La misteriosa città di Rama: l’Atlantide della Val di Susa

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La prima volta che ho sentito parlare della misteriosa città di Rama mi trovavo in una bocciofila di Bussoleno, nella Bassa Valle di Susa. Qui, tra lo schioccare delle sfere d’acciaio e il tintinnare dei bicchieri di vino, Alessandro e Sara, due cari amici, mi parlarono di una città leggendaria, misteriosamente scomparsa, che sorgeva, in tempi remoti, nella valle.

Mi raccontarono di un contadino che, intento a dissodare la propria vigna con un palanchino, all’improvviso sentì la pesante asta di ferro sfuggirgli di mano, come risucchiata nel buco che stava faticosamente scavando nel terreno, e atterrare con un clangore diversi metri più sotto. Allargando il varco che aveva fortuitamente aperto, il contadino si affacciò su una sala sotterranea o forse sul corridoio di una città dedalica e misteriosa, antica come il vento e le montagne, che in tempi remoti si estendeva per chilometri.

I miei amici non seppero dirmi di più sugli sviluppi della vicenda, né sui ritrovamenti fatti dal contadino nella sala ipogea, ma quelle poche parole, gettate lì quasi per caso tra un bicchiere di arneis e una partita a freccette, infiammarono la mia fantasia: mi vennero in mente Ferdinand Ossendowski e René Guenon, che raccontano di passaggi segreti sotto al deserto dei Gobi, attraverso i quali deambula il Re del Mondo con il suo misterioso corteo. All’improvviso le note del tema di Indiana Jones si fecero strada nel mio cervello.

Da allora sono trascorsi un paio d’anni, durante i quali, occasionalmente, ho fatto ricerche e raccolto testi. Quello della città preistorica valsusina è un mito nebuloso, sfuggente, restio a lasciarsi indagare: ricercare sul tema è come arrampicare su una parete scivolosa, disseminata di falsi appigli che, non appena afferrati, si sgretolano tra le dita. E così, a fatica, di sito in sito, di libro in libro, ho messo insieme qualche tassello: certo, Rama rimane tutt’ora un mistero, ma almeno ho provato a raccontarlo.

Che cos’è Rama?

“Un’altra tradizione è l’esistenza di una antichissima città alle falde del Roc-Maol [antico nome del monte Rocciamelone, in Val Susa n.d.r.] sparita sotto il terreno di alluvione tra i torrenti di Foresto di Chianoc [Chianocco n.d.r.] e Bruzolo”

La Valle di Susa vista dalla Sacra di San Michele. Fotografia condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia. Il monte Rocciamelone (3538 m) domina la Valle di Susa (provincia di Torino) attraverso la quale l’Autostrada del Frejus conduce al tunnel del Frejus:

Le parole citate provengono da uno strano libretto pubblicato nel 1893 da Matilde Dell’Oro-Hermil (1843-1927), con il titolo di “Roc-Maol e Mompantero (Sue leggende e suoi abitanti)”. Il testo è un curioso miscuglio di esoterismo, antropologia ingenua ed etimologie strampalate, con le quali l’autrice, proveniente da Susa, cerca di spiegare le origini arcaiche dell’area del Rocciamelone, riconducendole a migrazioni antidiluviane. Ci sono passaggi tragicomici, in cui l’autrice cerca di ricondurre la fisionomia dei montanari valsusini a tratti negroidi, per rafforzare l’ipotesi di una migrazione dall’India di una “razza nera versatissima nelle scienze esatte ed occulte”. Senza volerci addentrare in una critica dettagliata del testo, si può senza dubbio affermare che la logica stringente e la consequenzialità degli assunti non siano tra i suoi punti di maggiore forza.

Ciononostante, e forse proprio grazie a ciò, il libro della Dell’Oro-Hermil conserva un certo fascino, perché riflette le tendenze culturali piemontesi fin de siecle, pervase da inquietudini metafisiche che, fuoriuscendo dall’alveo della tradizione cattolica, si disperdevano in rivoli sincretistici ed esotici. Spiritismo, teosofia, occultismo trionfavano nei salotti esoterici torinesi e le parole della Dell’Oro-Hermil ne rispecchiano i fasti. Non a caso, l’autrice era in contatto epistolare con il celebre occultista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (1842-1909), citato da René Guenon nell’apertura del suo celebre “Il re del mondo” come primo teorico di un centro iniziatico misterioso dal nome di Agarttha. Il Saint-Yves era anche noto come reazionario teorico della “sinarchia”, sistema politico rigido e conservatore contrapposto all’anarchia. Molto spesso, i cultori della Tradizione non hanno idee progressiste.

Un articolo dell’8 Aprile del 1975 della Stampa parla della città di Rama:

Ma torniamo alla città di Rama: di essa, si racconta nell’opuscolo, “rimangono solo più poche case, o meglio solo alcune casette là dove fu uno dei punti della preistorica città; di essa si dice con vanto melanconico che i suoi portici andavano per tutta la larghezza della valle, da Bussoleno alle ghiaie di Bruzolo”.

Volendo prendere alla lettera le parole della scrittrice valsusina, Rama era un insediamento abitativo di tutto rispetto, con un diametro di circa otto chilometri: l’autrice immagina che questa antica città sacra sotto il segno dell’Ariete si opponesse alla città del Toro (Torino), “laggiù, fra le nebbie del Po”. Rama sarebbe stata una “sede pacifica intellettuale”, mentre il non troppo distante monte Rocciamelone sarebbe stato “la sede estiva”, nella quale gli abitanti si sarebbero rifugiati per sfuggire alla calura.

Non solo: il monte avrebbe anche rappresentato una roccaforte difensiva: “il deposito, la cassa forte del tesoro, la vedetta colle macchine infernali per tener lontano gli importuni”. Nei paragrafi precedenti, infatti, si narra di come un re arcaico di nome Romolo avesse conquistato il Roc-Maol sconfiggendo la “razza nera” e instaurando la sinarchia. Questo re avrebbe raccolto e nascosto nel monte un gran tesoro, e lo avrebbe difeso con “ordigno spaventoso” di catapulte, in grado di scatenare fenomeni atmosferici avversi contro chi cercava di scalarne la vetta: “chiunque tentava di avvicinarsi n’era respinto da improvvisa folta nebbia con grandine di pietre e pioggia di saette e accompagnamento di spaventevole fragore”.

Purtroppo, Matilde dell’Oro-Hermil non si dilunga troppo nel descrivere la città misteriosa né nel narrare la causa della sua scomparsa, genericamente riferita a un “alluvione”: “Io ho accennato ai punti fosforescenti che emergono qua e là nella notte. Agli studiosi e agli amatori del vero lo scandagliare e trovare i le vie e i fili che li collegano tra loro”.

Come già detto, però, la ricerca di quelle vie e di quei fili è tutt’altro che agevole. C’è una cartina di fine Settecento, in cui si leggono le parole “Rovine di Rama” nei pressi del paese di Chianocco e “Rivo di Rama”, indicato come un affluente della Dora Riparia. Forse, la stessa Matilde dell’Oro-Hermil vide questa cartina, in quanto scrive: “in una carta geografica antica vedo questo nome sulla riva della Duranza; forse uno sbaglio, una scorrettezza del geografo che non sa a qual punto fissare una vaga terminologia intesa e non più esistente”. In ogni caso, il nome Rama ricorre anche nelle denominazioni di varie frazioni della Val di Susa, come, ad esempio, la Ramats di Chiomonte, e a Caprie esiste una via denominata “via città di Rama”.

Analizzando la cartina, risalente al 1764, vediamo le “Rovine di Ramà” collocate nel fondovalle compreso nel triangolo tra Bussoleno, Chianocco e San Giorio, poco più a nord di un corso d’acqua, il “rivo di Ramà”. È da notare che in entrambi i casi la parola è accentata, a indicare, forse, un’abbreviazione di “Ramat”.

In merito alla supposta ubicazione geografica della città megalitica indicata sulla mappa, poi, si può rilevare che si trova in una posizione piuttosto improbabile. In genere, infatti, le città dell’antichità sorgevano in posizioni sopraelevate e arroccate, avvalendosi di barriere e difese naturali per proteggersi dagli attacchi di eventuali nemici.

Installarsi a fondovalle, invece, significava mettersi alla mercé degli attacchi di eserciti e predoni. Le “Rovine di Ramà” sulla carta settecentesca, quindi, sorgono in una posizione assolutamente debole dal punto di vista strategico. Non solo: l’area indicata nella cartina indica anche un’area facilmente soggetta ad alluvioni e allagamenti, come fa notare Mariano Tomatis in alcuni suoi brillanti rilevamenti (vedi bibliografia).

Le due fonti citate, il libro e la cartina, sono le più antiche testimonianze documentali a sostegno dell’antica città perduta.

Le origini mitiche della città di Rama

L’opera della Hermil istituisce un collegamento destinato a germinare nell’immaginario collettivo: quello tra la città di Rama e il mito di Fetonte.

Chi era Fetonte? Per rispondere alla domanda, dobbiamo fare riferimento alla mitologia greco-romana. Spulciando le Metamorfosi di Ovidio, ad esempio, scopriremo che era il figlio, orgoglioso e irrequieto, del Sole, che lo aveva concepito con Clìmene, una divinità marina. Desideroso di provare la sua discendenza da Apollo, Fetonte chiese e ottenne di poter condurre il carro d’oro del sole, trainato, secondo il mito da quattro cavalli, “focosi per quelle fiamme che hanno in petto e che soffiano fuori dalla bocca e dalle froge”. Il padre, riluttante a concedergli il privilegio perché ben conscio dei rischi che implica, cerca di dissuaderlo e gli raccomanda di usare prudenza: “evita, ragazzo mio, di spronare, e serviti piuttosto delle briglie”, ma l’irruente semi-dio, incurante delle sue parole, balza alla guida del carro e si lancia in una corsa forsennata attraverso i cieli.

Il “folle volo” di Fetonte crea scompiglio tra le costellazioni – Ovidio ce lo descrive con le fiamme del carro solare che “per la prima volta scaldano la gelida Orsa” e fanno infuriare la costellazione del Serpente, prima di finire quasi tra le terribili chele dello Scorpione. Nella frenesia della corsa, il figlio di Apollo perde il controllo dei cavalli, che proseguono la loro corsa verso la terra, bruciando tutto quello che sfiora il loro tragitto: le nubi ribollono, le montagne si incendiano ed “ecco che grandi città van distrutte con le loro mura e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni”.

L’impresa scriteriata di Fetonte rischia di sovvertire il Cosmo: fa evaporare i mari e fa crepare il suolo, facendo affiorare il regno infero di Ade. A questo punto Zeus, il padre degli dei, è costretto a intervenire per arrestare lo scempio: con sommo dolore di Apollo, scaglia sul figlio scapestrato le sue folgori.

“Fetonte, con la fiamma che divora i suoi capelli rosseggianti, precipita girando su se stesso e lascia per l’aria una lunga scia, come a volte una stella può sembrare che cada, anche se non cade, giù dal cielo sereno. Finisce lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo, nel grandissimo Po (in latino Eridanus), che gli deterge il viso fumante”. Qui il corpo, incenerito dalla folgore, verrà seppellito dalle Naiadi.

Insomma, Fetonte si era macchiato di quella che per i Greci – non ancora flagellati dal senso di colpa giudaico-cristiano – era la colpa più grande: l’ybris, la tracotanza di volersi pari agli dei, una colpa che nella mitologia greca e successivamente nella tragedia viene sempre duramente castigata.

Ma cosa c’entra tutto questo con la città di Rama? È presto detto: Matilde Dell’Oro-Hermil – e molti altri sulla sua scorta – ipotizzano che il luogo dello schianto del carro solare sia proprio la Valle di Susa. Fetonte, in realtà, sarebbe sopravvissuto allo scontro e avrebbe raccolto intorno a sé dei discepoli, educandoli al culto del sole e facendo loro dono di un sapere iniziatico e divino. Tutto il suo sapere sarebbe stato iscritto in una gigantesca ruota d’oro che, ancora oggi, sarebbe custodita segretamente nelle viscere del monte Rocciamelone, in una grotta misteriosa il cui accesso è ignoto ai più.

Secondo altre fonti, invece, riportate da Antonio Zampedri nel suo “Magia e Leggenda in Val di Susa”, Rama sarebbe stata fondata da profughi di Atlandide: “quando la grande isola Atlantide sprofondò negli abissi, molti superstiti giunsero nella Valle , quasi guidati da un prodigioso disegno ultraterreno e trovarono ivi dimora, costruendo una città senza confronti”. Purtroppo, però, anche questo secondo insediamento era destinato a una tragica fine, quella di venire cancellato dalla faccia della terra da un terremoto o da un cataclisma di qualche tipo.

Il commento semiserio dell’autore è il seguente: “certo che se la succitata supposizione fosse vera, quali tremendi misfatti devono aver commesso i supremi Atlantidei per essere perseguitati in continuazione […]?”

Le prove

Queste le fonti bibliografiche sulla misteriosa megalopoli arcaica. Per cercarne le evanescenti tracce sul territorio dobbiamo però abbandonare i libri e addentrarci tra i boschi, le rocce e i sentieri scoscesi della bassa valle.

Ruote solari o macine?

Un sito che viene comunemente associato alle vicende di Rama è il cosiddetto “Bosco del Maometto”, nei pressi di Borgone di Susa. Il sito è facilmente raggiungibile con una passeggiata di pochi minuti, e deve il suo nome ad una discussa effige scolpita a circa tre metri da terra su un masso gigantesco. Tradizionalmente, la figura umana raffigurata nel basso-rilievo, smangiato e rovinato dalle intemperie, è stata identificata arbitrariamente con il profeta islamico Maometto, facendo riferimento all’invasione dei Saraceni sulle Alpi del X secolo d. C. L’analisi epigrafica dell’edicola rupestre, però permette di farla risalire al un periodo molto anteriore, ovvero al II secolo d. C.

Una volta esclusa la pista islamica, rimangono comunque delle incertezze sull’identificazione della figura, incorniciata in un tempietto scolpito di 80 x 65 cm. Si tratta di sicuramente di una figura antropomorfa, con un animale – forse un cane – accucciato ai piedi e un mantello a cingergli le spalle. Nel timpano dell’edicola c’è un’epigrafe di non facile lettura, che potrebbe essere una dedica ex voto di un certo Lucius Vettius Avitus. La presenza del cane ha portato a identificare la figura con Silvanus, divinità agreste romana, ma non mancano ipotesi alternative: potrebbe più semplicemente trattarsi di un’epigrafe funeraria, oppure di una rappresentazione di Diana Cacciatrice, oppure ancora di una dedica al cartaginese Annibale, che nel 218 a.C. varcò le Alpi per affrontare Roma con il suo esercito e i famosi elefanti. Altre fonti ancora identificano il “Maometto” con Giove Dolicheno, variante asiatica di Giove che veniva particolarmente venerata nelle zone periferiche dell’Impero. Nei pressi della roccia sono stati rinvenuti dei resti umani, che fanno pensare a una sepoltura.

Ad infittire ulteriormente il mistero, su un lato della roccia si trovano delle coppelle, ovvero delle conche semisferiche del diametro di una decina di centimetri, la cui presenza viene sempre associata alle popolazioni celtiche e a funzioni cultuali non ben determinate (forse servivano per contenere delle luci oppure il sangue dei sacrifici).

In ogni caso, l’elemento che accende la fantasia dei ricercatori della città di Rama non è l’edicola romana, bensì un masso erratico che giace nei suoi pressi, con tre macine abbozzate.

Ad alcuni, tra cui Giancarlo Barbadoro e Rosalba Nattero, autori del libro “Rama antica città celtica”, è parso di ravvisare, in queste macine, una testimonianza del mito di Fetonte in Val di Susa di cui si è parlato prima: “un’evidente testimonianza postuma del mito della ruota d’oro forata donata da Fetonte all’umanità del suo tempo in ricordo della sua presenza nel nostro mondo. La tradizione druidica riporta infatti che Fetonte, prima di congedarsi dai suoi allievi, avesse lasciato in dono una grande ruota d’oro forata, di circa due metri di diametro, sulla quale avrebbe inciso tutta la sua conoscenza. Una tradizione che probabilmente in seguito, in epoche più recenti, si sarebbe poi trasformata in un vero e proprio culto che avrebbe perpetuato il mito attraverso le ruote solari”.

E in effetti di macine, in Val di Susa e dintorni, ce ne sono parecchie: dalla “Roca d’la Pansa” (dal piemontese, Pietra della Pancia), presente sulla rocca di Cavour fino al Sentiero delle Macine di Giaveno. Un dubbio, però, si fa strada prepotentemente: più che di un’antica civiltà antidiluviana, le macine potrebbero essere più prosaicamente l’opera dei picapera, che non è il nome di un popolo misterioso, ma il piemontese per “batti-pietra”.

Massimo Centini, antropologo e da sempre grande indagatore di misteri, argomenta così: “A Borgone, anche se sono stati chiamati in causa “simboli solari” risalenti alla preistoria e legati ad atavici riti religiosi, il masso “sacro” sembrerebbe contenere semplici macine di pietra incompiute che, per un qualche motivo, non furono mai estratte dalla roccia”.

In effetti, in prossimità del sito menzionato c’è una cava, detta Roca Furà (in Piemontese, Rocca Bucata). A quanto pare, le macine venivano sbozzate direttamente in loco e poi staccate dalla parete di roccia inserendo dei cunei di legno che venivano poi intrisi d’acqua. Forse, le tre macine sgrossate sul masso servivano per addestrare i picapera, e vennero abbandonate in loco per ragioni che ci sono oscure.

Antiche mura di Rama

Lasciamo ora le misteriose ruote solari per rivolgerci a un sito che sarebbe di grandissimo interesse. Purtroppo, la località ci è ignota e anche l’ubicazione: l’unica fonte di cui possiamo avvalerci è di nuovo il libro di Barbadoro e Nattero, in cui si trova la descrizione di “bastioni di mura megalitiche” inghiottiti dalla boscaglia valsusina, corredata da fotografie.

 

Gli autori descrivono questo muro come affiorante dalla montagna, come se fosse stato sepolto da una valanga, e lo paragonano alle costruzioni andine: “le pietre sono considerevolmente grandi, mediamente si tratta di blocchi di almeno 1,60 metri per 1 metro circa, e appaiono sistemate con sagomature che sembrano aver avuto lo scopo di dare compattezza alle mura”.

Di questo muro portentoso, scoperto nel 2007, esistono anche dei video su youtube, girati sempre dagli stessi autori, che purtroppo si guardano bene dal rivelarne l’ubicazione, forse per proteggere il sito da ipotetici nemici della tradizione celtica, che potrebbero danneggiarlo. Si limitano a dire che si trova “in piena Valle di Susa”, che, come indicazione geografica, è piuttosto fumosa e sibillina.

Se queste mura esistono davvero, è un peccato che non vengano mostrate al pubblico, perché la loro esistenza potrebbe traghettare il discorso dal mito alla storia. Il “se” in apertura di frase, tuttavia, è dovuto al fatto che, da quanto si vede in foto e in video, è difficile stabilire se si tratti davvero di una costruzione umana o se invece sia una curiosa concrezione naturale di crepe su una parete rocciosa.

Un libro d’oro

Il libro di Barbadoro e Nattero cita poi un’altra prova documentale estremamente affascinante ma, ancora una volta, piuttosto “evanescente”: il cosiddetto “libro d’oro dei Druidi di Rama”.

Si tratterebbe (ancora una volta, sottolineo l’uso del condizionale) di una custodia in pietra a forma di parallelepipedo, contente sessantasei lamine d’oro, forate sul lato lungo e tenute insieme da cordoni di colore beige.

Leggiamo l’affascinante storia del ritrovamento: “… un giorno dei primi di ottobre del ’74 due contadini della Valle di Susa portarono a vedere a [ll’archeologo Mario n.d.r] Salomone un cofanetto di pietra. Gli dissero di averlo trovato casualmente in una delle stanze sotterranee del complesso megalitico della città di Rama, che di tanto in tanto esploravano alla ricerca di possibili tesori.”

L’archeologo chiede ai contadini di lasciargli il prezioso manufatto per qualche giorno, ma questi rifiutano recisamente. Nel breve tempo a sua disposizione, lo studioso riesce comunque a ricalcare su carta le incisioni presenti sulle lamine, facendo ricorso alla classica tecnica della matita strofinata obliquamente.

Dopo questa breve parentesi, il libro scompare nel nulla da cui era venuto, custodito da misteriose “Famiglie Celtiche”.

Il testo ricalcato è pressocché incomprensibile, solo uno sconosciuto linguista francese (il nome, non è dato conoscerlo) riesce a venirne a capo, stabilendo che il documento è stato scritto in greco arcaico. Il luminare, però, è vecchio e stanco e non ha voglia di intraprendere un faticoso lavoro di decifrazione, così indirizza i ricercatori in Svizzera, da un suo allievo (anch’esso anonimo) che affronta stoicamente l’oneroso compito.

Purtroppo, neanche i calchi sono visibili al pubblico, Barbadoro e Nattero ci raccontano che gli originali sono conservati in una banca di Mentone, in Francia, mentre le fotocopie consegnate al traduttore giacciono in una cassetta di sicurezza in Svizzera, lontano dagli occhi e dalle grinfie dei nemici della cultura celtica che infestano il suolo italico.

In merito al contenuto, gli autori sono, ancora una volta, piuttosto parchi di indicazioni: “il Libro d’oro era una sorta di enciclopedia, una raccolta sistematica di varie leggende e di cronache di eventi storici riguardanti la città di Rama e il mito di Fetonte”. Di più, non è dato sapere.

A questo punto, però ci si possono porre alcune domande: che fine ha fatto il misterioso libro d’oro? E se esiste davvero, perché i Celti lo avrebbero scritto in Greco?

La vicenda narrata porta alla memoria un altro libro d’oro scomparso misteriosamente: quello che l’Angelo Moroni avrebbe consegnato a John Smith nel 1823, su una collina nei pressi di New York. In questo caso, il testo era in “Egiziano riformato”, ma il profeta riuscì a tradurlo da sé (facendo ricorso a due pietre magiche di nome Urim e Thummim) e consegnò così al mondo il “Libro di Mormon”, libro sacro dei Santi degli Ultimi Giorni, meglio noti come Mormoni.

Anche in questo caso, il libro svanì “misteriosamente” o, se preferite, venne restituito all’Angelo che lo aveva rivelato… Peccato che fonti così preziose si dissolvano con tanta facilità.

Dischi volanti?

Il tragico schianto della carro d’oro di Fetonte potrebbe essere associato allo schianto di un meteorite o, meglio ancora, a un ufo crash: il figlio di Apollo diventerebbe così il rappresentante di una civiltà aliena che fece dono agli uomini di avanzate conoscenze tecnologiche.

Per questo tipo di ricerche, il punto di riferimento in Val di Susa è senza dubbio il monte Musiné, un monte dalla fama tenebrosa che sorge all’imboccatura della Valle, quasi a sfidare il prospiciente Monte Pirchiriano, mistica sede della Sacra di San Michele. Tra parentesi, anche l’etimo di questo secondo monte rimanda alla tematica ufologica, in quanto significa “fuoco del signore” e si riferisce a una colonna di fuoco che sarebbe apparsa sul monte in epoca medievale, intorno all’anno mille.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, però, il primato delle apparizioni extraterrestri spetta senza dubbio al Musiné: per decenni il monte sarà teatro di misteriosi avvistamenti e addirittura di incontri ravvicinati con sedicenti alieni ultra centenari, descritti già dal grande Peter Kolosimo e brillantemente compendiati da Mariano Tomatis nel suo “Camminata spirituale sul monte Musiné”.

Negli anni Settanta vi fu chi ipotizzò che il monte fosse in realtà cavo e che ospitasse una base segreta per gli ufo: da lì alla misteriosa città di Rama, sulle ali della fantasia, il passo è molto breve e si potrebbe nuovamente parlare di caverne nascoste che custodiscono un sapere arcano ma al contempo ipertecnologico. Dal punto di vista documentale, invece, la questione è più spinosa: sul monte vi sono in effetti dei massi coppellati e delle misteriose incisioni rupestri, ma è difficile stabilirne la genuinità e l’attendibilità, perché furono con ogni probabilità frutto di una contraffazione da parte di un giornalista burlone di nome Nevio Boni, che confessò la sua opera in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1988.

Conclusioni

Finisce qui la nostra ricerca speculativa sulla misteriosa città di Rama. Purtroppo, come abbiamo constatato, l’esistenza di questa megalopoli dell’antichità si scontra con l’assenza pressoché totale di riscontri archeologici tangibili.

Ciononostante, io rimango fedele alla linea dell’I want to believe e, ogni volta che mi addentro nei boschi di Bruzolo spero di inciampare in una pietra che possa farmi ricredere, aprendo il passaggio verso il mondo antico e meraviglioso di Rama, gravido di tesori ancora da scoprire.

Personalmente, credo anche che il tesoro più grande della Val di Susa non sia nascosto sotto pietre e oscuri cunicoli. Il vero tesoro è la valle stessa, con i suoi paesaggi mozzafiato, le cime innevate, i torrenti pullulanti di vita e i boschi densi di ombre e magie.

Il vero tesoro è, soprattutto, la gente che la abita, franca, fraterna, compatta in un ideale di resistenza e solidarietà, una comunità in senso antico, dove ho conosciuto persone eccezionali e alcuni tra i miei più grandi amici.

A ben vedere, il tesoro di Rama lo potete trovare nella bocciofila di Bussoleno… è forse questo il prezioso indizio nascosto nel libro di Matilde Dell’Oro-Hermil, quando ci rivela che “Un’insegna di osteria su una casetta in mezzo ai campi […] attesta sola la vaga memoria, se non il luogo di questa Rama scomparsa fin dall’elenco dei morti”.

Riferimenti Bibiliografici

Giancarlo Barbadoro, Rosalba Nattero, Rama antica città celtica, Edizioni l’Età dell’Acquario, 2016; Massimo Centini, Provincia Misteriosa. Tradizioni, storia e leggenda nella provincia di Torino, Accademia Vis Vitalis, 2013; Giacomo Augusto Pignone, Pier Paolo Strona, Pietre sacre in Val di Susa. Dolmen coppelle altari e menhir, Neos Edizioni, 2016; Mariano Tomatis, Camminata Spirituale sul Monte Musiné, stampato in proprio, 2014; Mariano Tomatis, Davide Gastaldo, Filo Sottile, Il codice dell’Oro. Sulle tracce del tesoro del Rocciamelone, Edizioni Tabor, 2018; Antonio Zampedri, Magia e leggenda in Val di Susa, Susalibri, 1991; Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione di Pietro Bernardini Marzolla, Einaudi, 1979.

Un ringraziamento a Mariano Tomatis, wonder injector ed esperto di mentalismo, per i preziosi consigli bibliografici, per i suggerimenti cartografici ma soprattutto per il suo lavoro di divulgazione della meraviglia.

Dove non diversamente specificato, le immagini sono di proprietà dell’autore dell’articolo

Gian Mario Mollar
GIAN MARIO MOLLAR

CLASSE 1982, LAUREATO IN FILOSOFIA CON UNA TESI SUL PLATONISMO MAGICO, GIAN MARIO MOLLAR È DA SEMPRE UN LETTORE ONNIVORO E APPASSIONATO. COLLABORA CON VARI SITI E RIVISTE, I SUOI INTERESSI PRINCIPALI SONO IL WEST AMERICANO E IL MISTERIOSO E L’INSOLITO IN GENERALE. NEL 2019 HA PUBBLICATO IL SUO PRIMO LIBRO, I MISTERI DEL FAR WEST PER LE EDIZIONI IL PUNTO D’INCONTRO. LAVORA NELL’AMBITO DEI VEICOLI STORICI E, QUANDO NON LEGGE, VA A PESCA O ARRANCA SU SENTIERI DI MONTAGNA.

Amianto a Salbertrand: chi paga per la bonifica?

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Newspost — 6 Maggio 2020 at 10:20

Oggi La Stampa ci informa sull’avanzamento della grana Salbertrand. Lo scandalo era scoppiato a novembre quando i geniacci di TELT si erano accorti che il terreno scelto per la fabbrica dei conci del tunnel di base è… pieno di amianto. Un grosso guaio, come scrivevamo su queste pagine a novembre, che andrà certamente ad impattare sulla tabella di marcia del progetto, nonostante le rassicurazioni che vengono dal quartiere generale sitav (ma d’altronde che credibilità può avere un promotore che non già per due volte non è nemmeno riuscito a spendere i finanziamenti europei in tempo talmente aveva accumulato ritardo nei lavori?!).

Dopo i sudori freddi dell’autunno, le cose sembrano essersi infine sbloccate. Dall’articolo de La Stampa apprendiamo che i lavori di smaltimento dei rifiuti amiantiferi sui 16mila metri quadri dell’area sono stati affidati alla Noldem spa, gigante della bonifica con sede a Venaria, coinvolta già nel 2005, tra l’altro, nell’inchiesta sui reati ambientali legati all’ex zona industriale spina 4 sulla Dora (scavo riempito con detriti contaminati invece che puliti).

La questione rimane sempre: chi paga per questo costo non preventivato nel progetto? Il terreno su cui si trovano i detriti è di proprietà comunale ma era stato concesso per 20 anni all’Itinera spa. È proprio la partecipata del gruppo Gavio che ha stoccato i materiali pericolosi – frutto di un precedente scavo – a Salbertrand, fregandosene poi altamente della loro sorte nonostante ingiunzioni della magistratura e sequestri della guardia di finanza. Grazie al TAV però, dopo anni di rinvii la Itinera non dovrà più accollarsi i costi di messa in sicurezza. A pulire la polvere (d’amianto) nascosta sotto il tappeto ci penserà direttamente TELT, ossia tutti noi visto che il promotore dell’opera è un’azienda a capitale pubblico.

Non è bellissimo? Ci sembra una rappresentazione plastica del sistema TAV: quando c’è da incassare per gli appalti i profitti sono privati, quando c’è da tirar fuori i soldi per le bonifiche i costi sono pubblici. Costi, per altro, ancora ignoti visto che TELT continua a rifiutare di comunicare quanto andrà a pesare sulle nostre tasche l’intervento di rimozione di rifiuti… alla faccia della trasparenza!

Commissione europea: fare la Torino-Lione a ogni costo

http://serenoregis.org/2020/04/28/commissione-europea-fare-la-torino-lione-a-ogni-costo/?fbclid=IwAR2RCxHHJw3C50wJZQUAvqWGrMcCaCsOgUCzW8C6Wk6Ro_MvJ2hznCiA1Gg

Sereno Regis

martedì 28 Aprile 2020

ABUSO DI POTERE: FARE LA TORINO-LIONE AD OGNI COSTO. Lo ha deciso la Commissione europea non perseguendo il dovere di buona amministrazione e l’obbligo di motivare le proprie decisioni. Dopo la Pandemia, occorre dedicare immani sforzi per fermare il Cambiamento Climatico: fermiamo intanto la costruzione delle Grandi Opere


Mentre si sta materializzando la rovinosa caduta del PIL, la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, la chiusura di centinaia di aziende e il fallimento di interi settori produttivi in Italia e in Europa, la Commissione europea garantisce il proseguimento dei lavori della Torino-Lione, un Crimine Climatico prorogando il finanziamento scaduto nel 2019 al 31 dicembre 2022.

E’ stato dimostrato che la Torino-Lione è un Crimine Climatico, la Commissione europea con una mano lancia politiche verdi e con l’altra le affossa.

La decisione contiene alcuni profili di illegittimità, ci aspettiamo che il Parlamento europeo denunci il comportamento della Commissione europea che non rispetta la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

FARE LA TAV, FARE LE GRANDI OPERE

ecco la magica ricetta nazionale ed europea per contrastare la caduta del PIL. Lo assicurano la Commissione europea, il Governo italiano, il Governo francese, la Confindustria italiana e francese (Medef), partiti e sindacati italiani e francesi, economisti liberisti e bottegai.

Ma perché la Commissione europea proroga il finanziamento scaduto?

Dal punto di vista macroeconomico perché ogni progetto infrastrutturale europeo che non avanza è una sconfitta per la Commissione europea che lo ha concepito nel rispetto delle politiche neoliberiste TEN-T.

Dal punto di vista operativo perché la proroga dovrebbe sanare sottovoce il pessimo risultato della collaborazione tra i capi di TELT e quelli dell’agenzia europea INEA che gestisce i fondi. E anche dei Governi italiano e francese. I quotidiani nazionali forniscono una versione manipolata preparata dall’ufficio stampa di TELT per allontanare da sé ogni responsabilità, ma si guarda bene dal pubblicarla sul suo sito.

TELT non è stata infatti capace – per la seconda volta dal 2013 – di utilizzare il finanziamento nei tempi previsti e INEA non ha svolto le attività di audit che aveva l’obbligo di eseguire in modo efficace.

Una cancellazione dei fondi, come previsto dalle regole europee non applicate, sarebbe una sanzione pubblica per TELT e INEA e per i rispettivi gruppi dirigente, una notizia per la stampa.

La decisione della Commissione Europea di prorogare il termine del finanziamento al progetto fino alla fine del 2022 conferma l’ipotesi che la Commissione europea non persegue il dovere di buona amministrazione e l’obbligo dell’amministrazione di motivare le proprie decisioni, ma favorisce le lobby economiche e finanziarie, che condizionano la burocrazia e la politica europea, anziché l’interesse comune dei cittadini europei e dell’ambiente. Il prof. Sergio Foà, titolare della cattedra di Diritto amministrativo all’Università di Torino, lo ha messo in evidenza in un suo Parere.

PresidioEuropa ha replicato ad INEA, affermando tra l’altro che “non pare che INEA abbia responsabilmente tentato di suggerire alla Commissione Europea di assumere la decisione politica più saggia che i tempi impongono (quella di applicare il principio europeo “use it or lose it”) invece di continuare sulla strada del passato con una proroga del finanziamento per il progetto Torino-Lione che è in realtà un Crimine Climatico.

Ecco la storia della vecchia abitudine di TELT di fare le cose male.

Nel 2015 INEA aveva donato € 813.781.900 al progetto Torino-Lione, un Crimine Climatico, da utilizzare interamente entro la fine del 2019.

TELT è stata capace di utilizzare il dono in cinque anni per soli € 210 milioni, circa il 25%. Lo certifica con lettera dell’8 aprile 2020 il funzionario Andreas Boschen, Capo Dipartimento di INEA, l’agenzia della Commissione europea che gestisce il flusso dei finanziamenti al progetto Torino-Lione.

Italia e Francia, grazie a TELT, sono dunque riuscite a perdere tre quarti del finanziamento europeo, circa 603 milioni.

TELT si difende imputando i ritardi nell’esecuzione dei lavori all’ex ministro Toninelli che avrebbe tentato di fermare il progetto. Ma non è vero, i meglio informati sanno che curiosamente nessun ritardo è imputabile al Governo precedente all’attuale. Durante tutta il periodo nel quale si è svolto il “teatro governativo dell’Analisi Costi e Benefici”, TELT era impegnata a portare avanti con la sua abituale lentezza le attività geognostiche, che infatti ancora oggi non ha terminato.

Oggi i cantieri della Torino-Lione, un Crimine Climatico sono fermi per Pandemia.

Consigliamo al Governo italiano e francese di non riaprirli: dovrebbero rendersi conto che fare le Grandi Opere è la peggiore ricetta per risollevare le economie dalla crisi post-pandemia.

Dopo la Pandemia, occorre dedicare immani sforzi per fermare il Cambiamento Climatico: fermiamo intanto la costruzione della Grandi Opere.

Fin dal mese di dicembre 2018 PresidioEuropa si era resa conto dei ritardi dei lavori a causa della incapacità amministrative e tecniche di TELT di usare i finanziamenti europei. Nel dicembre 2019 aveva messo in guardia la Commissione europea e allertato numerosi MEPs affinché fosse fatta luce sulla questione, denunciando l’importante ritardo e le sue cause. Numerosi Deputati del Parlamento Europeo si sono mobilitati accanto al Movimento No TAV e hanno fatto proprio l’appello inviando numerosi e articolati messaggi alla Commissione Europea.

In caso di “ritardi importanti” le norme europee prevedono che il saldo dei finanziamenti non utilizzati da un “lento” promotore (TELT) sia cancellato, secondo la clausola “usalo o perdilo. Una tale Decisione della Commissione Europea era già stata applicata nel 2013 al progetto Torino-Lione cancellando € 276,5  milioni perché si “registra un notevole ritardo dovuto a difficoltà amministrative e tecniche” (punto 3 pagina 1). Un vecchio vizio di TELT.

PresidioEuropa ha ribadito il 20 aprile 2020 con una LETTERA APERTA ALL’EUROPA l’urgenza di cancellare il finanziamento europeo della Torino-Lione, un Crimine Climatico, un progetto inutile, senza ritorno economico, che sottrae preziose risorse economiche ai bilanci dell’Unione europea, dell’Italia e della Francia, un’opera in deroga al principio di legalità.

GIORNATA DELLE VITTIME DEL TERRORISMO. DI QUALE? —- NEL GIORNO DEDICATO ALLE VITTIME DEL TERRORISMO E QUINDI DEL POPOLO RINCHIUSO NELL’UNICO STATO A CUI TUTTO SI CONDONA

https://fulviogrimaldi.blogspot.com/2020/05/giornata-delle-vittime-del-terrorismo.html

MONDOCANE

DOMENICA 10 MAGGIO 2020

Da tre mesi, per occuparmi dell’operazione coronavirus, ho tralasciato l’argomento – gli Esteri – al quale mi sono dedicato da quando, nel 1967, il quotidiano “Paese Sera” mi ha inviato in Palestina a riferire della Guerra dei Sei Giorni. Domani, mi tocca tornare sul maledetto progetto virus, che, peraltro, rientra anch’esso a pieno diritto nella giornata delle vittime del terrorismo, come è anche il fulcro oggi della politica internazionale. Non solo perché è un’operazione per cambiare il mondo in peggio, paragonabile solo all’altra grande mistificazione di duemila anni fa, ma perché intende ristrutturare l’intera umanità con annesso un calcolato sacrificio di una sua grande parte.

Sul tema terrorismo e relativi mandanti e vittime dovrebbe essere difficile insegnare qualcosa agli italiani. Ne siamo il laboratorio da almeno 50 anni. Il nostro 11 settembre si chiama Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, BR-Moro, Stazione di Bologna, Ustica, stragi Stato-mafia 1992-93 e, ora, Sars-CoV-2. Qualcuno sta rilasciando i boss al 41bis. Altri che hanno altrettanto e più colpe per meritarsi il 41bis, girano liberi (dopo pochi anni di formale galera), e pontificano su giornali e schermi, consolidando l’inganno Moro. Sicari e mandanti sono sempre gli stessi. Eppure un sacco di gente continua a cascarci.

Lascio, per oggi, il pontefice del vaccino, i suoi chierici, sacrestani e sguatteri, a sbattersi tra le travolgenti onde delle nuove terapie del “sangue iperimmune”, che al vaccino, ai suoi miliardi e alla sua dittatura globale, rischiano di rovinare la festa. E torno in Palestina, lì dove, forse, tutto è incominciato.

InfoPal

Intervista di Lorenzo Poli di InfoPal a Fulvio Grimaldi: collaborazionismo, consapevolezza politica, “fightwashing” e l’annientamento del popolo palestinese.

Come nasce il collaborazionismo palestinese? In che circostanze politiche si definisce e quali eventi storici l’hanno segnato?

Tutto nasce dagli accordi di Oslo nel 1993. Sono stati micidiali e hanno creato un’illusione paralizzante in gran parte della società palestinese. Colpa di una dirigenza politica che, con il passare degli anni, ha contribuito a spegnere ogni determinazione alla resistenza. Questo è stato il punto di partenza che ha portato a percorrere una strada di continui cedimenti, progressivi arretramenti e compromissioni con la complicità di una disastrosa classe dirigente guidata da al-Fatah. Un’organizzazione maggioritaria ma che Abu Mazen, scaduto da anni, da anni governa abusivamente.

Sono stato in Palestina alla vigilia del nuovo millennio ed ho assistito ad una rappresentazione visiva della degenerazione del conflitto che avrebbe portato alla eliminazione della parte più consapevole, più cosciente e più combattiva del popolo palestinese. Quella rappresentata da Marwan Barghuti durante la Seconda Intifada. Marwan è stato una grande figura carismatica di dirigente capace di recuperare i valori che con Oslo si erano impalliditi e svuotati. Non per nulla, gli israeliani gli hanno comminato ben tre ergastoli.

Barghuti e Arafat dicembre 2000

Ho incontrato Barghuti ed altri compagni nel pieno dell’Intifada che, allora, si stava allargando a tutta la Palestina occupata. Abbiamo poi assistito anche ad un incontro con i
dirigenti dell’Intifada e Yasser Arafat. Era evidente, anche dal punto di vista fisico, come esistessero due gruppi, solo formalmente unit4i sul palco, ma profondamente contrapposti nel linguaggio, nei contenuti e nei metodi. Dal gruppo di Marwan venivano espressi propositi di coesistenza con l’occupazione israeliana e di continuità di lotta, in tutte le sue forme, fino alla vittoria. Poi parlò Arafat, in imbarazzante difficoltà per le condizioni di età e di salute, costantemente assistito dagli interventi dei suoi compagni. Un discorso tutto centrato sulla retorica della “terra santa” e della riconciliazione dei due popoli, nel segno dell’utopia, poi del tutto annientata da Netaniahu, dei due Stati. Abu Ammar, l’ombra del vecchio leone che avevo conosciuto negli anni ’70, era circondato da personaggi della vecchia guardia, quella che ora sopravvive con Abu Mazen, che lo sosteneva, lo correggeva e interveniva quando era in difficoltà. Si aveva la dimostrazione visiva di due mondi opposti. Grazie a Israele e a un mondo di ignavi ha prevalso quello della resa.

 Marwan Barghuti

Gli israeliani si sono resi contro molto presto che questo giovane gruppo dirigente, che aveva l’opportunità di prendere in mano l’organizzazione palestinese con il sostegno delle organizzazioni politiche palestinesi di sinistra, come il Fronte Popolare e il Fronte Democratico, avrebbe comportato una ripresa della coscienza e combattività delle masse. Tale da riportare la questione palestinese all’attenzione del mondo, esattamente come fecero i resistenti nordirlandesi, non accettando compromessi e portando avanti la battaglia per trent’anni. Anche lì con l’esito poi deciso dai compromessi a perdere. Israele si rese conto del pericolo ed intervenne pesantemente, sia sul piano della repressione, sia su quello della corruzione di elementi della borghesia palestinese collaborazionista.

Arafat era stato un punto di riferimento per tutti i palestinesi, quindi il suo cedimento non poteva non riflettersi anche nella disponibilità alla lotta e nella lucidità politica delle masse. Questo permise alle Forze di Difesa Israeliane di metter le mani su Marwan Barghouti
che venne arrestato nel 2002 a Ramallah e condannato a tre ergastoli. Alla stanchezza di dieci anni di Intifada complessivi, con le sue perdite e distruzioni, la scomparsa dei una direzione politica dinamica e profondamente legata al popolo aggiunse smarrimento e rassegnazione.

Ne derivò il totale l’annientamento della lotta di liberazione palestinese?

Il decadimento politico e fisico di Arafat e la cattura di Barghouti diffusero incertezza accentuarono anche i contrasti tra le varie formazioni palestinesi. Tutto questo influenzò sul piano dell’azione, sia la lotta di liberazione, sia la lotta di classe in Palestina. Avvenne un drastico arretramento rispetto alla resistenza dei Fedayin e dell’OLP prima e durante la Prima (1987-1993) e la Seconda Intifada, detta di “Al Aqsa” (2000-2005), guidata da Barghuti e innescata dall’irruzione di Sharon nella spianata delle moschee.

Ci racconti la sua Palestina

Ho assistito alle principali fasi del conflitto israelo-palestinese ed ebbi la fortuna di essere inviato da “Paese Sera” alla Guerra dei Sei Giorni del 1967. Lì mi feci una prima idea di quello che stava accadendo. Seguii l’offensiva israeliana in Galilea e verso Gaza. Ciò che vedevo era nel contrasto più strabiliante con quanto raccontavano i media israeliani i quali, a loro volta, dettavano la linea ai media di quasi tutto il mondo La realtà mostrava villaggi palestinesi bruciati senza che venisse evacuata la gente. Alcuni giorni dopo la fine delle ostilità, andammo in pulmino, con per guida  un ufficiale israeliano, verso Rafah e il Sinai. Sui lati della strada erano disseminati i corpi, carbonizzati al sole, di soldati egiziani. Domandai all’ufficiale di Tsahal perché quei soldati egiziani non fossero stati restituiti al loro Stato, come prevedono le norme di guerra. Rispose invece che tutti dovevano vedere quei cadaveri perché “l’unico arabo buono è l’arabo morto”. Ci fu poi uno spiacevole episodio a Gaza, quando lo stesso militare pose al sindaco e ai consiglieri del comune la provocatoria domanda: “Chi è meglio per voi, l’Egitto o Israele”? Dissi che non ci interessava la risposta e ne seguì più tardi un alterco con l’ufficiale, in seguito al quale fui espulso da Israele.

Tornai un’altra volta, primavera 1970, mi aggregai ad una unità del Fronte Democratico Popolare nella Valle del Giordano, sopra le colline che guardano il confine tra Giordania e Palestina. Lì, dalle grotte sopra il Giordano, partecipai per diversi mesi alle attività dei fedayin e fui testimone della passione e del coraggio di una giovane generazione di palestinesi, di grande spessore politico, ideologico e di incredibile coraggio, vista la sproporzione delle forze. Quella esperienza fu troncata dal “Settembre Nero”, come fu chiamato il massacro di migliaia di palestinesi ordinato dal fantoccio britannico Re Hussein

E la seconda Intifada?

La Seconda Intifada, vera rivolta di popolo , puntava al superamento,sul piano diplomatico, politico ed ideologico, di un ormai screditato piano di convivenza come prefigurato dagli Accordi di Oslo. Israele si valse della collaborazione implicita di Arafat e della sua cerchia. Nonostante il declino, il vecchio leader della prima resistenza conservava nell’immaginario della popolazione un grande valore simbolico. Israele ne era consapevole e molti glie ne attribuiscono la morte, nel 2004, con la collaborazione di rinnegati palestinesi. Il decadimento politico e fisico di Arafat e l’arresto di Marwan Barghuti segnarono la fine della mobilitazione collettiva del popolo.

Ne seguì l’ascesa di opportunisti, burocrati, autocrati, che si spinsero fino alla collaborazione con i servizi segreti e le forze della repressione israeliana. Questa involuzione, insieme al debilitante e mai risolto conflitto interno tra Fatah e Hamas, con le organizzazioni un tempo politicamente influenti, come il FPLP e il FDPLP, sostanzialmente alla finestra, minò alla base lo spirito di resistenza del popolo, costretto a subire un contraccolpo dopo l’altro. Perlopiù nel quadro di una dominazione coloniale che inesorabilmente intensificava le sue vessazioni, mentre svaniva nel nulla la solidarietà e il sostegno dei paesi arabi, assorbiti gradualmente nella sfera di influenza e degli interessi israeliani e occidentali. Quando non si ha una leadership che indica la strada in difesa della dignità, della volontà di liberazione, si è sguarniti. Oggi c’è Hamas che ha il controllo della striscia di Gaza e, nonostante le indicibili sofferenze, il sostegno della maggioranza della popolazione. E’ anche molto presente nel tessuto sociale dei territori occupati ma non si sa quale ne sia il consenso in Cisgiordania, poiché Abu Mazen non ne consente la misurazione attraverso elezioni. Oggi la Palestina soffre, insieme, la durissima repressione di Israele,  e loe tensioni e l’impotenza determinate dal collaborazionismo e dal frazionamento politico che impedisce di ricostituire un fronte unitario di liberazione nazionale.

Oggi il collaborazionismo palestinese è così forte da impedire il potenziale rivoluzionario di questo popolo?

Il potenziale c’è, ma è dormiente. La propaganda fa passare l’idea che Israele sia un “polo civile e democratico” in un ambiente circondato da “barbari violatori di diritti civili”, ma questa è assolutamente una fake news. Israele ha una rete vastissima di sostenitori nella politica e nei media non solo occidentali. E’ lontano il tempo in cui consistenti forze politiche riuscivano a far passare nell’opinione pubblica una corretta informazione sulle condizioni in Palestina. Scomparsa dalla scena una resistenza visibile e dai riflessi, di conseguenza inevitabili, nella stampa internazionale, ne discende anche l’attenuazione della solidarietà militante esterna, così privata dei suoi riferimenti.

La persecuzione sistematica dei palestinesi viene costantemente oscurata dai media e ignorata dai governi “democratici”,ma la reazione palestinese è, ormai, ai minimi storici. E gli isolati episodi di opposizione a coloni o militari israeliani, non fanno che sottolineare frustrazione e impotenza. Vedo che in Siria si resiste, in Iraq si resiste, in Libia si resiste, mentre in Palestina non si resiste. Tra repressione israeliana, tradimenti della dirigenza palestinese, inadeguata e corrotta, e collaborazionismo di ampi settori della borghesia palestinese, che pensano solo alla loro sopravvivenza in termini socio-economici, la popolazione si trova disarmata e anestetizzata. Oggi sopravvivono “fuochi fatui”, attacchi occasionali all’occupazione, lembi di una resistenza improvvisata, dai caratteri della disperazione.

Per quanto siano molto utili e politicamente influenti le campagne BDS e per quanto abbiano mostrato forza persuasiva nei confronti di istituzioni in molti paesi, nonostante tanti interventi repressivi, se all’interno di una situazione di conflitto la parte repressa non esprime conflitto, la risonanza internazionale e l’impegno politico e materiale scompaiono, attratti da altre situazioni a cui dare sostegno e mobilitazione.

Poi ovviamente la storia ci riserva sempre delle sorprese e noi dobbiamo contare sul fatto che i palestinesi hanno dimostrato in ottant’anni che ai periodi di una brace sommessa, hanno potuto seguire impennate che hanno messo in grande difficoltà l’occupante, anche di fronte all’opinione pubblica mondiale. Ora, però, il proposito del nuovo governo, nel quale figurano estremisti come Netaniahu e Ganz, di estendere la sovranità di Israele sulla maggior parte della Cisgiordania, ridurrebbe la consistenza e coesione sociale e territoriale palestinesi a un insieme di frammenti senza forza e senza voce.

Crede che la comunità palestinese in Italia abbia presente il quadro geopolitico per sostenere la causa palestinese senza farsi strumentalizzare?

I rappresentanti della Palestina in Italia sono ottime persone che nei lunghi tempi della diaspora hanno consolidato la loro posizione nel paese lontano dalla madre-patria e dai contatti familiari. Negli anni si sono abituati a uno stile di vita  direi normale, sostenibile, non esattamente tale da alimentare uno spirito rivoluzionario, nonostante ogni buona volontà. Una situazione, però, anche di isolamento che  li ha portati ad avvicinarsi a partiti di incondizionata obbedienza agli Stati Uniti quindi in nettissima contraddizione con la storia della Resistenza palestinese e con i valori rivoluzionari e di liberazione dall’imperialismo-colonialismo di qualsiasi popolo. L’appoggio di partiti che non sono per niente in sintonia con la causa palestinese e di associazioni filo-palestinesi in Italia gli consentono di esistere, di fare attività politica, “diplomazia”. Si tratta di una situazione probabilmente inevitabile, ma che rischia anche di essere l’ennesimo lento veleno volto a disarmare le coscienze.

Quindi queste forze politiche in Italia giocano sulla perdita di coscienza e maturità politica da parte di frange della comunità palestinese?

Bisogna aggiungere che non essendoci in Italia una forza autenticamente antimperialista e
coerentemente rivoluzionaria e antagonista, anche la comunità palestinese ha perso un
punto di riferimento politico e si ritrova in uno stato di mancanti punti di riferimento.
La strumentalizzazione del tema dei diritti umani da parte di media occidentali, di intellettuali e di giornalisti, rovescia la dialettica oppresso-oppressore e spaccia per vittima chi è in realtà il carnefice. Per questo quando si sente parlare di diritti umani, oggi dobbiamo “mettere mano alla pistola”, poiché si spaccia per vittima chi in realtà è il vero repressore dei diritti umani. Questo processo ha inquinato anche coloro che avevano un’ottima maturità politica e geopolitica e ha generato grande confusione nell’analisi geopolitica del Medioriente.

Si pensi solo al madornale e imperdonabile errore compiuto dalla quasi totalità delle forze politiche palestinesi in occasione dell’aggressione alla Siria di Usa, Nato e dei governi reazionari della regione, con tanto di scellerato impiego di terroristi subumani rastrellati da mezzo mondo. A eccezione di pochissime, come il Fronte Popolare Comando Generale, per cecità o opportunismo le organizzazioni palestinesi si sono schierate, perfino militarmente, nelle loro zone in Siria, contro il paese massacrato da aggressori che, storicamente, sono gli stessi nemici della Palestina. Un errore dalla portata tragica, che ai palestinesi ha alienato molti consensi.

C’è l’impressione che sia in atto un’operazione di “fightwashing”, ovvero che forze
liberali usino l’immagine iconica della lotta palestinese per attirare verso di sé consenso palestinese, mirando a scopi ben lontani dal riconoscimento della Palestina. Cosa ne pensa?

Non so quanto questo possa aiutare i palestinesi rappresentanti della loro comunità nazionale in Italia che svolgono il loro ruolo nella relazione con partiti che fingono comprensione. Partiti il cui sostegno è semmai inteso a dare una prospettiva alla borghesia palestinese perché accetti di sopravvivere in termini di convivenza subalterna con lo Stato etnico. Si tratta di una gravissima minaccia perché comporta il rischio dell’assorbimento in una logica che porrebbe fine alla prospettiva di uno Stato Nazionale libero, antimperialista, equo sul piano sociale. Si entrerebbe così nell’ottica normalizzata di uno pseudo-ministato, senza sovranità, dignità, autodeterminazione, confini, in mano ad una classe di profittatori che sopravvivono in virtù del loro collaborazionismo con Israele.  Si atteggiano ad amici esponenti politici che stanno part in partiti e organizzazioni che non ha espresso una sola parola di opposizione al trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Pur trattandosi di una violazione di tutte le risoluzioni dell’ONU e persino degli Accordi di Oslo, non c’è stata una risposta da parte dei partiti italiani che si mostrano “comprensivi” nei confronti della situazione palestinese.

Adesso che in Israele si sta formando un governo dal netto segno razzista, che già ha dichiarato di volersi appropriare delle poche aree rimaste in mano ai palestinesi, non  si è vista alcuna presa di posizione in difesa quantomeno dell’ONU e del diritto internazionale. Questi partiti usano la borghesia palestinese, totalmente priva di spina dorsale politica, a livello d’immagine, senza aver mai votato una mozione in favore della Palestina, o aver denunciato gli abusi e le sofferenze inflitti a quel popolo.

C’è speranza in Palestina nonostante l’Accordo del Secolo?

Credo che, alla resa dei conti, quando il governo israeliano attuerà i suoi propositi di divorare i resti della pur sempre ventilata realtà statuale palestinese, forse lì potrà esserci una risposta della popolazione. Parrebbe l’ultima opportunità per la Palestina di tornare ad una prospettiva che non sia quella dell’annientamento. Vedendo come la Siria in dieci anni di lotta sia riuscita a sopravvivere a un’aggressione  delle maggiori potenze della regione e del mondo (grazie anche all’appoggio russo, che, però, è negato ai palestinesi) e come l’Iraq si stia riprendendo spazi d’autonomia e di opposizione agli Stati Uniti, dopo aver debellato con le sue sole forze l’invasione Isis appoggiata da Turchia, Golfo e Usa, credo che possano riaprirsi spazi e prospettive anche per il popolo palestinese. Purchè rinneghi gli errori compiuti nei confronti dei fratelli arabi aggrediti e riesca a far parte di un grande fronte della resistenza, dall’Iran alla Libia. Ripeto: la storia ci riserva sempre delle sorprese.

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Giorno delle vittime, ma anche della Vittoria

Come sorprese ce l’ha riservate Putin con la Russia, vent’anni fa rasa al suolo e oggi in piedi più di prima e baluardo della resistenza umana. Per cui può, a diritto moltiplicato, nel giorno delle vittime del terrorismo, celebrare quello della vittoria, costata 27 milioni di morti, della vittima sul carnefice. Esempio al mondo e sua speranza.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 17:14