Back to Urss. La ri-sovietizzazione russa spiegata da Pellicciari

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Back to Urss. La ri-sovietizzazione russa spiegata da Pellicciari

In Russia per via del Covid-19 stiamo assistendo a fenomeni non programmati che è probabile rilancino le ipotesi di ri-sovietizzazione in direzioni non previste, verso sfere ritenute al riparo da ritorni al passato, come quelle socio-economiche. L’analisi di Igor Pellicciari, professore di Storia delle Relazioni internazionali all’Università di Urbino e alla Luiss Guido Carli

Tra i molti errori di fondo ricorrenti nell’osservare la Russia odierna forse il più evidente è di considerarla come una prosecuzione automatica e non filtrata del periodo sovietico e di ricondurre la spiegazione di aspetti dell’oggi in toto a logiche del passato, come se nulla fosse cambiato.

Il motivo del persistere di questa prospettiva è al contempo storico e pratico. L’esperienza dell’Urss ha segnato di fatto un intero secolo di storia mondiale ed è comprensibile che chi ne è stato colpito – nel bene o soprattutto nel male – fatichi ad accettarne la fine.

Ce lo dice la vicenda dell’allargamento ad Est dell’Unione europea, che a differenza della Nato – come ricordò lo stesso Romano Prodi in una Conferenza a Mosca nel 2015 – è avvenuta in coordinamento con il Cremlino.

Una serie di nuovi Paesi entrarono nell’Unione accompagnati dalla speranza ingenua di Bruxelles che avrebbero portato nuovi canali ed opportunità di raffronto (non di confronto) con la Russia. In realtà, scottati dal passato, i Paesi dell’Est Europa, molto prima dell’onda di Visegrad, fecero gruppo a parte e si rivolsero a Mosca più come alleati della Nato che come membri della Ue.

Ne nacquero contrapposizioni frontali con la Russia che hanno infastidito non poco i Paesi fondatori dell’Ue (come Italia e Francia), tutt’altro che pronti all’ipotesi di uno scontro politico quando non bellico per compiacere la Polonia o i Paesi baltici.

Accanto a questo pregiudizio storico duro a morire, il motivo pratico del perdurare dell’immaginario sovietico è riconducibile negli ultimi due decenni alla carenza cronica di osservatori occidentali esperti di dinamiche del Cremlino.

Con il crollo dell’Urss e la sua perdita di importanza, la ricerca sulla Russia ha smesso di ricevere i lauti finanziamenti del periodo della Guerra Fredda e si è generata un’importante carenza di expertise che ha lasciato il campo sguarnito ai sovietologi, unici rimasti sulla scena – loro malgrado – a dare spiegazioni su quanto avviene oggi al Cremlino. Creando un evidente cortocircuito: come se per comprendere il boom economico italiano degli anni ‘60 ci si affidasse solo agli esperti del periodo Fascista, con gli esiti immaginabili.

In realtà al cambiare radicale di un sistema politico gli elementi di novità superano quelli di continuità che pure resistono e sconfinano nella antropologia politica di un popolo (la natura umana cambia anch’essa ma con maggiore lentezza).

La Russia non fa eccezione a questo trend e quello che oggi osserviamo è un Paese dove gli elementi di novità superano in gran lunga quelli di continuità del periodo sovietico.

Se dunque dire il contrario è segno di ingenuità o di un trauma politico del passato, molto meno lo è chiedersi se si possa assistere al ritorno di processi di ri-sovietizzazione che Mosca stessa sembra auspicare quando bolla lo smantellamento dell’Unione Sovietica come il più imperdonabile degli errori commessi da Boris Eltsin.

In particolare questi timori hanno riguardato in passato il versante internazionale, dove episodi come la nascita dell’Unione Economica Euroasiatica (oggi poco più di una coalizione doganale) hanno messo in allerta Washington che potessero essere l’anticamera di un ritorno ad una Urss 2.0.

Oggi la novità è che per via del Covid-19 stiamo assistendo a fenomeni non programmati che è probabile rilancino le ipotesi di ri-sovietizzazione in direzioni non previste, verso sfere ritenute al riparo da ritorni al passato, come quelle socio-economiche.

Tenendo conto delle difficili premesse demografiche e al netto della veridicità dei numeri, Mosca tutto sommato sta gestendo l’aspetto virologico della pandemia non peggio di molti altri Paesi: è riuscita adevitare un total lock-down sul modello dei suoi principali competitor (dagli Usa alla Germania). A preoccupare piuttosto è la congiuntura di questa crisi con le pesanti conseguenze della concomitante “Guerra del Petrolio”.

Lanciatasi nello scontro con l’Arabia Saudita ma con l’obiettivo vero di colpire i produttori di Shale Oil americano, Mosca ne è uscita vincitrice sul piano internazionale ma sanguinante su quello interno.

Con il prezzo del barile di greggio a poco più di 10 dollari (a fronte di un break-even calcolato a 41.80) Mosca ha visto evaporare notevolissime risorse utili per coprire i costi della pesante recessione che – dopo le vittime umane – sembra la più grave eredità lasciata del Covid.

La storia ci dirà se lanciarsi in questa sfida sapendo dell’imminente crisi pandemica sia stata per Mosca un azzardo eccessivo (pare che il potente Ministero degli Affari Esteri fosse contrario ma che la governance dei colossi energetici con Rosneft in prima fila abbia avuto la meglio nel decidere lo scontro).

Fatto sta che oggi il governo ha pochissimi strumenti a sostegno di una economia russa che negli anni recenti era andata verso un modello di mercato occidentale, con il moltiplicarsi nel terziario di nuovi micro e piccoli imprenditori, per lo più giovani, incentivati anche da un sistema fiscale a bassissima flat rate (addirittura al 6% per le partite Iva).

Dovendo scegliere dove orientare le poche risorse disponibili è probabile che il governo le convoglierà nel salvataggio dei tradizionali grossi settori industriali del Paese (energetico, agricolo, militare e metallurgico) a scapito del ricordato humus di piccola creatività imprenditoriale, che verrà spazzato via sulla scia di quanto già osservato nelle crisi cicliche del 1998 e nel 2009.

Con la differenza che la nuova disoccupazione giovanile che in passato ha trovato uno sfogo nella emigrazione in Occidente questa volta dovrà confrontarsi con una crisi occupazionale mondiale e cercare soluzioni domestiche al ribasso, come l’impiego in un settore pubblico o para-statale che verrà gonfiato per evitare tensioni sociali.

Per quanto riguarda gli oligarchi, da tempo domati ad accettare e obbedire al primatus politicae imposto dal Cremlino, è probabile che ad aumentare saranno le loro ricchezze ma non l’autonomia nel decidere come utilizzarle a fronte di un’amministrazione del Presidente che continua a utilizzarli come ammortizzatori sociali e scaricare su di loro i costi di interventi che dovrebbero essere coperti dal settore pubblico.

Se il sistema di potere russo anche questa volta è probabile che non ne uscirà stravolto, la vera vittima predestinata nell’immediato sarà quella classe media self made che si è sviluppata nell’ultimo decennio, nonostante il proverbiale strabordante apparato statale russo.

In un Paese dal passato così ingombrante, basta questo dato per fare temere un processo di progressiva ri-sovietizzazione. Economica prima, sociale poi.

Se un fisico scrive alla politica indicando con garbo ciò che c’è da fare

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manifesto

Ambiente. “Il riscaldamento climatico. Lettera di un fisico alla politica” di Angelo Tartaglia per le Edizioni del Gruppo Abele. Un libro di grande pregio fin dalla sua finalità politica di fondo: mostrare, smontando una a una tutte le retoriche correnti, che oggi nulla si sta facendo in Italia e nel mondo per contrastare l’avanzare del riscaldamento globale

Per chi segue la letteratura sul riscaldamento climatico è difficile trarre interesse da qualche nuovo testo che non riveli clamorose novità. Tuttavia, pur essendo privo di notizie eclatanti, il saggio di Angelo Tartaglia, Il riscaldamento climatico. Lettera di un fisico alla politica, (Edizioni Gruppo Abele. pp. 97, euro 7,99) si legge d’un fiato. E per più ragioni. A cominciare dalla tonalità media, cordiale, del ragionare – il saggio ha la forma di una missiva al presidente del Consiglio – per continuare con la nitidezza della scrittura, che non indulge nel tecnicismo o nell’ostentazione di oscure formule matematiche, per finire con la sua finalità politica di fondo: mostrare, smontando una a una tutte le retoriche correnti, che oggi nulla si sta facendo in Italia e nel mondo per contrastare l’avanzare del riscaldamento globale.

Tartaglia, non disdegna di spiegare al lettore anche le cose all’apparenza ovvie, ma che tali non sono, e che vanno chiarite, altrimenti non si comprende la gravità dei fenomeni. Il «problema – ricorda – non è il cambiamento in sé, ma la rapidità con cui avviene e di conseguenza la frequenza dei fenomeni “anomali” che lo accompagnano». E infatti l’opinione corrente si ferma all’innalzamento della temperatura media – che peraltro si svolge in modo disuguale nelle varie aree del pianeta – mentre minacciosi sono gli effetti collaterali: scioglimento dei ghiacciai, incremento imprevedibile della temperatura dei mari, loro innalzamento e sommersione delle aree costiere, alternanza caotica di siccità e inondazioni, shock imprevedibili ad animali e piante.

L’AUTORE CHIARISCE SUBITO, in modo lapidario quale sia la causa di tutto: «Tutti noi siamo parte di un sistema socioeconomico globale che per funzionare ha un grande bisogno di energia. Oggi, l’81% di quell’energia (aggiungendo le biomasse arriviamo al 91%) è ottenuto mediante processi di combustione». Dunque non è questo o quell’eccesso di sfruttamento o di economia estrattiva a generare il mutamento in atto, ma l’intero assetto mondiale della produzione e del consumo. E questo è necessario stabilirlo, perché l’opinione pubblica non venga ingannata dal ceto politico con i soliti pannicelli caldi di qualche pannello solare in più.

Per non lasciare alcuno scampo ai minimalisti, Tartaglia ricorda anche quello che avviene in settori in cui all’apparenza sono meno rilevanti i processi di combustione, ad esempio in un ambito vitale dell’economia planetaria, l’agricoltura: «la nostra agricoltura impostata su un sistematico uso di fertilizzanti chimici porta a una progressiva riduzione del contenuto organico nel suolo e il carbonio che non resta nel terreno si ritrova nell’atmosfera. Nelle grandi pianure americane lo spessore dello strato organico nel terreno si misurava, nell’800, in metri, oggi in centimetri. E qualcosa di simile avviene anche nella pianura padana». L’economia capitalistica brucia il patrimonio di biomasse accumulato in milioni di anni nel sottosuolo, altera il clima, ma libera anche CO2 dal suolo isterilendo lo strato da cui inizia la vita.

UN PREGIO DI QUESTO SAGGIO è l’intelligenza politica che sorregge ogni sua pagina e che lo rende particolarmente efficace. Non è solito trovare negli scritti degli scienziati (se è per questo anche degli storici, soprattutto italiani) il garbo, l’ironia, la costante attenzione alla comunicabilità del messaggio. Il tutto indirizzato a demolire uno dopo l’altro i pregiudizi e le menzogne con cui i poteri dominanti continuano a condurre l’economia globale. Tartaglia fa giustizia, con argomentazioni scientifiche, della superstizione secondo cui l’innovazione ci salverà. I limiti invalicabili della natura non consentono facili scorciatoie. Allo stesso tempo chiede al presidente del Consiglio, per esempio, di fronte alla imponente campagna mondiale di trivellazioni da parte dell’ Eni, industria di stato, che contributo si dia al contenimento dei gas serra. Quando secondo gli scienziati occorrerebbe che l’80% dei carburanti fossili rimanesse nel sottosuolo per conseguire gli obiettivi.

Ma dalla critica di Tartaglia esce a pezzi uno dei miti della nostra classe dirigente, priva di ogni visione e creatività: le grandi opere, che appaiono, dati alla mano, grandi divoratori di energia. Senza dire che il consumo di suolo continua in Italia al ritmo di 2metri quadrati al secondo (51 km2 nel 2108)

IN VERITÀ, tutto continua come prima. Eppure molte cose potrebbero essere realizzate per invertire la tendenza. Tartaglia non è avaro di consigli. Ma la logica dominante è riparare, quel che si rompe, non prevenire. Così, se non li fermiamo, la festa continuerà, salvo parentesi pandemiche, fino alla catastrofe.