringraziamenti di chi si è visto salvato letteralmente dall’implosione di un sistema fallimentare come quello lombardo come il Governatore Fontana, le parole più belle, che sbugiardano le fake news viscide di queste settimane, sono quelle di chi ha vissuto in prima persona le ore più buie e di chi ha visto con i loro occhi l’apporto dei medici russi. “Grazie al contingente russo e in particolare al personale sanitario che ci ha supportato nel nostro Presidio medico avanzato fin dal primo giorno della sua apertura, dando un contributo fondamentale nella gestione dei pazienti, in particolare quelli piu’ gravi“. Lo ha dichiarato Maria Beatrice Stasi, direttore generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII, secondo quanto riporta l’Agenzia Nova. 

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Il grazie ai medici russi viene dal basso. Ed è dal basso che si deve consolidare quella memoria storica, unica bussola perché l’Italia possa iniziare la sua ricostruzione.

Back to Urss. La ri-sovietizzazione russa spiegata da Pellicciari

https://formiche.net/2020/05/back-to-urss-soviet-russia-pellicciari/

Back to Urss. La ri-sovietizzazione russa spiegata da Pellicciari

In Russia per via del Covid-19 stiamo assistendo a fenomeni non programmati che è probabile rilancino le ipotesi di ri-sovietizzazione in direzioni non previste, verso sfere ritenute al riparo da ritorni al passato, come quelle socio-economiche. L’analisi di Igor Pellicciari, professore di Storia delle Relazioni internazionali all’Università di Urbino e alla Luiss Guido Carli

Tra i molti errori di fondo ricorrenti nell’osservare la Russia odierna forse il più evidente è di considerarla come una prosecuzione automatica e non filtrata del periodo sovietico e di ricondurre la spiegazione di aspetti dell’oggi in toto a logiche del passato, come se nulla fosse cambiato.

Il motivo del persistere di questa prospettiva è al contempo storico e pratico. L’esperienza dell’Urss ha segnato di fatto un intero secolo di storia mondiale ed è comprensibile che chi ne è stato colpito – nel bene o soprattutto nel male – fatichi ad accettarne la fine.

Ce lo dice la vicenda dell’allargamento ad Est dell’Unione europea, che a differenza della Nato – come ricordò lo stesso Romano Prodi in una Conferenza a Mosca nel 2015 – è avvenuta in coordinamento con il Cremlino.

Una serie di nuovi Paesi entrarono nell’Unione accompagnati dalla speranza ingenua di Bruxelles che avrebbero portato nuovi canali ed opportunità di raffronto (non di confronto) con la Russia. In realtà, scottati dal passato, i Paesi dell’Est Europa, molto prima dell’onda di Visegrad, fecero gruppo a parte e si rivolsero a Mosca più come alleati della Nato che come membri della Ue.

Ne nacquero contrapposizioni frontali con la Russia che hanno infastidito non poco i Paesi fondatori dell’Ue (come Italia e Francia), tutt’altro che pronti all’ipotesi di uno scontro politico quando non bellico per compiacere la Polonia o i Paesi baltici.

Accanto a questo pregiudizio storico duro a morire, il motivo pratico del perdurare dell’immaginario sovietico è riconducibile negli ultimi due decenni alla carenza cronica di osservatori occidentali esperti di dinamiche del Cremlino.

Con il crollo dell’Urss e la sua perdita di importanza, la ricerca sulla Russia ha smesso di ricevere i lauti finanziamenti del periodo della Guerra Fredda e si è generata un’importante carenza di expertise che ha lasciato il campo sguarnito ai sovietologi, unici rimasti sulla scena – loro malgrado – a dare spiegazioni su quanto avviene oggi al Cremlino. Creando un evidente cortocircuito: come se per comprendere il boom economico italiano degli anni ‘60 ci si affidasse solo agli esperti del periodo Fascista, con gli esiti immaginabili.

In realtà al cambiare radicale di un sistema politico gli elementi di novità superano quelli di continuità che pure resistono e sconfinano nella antropologia politica di un popolo (la natura umana cambia anch’essa ma con maggiore lentezza).

La Russia non fa eccezione a questo trend e quello che oggi osserviamo è un Paese dove gli elementi di novità superano in gran lunga quelli di continuità del periodo sovietico.

Se dunque dire il contrario è segno di ingenuità o di un trauma politico del passato, molto meno lo è chiedersi se si possa assistere al ritorno di processi di ri-sovietizzazione che Mosca stessa sembra auspicare quando bolla lo smantellamento dell’Unione Sovietica come il più imperdonabile degli errori commessi da Boris Eltsin.

In particolare questi timori hanno riguardato in passato il versante internazionale, dove episodi come la nascita dell’Unione Economica Euroasiatica (oggi poco più di una coalizione doganale) hanno messo in allerta Washington che potessero essere l’anticamera di un ritorno ad una Urss 2.0.

Oggi la novità è che per via del Covid-19 stiamo assistendo a fenomeni non programmati che è probabile rilancino le ipotesi di ri-sovietizzazione in direzioni non previste, verso sfere ritenute al riparo da ritorni al passato, come quelle socio-economiche.

Tenendo conto delle difficili premesse demografiche e al netto della veridicità dei numeri, Mosca tutto sommato sta gestendo l’aspetto virologico della pandemia non peggio di molti altri Paesi: è riuscita adevitare un total lock-down sul modello dei suoi principali competitor (dagli Usa alla Germania). A preoccupare piuttosto è la congiuntura di questa crisi con le pesanti conseguenze della concomitante “Guerra del Petrolio”.

Lanciatasi nello scontro con l’Arabia Saudita ma con l’obiettivo vero di colpire i produttori di Shale Oil americano, Mosca ne è uscita vincitrice sul piano internazionale ma sanguinante su quello interno.

Con il prezzo del barile di greggio a poco più di 10 dollari (a fronte di un break-even calcolato a 41.80) Mosca ha visto evaporare notevolissime risorse utili per coprire i costi della pesante recessione che – dopo le vittime umane – sembra la più grave eredità lasciata del Covid.

La storia ci dirà se lanciarsi in questa sfida sapendo dell’imminente crisi pandemica sia stata per Mosca un azzardo eccessivo (pare che il potente Ministero degli Affari Esteri fosse contrario ma che la governance dei colossi energetici con Rosneft in prima fila abbia avuto la meglio nel decidere lo scontro).

Fatto sta che oggi il governo ha pochissimi strumenti a sostegno di una economia russa che negli anni recenti era andata verso un modello di mercato occidentale, con il moltiplicarsi nel terziario di nuovi micro e piccoli imprenditori, per lo più giovani, incentivati anche da un sistema fiscale a bassissima flat rate (addirittura al 6% per le partite Iva).

Dovendo scegliere dove orientare le poche risorse disponibili è probabile che il governo le convoglierà nel salvataggio dei tradizionali grossi settori industriali del Paese (energetico, agricolo, militare e metallurgico) a scapito del ricordato humus di piccola creatività imprenditoriale, che verrà spazzato via sulla scia di quanto già osservato nelle crisi cicliche del 1998 e nel 2009.

Con la differenza che la nuova disoccupazione giovanile che in passato ha trovato uno sfogo nella emigrazione in Occidente questa volta dovrà confrontarsi con una crisi occupazionale mondiale e cercare soluzioni domestiche al ribasso, come l’impiego in un settore pubblico o para-statale che verrà gonfiato per evitare tensioni sociali.

Per quanto riguarda gli oligarchi, da tempo domati ad accettare e obbedire al primatus politicae imposto dal Cremlino, è probabile che ad aumentare saranno le loro ricchezze ma non l’autonomia nel decidere come utilizzarle a fronte di un’amministrazione del Presidente che continua a utilizzarli come ammortizzatori sociali e scaricare su di loro i costi di interventi che dovrebbero essere coperti dal settore pubblico.

Se il sistema di potere russo anche questa volta è probabile che non ne uscirà stravolto, la vera vittima predestinata nell’immediato sarà quella classe media self made che si è sviluppata nell’ultimo decennio, nonostante il proverbiale strabordante apparato statale russo.

In un Paese dal passato così ingombrante, basta questo dato per fare temere un processo di progressiva ri-sovietizzazione. Economica prima, sociale poi.

Se un fisico scrive alla politica indicando con garbo ciò che c’è da fare

https://ilmanifesto.it/se-un-fisico-scrive-alla-politica-indicando-con-garbo-cio-che-ce-da-fare/?fbclid=IwAR1nD3nfTG5hlx7aZwPFfmSM9HN2shUfSM5rndBo5EERBEZUG36K7I44ie4

manifesto

Ambiente. “Il riscaldamento climatico. Lettera di un fisico alla politica” di Angelo Tartaglia per le Edizioni del Gruppo Abele. Un libro di grande pregio fin dalla sua finalità politica di fondo: mostrare, smontando una a una tutte le retoriche correnti, che oggi nulla si sta facendo in Italia e nel mondo per contrastare l’avanzare del riscaldamento globale

Per chi segue la letteratura sul riscaldamento climatico è difficile trarre interesse da qualche nuovo testo che non riveli clamorose novità. Tuttavia, pur essendo privo di notizie eclatanti, il saggio di Angelo Tartaglia, Il riscaldamento climatico. Lettera di un fisico alla politica, (Edizioni Gruppo Abele. pp. 97, euro 7,99) si legge d’un fiato. E per più ragioni. A cominciare dalla tonalità media, cordiale, del ragionare – il saggio ha la forma di una missiva al presidente del Consiglio – per continuare con la nitidezza della scrittura, che non indulge nel tecnicismo o nell’ostentazione di oscure formule matematiche, per finire con la sua finalità politica di fondo: mostrare, smontando una a una tutte le retoriche correnti, che oggi nulla si sta facendo in Italia e nel mondo per contrastare l’avanzare del riscaldamento globale.

Tartaglia, non disdegna di spiegare al lettore anche le cose all’apparenza ovvie, ma che tali non sono, e che vanno chiarite, altrimenti non si comprende la gravità dei fenomeni. Il «problema – ricorda – non è il cambiamento in sé, ma la rapidità con cui avviene e di conseguenza la frequenza dei fenomeni “anomali” che lo accompagnano». E infatti l’opinione corrente si ferma all’innalzamento della temperatura media – che peraltro si svolge in modo disuguale nelle varie aree del pianeta – mentre minacciosi sono gli effetti collaterali: scioglimento dei ghiacciai, incremento imprevedibile della temperatura dei mari, loro innalzamento e sommersione delle aree costiere, alternanza caotica di siccità e inondazioni, shock imprevedibili ad animali e piante.

L’AUTORE CHIARISCE SUBITO, in modo lapidario quale sia la causa di tutto: «Tutti noi siamo parte di un sistema socioeconomico globale che per funzionare ha un grande bisogno di energia. Oggi, l’81% di quell’energia (aggiungendo le biomasse arriviamo al 91%) è ottenuto mediante processi di combustione». Dunque non è questo o quell’eccesso di sfruttamento o di economia estrattiva a generare il mutamento in atto, ma l’intero assetto mondiale della produzione e del consumo. E questo è necessario stabilirlo, perché l’opinione pubblica non venga ingannata dal ceto politico con i soliti pannicelli caldi di qualche pannello solare in più.

Per non lasciare alcuno scampo ai minimalisti, Tartaglia ricorda anche quello che avviene in settori in cui all’apparenza sono meno rilevanti i processi di combustione, ad esempio in un ambito vitale dell’economia planetaria, l’agricoltura: «la nostra agricoltura impostata su un sistematico uso di fertilizzanti chimici porta a una progressiva riduzione del contenuto organico nel suolo e il carbonio che non resta nel terreno si ritrova nell’atmosfera. Nelle grandi pianure americane lo spessore dello strato organico nel terreno si misurava, nell’800, in metri, oggi in centimetri. E qualcosa di simile avviene anche nella pianura padana». L’economia capitalistica brucia il patrimonio di biomasse accumulato in milioni di anni nel sottosuolo, altera il clima, ma libera anche CO2 dal suolo isterilendo lo strato da cui inizia la vita.

UN PREGIO DI QUESTO SAGGIO è l’intelligenza politica che sorregge ogni sua pagina e che lo rende particolarmente efficace. Non è solito trovare negli scritti degli scienziati (se è per questo anche degli storici, soprattutto italiani) il garbo, l’ironia, la costante attenzione alla comunicabilità del messaggio. Il tutto indirizzato a demolire uno dopo l’altro i pregiudizi e le menzogne con cui i poteri dominanti continuano a condurre l’economia globale. Tartaglia fa giustizia, con argomentazioni scientifiche, della superstizione secondo cui l’innovazione ci salverà. I limiti invalicabili della natura non consentono facili scorciatoie. Allo stesso tempo chiede al presidente del Consiglio, per esempio, di fronte alla imponente campagna mondiale di trivellazioni da parte dell’ Eni, industria di stato, che contributo si dia al contenimento dei gas serra. Quando secondo gli scienziati occorrerebbe che l’80% dei carburanti fossili rimanesse nel sottosuolo per conseguire gli obiettivi.

Ma dalla critica di Tartaglia esce a pezzi uno dei miti della nostra classe dirigente, priva di ogni visione e creatività: le grandi opere, che appaiono, dati alla mano, grandi divoratori di energia. Senza dire che il consumo di suolo continua in Italia al ritmo di 2metri quadrati al secondo (51 km2 nel 2108)

IN VERITÀ, tutto continua come prima. Eppure molte cose potrebbero essere realizzate per invertire la tendenza. Tartaglia non è avaro di consigli. Ma la logica dominante è riparare, quel che si rompe, non prevenire. Così, se non li fermiamo, la festa continuerà, salvo parentesi pandemiche, fino alla catastrofe.

La misteriosa città di Rama: l’Atlantide della Val di Susa

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La prima volta che ho sentito parlare della misteriosa città di Rama mi trovavo in una bocciofila di Bussoleno, nella Bassa Valle di Susa. Qui, tra lo schioccare delle sfere d’acciaio e il tintinnare dei bicchieri di vino, Alessandro e Sara, due cari amici, mi parlarono di una città leggendaria, misteriosamente scomparsa, che sorgeva, in tempi remoti, nella valle.

Mi raccontarono di un contadino che, intento a dissodare la propria vigna con un palanchino, all’improvviso sentì la pesante asta di ferro sfuggirgli di mano, come risucchiata nel buco che stava faticosamente scavando nel terreno, e atterrare con un clangore diversi metri più sotto. Allargando il varco che aveva fortuitamente aperto, il contadino si affacciò su una sala sotterranea o forse sul corridoio di una città dedalica e misteriosa, antica come il vento e le montagne, che in tempi remoti si estendeva per chilometri.

I miei amici non seppero dirmi di più sugli sviluppi della vicenda, né sui ritrovamenti fatti dal contadino nella sala ipogea, ma quelle poche parole, gettate lì quasi per caso tra un bicchiere di arneis e una partita a freccette, infiammarono la mia fantasia: mi vennero in mente Ferdinand Ossendowski e René Guenon, che raccontano di passaggi segreti sotto al deserto dei Gobi, attraverso i quali deambula il Re del Mondo con il suo misterioso corteo. All’improvviso le note del tema di Indiana Jones si fecero strada nel mio cervello.

Da allora sono trascorsi un paio d’anni, durante i quali, occasionalmente, ho fatto ricerche e raccolto testi. Quello della città preistorica valsusina è un mito nebuloso, sfuggente, restio a lasciarsi indagare: ricercare sul tema è come arrampicare su una parete scivolosa, disseminata di falsi appigli che, non appena afferrati, si sgretolano tra le dita. E così, a fatica, di sito in sito, di libro in libro, ho messo insieme qualche tassello: certo, Rama rimane tutt’ora un mistero, ma almeno ho provato a raccontarlo.

Che cos’è Rama?

“Un’altra tradizione è l’esistenza di una antichissima città alle falde del Roc-Maol [antico nome del monte Rocciamelone, in Val Susa n.d.r.] sparita sotto il terreno di alluvione tra i torrenti di Foresto di Chianoc [Chianocco n.d.r.] e Bruzolo”

La Valle di Susa vista dalla Sacra di San Michele. Fotografia condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia. Il monte Rocciamelone (3538 m) domina la Valle di Susa (provincia di Torino) attraverso la quale l’Autostrada del Frejus conduce al tunnel del Frejus:

Le parole citate provengono da uno strano libretto pubblicato nel 1893 da Matilde Dell’Oro-Hermil (1843-1927), con il titolo di “Roc-Maol e Mompantero (Sue leggende e suoi abitanti)”. Il testo è un curioso miscuglio di esoterismo, antropologia ingenua ed etimologie strampalate, con le quali l’autrice, proveniente da Susa, cerca di spiegare le origini arcaiche dell’area del Rocciamelone, riconducendole a migrazioni antidiluviane. Ci sono passaggi tragicomici, in cui l’autrice cerca di ricondurre la fisionomia dei montanari valsusini a tratti negroidi, per rafforzare l’ipotesi di una migrazione dall’India di una “razza nera versatissima nelle scienze esatte ed occulte”. Senza volerci addentrare in una critica dettagliata del testo, si può senza dubbio affermare che la logica stringente e la consequenzialità degli assunti non siano tra i suoi punti di maggiore forza.

Ciononostante, e forse proprio grazie a ciò, il libro della Dell’Oro-Hermil conserva un certo fascino, perché riflette le tendenze culturali piemontesi fin de siecle, pervase da inquietudini metafisiche che, fuoriuscendo dall’alveo della tradizione cattolica, si disperdevano in rivoli sincretistici ed esotici. Spiritismo, teosofia, occultismo trionfavano nei salotti esoterici torinesi e le parole della Dell’Oro-Hermil ne rispecchiano i fasti. Non a caso, l’autrice era in contatto epistolare con il celebre occultista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (1842-1909), citato da René Guenon nell’apertura del suo celebre “Il re del mondo” come primo teorico di un centro iniziatico misterioso dal nome di Agarttha. Il Saint-Yves era anche noto come reazionario teorico della “sinarchia”, sistema politico rigido e conservatore contrapposto all’anarchia. Molto spesso, i cultori della Tradizione non hanno idee progressiste.

Un articolo dell’8 Aprile del 1975 della Stampa parla della città di Rama:

Ma torniamo alla città di Rama: di essa, si racconta nell’opuscolo, “rimangono solo più poche case, o meglio solo alcune casette là dove fu uno dei punti della preistorica città; di essa si dice con vanto melanconico che i suoi portici andavano per tutta la larghezza della valle, da Bussoleno alle ghiaie di Bruzolo”.

Volendo prendere alla lettera le parole della scrittrice valsusina, Rama era un insediamento abitativo di tutto rispetto, con un diametro di circa otto chilometri: l’autrice immagina che questa antica città sacra sotto il segno dell’Ariete si opponesse alla città del Toro (Torino), “laggiù, fra le nebbie del Po”. Rama sarebbe stata una “sede pacifica intellettuale”, mentre il non troppo distante monte Rocciamelone sarebbe stato “la sede estiva”, nella quale gli abitanti si sarebbero rifugiati per sfuggire alla calura.

Non solo: il monte avrebbe anche rappresentato una roccaforte difensiva: “il deposito, la cassa forte del tesoro, la vedetta colle macchine infernali per tener lontano gli importuni”. Nei paragrafi precedenti, infatti, si narra di come un re arcaico di nome Romolo avesse conquistato il Roc-Maol sconfiggendo la “razza nera” e instaurando la sinarchia. Questo re avrebbe raccolto e nascosto nel monte un gran tesoro, e lo avrebbe difeso con “ordigno spaventoso” di catapulte, in grado di scatenare fenomeni atmosferici avversi contro chi cercava di scalarne la vetta: “chiunque tentava di avvicinarsi n’era respinto da improvvisa folta nebbia con grandine di pietre e pioggia di saette e accompagnamento di spaventevole fragore”.

Purtroppo, Matilde dell’Oro-Hermil non si dilunga troppo nel descrivere la città misteriosa né nel narrare la causa della sua scomparsa, genericamente riferita a un “alluvione”: “Io ho accennato ai punti fosforescenti che emergono qua e là nella notte. Agli studiosi e agli amatori del vero lo scandagliare e trovare i le vie e i fili che li collegano tra loro”.

Come già detto, però, la ricerca di quelle vie e di quei fili è tutt’altro che agevole. C’è una cartina di fine Settecento, in cui si leggono le parole “Rovine di Rama” nei pressi del paese di Chianocco e “Rivo di Rama”, indicato come un affluente della Dora Riparia. Forse, la stessa Matilde dell’Oro-Hermil vide questa cartina, in quanto scrive: “in una carta geografica antica vedo questo nome sulla riva della Duranza; forse uno sbaglio, una scorrettezza del geografo che non sa a qual punto fissare una vaga terminologia intesa e non più esistente”. In ogni caso, il nome Rama ricorre anche nelle denominazioni di varie frazioni della Val di Susa, come, ad esempio, la Ramats di Chiomonte, e a Caprie esiste una via denominata “via città di Rama”.

Analizzando la cartina, risalente al 1764, vediamo le “Rovine di Ramà” collocate nel fondovalle compreso nel triangolo tra Bussoleno, Chianocco e San Giorio, poco più a nord di un corso d’acqua, il “rivo di Ramà”. È da notare che in entrambi i casi la parola è accentata, a indicare, forse, un’abbreviazione di “Ramat”.

In merito alla supposta ubicazione geografica della città megalitica indicata sulla mappa, poi, si può rilevare che si trova in una posizione piuttosto improbabile. In genere, infatti, le città dell’antichità sorgevano in posizioni sopraelevate e arroccate, avvalendosi di barriere e difese naturali per proteggersi dagli attacchi di eventuali nemici.

Installarsi a fondovalle, invece, significava mettersi alla mercé degli attacchi di eserciti e predoni. Le “Rovine di Ramà” sulla carta settecentesca, quindi, sorgono in una posizione assolutamente debole dal punto di vista strategico. Non solo: l’area indicata nella cartina indica anche un’area facilmente soggetta ad alluvioni e allagamenti, come fa notare Mariano Tomatis in alcuni suoi brillanti rilevamenti (vedi bibliografia).

Le due fonti citate, il libro e la cartina, sono le più antiche testimonianze documentali a sostegno dell’antica città perduta.

Le origini mitiche della città di Rama

L’opera della Hermil istituisce un collegamento destinato a germinare nell’immaginario collettivo: quello tra la città di Rama e il mito di Fetonte.

Chi era Fetonte? Per rispondere alla domanda, dobbiamo fare riferimento alla mitologia greco-romana. Spulciando le Metamorfosi di Ovidio, ad esempio, scopriremo che era il figlio, orgoglioso e irrequieto, del Sole, che lo aveva concepito con Clìmene, una divinità marina. Desideroso di provare la sua discendenza da Apollo, Fetonte chiese e ottenne di poter condurre il carro d’oro del sole, trainato, secondo il mito da quattro cavalli, “focosi per quelle fiamme che hanno in petto e che soffiano fuori dalla bocca e dalle froge”. Il padre, riluttante a concedergli il privilegio perché ben conscio dei rischi che implica, cerca di dissuaderlo e gli raccomanda di usare prudenza: “evita, ragazzo mio, di spronare, e serviti piuttosto delle briglie”, ma l’irruente semi-dio, incurante delle sue parole, balza alla guida del carro e si lancia in una corsa forsennata attraverso i cieli.

Il “folle volo” di Fetonte crea scompiglio tra le costellazioni – Ovidio ce lo descrive con le fiamme del carro solare che “per la prima volta scaldano la gelida Orsa” e fanno infuriare la costellazione del Serpente, prima di finire quasi tra le terribili chele dello Scorpione. Nella frenesia della corsa, il figlio di Apollo perde il controllo dei cavalli, che proseguono la loro corsa verso la terra, bruciando tutto quello che sfiora il loro tragitto: le nubi ribollono, le montagne si incendiano ed “ecco che grandi città van distrutte con le loro mura e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni”.

L’impresa scriteriata di Fetonte rischia di sovvertire il Cosmo: fa evaporare i mari e fa crepare il suolo, facendo affiorare il regno infero di Ade. A questo punto Zeus, il padre degli dei, è costretto a intervenire per arrestare lo scempio: con sommo dolore di Apollo, scaglia sul figlio scapestrato le sue folgori.

“Fetonte, con la fiamma che divora i suoi capelli rosseggianti, precipita girando su se stesso e lascia per l’aria una lunga scia, come a volte una stella può sembrare che cada, anche se non cade, giù dal cielo sereno. Finisce lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo, nel grandissimo Po (in latino Eridanus), che gli deterge il viso fumante”. Qui il corpo, incenerito dalla folgore, verrà seppellito dalle Naiadi.

Insomma, Fetonte si era macchiato di quella che per i Greci – non ancora flagellati dal senso di colpa giudaico-cristiano – era la colpa più grande: l’ybris, la tracotanza di volersi pari agli dei, una colpa che nella mitologia greca e successivamente nella tragedia viene sempre duramente castigata.

Ma cosa c’entra tutto questo con la città di Rama? È presto detto: Matilde Dell’Oro-Hermil – e molti altri sulla sua scorta – ipotizzano che il luogo dello schianto del carro solare sia proprio la Valle di Susa. Fetonte, in realtà, sarebbe sopravvissuto allo scontro e avrebbe raccolto intorno a sé dei discepoli, educandoli al culto del sole e facendo loro dono di un sapere iniziatico e divino. Tutto il suo sapere sarebbe stato iscritto in una gigantesca ruota d’oro che, ancora oggi, sarebbe custodita segretamente nelle viscere del monte Rocciamelone, in una grotta misteriosa il cui accesso è ignoto ai più.

Secondo altre fonti, invece, riportate da Antonio Zampedri nel suo “Magia e Leggenda in Val di Susa”, Rama sarebbe stata fondata da profughi di Atlandide: “quando la grande isola Atlantide sprofondò negli abissi, molti superstiti giunsero nella Valle , quasi guidati da un prodigioso disegno ultraterreno e trovarono ivi dimora, costruendo una città senza confronti”. Purtroppo, però, anche questo secondo insediamento era destinato a una tragica fine, quella di venire cancellato dalla faccia della terra da un terremoto o da un cataclisma di qualche tipo.

Il commento semiserio dell’autore è il seguente: “certo che se la succitata supposizione fosse vera, quali tremendi misfatti devono aver commesso i supremi Atlantidei per essere perseguitati in continuazione […]?”

Le prove

Queste le fonti bibliografiche sulla misteriosa megalopoli arcaica. Per cercarne le evanescenti tracce sul territorio dobbiamo però abbandonare i libri e addentrarci tra i boschi, le rocce e i sentieri scoscesi della bassa valle.

Ruote solari o macine?

Un sito che viene comunemente associato alle vicende di Rama è il cosiddetto “Bosco del Maometto”, nei pressi di Borgone di Susa. Il sito è facilmente raggiungibile con una passeggiata di pochi minuti, e deve il suo nome ad una discussa effige scolpita a circa tre metri da terra su un masso gigantesco. Tradizionalmente, la figura umana raffigurata nel basso-rilievo, smangiato e rovinato dalle intemperie, è stata identificata arbitrariamente con il profeta islamico Maometto, facendo riferimento all’invasione dei Saraceni sulle Alpi del X secolo d. C. L’analisi epigrafica dell’edicola rupestre, però permette di farla risalire al un periodo molto anteriore, ovvero al II secolo d. C.

Una volta esclusa la pista islamica, rimangono comunque delle incertezze sull’identificazione della figura, incorniciata in un tempietto scolpito di 80 x 65 cm. Si tratta di sicuramente di una figura antropomorfa, con un animale – forse un cane – accucciato ai piedi e un mantello a cingergli le spalle. Nel timpano dell’edicola c’è un’epigrafe di non facile lettura, che potrebbe essere una dedica ex voto di un certo Lucius Vettius Avitus. La presenza del cane ha portato a identificare la figura con Silvanus, divinità agreste romana, ma non mancano ipotesi alternative: potrebbe più semplicemente trattarsi di un’epigrafe funeraria, oppure di una rappresentazione di Diana Cacciatrice, oppure ancora di una dedica al cartaginese Annibale, che nel 218 a.C. varcò le Alpi per affrontare Roma con il suo esercito e i famosi elefanti. Altre fonti ancora identificano il “Maometto” con Giove Dolicheno, variante asiatica di Giove che veniva particolarmente venerata nelle zone periferiche dell’Impero. Nei pressi della roccia sono stati rinvenuti dei resti umani, che fanno pensare a una sepoltura.

Ad infittire ulteriormente il mistero, su un lato della roccia si trovano delle coppelle, ovvero delle conche semisferiche del diametro di una decina di centimetri, la cui presenza viene sempre associata alle popolazioni celtiche e a funzioni cultuali non ben determinate (forse servivano per contenere delle luci oppure il sangue dei sacrifici).

In ogni caso, l’elemento che accende la fantasia dei ricercatori della città di Rama non è l’edicola romana, bensì un masso erratico che giace nei suoi pressi, con tre macine abbozzate.

Ad alcuni, tra cui Giancarlo Barbadoro e Rosalba Nattero, autori del libro “Rama antica città celtica”, è parso di ravvisare, in queste macine, una testimonianza del mito di Fetonte in Val di Susa di cui si è parlato prima: “un’evidente testimonianza postuma del mito della ruota d’oro forata donata da Fetonte all’umanità del suo tempo in ricordo della sua presenza nel nostro mondo. La tradizione druidica riporta infatti che Fetonte, prima di congedarsi dai suoi allievi, avesse lasciato in dono una grande ruota d’oro forata, di circa due metri di diametro, sulla quale avrebbe inciso tutta la sua conoscenza. Una tradizione che probabilmente in seguito, in epoche più recenti, si sarebbe poi trasformata in un vero e proprio culto che avrebbe perpetuato il mito attraverso le ruote solari”.

E in effetti di macine, in Val di Susa e dintorni, ce ne sono parecchie: dalla “Roca d’la Pansa” (dal piemontese, Pietra della Pancia), presente sulla rocca di Cavour fino al Sentiero delle Macine di Giaveno. Un dubbio, però, si fa strada prepotentemente: più che di un’antica civiltà antidiluviana, le macine potrebbero essere più prosaicamente l’opera dei picapera, che non è il nome di un popolo misterioso, ma il piemontese per “batti-pietra”.

Massimo Centini, antropologo e da sempre grande indagatore di misteri, argomenta così: “A Borgone, anche se sono stati chiamati in causa “simboli solari” risalenti alla preistoria e legati ad atavici riti religiosi, il masso “sacro” sembrerebbe contenere semplici macine di pietra incompiute che, per un qualche motivo, non furono mai estratte dalla roccia”.

In effetti, in prossimità del sito menzionato c’è una cava, detta Roca Furà (in Piemontese, Rocca Bucata). A quanto pare, le macine venivano sbozzate direttamente in loco e poi staccate dalla parete di roccia inserendo dei cunei di legno che venivano poi intrisi d’acqua. Forse, le tre macine sgrossate sul masso servivano per addestrare i picapera, e vennero abbandonate in loco per ragioni che ci sono oscure.

Antiche mura di Rama

Lasciamo ora le misteriose ruote solari per rivolgerci a un sito che sarebbe di grandissimo interesse. Purtroppo, la località ci è ignota e anche l’ubicazione: l’unica fonte di cui possiamo avvalerci è di nuovo il libro di Barbadoro e Nattero, in cui si trova la descrizione di “bastioni di mura megalitiche” inghiottiti dalla boscaglia valsusina, corredata da fotografie.

 

Gli autori descrivono questo muro come affiorante dalla montagna, come se fosse stato sepolto da una valanga, e lo paragonano alle costruzioni andine: “le pietre sono considerevolmente grandi, mediamente si tratta di blocchi di almeno 1,60 metri per 1 metro circa, e appaiono sistemate con sagomature che sembrano aver avuto lo scopo di dare compattezza alle mura”.

Di questo muro portentoso, scoperto nel 2007, esistono anche dei video su youtube, girati sempre dagli stessi autori, che purtroppo si guardano bene dal rivelarne l’ubicazione, forse per proteggere il sito da ipotetici nemici della tradizione celtica, che potrebbero danneggiarlo. Si limitano a dire che si trova “in piena Valle di Susa”, che, come indicazione geografica, è piuttosto fumosa e sibillina.

Se queste mura esistono davvero, è un peccato che non vengano mostrate al pubblico, perché la loro esistenza potrebbe traghettare il discorso dal mito alla storia. Il “se” in apertura di frase, tuttavia, è dovuto al fatto che, da quanto si vede in foto e in video, è difficile stabilire se si tratti davvero di una costruzione umana o se invece sia una curiosa concrezione naturale di crepe su una parete rocciosa.

Un libro d’oro

Il libro di Barbadoro e Nattero cita poi un’altra prova documentale estremamente affascinante ma, ancora una volta, piuttosto “evanescente”: il cosiddetto “libro d’oro dei Druidi di Rama”.

Si tratterebbe (ancora una volta, sottolineo l’uso del condizionale) di una custodia in pietra a forma di parallelepipedo, contente sessantasei lamine d’oro, forate sul lato lungo e tenute insieme da cordoni di colore beige.

Leggiamo l’affascinante storia del ritrovamento: “… un giorno dei primi di ottobre del ’74 due contadini della Valle di Susa portarono a vedere a [ll’archeologo Mario n.d.r] Salomone un cofanetto di pietra. Gli dissero di averlo trovato casualmente in una delle stanze sotterranee del complesso megalitico della città di Rama, che di tanto in tanto esploravano alla ricerca di possibili tesori.”

L’archeologo chiede ai contadini di lasciargli il prezioso manufatto per qualche giorno, ma questi rifiutano recisamente. Nel breve tempo a sua disposizione, lo studioso riesce comunque a ricalcare su carta le incisioni presenti sulle lamine, facendo ricorso alla classica tecnica della matita strofinata obliquamente.

Dopo questa breve parentesi, il libro scompare nel nulla da cui era venuto, custodito da misteriose “Famiglie Celtiche”.

Il testo ricalcato è pressocché incomprensibile, solo uno sconosciuto linguista francese (il nome, non è dato conoscerlo) riesce a venirne a capo, stabilendo che il documento è stato scritto in greco arcaico. Il luminare, però, è vecchio e stanco e non ha voglia di intraprendere un faticoso lavoro di decifrazione, così indirizza i ricercatori in Svizzera, da un suo allievo (anch’esso anonimo) che affronta stoicamente l’oneroso compito.

Purtroppo, neanche i calchi sono visibili al pubblico, Barbadoro e Nattero ci raccontano che gli originali sono conservati in una banca di Mentone, in Francia, mentre le fotocopie consegnate al traduttore giacciono in una cassetta di sicurezza in Svizzera, lontano dagli occhi e dalle grinfie dei nemici della cultura celtica che infestano il suolo italico.

In merito al contenuto, gli autori sono, ancora una volta, piuttosto parchi di indicazioni: “il Libro d’oro era una sorta di enciclopedia, una raccolta sistematica di varie leggende e di cronache di eventi storici riguardanti la città di Rama e il mito di Fetonte”. Di più, non è dato sapere.

A questo punto, però ci si possono porre alcune domande: che fine ha fatto il misterioso libro d’oro? E se esiste davvero, perché i Celti lo avrebbero scritto in Greco?

La vicenda narrata porta alla memoria un altro libro d’oro scomparso misteriosamente: quello che l’Angelo Moroni avrebbe consegnato a John Smith nel 1823, su una collina nei pressi di New York. In questo caso, il testo era in “Egiziano riformato”, ma il profeta riuscì a tradurlo da sé (facendo ricorso a due pietre magiche di nome Urim e Thummim) e consegnò così al mondo il “Libro di Mormon”, libro sacro dei Santi degli Ultimi Giorni, meglio noti come Mormoni.

Anche in questo caso, il libro svanì “misteriosamente” o, se preferite, venne restituito all’Angelo che lo aveva rivelato… Peccato che fonti così preziose si dissolvano con tanta facilità.

Dischi volanti?

Il tragico schianto della carro d’oro di Fetonte potrebbe essere associato allo schianto di un meteorite o, meglio ancora, a un ufo crash: il figlio di Apollo diventerebbe così il rappresentante di una civiltà aliena che fece dono agli uomini di avanzate conoscenze tecnologiche.

Per questo tipo di ricerche, il punto di riferimento in Val di Susa è senza dubbio il monte Musiné, un monte dalla fama tenebrosa che sorge all’imboccatura della Valle, quasi a sfidare il prospiciente Monte Pirchiriano, mistica sede della Sacra di San Michele. Tra parentesi, anche l’etimo di questo secondo monte rimanda alla tematica ufologica, in quanto significa “fuoco del signore” e si riferisce a una colonna di fuoco che sarebbe apparsa sul monte in epoca medievale, intorno all’anno mille.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, però, il primato delle apparizioni extraterrestri spetta senza dubbio al Musiné: per decenni il monte sarà teatro di misteriosi avvistamenti e addirittura di incontri ravvicinati con sedicenti alieni ultra centenari, descritti già dal grande Peter Kolosimo e brillantemente compendiati da Mariano Tomatis nel suo “Camminata spirituale sul monte Musiné”.

Negli anni Settanta vi fu chi ipotizzò che il monte fosse in realtà cavo e che ospitasse una base segreta per gli ufo: da lì alla misteriosa città di Rama, sulle ali della fantasia, il passo è molto breve e si potrebbe nuovamente parlare di caverne nascoste che custodiscono un sapere arcano ma al contempo ipertecnologico. Dal punto di vista documentale, invece, la questione è più spinosa: sul monte vi sono in effetti dei massi coppellati e delle misteriose incisioni rupestri, ma è difficile stabilirne la genuinità e l’attendibilità, perché furono con ogni probabilità frutto di una contraffazione da parte di un giornalista burlone di nome Nevio Boni, che confessò la sua opera in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1988.

Conclusioni

Finisce qui la nostra ricerca speculativa sulla misteriosa città di Rama. Purtroppo, come abbiamo constatato, l’esistenza di questa megalopoli dell’antichità si scontra con l’assenza pressoché totale di riscontri archeologici tangibili.

Ciononostante, io rimango fedele alla linea dell’I want to believe e, ogni volta che mi addentro nei boschi di Bruzolo spero di inciampare in una pietra che possa farmi ricredere, aprendo il passaggio verso il mondo antico e meraviglioso di Rama, gravido di tesori ancora da scoprire.

Personalmente, credo anche che il tesoro più grande della Val di Susa non sia nascosto sotto pietre e oscuri cunicoli. Il vero tesoro è la valle stessa, con i suoi paesaggi mozzafiato, le cime innevate, i torrenti pullulanti di vita e i boschi densi di ombre e magie.

Il vero tesoro è, soprattutto, la gente che la abita, franca, fraterna, compatta in un ideale di resistenza e solidarietà, una comunità in senso antico, dove ho conosciuto persone eccezionali e alcuni tra i miei più grandi amici.

A ben vedere, il tesoro di Rama lo potete trovare nella bocciofila di Bussoleno… è forse questo il prezioso indizio nascosto nel libro di Matilde Dell’Oro-Hermil, quando ci rivela che “Un’insegna di osteria su una casetta in mezzo ai campi […] attesta sola la vaga memoria, se non il luogo di questa Rama scomparsa fin dall’elenco dei morti”.

Riferimenti Bibiliografici

Giancarlo Barbadoro, Rosalba Nattero, Rama antica città celtica, Edizioni l’Età dell’Acquario, 2016; Massimo Centini, Provincia Misteriosa. Tradizioni, storia e leggenda nella provincia di Torino, Accademia Vis Vitalis, 2013; Giacomo Augusto Pignone, Pier Paolo Strona, Pietre sacre in Val di Susa. Dolmen coppelle altari e menhir, Neos Edizioni, 2016; Mariano Tomatis, Camminata Spirituale sul Monte Musiné, stampato in proprio, 2014; Mariano Tomatis, Davide Gastaldo, Filo Sottile, Il codice dell’Oro. Sulle tracce del tesoro del Rocciamelone, Edizioni Tabor, 2018; Antonio Zampedri, Magia e leggenda in Val di Susa, Susalibri, 1991; Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione di Pietro Bernardini Marzolla, Einaudi, 1979.

Un ringraziamento a Mariano Tomatis, wonder injector ed esperto di mentalismo, per i preziosi consigli bibliografici, per i suggerimenti cartografici ma soprattutto per il suo lavoro di divulgazione della meraviglia.

Dove non diversamente specificato, le immagini sono di proprietà dell’autore dell’articolo

Gian Mario Mollar
GIAN MARIO MOLLAR

CLASSE 1982, LAUREATO IN FILOSOFIA CON UNA TESI SUL PLATONISMO MAGICO, GIAN MARIO MOLLAR È DA SEMPRE UN LETTORE ONNIVORO E APPASSIONATO. COLLABORA CON VARI SITI E RIVISTE, I SUOI INTERESSI PRINCIPALI SONO IL WEST AMERICANO E IL MISTERIOSO E L’INSOLITO IN GENERALE. NEL 2019 HA PUBBLICATO IL SUO PRIMO LIBRO, I MISTERI DEL FAR WEST PER LE EDIZIONI IL PUNTO D’INCONTRO. LAVORA NELL’AMBITO DEI VEICOLI STORICI E, QUANDO NON LEGGE, VA A PESCA O ARRANCA SU SENTIERI DI MONTAGNA.

Amianto a Salbertrand: chi paga per la bonifica?

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Newspost — 6 Maggio 2020 at 10:20

Oggi La Stampa ci informa sull’avanzamento della grana Salbertrand. Lo scandalo era scoppiato a novembre quando i geniacci di TELT si erano accorti che il terreno scelto per la fabbrica dei conci del tunnel di base è… pieno di amianto. Un grosso guaio, come scrivevamo su queste pagine a novembre, che andrà certamente ad impattare sulla tabella di marcia del progetto, nonostante le rassicurazioni che vengono dal quartiere generale sitav (ma d’altronde che credibilità può avere un promotore che non già per due volte non è nemmeno riuscito a spendere i finanziamenti europei in tempo talmente aveva accumulato ritardo nei lavori?!).

Dopo i sudori freddi dell’autunno, le cose sembrano essersi infine sbloccate. Dall’articolo de La Stampa apprendiamo che i lavori di smaltimento dei rifiuti amiantiferi sui 16mila metri quadri dell’area sono stati affidati alla Noldem spa, gigante della bonifica con sede a Venaria, coinvolta già nel 2005, tra l’altro, nell’inchiesta sui reati ambientali legati all’ex zona industriale spina 4 sulla Dora (scavo riempito con detriti contaminati invece che puliti).

La questione rimane sempre: chi paga per questo costo non preventivato nel progetto? Il terreno su cui si trovano i detriti è di proprietà comunale ma era stato concesso per 20 anni all’Itinera spa. È proprio la partecipata del gruppo Gavio che ha stoccato i materiali pericolosi – frutto di un precedente scavo – a Salbertrand, fregandosene poi altamente della loro sorte nonostante ingiunzioni della magistratura e sequestri della guardia di finanza. Grazie al TAV però, dopo anni di rinvii la Itinera non dovrà più accollarsi i costi di messa in sicurezza. A pulire la polvere (d’amianto) nascosta sotto il tappeto ci penserà direttamente TELT, ossia tutti noi visto che il promotore dell’opera è un’azienda a capitale pubblico.

Non è bellissimo? Ci sembra una rappresentazione plastica del sistema TAV: quando c’è da incassare per gli appalti i profitti sono privati, quando c’è da tirar fuori i soldi per le bonifiche i costi sono pubblici. Costi, per altro, ancora ignoti visto che TELT continua a rifiutare di comunicare quanto andrà a pesare sulle nostre tasche l’intervento di rimozione di rifiuti… alla faccia della trasparenza!