MI FACCIO IL “GIORNO DELLA RIMEMBRANZA”—– IL GIORNO DELLA MEMORIA DEI VINCITORI, 365 GIORNI DELL’OBLIO DEI VINTI

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MONDOCANE

MERCOLEDÌ 19 FEBBRAIO 2020

 

Un “Giorno della Rimembranza” per i vinti?

Il 27 gennaio ultimo scorso, data dell’arrivo dell’Armata Rossa ai cancelli di Auschwitz, si è celebrato, come ogni anno, con grandissima partecipazione di congiunti, sopravvissuti, media e autorità, il “Giorno della Memoria”. Il 10 febbraio, poi, ci si è accapigliati sul “Giorno del Ricordo”, quello delle Foibe, nelle quali un sacco di strabici, dal Quirinale in giù, vogliono vedere sepolte solo vittime di Tito fiumane o triestine. Infine, Il 14 febbraio i fidanzati, gli sposi ancora in buona, gli amanti ancora entusiasti, si sono fatti gli auguri e i pensierini di San Valentino. Per il “Giorno della Rimembranza” che qui, seduta stante, proclamo e inauguro, siccome sono solo e resteremo pochini, voglio rifarmi a San Valentino, interpretata come giornata di chi si vuole bene.

A sfida delle zanne dei morsicatori del pensiero non unico, anzi, controverso, dichiaro che, insieme all’Italia, della quale mi auguro la difesa dell’identità millenaria e il ricupero della sovranità popolare e nazionale, voglio molto bene alla Germania, per la quale formulo gli stessi auguri. E’ in massima parte a questo paese, vindice, insieme ad altre nazioni, della grande civiltà europea (tagliando via guerre e colonialismi), terra di pensatori senza uguali, esploratori dell’animo umano, terra di grandi foreste integre e di grandi fiumi andati a fare le vene d’Europa, che dedico il “Giorno della Rimembranza”. Se non altro perché è il giorno dei vinti e, di conseguenza, non se lo fila nessuno. E’ a dispetto di questo cielo di soli artificiali, che vanno sostituendo quello naturale e la sua giusta luce, che certe storie, certi crimini, certe sofferenze, vanno ricuperate, riscritte, scolpite nella Storia accanto a quelle accettate e consacrate. Non sempre a ragione. Con almeno uguale dignità. E i negazionisti, quelli che negano il diritto a studiare, rivedere e riscrivere la Storia, peste li colga.

Dresda, 13-14 febbraio 1945: al fondo dell’inferno

Il mio “Giorno della Rimembranza”, coincide – guarda il caso! – con le 48 ore, dal 13 al 14 febbraio 1945, in cui migliaia di carnefici in volo, della RAF e dell’USAAF, spediti da Churchill, hanno cancellato dalla faccia della Terra Dresda, il più prezioso gioiello barocco d’Europa. E poi anche Lipsia e Berlino e Amburgo e Monaco…. Forse questo mio “Giorno della Rimembranza” è balenato anche a quelli che recentemente in Germania Est, belli o brutti che fossero, non hanno votato come si converrebbe. Come sarebbe andata bene alle signore e ai signori del vero e del giusto, dei sacrosanti giorni della memoria e del ricordo, dalla Merkel alla Von der Leyen, da Macron a Mattarella, da Stoltenberg (NATO) al “manifesto”. E, dunque, senza nemmeno andare a vedere cosa dicono e cosa vogliono, e perché siano tanti e crescano, e per quali regioni detestino il governo che li ha annessi e colonizzati, questi depravati sono stati sotterrati sotto una slavina di “fascisti”, “neonazisti”, “razzisti”.

Germania Est, AFD, perché?

Manifestazione Alternative fuer Deutschland

Io mi riservo di studiare chi e perché stia vincendo elezioni in Germania Est, mentre ho già un’ideuzza del perché vadano scemando i voti operai e proletari di SPD e CDU, forze di un capitalismo cannibale nei confronti dei propri fratelli, anche se meno esplosivo e incendiario degli arei alleati. Forze predatrici che di una DDR, in cui nessuno aveva troppo e nessuno troppo poco, hanno distrutto, rubato, devastato tutto e quel che restava l’hanno portato via. Proprio come certi compari dall’URSS-Russia al tempo di Eltsin.

Amore, in tedesco Liebe

Detto questo per placare eventuali indignazioni, spiego perché alla Germania, ai tedeschi voglio bene. Non è questione di sangue. Miei avi paterni della Savoia e materni di origine francese ugonotta, poi trapiantati sul Reno, non c’entrano niente. C’entra che io, al tempo di Dresda immolata, insieme a centinaia di città, paesi, borghi, in Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, con una potenza di fuoco e di esplosivo ad altissimo potenziale, mai visto in nessuna guerra, da quelle parti c’ero. Piccolino, ma c’ero, vedevo, capivo. Mio padre era sotto le armi e fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre. Il resto della famiglia, madre, sorella, io, era scampata nelle Alpi Bavaresi dai bombardamenti su Napoli. Anche per stare vicino a mio padre, detenuto a Wiesbaden. Ma gli italiani erano passati da mercenari di Hitler, a mercenari di Churchill e Roosevelt. Perdemmo lo stato di alleati e assumemmo quello di nemici. E fummo costretti al domicilio coatto, poi molto alleggerito. Mio padre fu rilasciato dopo nove mesi di agiata prigionia in un hotel di Wiesbaden e rimandato in Italia. Noi no.

Dresda come e più di Hiroshima

E’ il 75° anniversario dell’incenerimento di Dresda e di 250mila suoi abitanti. Adenauer, per non dispiacere ai vincitori ridusse quel numero a 35mila. Il FQ, oggi, addirittura a 10mila di meno. Per sicuro non s’è mai saputo. Ma la polizia dell’epoca e un documento dell’Amministrazione Comunale di qualche anno fa, calcolava le vittime tra i 250 e i 300mila. Ai 650milla “Dresdner” autoctoni s’erano aggiunti 1,5 milioni di profughi dall’Est. Presenze della Wehrmacht, o delle SS, zero. E gli stabilimenti industriali in periferia, indenni. Si trattava, a guerra quasi finita, come esattamente a Hiroshima e Nagasaki, di uccidere civili e distruggere storia e cultura. E, come con l’esibizione di orrenda potenza in Giappone, si trattava anche, in vista della Guerra Fredda, di intimidire i sovietici, largamente vincitori su gran parte della Germania, mentre gli alleati arrancavano ancora al di là del Reno. Lo stesso intento affidato oggi ai mercenari Isis a Palmira, Aleppo, Niniveh, Ur. Sradicare, obliterare nomi, identità, storia. Come con l’operazione migranti. Serve alla globalizzazione. Prima l’esplosivo ad alto potenziale, per distruggere i rifugi, da cui poi solo corpi carbonizzati. Poi, bombe incendiare a incenerire viventi e inscheletrire edifici. Di nuovo esplosivi e mitraglia sui soccorritori in arrivo.

La dichiarazione del 1992 dell’Amministrazione di Dresda

“Tedeschi da arrostire”

E non solo Dresda, la Firenze del Centroeuropa. Una città martire che è diventata il simbolo delle oltre 100 grandi e medie città tedesche polverizzate tra il 1941 e il 1945, più qualche decina di italiane. Si calcolano quasi 1,6 milioni di morti civili. Non ne è mai stato fatto il conto. Gli anglo americani, che arrivavano con 500-1000 bombardieri per volta, non avrebbero gradito farsi rinfacciare un olocausto. Anche perché la loro vendetta per le V2 su Coventry e Londra del’44, che poi, per quanto deprecabili come tutti i bombardamenti, erano operazioni di una guerra in pieno corso e non di pura punizione a fine conflitto, sta a quanto fatto alla Germania in un rapporto di circa mille a uno. Un olocausto sul quale Hollywood, tra i suoi mille film con gli immancabili ufficiali tedeschi che non parlano mai, ma abbaiano, non ha mai girato un film. In Germania di vittime non ce n’era neanche una. Neanche quel milione di resistenti antinazisti impiccati, o fucilati dal Regime, i cattolici della Rosa Bianca, i comunisti, Von Stauffenberg, il maresciallo Rommel. Della Germania, diversamente dalla Luna, è visibile solo il lato oscuro. Che c’è, non fatemi dire assurdità, ma non è il tutto. E c’è anche dall’altra parte. Oggi come non mai. Senza fasci e svastiche.

Con 11 anni, a Dresda non c’ero. Ma ne ho assaporato la carne bruciata. Più o meno negli stessi giorni, sul paese dove eravamo stati confinati, calavano gli Spitfire a mitragliare la gente. Di soldati non ce n’erano più. Raccoglievamo nei campi le loro armi abbandonate. E neanche di uomini tra i 14 e i 65 anni. Tutti richiamati per l’estrema, assurda, difesa, Noi bambini delle Medie facevamo da Protezione Civile: a secchiate spegnavamo gli incendi e a braccia raccoglievamo feriti e morti. Così anche, nell’insediamento di baracche tirate su per i rifugiati dalle bombe su Duesseldorf e mitragliate pochi minuti prima, un mio compagno di classe di 11 anni. Col ventre squarciato e gli occhi spalancati sul cielo. Un altro mio compagno volò in cielo col ponte sul Meno fatto saltare da uno scellerato comandante tedesco in ritirata.

Dresda e le altre, come Aleppo, Niniveh, Palmira e le altre

Aleppo

Questo “Giorno della Rimembranza” per civili tedeschi senza lapidi e senza onoranze vale anche per tutte le altre città tedesche, perlopiù, come Dresda, completamente prive di significato e presenza militare. Non si trattava di distruggere una Wehrmacht ormai allo sbando. Io, in molte di quelle altre città sono capitato mentre venivano rase al suolo dagli esplosivi, o rese macabri scheletri dalle bombe incendiarie. Non avremmo mai più rivisto il gotico, il neoclassico, il Biedermeyer, il rococò, il liberty, di Francoforte, Magonza, Koblenza, Colonia, Monaco, Wuerzburg, quella con la reggia affrescata dal Tiepolo. La Germania raccontata da Goethe, E.T.A Hoffmann, Brentano, Heine…non l’avrebbe più vista nessuno. Vedevamo le bombe scendere a grappolo, a stormi, a migliaia. Mia madre evitava i rifugi: “Meglio morire all’aria aperta, piuttosto che lì sotto, come topi”. E dopo ogni bombardamento ci trascinava via, verso luoghi “più sicuri”, che poi non lo erano. Ricordo una strada in centro, pochi minuti dopo che la sirena aveva suonato il cessato allarme. Era attraversata da voragini e fiancheggiata da macerie, palazzi con finestre che parevano gli occhi vuoti delle maschere greche, ancora fiamme qua e là ad arrossare interni, cavalli con le pance squarciate al lato della strada, sempre con quegli occhi enormi, vivi, che non capiscono.

Non solo Beethoven…

Amo la Germania. E non solo per Beethoven, Schopenhauer, Hoelderlin, Duerer, Marx e Hegel. Non solo perché poi ho studiato Germanistica a Monaco e a Colonia con Thomas Mann. Nel borgo a cui eravamo stati assegnati come stranieri sotto sorveglianza, si faceva la fame, si portavano gli stessi vestiti per anni, si moriva di freddo per assenza di combustibile, mancavano latte, carne, spesso l’elettricità. Saltavano gli acquedotti. Il caporione nazi del paese non ci incolpava il “tradimento”. C’era poca NSDAP (il partito) e quel notabile che aveva sostituito il sindaco era visto come una specie di bonzo, mezzo da ridere, mezzo opportunista da omaggiare. Di nazionalsocialista c’era solo la “Hitlerjugend”, che giocava a calcio sul prato comunale, faceva gite nella foresta, dove passava il vallo di Adriano, organizzava formazione politica, assisteva gli anziani e, ogni tanto, marciava con tamburi e fanfare attraverso la città. Idilliaco? La Germania era anche questo.

Prendevo lezioni private di inglese da un giovane ebreo, si chiamava Ludwig Haas. Era sempre preoccupato, si muoveva con circospezione, ma nessuno nel paese gli ha mai torto un capello. Lo coprivano. Altrove era diverso, si sa. Avevamo la tessera annonaria, come tutti, ma quella per stranieri, più avara, da mera sopravvivenza. Mia madre ci portava in campagna a scambiare un suo vestito di seta con due panetti di burro e sei uova. Si friggeva con i resti del surrogato di caffè. Si mangiavano ortiche colte al lato della strada. Il calo delle difese immunitarie causava epidemie. Il tifo lo presi anch’io, come tanti, anche nei campi di concentramento. Mi salvai perché gli americani, a fine 1946, dopo averci trattenuti per oltre un anno, sempre in regime di fame, più qualche chewing gum (che io mi rifiutavo di accettare dai GIs), perché, stranamente, considerati non badogliani, ma mussoliniani, finalmente ci permisero di rimpatriare.

Tedeschi

Ma la gente del posto ci diede un’abitazione per pochissimi soldi. Un imprenditore del mobile ce la arredò gratis. I libri di scuola mi venivano regalati da compagni più avanti. Con qualcuno mi picchiai perché mi urlavano dietro “Badoglio!” Ma c’era tanta amicizia ed escursioni nei boschi e sul fiume. Le secche zitelle verduraie vicino a casa mia ci regalavano pomodori e cetrioli e mi insegnarono a coltivarli in un pezzetto del loro vivaio. La panettiera, grande, grossa, rubizza e tenera, ci dava sempre qualche panino in più, oltre la tessera annonaria. Così il salumiere dei Wuerstel. E il lattaio, un po’ matto, finchè ce n’era. Poi se lo portò via il “Volkssturm”, l’ultima chiamata alle armi, dei vecchi e dei ragazzini. Il mio “Giorno della Rimembranza” lo dedico anche a questi miei “concittadini”. Vittime, come tutti noi. E vinti. Ma di sicuro non peggiori dei vincitori.

(Dei casi curiosi, tipici delle guerre, che ci avevano costretti in Germania in quegli anni, con mio padre prigioniero dei tedeschi, parlo in “Un Sessantotto lungo una vita”, Editore Zambon)

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 17:56