TAV INUTILE, QUINDI VA FATTO. LE GRAVI COLPE DELLA UE

Quando entrammo nella sala della Commissione Petizioni del Parlamento Europeo a Bruxelles era già in attesa fuori dall’aula un altro gruppo di persone, mi dissero spagnoli, che dovevano presentare una petizione che cercava di ostacolare la realizzazione di una nuova strada di 20 km in una qualche riserva naturale spagnola. Erano le 11 del 17 febbraio 2004.

La porta dietro di noi si chiuse. Sui banchi di fronte si sedettero presidente, vicario, segretari ed altri componenti della Commissione per le Petizioni del parlamento Europeo; alcuni di loro cominciarono a redigere i verbali della seduta, i traduttori iniziarono il loro lavoro.

Ci dissero che avevamo 5 minuti di tempo per esporre il problema, guai a “sforare”. Se le questioni esposte (peraltro già illustrate nella lettera con cui chiedevamo di essere convocati e spedita 4 mesi prima) fossero state ritenute idonee e giustificabili, con documentazioni appropriate, sarebbero state successivamente trasferite a tutti membri delle Commissioni Ambiente e Trasporti, a seconda del tipo di criticità esposte.

Con Antonio Ferrentino che mi accompagnava a Bruxelles per esporre le nostre ragioni all’opposizione alla nuova linea ci eravamo accordati (a quei tempi Ferrentino era contrario ed anche un pò un “capopopolo” dei NO TAV): io avrei cominciato a parlare per primo e lui avrebbe concluso.

In questo modo Antonio avrebbe posto la questione istituzionale alla fine, in evidenza, concludendo magari la seduta, spiegando del mancato coinvolgimento degli enti locali da parte dei promotori, cercando di far capire ai parlamentari europei il livello di rischio sociale che ciò comportava sul nostro territorio.

Naturalmente, come spesso accade in questi casi, quando qualcuno fa il furbetto, ma lo compresi dolo dopo, l’accordo saltò subito perché voltandosi verso di me Antonio mi disse: “Comincio io…”

Vabbè pensai, speriamo di riuscire a dire qualcosa dopo tutta questa faticaccia… eravamo partiti alle 3 da casa, c’erano stati mesi di preparazione preparazione del dossier, contatti e accordi infiniti…

Conoscendo Ferrentino e la sua indole di gran parlatore, in verità pensai subito che avrei avuto poche speranze.

Antonio raccontò di anni di riunioni per noi improduttive con i messaggeri dei proponenti dell’opera, per lo più burocrati e politici che anche tecnicamente non sapevano granchè dell’opera, spiegò che la valle non poteva essere trasformata in un “corridoio di servizi”, parlò del rumore futuro dei treni veloci difficilmente mitigabile. Per 3 minuti e mezzo continuò, deciso, puntiglioso, attento a non andare oltre ma senza aver paura di arrivare al limite, facendo capire che la nostra sopportazione come amministratori stava veramente finendo.

Ad un certo punto si fermò, di colpo, improvvisamente, inaspettatamente, probabilmente pensando di aver preso chissà quanto tempo, invece erano passati solo 3 interminabili minuti e mezzo. Antonio si voltò verso di me e contemporaneamente il presidente della Commissione mi chiese di esporre quello che avevo da dire. Tutti i miei schemi mentali saltarono: in un minuto e mezzo era apparentemente impossibile spiegare questioni come l’amianto, il radon, l’uranio, i laghi sotterranei del Moncenisio, la montagna che è in continuo movimento, il calore che c’è là sotto, che i francesi, come noi, la gente, i comitati, non la vogliono quest’opera, spiegare di manifestazioni, di coinvolgimento popolare, di linee vendute come intasate che non lo sono, di consenso all’opera che non esiste, di case da spostare, di collegamenti su Torino, quelli che invece servivano, mancanti. Per un attimo, come in un flash arrivai a pensare: ma guarda che roba, io che devo spiegare a questi qua, che per lo più non sanno nemmeno dove sta la Valle di Susa, cose che dovrebbero conoscere a menadito, visto che vogliono finanziare, io che mi preoccupo di Torino isolata! Ma non dovrebbe esserci Chiamparino qui al posto mio? Chiampa era venuto quassù a Bruxelles decine di volte, così come la Bresso e tanti altri politicanti piemontesi strapagati, non poteva dirle lui queste cose? Nel frattempo parlavo, spiegavo, cercavo di fare in fretta per non perdere tempo, aprivo il dossier ed indicavo mano a mano i documenti a cui mi riferivo e di fronte a noi i parlamentari anche loro a girare pagine, soffermarsi, sgranare gli occhi sui dossier in inglese, francese e tedesco che avevo preparato e consegnato entrando nella sala.

Mi fermarono. Mi chiesero di parlare meno in fretta perché i traduttori avevano delle difficoltà a seguirmi, visti anche i numerosi termini tecnici e la complessità dell’argomento.

Realizzai che ormai i cinque minuti erano passati ma che dunque avevo ancora tempo. Rallentai perciò il ritmo della spiegazione, ma contemporaneamente riuscii evidentemente a essere più coinvolgente di prima, più preciso, anche più incazzato, diciamocelo. Qui si trattava di far vedere anche l’arrabbiatura che avevamo dentro, non soltanto parlare di cose tecniche che, come spiegai, erano tutte visibili sui vari siti internet degli oppositori e parzialmente perfino su quelli dei proponenti. Mentre parlavo notai che di fronte a me c’erano tre tipi di comportamenti diversi tra i nostri uditori: chi aveva quasi i capelli dritti e continuava a girare le pagine del dossier guardandomi sorpreso, chi stava attento a quello che dicevo e ogni tanto ripeteva nella sua lingua “ma queste cose non ce le hanno mai dette”, facendo magari domande sull’amianto e sull’uranio, aspetti che più colpirono l’immaginazione della controparte. Poi c’era chi sembrava tranquillo, uno almeno sembrava pensare più agli affari suoi che ad altro.

Il presidente imperterrito era l’unico che pareva difficile coinvolgere più di tanto.

Parlavo già da un bel po’. Risposi a qualche domanda, spiegai ancora che ogni chilometro di galleria sarebbe costato un’enormità: circa 100 milioni di euro. Spiegai che non c’è al momento la certezza che tecnicamente l’opera sia realizzabile, che la questione delle decine di discariche di smarino non poteva tranquillizzarci. Capii che, prima che mi fermassero loro, era meglio che mi stoppassi da solo.

Un poco per rabbia, come spesso mi accade quando parlo di questa opera, un poco per creare un effetto finale, chiusi il mio intervento rivolgendomi ai parlamentari con una domanda: “Chi siede in quest’aula e nel Parlamento Europeo sarà mai in grado di comprendere che tramite i finanziamenti europei a questo tipo di opere, alla Torino-Lyon in particolare, di cui sono evidenti gli eventuali aspetti, subiremo conseguenze ambientali e di vivibilità in Valle di Susa e nelle zone della Gronda che saranno insostenibili e che pagheranno soprattutto i nostri figli con gravi malattie ed inquinamenti delle

acque o addirittura con danni irreparabili al sistema acquifero della valle?” Continuai poi: ”Ci si rende conto che questa opera sarebbe realizzata in una valle alpina di origine glaciale soggetta a ripetute inondazioni? Che opere simili non sono mai state realizzate finora? Noi stiamo facendo tutto il possibile per trasferire le nostre certezze, auspico che anche i parlamentari presenti possano capire a cosa stiamo andando incontro ed evitino di finanziare opere di cui non si conoscono le ricadute ambientali e sociali! E sopratutto sappiate che questa opera è un modo certo per aumentare il debito pubblico italiano! E’ questo che vuole la UE?”.

Mi fermai di colpo. Qualche parlamentare fu particolarmente

sorpreso di quest’ultima domanda, che evidentemente come un’eco stava giungendo alle loro orecchie dalle cuffie in ritardo, dal tono e dall’atteggiamento probabilmente inconsueto per quei signori, abituati forse in quella sede a toni più moderati, più imploranti, che a richieste di assunzione di responsabilità dirette.

Mi girai, vidi la parlamentare dei Verdi Monica Frassoni (nostro prezioso contatto alla UE) poco dietro di noi che alzava il pollice in senso di approvazione, spostandosi nel frattempo a parlare con una parlamentare vicina. Poi guardai l’orologio.

Erano passati 18 minuti da quando Antonio aveva cominciato a parlare. Avevo dunque avuto la possibilità di parlare per circa un quarto d’ora; mi parve davvero tanto viste le premesse. Più tardi capii che era una cosa davvero inusuale.

Il presidente della Commissione ci ringraziò per l’esposizione, disse che sicuramente la situazione rappresentata era grave, che andavano fatte dunque delle verifiche, che molte delle cose raccontate non erano assolutamente conosciute, in particolare quelle collegate ad amianto, uranio ed acqua.

I membri della Commissione parlarono un poco tra di loro e giunsero alla conclusione che avrebbero esaminato approfonditamente la questione ed i documenti in sede di successiva discussione trasmettendo i dati e le loro conclusioni alle Commissioni ambiente e trasporti del Parlamento di Bruxelles. La Frassoni intervenne a sua volta spiegando che la situazione era davvero grave e che la mancanza di notizie su aspetti importanti da noi esposti obbligava ad un approfondimento serio. Poi intervenne un’altra parlamentare, era un’inglese, che riuscì a infilare nel suo intervento anche un paragone con l’Eurotunnel. Seguirono altri interventi in genere in inglese, tutti tradotti per noi in italiano in modo ineccepibile, con toni e pause giuste, insomma ben comprensibili, cosa non sempre facile, visto anche il tipo di argomento tecnico trattato.

La nostra audizione finì, gli spagnoli si sedettero al nostro posto. Avanti un altro! Salutammo tutti, ringraziai la parlamentare inglese che la Frassoni mi spiegò essere dei Verdi. Uscimmo dunque dall’aula.

Ferrentino stava parlando con Monica Frassoni nel corridoio. Non feci neppure in tempo a fare due passi che mi corse incontro un signore sconosciuto, scendeva dalla scala che portava ai sovrastanti uffici dei traduttori.

Mi si avvicinò e mi disse in perfetto italiano: “Complimenti, sono stato veramente felice di poter tradurre i vostri interventi in inglese. Raramente mi è capitato di vedere della gente così convinta, decisa, determinata, documentata! Volevo solo congratularmi con voi perché anche io sono italiano, vengo da Racconigi, conosco il vostro problema perché ho dei cari amici ad Almese, so tutto! Bravi! Li avete proprio convinti! Complimenti davvero,non ho mai visto in questa Commissione lasciare tanto spazio all’esposizione come nel vostro caso!”. Mi strinse la mano e mi disse che doveva subito ritornare in

cabina di traduzione per l’audizione seguente, sparendo all’istante su per le scale.

Restai stupito. In quell’istante realizzai che, probabilmente, in quella sede avevamo fatto davvero tutto il nostro dovere, rappresentando al meglio la questione, i comitati, le associazioni, gli enti, soprattutto la gente che cercavamo di difendere, i nostri figli. Anche Monica Frassoni era particolarmente contenta di come era andata, stupita anche lei del tempo concessoci.

Arrivò in quel momento un giornalista e la parlamentare spiegò le ragioni della nostra venuta a Bruxelles. Eravamo di fronte alla porta della Commissione, dall’altra parte del corridoio, davanti a me un paio di divani con un tavolino, gente seduta, chi leggeva, chi parlava. In quel momento, saranno passati cinque minuti dalla fine della nostra udienza, esce dall’aula un rappresentante della commissione conosciuto precedentemente, quello sbadato, ci passa davanti e si va a sedere di fronte, sui divani. Probabilmente c’era una persona che lo aspettava. Infatti, si siede di fianco ad un signore. Ma io quel signore l’ho già visto! Perbacco! Lo riconosco, è uno di quelli che c’erano

a Torino quando si parlava di alta velocità! Deve essere uno delle ferrovie o di Transpadana (Comitato promotore della Torino-Lyon), forse è un funzionario della Regione, magari di Alpetunnel, in ogni caso l’ho già visto, e non è qui per caso!

Mi avvicino con la scusa di salutare ancora il parlamentare, prima di andarmene, guardo il suo interlocutore, lo riconosco ancora meglio: è uno di quelli che hanno partecipato per la nostra controparte ad alcune delle riunioni sulla Torino-Lyon nel capoluogo piemontese!

Non so se le lobby funzionano così bene, ho ancora dei dubbi, certo è che la nostra presenza a Bruxelles non era passata inosservata, anzi. Evidentemente perciò i promotori in qualche modo, chissà come, seppero che anche noi eravamo capaci di farci sentire. Peccato che per ogni volta che noi siamo andati a Bruxelles per spiegare i pericoli della Torino- Lyon, i promotori hanno avuto decine di occasioni, mandando magari politici o funzionari, non so quanto convinti della cosa, a perorare la causa dell’alta velocità Torino-Lyon “irrinunciabile, ormai decisa”.

L’unica cosa che non devono mai aver detto a Bruxelles è che “i soldi ci sono” perché la loro venuta in Belgio era dettata proprio dall’unica necessità di trovarne una parte, almeno il 10% del costo dell’opera, meglio ancora il 20% come ad un certo punto si cominciò a vociferare.

Che ne mancasse ancora almeno l’ottanta per cento non era un problema, l’importante era innestare il “circolo virtuoso” da noi identificato come “vizioso”.

La giornata a Bruxelles era finita, ma non per il presidente della Comunità Montana. Infatti, il 16 pomeriggio, il giorno prima di partire per Bruxelles, Antonio Ferrentino aveva ricevuto una telefonata dal ministero delle infrastrutture con l’invito a recarsi a Roma il 18, per incontrare il ministro Pietro Lunardi. Manco a dirlo,io allora lo immaginavo ligio al suo dovere di rappresentante istituzionale, decise di andare a Roma. La cosa in realtà mi parve un pò strana già allora, oggi, dopo la sua conversione al si tav comprendo meglio il suo bisogno di trovarsi da solo faccia a faccia con i ministri, cosa che io allora gli sconsigliavo: stava semplicemente mettendo già allora il piede in tutte le scarpe disponibili per restare in politica, non perdere qualche privilegio e decidere come muoversi per ottenere i suoi scopi.

Per andare a Roma procurò un altro poco di lavoro ad Alberto Perino che al volo, dopo averci fornito i biglietti super scontati per Bruxelles, ne trovò un altro dello stesso tipo per Ferrentino da Bruxelles a Roma ore 15.

Io invece aspettai il mio volo delle 21,30. Infine giunto a Bergamo, presi la sua auto e finalmente alle 1.30 del 18 febbraio arrivai a casa in valle di Susa. Una missione di 23 ore per me, una ancora più lunga per Ferrentino. Mentre io ero già al lavoro

il giorno seguente, lui parlò col ministro Lunardi a Roma e tornò a Caselle, dove l’assessore Giorgio Vair era andato a prenderlo, recuperando prima Claudio Cancelli al Politecnico di Torino. Per andare dove? A Novara, per partecipare ad una delle solite serate di informazione, in questo caso collegamento, con i comitati ed associazioni contrari al TAV in tutta l’Italia.

All’appuntamento di Ferrentino col ministro si arrivò grazie ad una trasmissione televisiva avvenuta a Venaus il 15 febbraio precedente, si trattava della trasmissione di Fazio Il tempo che FA, quando ancora c’erano Mercalli e il geologo Tozzi e si faceva informazione e non gossip puro come invece avviene oggi. Qualche mese prima, alcuni di noi avevano di nuovo tempestato di e-mail alcune emittenti televisive ed alcune trasmissioni in particolare, per provare a portare la questione Torino-Lyon all’onore delle cronache. In fondo il progetto preliminare era ormai pronto, la recente Legge Obiettivo semplificava la strada per la realizzazione, il pericolo che cominciassero i sondaggi si avvicinava. Bisognava agire, difendersi.

Per molti anni abbiamo sostenuto ritmi incredibili per opporci all’opera documentando in ogni dove ed occasione le nostre argomentazioni. Abbiamo praticamente convinto milioni di persone grazie ai nostri documenti, analisi, libri, filmati, ma il nucleo affaristico e lobbistico che è la UE ed il Parlamento Europeo preso nel suo insieme evidentemente quello che vogliono è proprio che il nostro Paese si indebiti sempre più, questo ormai è evidente.. L’alternativa esiste, ma è anche peggio, ovvero, che la UE finanzi percentuali enormi di questa opera di cui ancora non si conosce nemmeno il costo finale. Praticamente l’alternativa è che sia la UE a buttare i nostri soldi.

Fa qualche differenza?

E’ dal 2004 che la UE ha i dati sull’inutilità della Torino-Lyon e se finanziano l’opera proprio lassù ci sono i principali e collusi colpevoli!

Testo tratto ed aggiornato dal capitolo X del racconto

“Adesso o Mai piu” pubblicato da Graffio nel 2005, autore Oscar Margaira.

Fate girare se potete…

P.S. Finanziare non vuol dire realizzare, se è una mammella non deve smettete di essere munta e lo sanno i predatori italiani ed i loro complici europei.

MASCHERINE: ESSERE NESSUNO E ODIARSI —- SILVIA ROMANO: MAMMA, LI TURCHI! —– BONAFEDE: STATO-MAFIA 2.0

https://fulviogrimaldi.blogspot.com/2020/05/mascherine-essere-nessuno-e-odiarsi.html

MONDOCANE

MARTEDÌ 12 MAGGIO 2020

 

Due eventi avevano promesso di interrompere l’uragano terroristico, intimidatorio, manipolatore, unanimistico, squadrista, a giornale e schermo nazionali uniti (al guinzaglio del New York Times, organo di Soros, Gates e del profeta Malachia) e di farci eremgere, almeno con il naso, dal pantano di spazzatura politica e morale in cui ci hanno affondato.

Sprovveduta, ma santa subito

Invece niente. I due eventi ci hanno ricacciato col naso, gli occhi e le orecchie sotto, nella melma della propaganda falsa, bugiarda e ipocrita. Una retorica sgocciolante di emozioni farlocche (esaltazioni), che Mario Appelius, la voce tonante di Mussolini (“Dio stramaledica gli inglesi!”), era al confronto un sommesso ora pro nobis di beghine nella cappella laterale. Un trionfo epocale del regime e, dunque, a loro avviso, della nazione tutta, la liberazione della povera Silvia Romano. Povera perché, con ogni evidenza, travolta dagli avvenimenti costruitile addosso. E giustamente soddisfatta per essere tornata a casa dopo 18 mesi. 18 mesi durante i quali aveva capito che la ragione di chi l’aveva spedita a far girotondi con bambini neri, non era altro che una miserabile operazione colonialista in linea con quelle che, da qualche secolo, i bianchi cristiani infliggono ai diversi per fregargli radici, identità, cultura, fede, e farli sentire beneficati da alieni di qualità superiore (che poi gli avrebbero fregato anche il resto). Per cui s’è fatta musulmana, cioè della religione dei cattivi, malmessi e inferiori. Brava.

Con raccapriccio rivedo l’accoglienza all’aeroporto, tutti addosso a Silvia intabarrata nella veste islamica somala, ad abbracciarsi e baciucchiarsi, alla faccia dei tecnoscienziati e del loro banditore. Poi, invece, fatta, come si deve, con i gomiti, dal bischero mascherinato trricolore che, ore prima, aveva ribadito il suo ruolo di caporale di giornata dell’armata Brancaleone, giurando “fedeltà ai valori, che sono quelli del nostro perenne alleato americano”, con tutto quello che ne consegue: Nato e sue guerre, Deep State finanzcapitalista e terrorista, Bill Gates e relativa cosca di “Un vaccino per il Nuovo Ordine Mondiale”. Bel passo avanti rispetto ai tempi in cui borbottava di “rivedere la nostra presenza nella Nato e togliere le sanzioni alla Russia”. Si chiama Luigi Di Maio e, credeteci o no, è dei 5Stelle e fa il ministro degli Esteri. Cosa avrai mai fatto di male il buon popolo dei 5Stelle, la meglio gioventù vista da molti decenni, a meritarsi uno così!

Sulla sceneggiata a cui il popolo è chiamato a sbattere le mani, sbattendosene magari le gonadi, va ancora detto qualcosa. Sappiamo che non c’è stata nessuna liberazione da parte dei nostri prestigiosi servizi segreti, ma uno squallido ma doveroso mercato delle vacche, esclusiva tutta italiana, su quanti nostri soldi dovessero essere dati per riavere la nostra cittadina che va in giro per il mondo a rallegrare bambini, indifferente alle conseguenze (perniciose per quei bambini e costose per noi). E’ trapelata la cifra di 4 milioni, probabilmente il doppio.

Rapitori (chi?), pagatori (noi), sceneggiatori (loro)

Ricordate le “due Simone”, Torretta e Parri? Nel 2004, altra grande impresa dei servizi liberatori, e anche un po’ prestigiatori. Rapite in Iraq ad agosto, il 28 settembre al Jazeera ne annuncia la liberazione ed ecco che, con un allestimento degno di Hollywood, davanti a file di telecamere schierate, dalle brume dell’alba emergono, prima stagliate sull’orizzonte e poi lentamente avanzanti nel deserto, due figure intabarrate in palandrane nere: Simona e Simona. Come, dove, chi e perché non si saprà mai. Rapimento rivendicato da una “Jihad islamica”, prima epifania di integralisti islamici al servizio di Usa, Golfo e Turchia (quelli poi impiegati in mezzo mondo) in un Iraq dove tutta la resistenza contro l’invasore era laica e saddamista.

Nella Somalia del dopo-Barre, del dopo-invasione Nato, con governi-fantoccio installati dagli americani e spazzati via uno dopo l’altro da varie resistenze, dopo una successione di movimenti di liberazione nazionale, da quello del generale Farah Aidid (grande patriota che ebbi l’onore di intervistare prima che i colonialisti lo facessero fuori) alle Corti Islamiche (che riorganizzarono decentemente il paese), la lotta al colonialismo di ritorno era stata assunta dagli Al Shabaab. Islamici e anti-occidentali, necessariamente “terroristi” e dunque giustamente bombardati dagli Usa, con tanto di eccidi di civili. I media unificati sotto l’ombrello Nato-Bilderberg, fanno degli Shabaab l’ala regionale di Al Qaida. Vero o no, strano che Al Qaida e Isis non abbiano mai attaccato interessi USA, o dei loro proconsoli coloniali, ma sempre quelli dei nemici dell’imperialismo, mentre la guerra di questi islamici somali ha esclusivamente colpito obiettivi statunitensi, o di chi ne sono i soci e subalterni.

Guerriglieri Shabaab con bandiere Al Qaida chiaramente photoshoppate

Ma quale Al Shabaab!

Tutti attribuiscono il rapimento a questa organizzazione e, dal momento che gli Al Shabaab nulla avrebbero da aspettarsi in termini politici dall’Italia, che conta una mazza  da quelle parti, se non dei soldi, ecco che la questione viene presentata come risolta in termini puramente monetari. Sempre che sia vera la storia del riscatto, visto che la posta per i rapitori veri era di ben altra portata. Senza contare che una guerriglia in aree limitate del paese, costantemente bombardata dagli USA e inseguita dalle loro Forze Speciali, difficilmente avrebbe avuto l’agio di tenere protetta per 18 mesi e di trasferire ripetutamente in sicurezza un ostaggio. Altri, che controllano gran parte del paese e della sua amministrazione, invece sì. Domani potrà magari uscire una rivendicazione firmata “Al Shabaab”. E con questo? Anche l’assassinio dei miei colleghi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è stato rivendicato da qualche finto brigante somalo….

I servizi impegnati parlano di aver avuto contatti con varie bande, dette di malviventi. La prima, del rapimento, e l’ultima, che avrebbe avuto in consegna la ragazza dagli Al Shabaab. Quindi nessun contatto mai con costoro. E, allora, chi ci garantisce che siano stati loro i rapitori? Capro espiatorio geopolitico, sì, ma rapitori? I servizi condividono i propri meriti non con qualche entità somala, ma esclusivamente con i turchi. Quelli di Erdogan, uno che di scrupoli ne ha quanti Mr. Hyde quando esce di notte. Quelli che da dieci anni conducono guerre in Siria, Libia e Iraq, avvalendosi della peggiore feccia terrorista mai vista. Quelli che in Somalia, da qualche anno, fanno il bello e il cattivo tempo, vuoi collusi, vuoi collisi, con i concorrenti di Abu Dhabi (UAE) e dell’Egitto, la posta in gioco essendo il controllo del Corno d’Africa e dunque lo strategico passaggio di Bab el Mandeb, da Est a Ovest e da Sud a Nord.

Chi mai ce la può avere con Roma?

I ribelli somali non hanno contenziosi con l’Italia, per la sua irrilevanza nella zona. I turchi, invece, ne hanno a iosa. In primis nel Mediterraneo orientale, dove gas e petrolio nelle acque di Cipro e internazionali li hanno contesi all’ENI a suon di cannoniere, con bocche da fuoco solo per ora zitte. Sempre in termini di idrocarburi, non hanno per niente gradito le proteste italiane contro l’accordo tra Erdogan e Al Serraj (il fantoccio Occidentale di Tripoli) per un controllo congiunto di tutto il mare e di tutto il petrolio tra Turchia, Cipro e Libia. E mentre la Turchia è al 100% dalla parte del governo cartonato dei jihadisti di Tripoli e contro Haftar, che però controlla il 90% del territorio e della popolazione, Roma, al suo solito, traccheggia, teme il ricatto dei migranti scatenati da Al Serraj, occhieggia verso Haftar e l’Egitto che, assieme all’ENI, sfrutta i più ricchi giacimenti a mare dell’intero Mediterraneo.

Con Al Serraj e contro l’Egitto, troppo vicino alla Russia, (vedi Regeni, spedito lì dai britannici) sta l’intero Occidente predatore, anche se la Francia si distingue per doppiogiochismo. L’Italia, conta poco e se la giocano tutti. Ma l’ENI conta moltissimo, come ai tempi di Mattei è il convitato di pietra che fa saltare gli equilibri stabiliti tra le Sorelle e che, a dispetto della campagna forsennata lanciatagli contro, con Stefano-Bilderberg-Feltri, dal Fatto Quotidiano, con il confermato AD Descalzi è ancora lì, primo partner petrolifero della Libia e dell’Egitto.

Cosa s’è pagato al sultano in cambio della sventatella?

Sarà ancora così, ora che, grazie ai turchi, abbiamo riavuto Silvia Romano? E, allora, saranno stati davvero gli Al Shabaab ad aver rapito e ospitato la ragazza convertita? Lo si dovrebbe dedurre facilmente dai prossimi sviluppi negli scacchieri indicati, specie da cosa capita tra Ankara e Roma.

Bonafede-Di Matteo, guarda chi si rivede!

E questa era una delle storie che per un attimo ci hanno depistato dalla grancassa della Banda del Virus, assordandoci, peraltro, con clamori altrettanto stonati e cacofonici e annebbiandoci con altrettanti riflessi stortignaccoli da specchi deformanti. L’altra è cosa forse anche più seria, nell’immediato domestico. E’ Cosa Nostra, cioè cosa loro, l’eterno duetto Stato-mafia.

Riassumo la vicenda per chi, stando nelle carceri insieme ad altri 60 milioni di potenziali untori, si fosse lasciato distrarre dalle storiacce di Netflix o da Lilli-Bilderberg-Gruber. Cittadini, oggi, con il cervello in rimessa, ma da usare  al risveglio contro chi ci assassina, fisicamente, moralmente, intellettualmente, culturalmente, socialmente, e ci mina, inevitabilmente, nella salute. Si tratta del pasticciaccio brutto combinato dal ministro Bonafede, ultima stella spenta tra quelle finite in parlamento. Finite in parlamento per aprirlo come una scatola di tonno e per illuminarne, alla vista dei cittadini, la fossa biologica.

Sappiamo che i magistrati italiani si dividono in due categorie. In una circolano gli Ermini, Lo Voi, Pignatone, Bruti Liberati, Tinebra, Legnini, brave persone in ottimi rapporti con l’esistente. Nell’altra procedono i Borsellino, Falcone, Scopelliti, Chinnici, Livatino, Costa, De Magistris, Woodcock, Robledo, Di Matteo, molto poco apprezzati dall’esistente Tanto che quasi tutti sono stati ammazzati, o minacciati di morte. Di solito, la carriera dei primi procede senza intoppi fino all’ultimo piolo della scala. Quella degli altri, spesso s’intoppa e finisce a terra.

Della seconda categoria il più illustre e, oggi, più esposto ai risentimenti di chi delinque in una forma o nell’altra, è Nino Di Matteo, procuratore a Palermo e Pubblica Accusa nel processo sulla sinergia – chiamiamola “trattativa” – Stato-mafia. Una consociazione alla quale dobbiamo molti successi dalla lotta di classe dall’alto al basso contro il popolo italiano, da Portella della Ginestra alle stragi 1992-93. E fino al coronavirus.

Un magistrato che aveva spaventato tutta la scala istituzionale, fino in cima

Questo magistrato, medaglia d’oro del lancio della legge più in là di ogni record, fin nella casa in cima al colle, era stato invitato dal “nuovo che avanza”, nella persona del ministro della Giustizia Bonafede, a occuparsi dei carcerati, in primis di quelli della consociazione, facendo il capo del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Di Matteo aveva accettato, la mafia dentro e fuori aveva espresso il suo belluino non gradimento e, nel giro di 24 ore, Bonafede aveva ritirato la nomina e l’aveva assegnata a tale Francesco Basentini. Un magistrato ignoto ai più e, forse, anche ai boss, i quali, però, lo conobbero e apprezzarono presto, quando, quatto quatto, consentì il ritorno a casa di quasi 400 mafiosi, compresi quattro mammasantissima al 41bis. Segnale più seduttivo di quanti ne avesse mai dati Andreotti. E che apriva la strada alla grande abbuffata, offerta ai picciotti dagli invasori del pianeta Virus, in termini di imprese schiantate da divorare e esseri umani da impiccare col cappio dell’usura.

Charles-Henri Sanson

Qualcuno di quelli che, fino al giorno prima, avevano considerato il magistrato peggio di Charles-Henri Sanson (boia della ghigliottina, esecutore di Luigi XVI), di colpo coprirono di elogi lui e di vituperi il ministro. E gli chiesero come mai non avesse denunciato la maleodorante offesa già allora, nel 2018. La risposta, di cui peraltro costoro non sono degni, avrebbe potuto essere che, col senso delle istituzioni che lo distingue, Di Matteo non abbia voluto farsi protagonista di una vicenda poco onorevole per il governo. Ma che, davanti allo spudorato rilascio dal carcere e ritorno all’operatività di 400 criminali, con la mina posta sotto al lavoro suo e quello di tutti coloro che si battono, si sono battuti e sono morti nella guerra contro la piovra di Stato, tacere sarebbe stato come apparire connivente. E far prevalere chi, come Giorgio Napolitano, aveva intralciato il suo lavoro, imponendo la distruzione delle conversazioni telefoniche tra il Quirinale e l’indagato ex-ministro Mancino.

Del resto chi mai avrebbe un’autorità così alta da potersi permettere di imporre a un onesto e, fin qui, agguerrito ministro, espresso dal Movimento sulla cui bandiera sta scritto “onestà”, il veto al migliore dei nostri magistrati anti-mafia? Fatevi una domanda e datevi una risposta. Facile facile.

Mascherina, se la conosci….

Torniamo nella palude dalla quale siamo usciti un istante e dalla quale eravamo finiti non proprio in un giardino di rose. Un paio di fatti occorsi negli ultimi due giorni mi permetteranno, cari amici, di fare il protagonista. Parliamo di mascherine, uno dei dispositivi definiti di “protezione individuale” più odiosi e dotati di occulte intenzioni che siano usciti dalla caverna del drago tecnoscientifico. E anche uno dei più ridicoli, se pensiamo a quando i bonzi del ramo ci dicevano che non servivano, a quando divennero obbligatori qua e là, a quando dovettero costare meno del costo di produzione e non se trovava una neanche nella farmacia del Vaticano, a quando, rassegnato, lo sventurato commissario all’emergenza ci disse che potevamo farcele da noi, con le magliette.

Da una tale saga dei controsensi non poteva che uscire una cosa balorda. La sedicente protezione è una pezza di materiale qualunque, anche rimediato e senza il minimo controllo d’efficacia, sul quale l’eventuale virus, se non lo attraversa come lama nel burro, si accoccola e permane, in attesa di nuove imprese, sia che lo espiri tu, sia che te lo soffino altri. E’ dunque nient’altro che un ricettacolo di patogeni: un salottino per batteri, germi, germi, nanoparticelle, polveri. Dopo un po’ ti gira la testa perché respiri forzato e vai in debito d’ossigeno. Poi te la togli, la metti in tasca, o in borsa, accanto ad altre impurità, la posi sul tavolo accanto alle briciole e alle macchie di sugo, ti cade per terra e lo rimetti per qualche giorno, visto che t’è costato minimo 6-8-12 euro e per il lockout sei già o mezzo sbroccato, o tutto rovinato. In compenso qualcuno a produrlo s’è già fatto un po’ di soldini, aprendo la via a quelli di altri “dispositivi”, tipo i vaccini. Tutta roba che serve a farti star male. Sempre che, mettendo fine allo spettacolo, il deus ex machina del sangue iperimmune non sbatta fuori di scena i commedianti di mascherina, intubazioni, distanziamenti, carceri e sfascio.

Ma, nel frattempo, di tutto questo ai tecnoscientifici non frega un’amata cippa, giacchè il mandato conferitogli è quello di farci tutti uguali ma separati, diffidenti, anonimi, irriconoscibili, senza faccia e senza espressione-comunicazione. Fa parte della nuova ingegneria sociale dell’atomizzazione, detta distanziamento. E si sa, chi non si tocca, chi non si aggrega, chi non si assembra, peste lo coglierà. E, soprattutto, non rosica. Il formaggio resta, tutto intero, agli inventori promotori della mascherina.

Mascherine da guerra civile?

E il distanziamento tramite anche mascherina sarebbe niente (si fa per dire), se non coincidesse con l’assembramento di cattivi pensieri e cattive azioni tra i mascherinati. Ecco cosa mi è successo ieri e oggi. In fila davanti al ferramenta, insieme ad altre tre persone, debitamente mascherinate e distanziate. Nel Lazio la pezza sul muso non è obbligatoria, se non entrando in qualche esercizio pubblico. Dunque posso girare smascherinato. Preferisco evitare, quando con mascherina, gli sguardi ansiosi e diffidenti di chi mi indaga se sono io, o un altro, amico o nemico, stronzo o gentiluomo. E viceversa.

E lì mi capita per la prima volta di assistere agli effetti programmati da chi ci ha inflitto le mascherine. Un omone del quale appare solo la pelata e che prima bofonchia l’incomprensibile attraverso il doppio tessuto, poi, aumentando il volume, libera i suoi improperi contro di me che metto a repentaglio la sua vita non tappandomi bocca e naso. E’ un crescendo, fino al diapason, che riecheggia per tutto il corso e lo riempie di mascherinati dagli occhi strabuzzati. Sarebbe il caso, o di mascherinarsi, cosa che mi pare politicamente corretto, dunque scorretto, o di darsela, di pari valenza. Fortuna vuole che l’omone, forse temendo il contagio, si induca ad andarsene lui, così che i tonitruanti improperi si perdono molto lentamente verso il fondo della via. Però sono bravi: gli è riuscito di aggiungere un altro innesco al conflitto orizzontale, un nuovo diversivo da quello verticale.

Invece, stamane, davanti all’autoscuola per il rinnovo della patente. Siamo in una decina, perlopiù maturotti, ben distanziati. Tutti con mascherina. Io no, non è obbligatorio nel Lazio, siamo all’aperto. Sto leggendo il giornale quando mi arriva, come uno schiaffo di tramontana, un “Si metta la mascherina!”, perentorio quanto, nei film americani, l’intimazione del colonello SS al partigiano da fucilare. Obietto che sto fuori e qui non c’è obbligo. “Sì che c’è, non vede che l’abbiamo tutti, abbia rispetto, coglione!”. Subito un rumoreggiare di molti brontolii, sui quali si erge uno strepito femminile: “Io chiamo i carabinieri””. Il dialogo, del tutto unilaterale, si perpetua nel tempo con monotona, quanto impetuosa, regolarità con, ogni tanto, un solista che lancia l’acuto. Il volume in espansione, l’intrecciarsi dei latrati, il colore paonazzo di quanto resta fuori dalla mascherina, diffondono aria di linciaggio. Il primo intervenuto, alto e grosso quanto la sua voce, fa per venirmi addosso e tradurre le percosse verbali in atti. Ma si ferma al metro arcuriano di distanza sociale. Più della collera potè il terrore del virus. Grazie, seminatori del terrore!

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 16:38

Susa, la “nobile decaduta”: un declino che inizia con le scelte di un tracciato ferroviario

https://www.laboratoriovalsusa.it/blog/un-po-di-storia/susa-la-nobile-decaduta-un-declino-che-inizia-con-le-scelte-di-un-tracciato?fbclid=IwAR0RYQ5RORr7AeBSEFl9i7-M_LOR23uBU3Pde2INE1i44WhscluWFwrdWZo

Avigliana? La città dei laghi. Bussoleno? Il polo ferroviario. Susa? La nobile decaduta.

Pare un triste destino quello dell’antica Segusium, da sempre snodo della storia e, più di recente, addirittura capoluogo dell’omonima provincia del Regno di Sardegna, poi confluita in quella torinese.

A dare il via a quella che molti interpretano come una decadenza, nella seconda metà del 1800, l’appuntamento mancato con la linea ferroviaria del Frejus; da lì in poi è stata una storia di progressiva marginalizzazione. Mica come la vicina Pinerolo, cuore pulsante della Val Chisone. O Aosta, centro dell’omonima Regione a Statuto Speciale.

Susa, è vero, può vantare importanti vestigia storiche romane e una lunga memoria che da Re Cozio arriva fino alla Marchesa Adelaide, per giungere al vescovo Beato Edoardo Rosaz. Oggi, l’essere rimasta sede scolastica e vescovile (in quest’ultimo caso poco più che formalmente) e l’aver tenuto in piedi un ospedale di provincia (giustificato anche dalla vicinanza delle piste da sci delle montagne olimpiche), rappresentano forse gli ultimi aspetti di importanza vitale e strategica che le sono rimasti.

La stazione ferroviaria di Susa all'inizio del '900, quando esistevano ancora i portici sul lato di Piazza d'Armi

La stazione ferroviaria di Susa all’inizio del ‘900, quando esistevano ancora i portici sul lato di Piazza d’Armi

La storia ci dice che le avvisaglie del declino vanno ricercate proprio nel momento in cui Susa avrebbe potuto “esplodere”, confermando la sua vocazione di città capace di accogliere viandanti e passeggeri più o meno illustri.

All’alba di quel 22 maggio 1854, giorno dell’inaugurazione ufficiale della nuova ferrovia Torino-Susa e della stazione di testa segusina, la Città di Cozio e della Marchesa Adelaide guardava al futuro con grande fiducia e ottimismo. Certo, il binario si fermava lì, ai piedi del Moncenisio, ma la prospettiva era chiara, certa, definita: diventare, un giorno non lontano, parte integrante della linea ferroviaria destinata a collegare Piemonte e Savoia, mettendo in comunicazione i porti affacciati sul Mediterraneo con il cuore dell’Europa, e diventando per davvero la porta delle Alpi.

La posa del binario, lungo 54 km, era stata decisa due anni prima, il 14 giugno 1952, quando a presiedere il Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna era il marchese Massimo d’Azeglio. Ora veniva inaugurato alla presenza nientemeno che del re Vittorio Emanuele II (1), della regina Maria Adelaide, del duca e della duchessa di Genova (sopra al titolo un acquarello di Carlo Bossoli rappresenta la partenza del treno reale).

Le principesse Letizia ed Elena d'Aosta durante l'inaugurazione

Le principesse Letizia ed Elena d’Aosta durante l’inaugurazione

Tante teste coronate e l’inaugurazione in pompa magna diedero il via a un traffico assai redditizio. La Torino- Susa, da subito, si rivelò un comodo e veloce collegamento col servizio postale delle diligenze che da Susa, attraverso il valico del Cenisio, raggiungevano la valle del Rodano. In quello stesso 1854, anno dell’inaugurazione, in 221 giorni di esercizio la linea venne percorsa da 1.354 convogli, capaci di trasportare 249.686 viaggiatori che, nell’anno successivo, salirono a 314.919.

Ma l’illusione di diventare punto “strategico” della linea ferroviaria internazionale che un giorno non lontano avrebbe bucato il Frejus, per la Città di Susa durò poco.

Alcune ricostruzioni storiche raccontano che il tracciato della linea ferroviaria del Frejus “fu oggetto di lunghi e accurati studi” (2)“Si sarebbe voluto farla partire da Susa, per non privare la città del transito tra l’Italia e la Francia di cui essa aveva goduto dall’età medioevale”. Perchè non accadde? La versione accredita la tesi che a sconsigliarlo sarebbero state “le condizioni del terreno” che “non consentivano di porre in Susa l’origine della nuova linea, senza comportare spese eccessive”. Di qui la decisione di far partire la diramazione da Bussoleno e seguire poi, da questo punto, la Valle della Dora fino all’ingresso del Traforo”.

Una giustificazione sufficiente? Non secondo quanto scrive Sergio Sacco nel suo libro dedicato alla realizzazione del Traforo del Frejus, citando a sua volta uno scritto del 1904 di M.Buffa (3).

Il manifesto dell'inaugurazione della stazione e gli orari ferroviari del 1857

Il manifesto dell’inaugurazione della stazione e gli orari ferroviari del 1857

La legge che nel 1857 dava il via alla realizzazione della linea e del Traforo del Frejus, sembrava dare per scontato che i binari verso Bardonecchia e la galleria ferroviaria dovessero prendere il via proprio dalla stazione appena inaugurata a Susa da Sua Maestà, Re Vittorio Emanuele II.

Questa era anche la convinzione del Municipio di Susa, che – si legge nelle parole citate da Sacco – “dormì tranquillamente sugli allori e giammai venne il dubbio ad alcuno dei suoi amministratori che si potesse altrimenti accedere al gran traforo”.

Accadde invece che “la direzione tecnica che compilò il progetto definitivo non tenne conto della legge che prescriveva di partire dalla stazione di Susa, e stabilì la diramazione per Modane dalla Stazione di Bussoleno”.

Solo che, dettaglio non insignificante, a Susa “nulla si sapeva di questa variante” e per questo “si continuò a rimanere sonnacchiosi”. La direzione tecnica che – annota l’autore – “ebbe sempre poco simpatici rapporti col Municipio, per cause sempre rimaste ignote, compì il suo progetto senza punto dargliene partecipazione”.

E dire che lo stesso consiglio comunale segusino, nel 1860, entusiasta dopo l’inaugurazione e l’avvio della Torino-Susa, propose al Governo la creazione di una zona franca doganale formata da Susa e dai comuni dell’Alta Valle.

La stazione di Susa in una incisione d'epoca

La stazione di Susa in una incisione d’epoca

Della proposta non si fece nulla e, anzi, Susa venne tagliata fuori dal tragitto della nuova linea. A nulla valse l’improvviso risveglio del Comune che, una volta reso pubblico il nuovo progetto, ne compilò uno alternativo, facendolo redigere a un ingegnere torinese.

Questa la proposta: dalla stazione di Susa e dalla zona di Urbiano (Mompantero), la linea entrava sotto il monte Rocciamelone con una galleria semicircolare, e poi usciva sopra Venaus in Val Cenischia, poi attraversata con un alto viadotto e con un’altra galleria sotto Giaglione. La linea attraversava poi diagonalmente la valle della Dora con un ponte colossale, al termine del quale raggiungeva la linea attuale nei pressi di Chiomonte.

L’ipotesi progettuale avanzata da Susa (costata 5.000 lire alle casse comunali) venne respinta. Tra le motivazioni, l’allungamento del percorso di circa 4 km, le maggiori pendenze e gli alti costi determinati dal gran ponte diagonale sulla Dora.

Un’ipotesi alternativa poteva essere quella di allestire, sulla nuova linea, una stazione per Susa nel tratto tra le regioni S.Saturnino, Marchetta e Grosse Pietre.

La direzione tecnica preferì invece impiantare un costosissimo casello-stazione in quel di Meana: il vallone di Pian Barale dovette essere colmato di materiali per formare il piazzale, sostenuto dalle grandiose arcate ancora oggi visibili.

Una stazione praticamente irraggiungibile nei primi tempi, visto che la strada carreggiabile oggi esistente non era ancora stata realizzata.

Nel 1870 al danno sopraggiunse la beffa, con la proposta di sopprimere il tronco Susa-Bussoleno. Ipotesi poi rientrata ma a più riprese ripresentata nell’arco dei decenni, per non dire dei secoli, successivi.

Gia.Col.

Bibliografia

(1) Segusium, ottobre 2003, n. 42, Follis R., Il formidabile “vapore”. La ferrovia Torino-Susa compie 150 anni.

(2) Segusium, dicembre 1972, n° 9, numero speciale sulle vie di comunicazione in valle di Susa, pag. 165-166.

(3) Sergio Sacco, Frejus. Sbocco europeo della rete ferroviaria cavouriana, edizioni del Graffio, pag 127-129.

Il clima si salva con l’Europa e lo stop al Tav

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Il Fatto Quotidiano – 11 maggio 2020 Luca MERCALLI

CAMBIARE APPROCCIO

Per difendere il suolo basterebbe approvare la legge che ne impedisce il consumo

La Torino-Lione oggi inquina (molto) e chissà se lo farà meno dal 2050.

Bisogna investire meglio i fondi europei

Jared Diamond, l’autore di Armi, acciaio e malattie, di Collasso e di Crisi, come altri scienziati e intellettuali, auspica che la lezione del coronavirus serva ad affrontare con convinzione i cambiamenti climatici. Per farlo occorre cooperazione internazionale perché il problema è globale e avrà enormi costi per tutta l’umanità . Serve anche coraggio politico, nel discernere e sostenere solo l’economia virtuosa e disincentivare quella ambientalmente perniciosa.

Lo ha ribadito il Segretario Generale delle Nazioni Unite, l’ingegnere portoghese Antonio Guterres. Plaudo all’annuncio del governo italiano di aumentare al 110% lo sgravio fiscale per la riqualificazione energetica degli edifici, per far ripartire l’edilizia “senza consumare nuovo suolo”.

Ma qui si pone il problema della coerenza delle azioni, in Italia come in Europa. Per difendere veramente il suolo basterebbe approvare la legge che ne impedisce il consumo!

Se si vuole davvero realizzare il Green Deal, raggiungendo il 50% di taglio alle emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica al 2050, la cura deve essere drastica e senza ambiguità. Siamo già in enorme ritardo rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi, per stare sotto i due gradi a fine secolo. Quindi non ci possiamo permettere di annunciare diete utili alla salute ambientale a pranzo lasciando l’abbuffata a cena. La dieta si fa per tutto il giorno e tutti i giorni, altrimenti non si guarisce.

L’UNIONE Europea propone dunque una buona dieta a pranzo ma non rinuncia alla grande abbuffata delle grandi opere cementizie tipo Tav Torino- Lione. Cinquantasette chilometri di doppio tunnel in Val di Susa che viene spacciato come opera utile all’ambiente senza fornire dati affidabili a riguardo. Le uniche stime, peraltro avanzate dal proponente, parlano di un’emissione certa in fase di cantiere dell’ordine di 10 milioni di tonnellate di CO2 pari alle emissioni annuali di quasi un milione e mezzo di italiani.

Per scavare le due gallerie gemelle verranno estratti decine di milioni di tonnellate di detriti rocciosi che necessiteranno di viaggi in camion e treni speciali, poi c’è l’energia per il funzionamento delle talpe, il cemento, l’acciaio, il rame e altre materie prime. Si dichiara che “il bilancio cumulativo (di CO2) risulta positivo a partire da 15 anni dall’entrata in esercizio del tunnel” e visto che ce ne vorranno una dozzina per terminarlo significherebbe che i primi grammi di CO2 non emessi in atmosfera si misureranno – dopo la compensazione di quello prodotto dal cantiere – solo alle soglie del 2050, ammesso che la linea venga poi utilizzata come ipotizzato sulla carta.

Basterebbe sfruttare al meglio la ferrovia esistente, e magari a quell’epoca avremo pure camion elettrici a batteria o a idrogeno, mentre il telelavoro con la crisi Covid ha già mostrato la sua superiorità rispetto al movimento delle persone. È quindi curioso come tra tanti progetti ambientali che l’Unione si appresta a sostenere, venga avallato anche questo che per ridurre (forse) le emissioni tra una trentina d’anni, le aumenta di certo nei primi 15!

Con l’effetto che prima si intossica il paziente più di quanto lo sia già, con un sicuro aumento della temperatura corporea, illudendolo che la cura per la febbre comincerà a fare effetto molti anni dopo. Ma non è meglio cambiare medicina subito? Ovvero investire i preziosi denari europei in opere che abbiano un immediato vantaggio economico e ambientale: riqualificazione energetica degli edifici, diffusione energie rinnovabili, adeguamento reti elettriche, telematiche e idriche, resilienza verso il rischio climatico. Sono posti di lavoro diffusi sul territorio, senza danni ambientali e con risultati verificabili: se fai il cappotto a casa tua o installi i pannelli fotovoltaici, la CO2 la abbatti quasi subito, non dopo trent’anni! E noi abbiamo bisogno di abbatterla prima possibile.

  • Cosa ne pensa Frans Timmermans, coordinatore del Green Deal e della Legge europea sul clima?
  • Il bilancio di CO2 della grande opera finanziata dalla sua collega Adina Vălean, matematica rumena Commissaria ai trasporti, è compatibile con la rapida riduzione delle emissioni?
  • Ci mostrerebbe dati aggiornati e certificati da un ente indipendente in grado di contraddire questo scenario così equivoco?

Di fronte a una trave così grossa nell’occhio della Commissione, è difficile aver fiducia nel Green Deal: la termodinamica vieta di avere la botte piena e la moglie ubriaca.

Non ci sfugge l’opacità lessicale di una recente risposta della Direzione trasporti della Commissione: “È un progetto di infrastruttura di trasporto transfrontaliero che svolgerà un ruolo importante per il trasferimento modale in aree altamente sensibili dal punto di vista ambientale”.

Non c’è scritto di quanto diminuirà le emissioni e quando, ma solo che è realizzato in aree altamente sensibili! Eh, lo sappiamo, sono le povere Alpi, e bucarle con altri tunnel è trascurabile, vero?

Per essere coerenti con gli annunci verdi occorrerebbe fermare senza indugio proprio quelle grandi opere dove anche le emissioni sono grandi, grandi i danni ambientali e grandi i costi, ottenendo così un grande vantaggio. In questo caso è facile, perché si tratta soltanto di rispettare i principi della stessa istituzione che eroga i soldi: cambiano gli obiettivi strategici (l’urgenza climatica ha priorità sulla retorica della velocità ferroviaria), cambiano i finanziamenti e i buchi inutili nelle Alpi non si fanno più…

LA SINTESI è nella lettera che il fisico Angelo Tartaglia ha indirizzato alla politica: “A giudicare da tutte le contraddizioni evidenziate, parrebbe che l’Unione Europea, come le istituzioni italiane, si rifiuti di vedere come l’origine del problema climatico stia nelle strutture stesse dell’economia così come essa è stata ed è organizzata. Al centro di tutto vengono poste crescita materiale e competizione in barba a qualunque valutazione fisica, sostituendo la razionalità scientifica con una testarda fede nella magia e così continuando a difendere ciecamente e in maniera autolesionistica vantaggi a breve termine”.

UNA STRATEGIA GLOBALE Scienziati e intellettuali auspicano che la lezione del virus serva ad affrontare i cambiamenti ambientali

SCEMPIO IN VAL DI SUSA I 57 km di doppio tunnel provocheranno emissioni per 10 milioni di tonnellate di Co2. Poi ci sono i detriti

Covid, ecco le mascherine marocchine della Miroglio per i piemontesi

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Andrea Doi

Andrea Doi

Giornalista dal 1997. Ha iniziato nel ’93 al quotidiano La Nuova Sardegna. Ha lavorato per Il Manifesto, Torino Sera, La Stampa. Tra le sue collaborazioni: Luna Nuova, Il Risveglio del Canavese, Il Venerdì di Repubblica, Huffington Post, Avvenimenti e Left. Dal 2007 a Nuova Società, di cui è il direttore dal 2017.

In alcuni condomini di Torino sono arrivate le tanto attese mascherine per l’emergenza Coronavirus, della Regione Piemonte. Tra le prime ci sono quelle prodotte, come è ben visibile sull’etichetta, in Marocco.

Si tratta delle mascherine della Miroglio Fashion, che insieme alle aziende Casalinda e Pratrivero, ha avuto l’appalto per la realizzazione di cinque mila mascherine lavabili da distribuire gratuitamente ai piemontesi.

Ma se la Casalinda e Prativeo per la propria produzione si avvalgono di una filiera anche fuori dal territorio piemontese, ma sempre dentro i confini della Nazione, lo stesso, come detto, non vale per la Miroglio, che su due milioni di mascherine 350 mila sono marocchine.

L’azienda di Alba, va ricordato, per le dipendenti italiane, vista l’emergenza Coronavirus, aveva chiesto la cassa integrazione in deroga. Non solo. A metà aprile era nata una querelle con i rappresentati Filcams Cgil che denunciavano il fatto che la Miroglio si sarebbe rifiutata di anticipare l’erogazione della cassa.

Accusa che la Miroglio aveva respinto, sostenendo che per legge non poteva anticipare l’erogazione, visto l’inquadramento nel settore Commercio e al contratto applicato alle dipendenti dei punti vendita, circa 900 in Italia.

Pensioni: “I soldi ci sono fino a maggio”. Le affermazioni del Presidente dell’Inps accendono un campanello d’allarme

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Maggio è arrivato e ancora il Decreto Aprile, che poi è diventato Maggio e infine ribattezzato prudentemente Rilancio, ancora non si vede. L’unica cosa che si vede è il rinvio continuo di un provvedimento che dovrebbe stanziare 55 miliardi per il sistema economico e sociale. Un provvedimento per il rilancio di famiglie e imprese italiane è in gestazione da oltre un mese. Perché?

Cosa nascondono i continui rinvii del Decreto Aprile-Maggio-Rilancio?

Perché un decreto che deve stanziare risorse vitali per la grande parte del Paese, ancora non è stato varato? Il decreto era stato battezzato Aprile, perché doveva nascere ad aprile. E doveva stanziare soprattutto indennità, sussidi, cassa integrazione, ecc. necessarie per la sopravvivenza di molte categorie nella Fase 1. Siamo a maggio, la Fase 2 è già partita e ancora il decreto non è stato varato. Le cronache politiche ci raccontano di lotte in seno alla maggioranza del Governo per la sanatoria sugli immigrati irregolari. Sicuramente. Ma non crediamo che per questo motivo si tenga fermo un provvedimento vitale e si riducano allo stremo milioni di famiglie e migliaia di imprese. La verità è diversa.

La verità spesso è la risposta più semplice

Spesso la risposta più semplice è quella più vicina alla verità. Il Decreto Rilancio dovrebbe varare 55 miliardi. Un quindicesimo di quanto ha stanziato la Germania per sostenere la propria economia, 750 miliardi. Solo per fare l’esempio più vicino a noi. Berlino gli ha stanziati ad inizio aprile. Ha messo nei conti di piccole imprese e professionisti 15mila euro.

In Italia c’è chi ancora non ha preso i 600 euro stanziati per le partite Iva a marzo. E sono gli unici soldi che il Governo ha veramente speso (perché i prestiti sono erogati dalle banche con garanzia statale).

Questi dati dovrebbero farci capire che il Governo non ha soldi da spendere. Sarà banale ma è così. Non ci sono soldi e non ci possiamo indebitare troppo perché nel lungo periodo rischiamo di non potere sostenere il debito. Il Governo sta prendendo tempo per capire come reperire i 55 miliardi.

La linea rossa di maggio per le pensioni

Il 10 maggio nella trasmissione Che tempo che fa, condotta da Fabio Fazio, il Ministro dell’Economia Gualtieri ha ricordato un fatto scontato ma significativo. Per trovare i soldi per tappare le emergenza economico-sociale-sanitaria e quelli ben maggiori per rilanciare il Paese, lo Stato si finanzierà sul mercato. Come ha sempre fatto, emettendo BTP e raccogliendo prestiti dagli investitori.

L’affermazione del Ministro ci dice due cose. Che nelle casse dell’Italia la liquidità scarseggia. Che se il debito dell’Italia sale troppo, c’è il rischio che si innesti sul mercato il dubbio della sostenibilità del debito. E questo costituirebbe un grave problema per l’Italia al momento di finanziarsi sul mercato.

E allora ci tornano in mente le parole del presidente dell’Inps Tridico, in una intervista alla trasmissione Di martedì della emittente La 7. Il 24 marzo Tridico disse: “Abbiamo i soldi per pagare le pensioni fino al momento in cui è stato sospeso il pagamento dei contributi. Quindi fino a maggio non c’è problema di liquiditàDopo di che immagino che in aprile ci sarà un altro decreto che dovrà anche dire cosa succederà alla sospensione dei contributi”.  Si riferiva al Decreto Aprile, poi diventato Decreto Maggio e adesso Decreto Rilancio. Siamo a metà maggio, il Decreto non c’è. E i soldi per le pensioni?

Tav, “prorogate di nascosto le sovvenzioni alla Torino-Lione”. L’accusa alla Commissione Ue

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Verdi europei e M5s chiedono spiegazioni. La commissaria ai Trasporti: “Abbiamo ricevuto richiesta


FOTO: ANSA/RICCARDO DALLE LUCHE

“Dov’è la trasparenza con il Parlamento europeo, io vi ho inviato diverse mail sulla questione?”. L’ecologista francese Karima Delli, presidente della commissione Trasporti dell’Eurocamera, non le ha mandate a dire all’esecutivo comunitario, colpevole – a suo dire – di aver preso un provvedimento importante che “non è stato neanche oggetto di una comunicazione all’opinione pubblica”. La decisione in questione è “il via libera a un prolungamento delle sovvenzioni alla tratta Lione-Torino”. A confermare che Bruxelles ha deciso di estendere i termini per il co-finanziamento del Tav è la commissaria ai Trasporti Adina Valean.

La polemica

“Abbiamo ricevuto richiesta che venisse prorogata la sovvenzione”, ha detto la commissaria europea, senza chiarire da quale istituzione è arrivato l’input. Al netto dei punti interrogativi sulla vicenda, la notizia dell’estensione dei termini per attingere ai fondi Ue per completare la controversa grande opera ha avuto l’effetto di scatenare il dibattito politico sull’argomento che – vale la pena ricordarlo – ebbe un ruolo chiave nella caduta del Governo ‘gialloverde’ Conte I. “Il Tav Torino-Lione è incompatibile con il Green Deal europeo”, attacca Eleonora Evi del Movimento 5 Stelle. L’europarlamentare, presente al confronto di oggi con la commissaria Valean, se la prende con quest’ultima che “ha confermato la decisione di finanziare, con centinaia di milioni di euro di soldi pubblici, questo progetto infrastrutturale inutile e dannoso per l’ambiente”. 

L’accusa di irregolarità

“La decisione di prorogare il Grant Agreement per il finanziamento dell’opera fino al 31 dicembre 2022 – si legge in una nota della pentastellata – è sbagliata non solo sul piano politico e morale, ma anche su quello formale”. La Evi cita il principio ‘use it or lose it’ e “l’incapacità di Telt di utilizzare gli 814 milioni di finanziamenti Ue” che “avrebbe dovuto infatti causare il disimpegno verso l’opera”. “In un momento di grave crisi economica come quello che stiamo vivendo l’Unione europea dovrebbe riconsiderare le proprie priorità e mettere le poche risorse a disposizione per progetti davvero utili e a dimensione del cittadino”, conclude la Evi. L’eurodeputata francese Delli mette invece l’accento sulla mancanza di trasparenza. “Non trovo onesto quel che si fa di nascosto – ha detto oggi durante un’audizione “e poi non vedo urgenza su questo argomento”. “Chiedo spiegazioni alla Commissione”, ha ribadito l’esponente dei Verdi europei.

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Una montagna di amianto dietro il Tav

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/05/10/ce-una-montagna-di-amianto-scavata-col-tav/5797063/?fbclid=IwAR15njzjM7MKfA-iXwf77qgAbDjzqLPKVbcQ8Kz4ZLvGs6YT6cEh7rAtugk

Una montagna di amianto dietro il Tav

Cantiere bloccato – 10mila metri cubi di materiali forse tossici sequestrati dalla Gdf. Ne vale la pena?

Salbertrand è un bel borgo dell’Alta Val di Susa, a quota mille metri. Ci passa la statale del Monginevro, già strada romana delle Gallie, e nessuno fa caso alla sua cinquecentesca chiesa di San Giovanni che vale la visita. Tutti notano invece l’ampio fondovalle della Dora che è diventato una selva di infrastrutture: lo scalo ferroviario della linea internazionale esistente Torino-Modane con la stazione elettrica, l’area di servizio della A32 e la montagnola di detriti contenenti amianto accumulati nel tempo, in uso a Itinera, Gruppo Gavio. 

È l’ultimo lembo di terreno utilizzabile al di fuori della zona esondabile della Dora e del Parco Naturale del Gran Bosco, e per questo è stato scelto per installarci lo stabilimento di produzione degli elementi di calcestruzzo destinati al cantiere Tav Torino-Lione.

Ma il problema è che i circa 10mila metri cubi di materiali amiantiferi potenzialmente tossici sono stati posti sotto sequestro dalla Guardia di Finanza su esposto del sindaco Roberto Pourpour e ora ci vorranno un po’ di mesi per smaltirli con tutti i crismi della sicurezza prima di poter disporre dell’agognato terreno.
Siamo certi che il lavoro verrà eseguito a regola d’arte: anche se questa è una zona asciutta e ventosa i detriti verranno insaccati in modo praticamente stagno e avviati verso discariche speciali, in parte in Piemonte e si dice pure in Germania. Le tecnologie e le normative per evitare rischi per addetti e popolazione locale ci sono, basta pagare, e infatti Pourpour stima in circa 4,5 milioni di euro il costo dell’operazione.
Ciò che preoccupa è il dopo: il cantiere che per una buona decina d’anni dovrà trattare una parte dello smarino – la roccia risultante dalla perforazione del tunnel di 57 km – e fabbricare i conci di calcestruzzo per il rivestimento delle canne. I camion circoleranno senza tregua per alimentare l’impianto, producendo polvere e inquinamento, alla faccia del delicato ambiente alpino che la grande opera si fregia di proteggere!
Ma la questione è sempre a monte dei dettagli pratici: questo gigantismo infrastrutturale serve al nostro futuro che dovrebbe essere sostenibile e compatibile con i limiti ambientali? No.
Lo ha detto sul piano economico l’analisi costi e benefici del prof. Marco Ponti ignorata dal governo, lo dicono i numeri delle emissioni di CO2 dovute al cantiere e alla gestione futura.
Se una grande opera fosse indispensabile alla collettività sarei il primo ad appoggiarla: chiederei ovviamente che venissero applicate tutte le migliori garanzie per minimizzare i danni locali, imponendo pure una lievitazione dei costi per avere il massimo dei controlli e della qualità.
Ma se la grande opera non serve, in quanto concepita trent’anni fa e ormai antistorica?
Se è rimpiazzabile tanto dalla vecchia linea Torino-Modane quanto dalle nuove tecnologie e dalla necessità di un’economia circolare che faccia muovere non più merci, ma meno?
Allora temo che tutto questo agitarsi sostituirà un piccolo cumulo di detriti con uno molto più grande.
FQ 10 Maggio

Coronavirus, il premio Nobel Stiglitz: “Energia pulita crea 3 volte più occupati dei fossili”

http://europa.today.it/lavoro/stiglitz-coronavirus-rinnovabili.html?fbclid=IwAR1sk9gqccXKVbqYwOjF96YqEIFfnxo1GmK0ftN1fkhIgt1jEih8da97JuU

Uno studio dell’Università di Oxford, di cui è coautore l’economista Usa, invita i governi a puntare sugli investimenti “green” per far ripartire l’economia. E bacchetta “i salvataggi incondizionati delle compagnie aeree”. Le misure dell’Italia? Finora “neutrali”

Ogni milione investito nell’energia pulita crea il triplo dei posti di lavoro rispetto allo stesso ammontare speso nei combustibili fossili. E inoltre, le infrastrutture connesse a fonti rinnovabili come eolico e solare sono più “resistenti” agli effetti perversi della globalizzazione, come le delocalizzazioni. Ecco perché per risollevare le economie colpite dal Covid-19 occorre puntare sulle politiche “green”. A dirlo sono i risultati di uno studio dell’Università di Oxford che ha coinvolto ben 231 esperti di banche centrali, ministeri delle finanze, accademici e think tank di tutto il mondo. A guidare lo studio il professore Cameron Hepburn, il premio Nobel Joseph Stiglitz e Nicholas Stern della London School of Economics. 

Gli autori hanno esaminato circa 700 pacchetti di stimolo attuati dal 2008 e hanno intervistato esperti di tutto il mondo. Sulla base di questi dati, gli economisti hanno rilevato che le politiche di stimolo a lungo termine e a favore del clima sono più vantaggiose non solo nel rallentare il riscaldamento globale ma anche in termini di impatto economico complessivo. Le politiche “green” – lo studio si è concentrato sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra come criterio chiave per definire tali politiche – infatti, creano più posti di lavoro, offrono maggiori rendimenti nel breve termine per ogni dollaro speso e portano a un maggiore risparmio sui costi sul lungo termine, rispetto agli stimoli fiscali tradizionali.

Ne sono un esempio gli investimenti nella produzione di energia rinnovabile, come l’eolico o il solare. Come hanno dimostrato le ricerche precedenti, già nel breve termine, la costruzione di infrastrutture per l’energia pulita richiede molta manodopera, creando il doppio dei posti di lavoro per dollaro rispetto agli investimenti nei combustibili fossili, oltre ad essere meno suscettibile alla delocalizzazione. Si legge, infatti, che ogni milione di dollari di spesa genera 7,49 posti di lavoro a tempo pieno nelle infrastrutture per le energie rinnovabili, 7,72 nell’efficienza energetica, ma solo 2,65 nei combustibili fossili.

Oltre alla riqualificazione dei lavoratori in settori come le nuove tecnologie e le energie rinnovabili per sopperire anche alla disoccupazione dovuta al coronavirus, altre politiche auspicabili includono la spesa per la ricerca e lo sviluppo nelle energie rinnovabili, così come gli investimenti in infrastrutture di connettività degli edifici, quali, ad esempio, la banda larga e la ricarica dei veicoli elettrici, nonché investimenti per la resilienza e la rigenerazione degli ecosistemi. Nel frattempo, misure che non tengono conto della riduzione delle emissioni, come i salvataggi incondizionati delle compagnie aeree, sembrano avere risultati più scarsi sia in termini di impatto economico che dal punto di vista climatico.

Per quanto riguarda l’Italia, secondo gli autori, le risposte al Covid sono state finora neutrali dal punto di vista climatico (ovvero investimenti non eccezionali nei combustibili fossili, ma neanche verso le rinnovabili), ma c’è una grande opportunità per futuri investimenti positivi dal punto di vista climatico.

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Val di Susa. Il cantiere della Tav bloccato per una discarica di amianto

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Diritti Globali

Sedicimila metri quadrati di roccia mai bonificata sequestrati dalla Guardia di finanza

Maurizio Pagliassotti * • 9/11/2019 • 

Laddove non è giunta la valutazione costi benefici dall’esito negativo, potrebbe arrivare un gigantesco deposito di roccia contenente amianto, posizionato al centro della val Susa, nel Comune di Salbertrand. Il progetto Torino-Lione rischia uno “stop” di cui si ignorano le dimensioni temporali, in quanto la Guardia di Finanza, circa un mese fa, ha posto sotto sequestro una montagna di detriti contenente amianto, il tutto a seguito di un esposto della magistratura.

La vicenda è nota ai pendolari della val Susa, che ogni giorno, da anni, vedono scorrere a pochi metri dal finestrino un’area di circa sedicimila metri quadri su cui si erge un cumulo di roccia contenente amianto che doveva essere bonificato. Di colore biancastro, ricoperta da teloni, rappresenta il concretizzarsi delle paure del movimento Notav legate alla gestione delle rocce amiantifere che un eventuale maxi tunnel dovrà dapprima scavare e poi gestire.

L’amianto, la sua volatilità, l’accertata presenza nelle montagne della val di Susa: tutto questo fu trenta anni fa tra le cause scatenanti della resistenza alla Torino – Lione. L’area che vede susseguirsi montagnole di rocce è stata data in concessione all’Itinera Spa, società che fa capo al Gruppo Gavio: qui si prevede la costruzione di capannoni dove il materiale di scavo estratto dal tunnel di base, verrà trasformato in “conci”, ovvero le volte in cemento armato che ricopriranno la galleria.

Dato che la montagna di amianto non è stata trattata, la costruzione della “fabbrica dei conci” non potrà iniziare quando si inizierà la nuova fase di scavo. Manca quindi un luogo fisico dove iniziare la produzione, data l’assenza della bonifica del materiale stoccato da anni.

E’ un piccolo ingranaggio che blocca l’intera mega macchina del Tav, perché altri luoghi dove produrre i conci non sono previsti dalla stessa Telt, la società incaricata di progettare e realizzare l’opera.

La complessa situazione assume contorni misteriosi se si pensa che il sito prescelto si trova a pochi metri dal greto del torrente Dora Riparia, già oggetto di esondazioni importanti in passato. Incongrua anche la dimensione economica del problema rispetto all’esiguità dei fondi necessari per la bonifica del sito. La Torino–Lione vale circa 8,6 miliardi di euro, mentre i lavori di bonifica non dovrebbero superare i quattro milioni.

Perché le opere di bonifica non siano mai state eseguite e si sia giunti a poco tempo dall’allargamento del cantiere è un enigma. Ma il problema non si limita al sito che dovrebbe essere coperto da capannoni: accanto vi è un secondo deposito, dalla composizione poco chiara, che occupa altri ventiduemila metri quadri di terreno. Mai bonificato anche quello, oggetto di una causa civile che ha intimato all’imprenditore che doveva “gestirla” di bonificarla. Il contenuto semi ignoto di quelle montagnole è ancora al suo posto.

Il sindaco di Slabertrand si chiama Roberto Pourpour, ed ha vinto inaspettatamente le recenti elezioni partendo da una raccolta firme sui cumuli amianto. Le sue posizioni sono contrarie al Tav: «Nell’area non è stato fatto nulla e non può essere un piccolo comune come il nostro a sobbarcarsi i costi di una impresa simile. Si tratta di lavori molto complessi, che necessitano di una fase preliminare per comprendere cosa sia stoccato. Al momento perfino i carotaggi sono risultati difficili data la franosità dei cumuli. Sopra quella montagna di amianto era calata una spessa coltre di silenzio da troppo tempo: eppure io credo che i rischi per la popolazione non debbano essere sottovalutati, sopratutto un presenza di materiali dalla provenienza poco chiara».

* Fonte: Maurizio Pagliassottiil manifesto