La bufala dei cambiamenti climatici spiegata dal Nobel Carlo Rubbia

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19MAR

Foto di Carlo Rubia

Cambiamenti climatici: l’intervento del premio Nobel per la fisica e senatore a vita Carlo Rubbia, dinanzi alle commissioni riunite Affari esteri e Ambiente-territorio di Camera e Senato il 26 novembre 2014.

Sono una persona che ha lavorato almeno un quarto di secolo sulla questione dell’energia nei vari aspetti e, quindi, conosco le cose con grande chiarezza. Vorrei esprimere alcuni concetti rapidamente anche perché i tempi sono brevi. La prima osservazione è che il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi noi pensiamo (in un certo senso, probabilmente, in maniera falsa) che se non facciamo nulla e se teniamo la CO2 sotto controllo, il clima della Terra resterebbe invariato. Questo non è assolutamente vero.

Vorrei ricordare che durante l’ultimo milione di anni la Terra era dominata da periodi di glaciazione in cui la temperatura era di meno 10 gradi, tranne brevissimi periodi in cui c’ è stata la temperatura che è quella di oggi. L’ ultimo è stato 10.000 anni fa, quando è cominciato il cambiamento climatico che conosciamo con l’agricoltura, lo sviluppo, che è la base di tutta la nostra civilizzazione di oggi. Negli ultimi 2.000 anni, ad esempio, la temperatura della Terra è cambiata profondamente. Ai tempi dei Romani, ad esempio, Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Quindi, oggi gli elefanti non potrebbero attraversare la zona dove sono passati. C’è stato un periodo, nel Medioevo, in cui si è verificata una piccola glaciazione; intorno all’ anno 1000 c’ è stato un aumento di temperatura simile a quello dei tempi dei Romani (ricordiamo che ai tempi dei Romani la temperatura era un grado e mezzo più alta di quella di oggi). Poi c’è stata una mini-glaciazione durante il periodo 1500-1600 che riguardo il Nord con i vichinghi hanno avuto degli enormi problemi di sopravvivenza a causa di questa mini-glaciazione, che si è sviluppata con cambiamenti di temperatura sostanziali.

Se restiamo nel periodo degli ultimi 100 anni, ci sono stati dei cambiamenti climatici sostanziali, che sono avvenuti ben prima dell’effetto antropogenico, dell’effetto serra e così via. Per esempio, negli anni Quaranta c’è stato un cambiamento sostanziale. Poi c’è stato un cambiamento di temperatura che si collega all’uomo (non dimentichiamo che quando sono nato io, la popolazione della Terra era 3,7 volte inferiore a quella di oggi e che il consumo energetico primario è aumentato 11 volte). Questi cambiamenti hanno avuto effetti molto strani e contraddittori sul comportamento del pianeta. Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di 0,2 gradi e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad un’esplosione della temperatura.

La temperatura è aumentata fino al 2000: da quel momento siamo rimasti costanti, anzi siamo scesi di 0,2 gradi. Io guardo i fatti. Il fatto è che la temperatura media della Terra, negli ultimi 15 anni, non è aumentata ma diminuita.

Nonostante questo, ci troviamo di fronte ad una situazione assolutamente drammatica: le emissioni di CO2 stanno aumentando in maniera esponenziale. Tra le varie soluzioni dell’IPCC prevale la soluzione del business as usual. Essa è la soluzione più alta di tutte: indica che, effettivamente, anche grazie allo sviluppo della Cina e degli altri Paesi in via di sviluppo, l’aumento delle emissioni di CO2 sta avvenendo con estrema rapidità. Le emissioni stanno aumentando in maniera tale che, a mio parere, tutte le speranze che abbiamo di ridurre il consumo energetico facendo azioni politiche ed altro, sono contraddette dal fatto che oggi il cambiamento climatico del CO2 ha un aumento esponenziale senza mostrare una inversione di tendenza; sta crescendo liberamente.

Vorrei ricordare che l’unico Paese nel mondo riuscito a mantenere e ridurre le emissioni di CO2 sono gli Stati Uniti: non l’Europa, non la Cina, ma gli Stati Uniti. Per quale motivo? C’è stato lo sviluppo del gas naturale, che adesso sta rimpiazzando fondamentalmente le emissioni di CO2 dovute al carbone. Ricordiamo anche che il costo dell’energia elettrica in America è due volte il costo dell’Europa. Perché? Il consumo della chimica fine in Europa è deficitario e in crollo fisso, perché fondamentalmente in America si stanno sviluppando delle tecnologie grazie ad uno sviluppo tecnologico ambientale importantissimo, che ha permesso veramente di cambiare le cose. Questo dà un messaggio chiaro: soltanto attraverso lo sviluppo tecnologico possiamo cercare di entrare in competizione con gli altri Paesi e non attraverso misure come quelle dell’Unione europea, che sono sempre state misure di coercizione e di impegno politico formale, senza una soluzione.

Guardiamo la situazione americana (dove c’ è un progresso effettivo nel vantaggio tecnologico che crea business, posti di lavoro) e guardiamo la situazione europea. Secondo me, c’ è una grandissima differenza: anche le soluzioni provenienti dalle energie rinnovabili con gli sviluppi tecnologici nel campo del gas naturale si trovano in situazione estremamente difficile perché oggi il costo del gas naturale in America è un quinto di quello in Europa. In Europa il costo delle energie rinnovabili è superiore a quello del gas naturale. Pertanto, dobbiamo renderci conto che la soluzione tecnologica dipende da quello che vogliamo fare.

Sto portando avanti un programma che, a mio parere, potrebbe essere studiato con molta più attenzione anche dal nostro Paese: trasformare il gas naturale ed emetterlo senza emissioni di CO2. Il gas naturale è fatto di CH4, cioè quattro idrogeni e un carbonio. È possibile trasformare questo gas naturale, spontaneamente, in black carbon (grafite) ed idrogeno. Questa grafite, essendo un materiale solido, non rappresenta produzione di CO2. Quindi è oggi possibile utilizzare il gas naturale, di cui ci sono risorse assolutamente incredibili. Non mi riferisco tanto allo shale gas che, a mio parere, è una soluzione discutibile, ma soprattutto a quelli che si chiamano clatrati. Onorevoli, vorrei chiedere quanti di voi sanno cosa è un clatrato. Nessuno? Questo è il problema. È un problema molto serio.

Il mio parere personale è che si può portare avanti il programma attraverso l’innovazione tecnologica e lo sviluppo di idee nuove. Il programma è quello di evitare le CO2 emission utilizzando il gas naturale senza emissioni di CO2. Stiamo facendo degli esperimenti che dimostrano che effettivamente la cosa si può fare. Perché nessuno se ne occupa ancora? Mi piacerebbe saperlo.

Fonte: “Nicola Porro”

Ma quale matrimonio con Psa gli Agnelli hanno venduto Fca

https://www.lospiffero.com/ls_article.php?id=48931

Smettiamola di raccontare balle. Peugeot ha comprato Fiat-Chrysler perché interessata al mercato americano. Comanderanno i francesi e gli unici a guadagnarci sono gli azionisti. L’analisi fuori dal coro di Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista

 “Ma quali nozze? Quello tra PeugeotPsa Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di FiatChrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista di chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023”. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam.

E l’Italia? E Torino?
“Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti cacciavite”.

A Torino Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina, a Torino ha incominciato a lavorare, figlio e nipote di operai, come operaio a Mirafiori dove, poi travet e poi ancora dirigente fino ad arrivare al vertice del colosso New Holland ed essere uno dei top manager, per anni, più vicini all’Avvocato. Consulente di livello internazionale, ma anche voce dura e diretta, spesso fuori dal coro, tifoso granata e penna affilata nelle analisi. Quando, come dice lui, ha imbroccato con buon anticipo lo scenario che si sarebbe verificato con quel matrimonio che tale non è, qualcuno gli ha pure dato del populista. Sa che a molti non piace che qualcuno scriva quel che poi si avvera, ma lui lo fa lo stesso da almeno dieci anni.
 

Dottor Ruggeri, com’è questa storia della Fiat morta dieci anni fa e l’Italia che fa finta non sia successo?
“Bisogna partire proprio da lì, per capire quelle che con un’altra finzione continuano ad essere definite nozze tra Peugeot e Fca. Intanto non è vero che Fiat fosse tecnicamente finita quando arrivò Sergio Marchionne nel 2004, succede invece nel 2009 quando Moody’s taglia il rating e declassa il titolo a spazzatura. Due mesi dopo il presidente degli Stati Uniti Obama si trova nella situazione di dover salvare Chrysler. Tutti gli altri costruttori del mondo avevano declinato la richiesta, rimaneva solo Fiat. E salvando Chrysler ha salvato Fiat. Prese una decisione che i nostri finti liberisti non avrebbero mai preso”.

Lei dice che in Italia questo non sarebbe potuto accadere?
“Certo che no. Il governo italiano faceva finta che la Fiat non fosse di fatto fallita, non ha voluto metterci quattrini e di conseguenza ce li ha messi Obama. Lui ha affidato il gruppo a una persona straordinaria come Marchionne al quale ha detto: fai gli interessi dell’azionista. E Marchionne lo ha fatto. Si è reso conto che non c’erano possibilità di risanamento e da quel momento ha smesso di fare il manager ed è diventato un deal maker, uno abilissimo a fare il massimo interesse degli azionisti, che non erano solo Agnelli, ma anche l’establishment americano, dopo la privatizzazione fatta da Obama”.

Quindi, secondo lei, è da lì che comincia quell’operazione di preparazione alle dismissioni, la donazione di organi per usare una sua espressione?
“Da quel momento la Fiat Auto è morta. Marchionne per anni ha presentato piani strategici che in parte hanno nascosto la realtà: la Fiat se ne va e all’Italia non resta più un’industria dell’automobile. Caso unico: nessuno al mondo, salvo il nostro Paese, ha rinunciato all’industria automobilistica. I governi di centrodestra e di centrosinistra dell’epoca si guardarono bene dal fare come Obama, nazionalizzare per poi privatizzare, mantenendo però governance, cervelli e lavoro negli Stati Uniti. L’Italia ha perso la sua centenaria industria dell’auto seguendo teorie intellettualoidi di miserabili leadership nostrane. Ora ci sono rimasti quattro stabilimenti il cui destino è nelle mani dell’acquirente francese. Bisogna prenderne atto. Non raccontiamoci la balla che l’Italia conti qualcosa”.

Si sarebbe potuto salvare Fiat tenendola in Italia?
“Io sono convinto di sì, per esempio vendendola a Mercedes, ma all’epoca si decise di no”.

Invece, si proseguì con operazioni vantaggiose per gli azionisti mentre ormai il gruppo era fuori dall’Italia, fino ad arrivare a quello che, poche settimane fa, è stato annunciato e salutato come un matrimonio.
“Esatto. La vendita a Peugeot è l’ultimo atto di una strategia concepita in modo impeccabile da Marchionne finalizzata esclusivamente agli interessi degli azionisti. Prima è stata la volta di Cnh e Iveco, poi lo scorporo di Ferrari, poi iancora la vendita di Magneti Marelli che ha fruttaato 6 miliardi e adesso con quelle che chiamano ancora nozze con Peugeot. Tutti devono sapere che, come è successo, quando il compratore liquida al venditore un cedolone da 5,5 miliardi significa che è lui a comandare. In pratica Peugeot si è comprato Fca pagando un premio del 25-32%”.

Gli azionisti hanno fatto un affare, il Paese ci ha rimesso per l’ennesima volta. Cosa c’è da aspettarsi ancora, dopo le finte nozze con i francesi?
“Il Ceo Tavares presto incomincerà a ristrutturare, ad eliminare sovrapposizioni, a tagliare insomma. La produzione di modelli medio piccoli tra Peugeot Opel e Fca è in eccesso. Dovendo scegliere tra uno stabilimento in Francia, ma anche in Germania, e uno in Italia, avendo un azionista che si chiama Macron e un accordo con la Merkel, cosa pensa che farà?”.

Luca Mercalli sul Fatto: il prossimo Mose sarà il Tav, però costa 5 volte tanto e si può fermare

https://www.vicenzapiu.com/leggi/luca-mercalli-sul-fatto-il-prossimo-mose-sara-il-tav-pero-costa-5-volte-tanto-e-si-puo-fermare/?fbclid=IwAR1LJZRdfNBz_crGocxPD5KcQsClAqTLnMZdOwXBMRPC0_YtFup7aey_ccw

19 Novembre 2019
Luca Mercalli
Luca Mercalli

La prova del Mose doveva essere fatta contro l’imponente acqua alta del 12 novembre e giorni successivi, ma “la Ferrari senza freni” come è stata definita non si poteva nemmeno mettere in moto. Una grande opera di cui in questi giorni si è detto di tutto, ammettendo che non è tecnicamente adatta alle sfide poste dall’aumento del livello dei mari generato dal riscaldamento globale (potenzialmente superiore a 80 cm a fine secolo), e che presenta soluzioni costruttive critiche che richiederanno decine di milioni all’anno di costi di manutenzione.

PERÒ IL RITORNELLO di tutti è stato: ormai è quasi finita, paghiamo quel che c’è da pagare e mettiamola in esercizio. Anche se non funzionerà come dovrebbe. Una vicenda che sembra una sfera di cristallo per immaginare cosa potrebbe accadere al Tav in Val di Susa tra una ventina d’anni. Anche il Mose prima della sua realizzazione fu infatti fortemente osteggiato sul piano tecnicoscientifico da molti autorevoli esperti del settore che proposero progetti alternativi ovviamente mai considerati. Oggi non resta che lo sconsolato “l’avevamo detto”, ma i 5,5 miliardi ormai gli italiani li hanno sborsati, mazzette incluse.

Se si legge il circostanziato volume Il MOSE salverà Venezia? degli ingegneri Vincenzo Di Tella, Gaetano Sebastiani e Paolo Vielmo si ha una frustrante narrazione di tutte le proposte tecniche ignorate, lo studio commissionato nel 2008 dal Comune di Venezia allora retto da Cacciari alla società di ingegneria francese Principia che mostrava le debolezze strutturali, ignorato da governi che diventano decisionisti solo in questi casi, e il meschino processo per diffamazione che gli Autori subirono su denuncia del Consorzio Venezia Nuova, unico signore e padrone della laguna, contro il quale chiunque osava aprir bocca veniva ostracizzato e combattuto. Alle sagge voci dei tre valorosi ingegneri aggiungiamo Luigi D’Alpaos, professore emerito del Dipartimento di idraulica dell’Università di Padova e quella ormai spentasi per sempre nel 2017 di Paolo Pirazzoli, brillante dirigente di ricerca del CNRS francese che ci ha lasciato il pamphlet La misura dell’acqua.

Come e perché varia il livello marino a Venezia( 2011). Anche Pirazzoli fu querelato e poi fortunatamente assolto per aver combattuto il Mose a suon di equazioni! Ma che triste vicenda per un veneziano apprezzato all’estero e odiato dai poteri del gigantismo tecnologico annidatisi come mostri marini nel fango della laguna. Oggi possiamo dire che se quei docenti fossero stati ascoltati forse avremmo un dispositivo più efficace e meno costoso per mettere al sicuro Venezia. Il caso della nuova linea ferroviaria Torino-Lione manifesta molte analogie con la débâcle veneziana. Anche qui si tratta di un’opera faraonica, valutata in 9,6 miliardi di euro per il solo tunnel transfrontaliero e oltre 26 per l’intera tratta.

Anche qui c’è un gruppo di tecnici che hanno mostrato le contraddizioni del progetto sul piano trasportistico, ambientale ed economico. Basti pensare alla celebre analisi costi- benefici voluta dal ministro Toninelli e affidata a Marco Ponti del Politecnico di Milano la quale, nonostante l’esito negativo, verrà poi ignorata mantenendo inalterato il lento, ma inesorabile avanzamento dell’opera. Eppure se l’imponente mole di dati che la Commissione Tecnica contro la Torino- Lione da decenni tenta di portare all’attenzione del governo (sia italiano, sia francese) venisse considerata, forse si potrebbe ancora evitare di gettare in un buco nero una gigantesca somma di denaro pubblico.

IN QUESTO CASO, a differenza del Mose, l’opera è appena nei suoi primi passi realizzativi e si potrebbe sospendere senza che si arrivi tra qualche anno a dire “ormai è quasi finita, spendiamo quello che c’è ancora da spendere e mettiamola in esercizio”. Rammentiamo che in Val di Susa esiste già una ferrovia internazionale a doppio binario sotto il tunnel del Fréjus, ampiamente sottoutilizzata. Rammentiamo che non è mai stata fatta un’analisi certificata delle emissioni di gas serra per la cantierizzazione e il funzionamento, tale da assicurare che vi sia beneficio climatico entro gli stretti tempi richiesti dall’accordo di Parigi sul clima e dalla stessa politica ambientale europea, che dà per scontato che le linee ferroviarie siano tutte sostenibili mentre dovrebbe dimostrarlo con le misure. Rammentiamo che la politica europea dell’economia circolare dovrebbe ridurre i transiti di merci invece che aumentarli e che se l’opera non verrà utilizzata secondo le ottimistiche previsioni cartacee sarà spaventosamente antieconomica.

Tutti dati che si continuano a sottoporre ai ministri delle Infrastrutture e dell’Ambiente senza che vengano mai analizzati con profondità.

Si liquida la questione con “le decisioni sono già state prese e dunque sono le migliori possibili”.

Lo si disse anche per il Mose.

di Luca Mercalli da Il Fatto Quotidiano

90 anni fa il delitto Matteotti, nella borsa la prova della tangente al fascismo

https://www.adnkronos.com/fatti/politica/2014/06/10/anni-delitto-matteotti-nella-borsa-prova-della-tangente-fascismo_CkDWWk8CeduXuIuqn5piAI.html?fbclid=IwAR076UInhrfFMUXnoaD8ZRFD7Cu2CjmVNLXwADDD-w4OcJ0cxMpTp3v8B24

90 anni fa il delitto Matteotti, nella borsa la prova della tangente al fascismo

Novanta anni fa Giacomo Matteotti veniva ucciso a Roma da sicari fascisti, era il 10 giugno del 1924. Il leader socialista pagava con la vita le accuse contro il regime di Mussolini, massacrato mentre si recava in Parlamento, dopo essere stato rapito da una squadraccia.

A condannarlo non furono però solo le parole di fuoco del discorso del 30 maggio, in cui contestava il voto elettorale: “Nessun italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà”, diceva in Aula, accusando il fascismo e Mussolini. Come emerso successivamente, a Matteotti fu impedito di svelare la maxi-tangente dietro alla convenzione tra lo Stato italiano e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, in cui erano coinvolti Arnaldo Mussolini, il fratello del duce e alcuni dei gerarchi. Una caso di corruzione e tangenti che avrebbe messo in grave difficoltà il regime.

La vicenda, come tanti gialli della successiva storia repubblicana, non verrà mai chiarito del tutto. Anche in questo caso sparirà la borsa di Matteotti, che avrebbe contenuto le prove della tangente. Nel processo a Amerigo Dumini, uno dei sicari del deputato socialista, verrà fuori la storia: “Lo abbiamo ucciso per ordine di Mussolini, perché non rivelasse la storia della tangente”.

Il governo italiano, in effetti, poche settimane prima della fine di Matteotti, aveva concesso alla Sinclair Oil un’esclusiva, delal durata di 90 anni, per la ricerca e lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi presenti nel territorio italiano, in Emilia e in Sicilia. Un business che aveva in prima linea i principali gruppi finanziari di New York, tra cui la banca di John Davison Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil, la società per cui operava in Italia la Sinclair.

Gorbaciov ha indicato i responsabili della caduta dell’URSS

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Mikhail Gorbaciov, politico sovietico, l'unico presidente dell'URSS

© AP Photo / Alexander Zemlianichenko

16:13 09.11.2019

L’ex presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov ha indicato chi ha provocato il crollo dell’URSS. Lo riporta la rivista tedesca Der Spiegel.

“I responsabili della fine della perestrojka e del crollo dell’Unione Sovietica sono coloro che organizzarono il colpo di stato nell’agosto 1991, e di chi dopo il colpo di stato sfruttò la posizione di debolezza del presidente dell’URSS”, ha detto.

Allo stesso tempo, Gorbaciov notò di essere consapevole dei possibili rischi della perestrojka e che l’intera leadership del paese comprese che erano necessari cambiamenti.

“Era impossibile vivere come prima. E una parte essenziale della perestrojka era una nuova mentalità di politica estera che comprende sia i valori universali e il disarmo nucleare, sia la libertà di scelta”, ha spiegato.

L’ex presidente dell’URSS ha sottolineato di non rimpiangere la perestrojka, ma ha riconosciuto che ci sono stati errori nel percorso delle riforme. Ha anche espresso l’opinione che la Russia non tornerà mai a essere un sistema totalitario.

In effetti, l’Unione Sovietica è crollata il 25 dicembre 1991, quando Gorbaciov, in appello al popolo sovietico, annunciò la fine delle sue attività di presidente. Ciò è stato preceduto da un accordo firmato l’8 dicembre dai leader di Russia, Bielorussia e Ucraina, che dichiarava la fine dell’esistenza dell’URSS e proclamava la creazione della Comunità degli Stati indipendenti. Questo atto passò alla storia come Accordo di Belaveža.

Nel 1990, tutte le repubbliche dell’Unione adottarono dichiarazioni di sovranità statale. Per fermare il crollo del paese, il 17 marzo 1991 si tenne un referendum sulla conservazione dell’URSS. Il 76,4% di coloro che presero parte votarono a favore e sulla base dei risultati del referendum nella primavera e nell’estate del 1991 apparve il progetto “Sull’Unione delle repubbliche sovrane”, la cui firma era prevista per il 20 agosto. Ma non ebbe mai luogo a causa di un tentativo di colpo di stato del 19-21 agosto 1991, che passò alla storia come colpo di stato di agosto.

La verità sul Mose di Venezia: per anni ci hanno mangiato sopra!

https://www.ilblogdellestelle.it/2019/11/la-verita-sul-mose-di-venezia-per-anni-ci-hanno-mangiato-sopra.html?fbclid=IwAR2Qonr29PQAgFOT5_DhUxGmR61x-ejp5O9npYT-HjdDZBpClsgOy2Wso8Y

I cittadini veneziani e con loro tutta Italia, aspettano il Mose dal 2011. Oggi quel cantiere, a otto anni di distanza dalla possibile inaugurazione, rappresenta il più grande scandalo di mazzette e tangenti in cui la classe politica di centro destra è coinvolta.

Alla faccia di chi non blocca i cantieri! Dirigenti e imprenditori, tutti insieme, si sono resi protagonisti di un sistema in cui venivano spartite senza ritegno tangenti e fatture false. Un’organizzazione strutturata e in parte rimasta impunita. Nel 2014, infatti, su 100 indagati si sono registrati soltanto 35 arresti. Due le persone a capo di questo enorme scandalo di corruttela: Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per le opere di salvaguardia della Laguna dalle acque alte, e Giancarlo Galan, la parte politica, il Doge, governatore di Venezia per moltissimi anni.

Il primo, che dal lontanissimo 1983 ne aveva combinate di tutti i colori, ha patteggiato, riuscendo a ottenere addirittura 7 milioni di euro di liquidazione quando uscì dal Consorzio. Anche Galan è riuscito a patteggiare, ammettendo atti di corruttela per milioni e milioni di euro. Soldi spostati all’estero, prestanome e molti altri illeciti, uno sperpero totale di soldi pubblici avvenuto a spese dei cittadini che gli è costato solo 78 giorni di carcere.

Non dobbiamo dimenticare che Galan, oltre ad aver ricoperto diverse volte il ruolo di ministro nel Governo Berlusconi, ha amministrato la Regione Veneto insieme alla Lega. Per non accorgersi dei milioni di euro in tangenti e delle fatture false bisognava proprio avere gli occhi bendati!

Da ministro mi sono occupato personalmente del dossier Mose. Ho voluto inserire nel Decreto Sblocca Cantieri una norma specifica che includeva tre concetti:

  • la nomina di un Commissario straordinario che portasse a completamento l’opera, in quanto al Ministero nessuno sembrava in grado di dirci quando sarebbe potuta essere ultimata.
  • gestione del post collaudo
  • sblocco dei Fondi congelati da 2 anni e destinati ai comuni della laguna: 25 milioni di euro per l’anno 2018 e 40 milioni di euro dal 2019 al 2024.

Eravamo praticamente arrivati alla chiusura del Decreto Sblocca cantieri approvato a giugno. Il decreto attuativo che prevedeva la nomina del commissario straordinario, era pronto, prima che Salvini dalle spiagge del Papeete, decidesse di far cadere il Governo.  Alla luce di quanto avvenuto spero vivamente che l’attuale capo del dicastero delle infrastrutture e dei trasporti, la ministra De Micheli, a due mesi dalla sua investitura, sia pronta a emanare questo decreto e a tirare finalmente le fila della questione, come nessuno prima d’ora.

C’è però un secondo tema politico da affrontare.

Il Mose potrebbe essere definito un cantiere infinito, e chi ci ritagliava sopra decine di milioni di soldi pubblici grazie alle mazzette, lo sa bene. Sono gli stessi tecnici a sostenere che anche dopo il collaudo, l’opera necessiti di una costante e continuativa manutenzione per essere utilizzabile: tra gli 80 e i 100 milioni di euro all’anno. Quindi non è possibile collaudare l’opera senza che vi sia una struttura che poi la gestisca, assumendosi la responsabilità nei successivi decenni. La prima formulazione dell’emendamento inserito nel Decreto Sblocca Cantieri prevedeva, a questo scopo, la creazione di un soggetto pubblico che coinvolgesse sia il Ministero sia gli enti locali: Regione, Città metropolitana di Venezia e tutti quelli a cui spetterebbe la gestione dopo il collaudo.

Questa norma ha scatenato l’inferno. Ci hanno accusato di aver messo una tassa ai veneziani, perché secondo le regole generali del diritto societario, tutti i componenti di un soggetto pubblico sono obbligati a pagarne le spese. La Regione Veneto ha perciò redatto un nuovo documento in cui si chiariva che le spese del suddetto ente dovevano essere tutte integralmente a carico dello Stato. Un documento che avevo approvato ma a cui non è mai stata data attuazione perché, alla resa dei conti in Parlamento, il viceministro di allora Massimo Gravaglia, si oppose alla realizzazione di un soggetto pubblico per la gestione del Mose.

A meno che non si voglia affidare il Mose, un’opera così rilevante sul piano nazionale e costosa, a una multinazionale (e non sarebbe affatto una buona idea), invito la ministra a costituire prima possibile questo soggetto pubblico necessario. Non lasciamo che il Mose resti l’eterna incompiuta ma, soprattutto, facciamo in modo che funzioni! 

Tangentopoli del Mose: tutte le accuse

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/06/04/news/tangentopoli-del-mose-tutte-le-accuse-1.168223?fbclid=IwAR2DUBYz05UZNCEX5nw4yr10Htd4gmCNBMX6tHWygHfr1k4ZY_xM64WNzf8

Da Galan a Orsoni, dal Pdl al Pd, dalla Corte dei Conti ai ministeri, ecco i politici e alti funzionari che hanno intascato almeno 25 milioni di euro per riempire di miliardi le imprese del Mose

DI PAOLO BIONDANI

04 giugno 2014

Tangentopoli del Mose: tutte le accuse
Giancarlo Galane Renato Chisso

Tutte le mazzette indagato per indagato: ecco il quadro completo delle accuse formulate dai magistrati veneti nell’ordinanza di custodia dei 35 arrestati (25 in carcere, 10 ai domiciliari) per la Tangentopoli del Mose, la grande opera emergenziale da 5 miliardi e 496 milioni di euro che dovrebbe salvare Venezia dall’acqua alta, ma dopo trent’anni non è ancora entrata in funzione.

GIANCARLO GALAN: parlamentare di Forza Italia, ex ministro, presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010. Secondo l’accusa l’ex governatore, per favorire le imprese del Consorzio Venezia Nuova, ha intascato svariati milioni di euro e in particolare:

  • uno stipendio fisso in nero di un milione di euro all’anno, quantomeno dal 2005 al 2011;
  • 900 mila euro in contanti nel 2006-2007;
  • altri 900 mila euro in contanti nel 2007-2008;
  • una quota del 7 per cento della società Adria Infrastutture, intestata a un suo prestanome, con conseguente partecipazione agli utili realizzati da quella impresa del Gruppo Mantovani con il discusso sistema del “project financing” all’italiana;
  • il 70 per cento delle quote della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestate allo stesso prestanome;
  • 200 mila euro una tantum, consegnatigli all’hotel Santa Chiara di Venezia nel 2005 tramite la sua ex segretaria-factotum Claudia Minutillo;
  • la ristrutturazione gratuita della sua lussuosa villa di Cinto Euganeo, sui colli di Padova, con lavori costati un milione e cento mila euro e mascherati con fatture false.

RENATO CHISSO, politico di Forza Italia, assessore alle Infrastrutture e Grandi Opere nelle giunte Galan (incarico mantenuto anche con l’attuale governatore Luca Zaia, che però non risulta indagato), è accusato di aver incassato dalle grandi aziende del Mose:

  • uno stipendio in nero di 200 mila euro all’anno (con punte di 250 mila), versatogli a partire dalla fine degli anni Novanta fino al primi mesi del 2013;
  • il 5 per cento della società Adria Infrastrutture, formalmente intestato all’ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, che in realtà gli faceva da prestanome; quota rivenduta da Chisso nel 2011 alla Mantovani spa per due milioni di euro;
  • il 10 per cento della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestata alla stessa prestanome;
  • 250 mila euro in contanti, consegnatigli dal manager Piergiorgio Baita della Mantovani nella primavera 2012 all’hotel Laguna Palace di Venezia;
  • altre centinaia di migliaia di euro all’anno (il totale non è ancora quantificato) in contanti;
  • consulenze e assunzioni di comodo per amici e prestanome;
  • appalti di favore a imprese amiche per i lavori stradali delle “Vie del mare” (superstrada Jesolo-Cavallino).

GIORGIO ORSONI, sindaco del Pd di Venezia, è ai domiciliari per finanziamenti politici illeciti, con l’accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose queste somme:

  • 110 mila euro, materialmente incassati dal suo tesoriere-mandatario, per la campagna elettorale del 2010, come candidato sindaco del centro-sinistra a Venezia;
  • altri 450 mila euro, sempre nei primi mesi del 2010, di cui almeno 50 mila versatigli personalmente dai manager Mazzacurati e Sutto del Consorzio Venezia Nuova.

GIAMPIETRO MARCHESE, consigliere regionale veneto del Pd, ora in carcere, è accusato di aver intascato dalla cordata di imprese private del Mose:

  • 58 mila euro per le elezioni regionali del 2010
  • 15 mila euro al trimestre, a partire dall’autunno 2009 fino all’inizio del 2013, per un totale compreso tra 400 e 500 mila euro;
  • un contratto di lavoro fittizio da 35 mila euro.

AMALIA detta LIA SARTORI, europarlamentare di Forza Italia, non rieletta nel 2014, è indagata con l’accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose due finanziamenti illeciti:

  • almeno 25 mila euro per la campagna elettorale alle europee del 2009;
  • altri 200 mila euro dal 2006 al 2012, di cui 50 mila intascati personalmente il 6 maggio 2010 in un incontro con il manager Mazzacurati.

MARCO MILANESE, braccio destro dell’ex ministro Tremonti ed ex parlamentare di Forza Italia, è solo indagato (ha evitato l’arresto collaborando con i magistrati) come destinatario di una tangente pagata dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, in particolare per aver intascato personalmente mezzo milione di euro, tra aprile e giugno 2010, per spingere il ministero dell’Economia ad autorizzare una nuova ondata di finanziamenti pubblici a favore del Mose.

EMILIO SPAZIANTE, ex numero due della Guardia di Finanza, in pensione dall’autunno scorso, è in carcere con l’accusa di aver intascato buste di denaro contante per spiare le indagini veneziane approfittando del suo grado, e in particolare per aver ricevuto dai massimi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova:

  • mezzo milione di euro, in più rate, recapitategli tra giugno 2010 e febbraio 2011 a Roma e a Venezia;
  • la promessa di altri due milioni di euro, concordati con l’onorevole Milanese e il finanziere veneto Roberto Meneguzzo (Gruppo Palladio), soldi poi non versati proprio a causa della scoperta che erano in corso le indagini, in teoria ancora segrete.

Tra gli arrestati per corruzione compaiono anche un magistrato della Corte dei Conti, accusato di aver intascato almeno un milione di euro tra il 2000 e il 2008, e due alti funzionari del ministero delle Infrastrutture, che avrebbero incassato uno stipendio in nero di 400 mila euro all’anno, quantomeno dal 2007 al 2012, per addomesticare i controlli e non denunciare i problemi tecnici del sistema Mose.

UN’ALTRA DITTA INTEREDETTA PER MAFIA BECCATA NEL CANTIERE DEL TAV

http://www.notav.info/post/unaltra-ditta-interedetta-per-mafia-beccata-nel-cantiere-del-tav/?fbclid=IwAR3Vi9IpGshE7ubsSuI7ZihMeZLDJPSqcg6emrlMjxCEyol4nfEAVArfJ1w

notav.info

post — 16 Novembre 2019 at 10:42

Mercoledì scorso un’ennesima ditta è stata estromessa dal cantiere del TAV per domanda dell’anti-mafia. Si tratta del terzo caso, dopo quello delle ‘ndrine coinvolte nell’inchiesta San Michele che avevano realizzato alcuni lavori per il cantiere geognostico.

TELT parla pudicamente in un comunicato di un’impresa impegnata in « lavori marginali » e di « tentativi di infiltrazione » come se la presenza della mafia fosse una preoccupazione futura di strani montanari e non una concretissima realtà già acclarata da una sentenza ormai arrivata in cassazione. In effetti anche in questo caso, quando è stata beccata, la ditta operava già dentro il cantiere e le commesse se l’è già belle che intascate confermandoci ancora una volta un fatto incontrovertibile: IL TAV È GIÀ ANDATO a finanziare organizzazioni mafiose ancor prima di cominciare. Mica male, se pensiamo sono stati svolti solo lavori propedeutici per meno del 5% dell’opera. Se si continua con questo ritmo le imprese in odor di mafia che beneficeranno della cuccagna saranno decine.

Ancor più grave, di questa ditta non sapremo mai il nome. TELT, con un atteggiamento che a questo punto non possiamo che definire omertoso, si rifiuta di rispondere alla stampa in merito. La trasparenza evidentemente vale solo per i grafichetti trafficati da mettere sui fogli patinati dei dossier stampa ma quando si arriva alle questioni che davvero interessano il pubblico… muti.

Se aggiungiamo che casi del genere sono probabilmente solo la punta dell’iceberg e vengono fuori soltanto grazie alla normativa anti-mafia binazionale approvata su pressione dei notav, c’è veramente poco da stare sereni. Ma d’altronde questo in Val di Susa l’avevamo capito da tempo come testimonia una famosa scritta sul Musiné. Ancora una volta la storia ci sta dando ragione.

Venezia muore annegata, ma non per il maltempo

https://volerelaluna.it/commenti/2019/11/14/venezia-muore-annegata-ma-non-per-il-maltempo/?fbclid=IwAR0RVIeopXWNduoAP4ohttchPinr_gR7xZNloIulYiYbYMtbFyi_O6kauqo

14-11-2019 – di: 

«Questo pomeriggio sarò a Venezia, duramente colpita dal maltempo. Voglio vedere da vicino i danni e rendermi conto della situazione». Il tweet diffuso ieri del presidente del Consiglio Giuseppe Conte accende una flebile fiamma di speranza: se Conte davvero vorrà rendersi conto della situazione, comprenderà presto che Venezia non è stata affatto colpita dal maltempo. È stata colpita da una strategia di sfruttamento e abbandono gravemente colposa, a tratti flagrantemente dolosa. I nemici di Venezia, i suoi aguzzini, non sono i venti, le nubi e l’acqua piovana: sono una classe politica e una classe dirigente marcia fin nel midollo, in Laguna e a Roma. Il “maltempo” di cui parliamo è un tempo cattivo che dura da decenni: cattivo per la corruzione e la rapacità, cattivo per l’ignoranza, cattivo per la miopia e la pochezza di chi avrebbe dovuto decidere nell’interesse del bene comune, e invece ha pensato solo al ritorno immediato di pochi.

Con la fine della Repubblica di Venezia (1797) entrò in crisi il raffinatissimo meccanismo che per un millennio aveva conservato qualcosa che in natura ha vita limitata: una laguna lasciata a se stessa o diventa mare, o si interra. Si può ben dire che la sopravvivenza della Laguna è «la storia di un successo nel governo dell’ambiente, che ha le sue fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo severo e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città» (Piero Bevilacqua).

Finita questa storia, l’estesa privatizzazione di parti della Laguna, la creazione di valli da pesca chiuse, la bonifica per ottenere terre asciutte per l’industria hanno ridotto in notevole misura lo spazio in cui le alte maree potevano disperdersi. Contemporaneamente, sono state scavate e ampliate oltre ogni misura le bocche di porto che mettono in comunicazione mare e Laguna: alla fine dell’Ottocento la Bocca di Malamocco era profonda 10 metri, oggi contiene buche che raggiungono quota meno 57, il punto più profondo dell’Adriatico! Non è dunque difficile immaginare da dove entri l’acqua. La ragione: rendere la Laguna accessibile alle navi industriali e alle Grandi Navi da crociera. Uno sviluppismo dissennato, che fa oggi di Venezia la terza città portuale più inquinata d’Europa: per lo smog delle navi e per i fanghi che stanno sul fondo dei canali e che rendono micidiali le acque che ora consumano i marmi di San Marco.

La situazione di cui il presidente Conte dovrebbe rendersi conto è questa: e – proprio come nel caso dell’Ilva – è su questo piano strategico, e non solo sull’impossibile gestione dell’emergenza, che il suo governo dovrebbe agire. Come ha scritto Edoardo Salzano, a cui è stata risparmiata la vista di questa Venezia in ginocchio, si dovrebbe iniziare «con lo smantellamento della chimera ottocentesca del Mose, per ripristinare invece l’equilibrio ecologico e morfologico della Laguna, con l’adempiere finalmente al mandato legislativo (1973!) di escludere i traffici pesanti e pericolosi e impedire l’ingresso ai bastimenti più alti dei più alti edifici veneziani, col cancellare i progetti di tunnel sottomarini».

In queste ore pressoché tutti (con la lodevole eccezione di Massimo Cacciari, sul cui operato da sindaco nutro un giudizio pessimo, ma che da sempre ha avversato il Mose) invocano il Mose: per chiederne o per prometterne la conclusione. Bisogna, proprio queste ore drammatiche, essere molto chiari: il Mose non funzionerà. Perché la subsidenza di Venezia e l’innalzamento dei mari lo rendono inservibile ancor prima di provare a funzionare. E perché l’altezza del mare si accompagna a una virulenza fin qui ignota: la Laguna non è più una difesa per Venezia. E dunque: non converrebbe rassegnarsi al fallimento del Mose e dedicare subito le centinaia di milioni che servono ancora a completarlo, al riequilibrio della Laguna? Non sarà il caso di chiedersi cosa sarebbe successo se i miliardi spesi per il Mose (le stime ondeggiano tra 5,5 e 7 miliardi di euro) fossero stati spesi in manutenzione? Non avremmo già salvata Venezia, almeno dalle acque?

E poi una cosa Conte può fare subito: mettere fuori le Grandi Navi non solo dal Bacino di San Marco (come si limita a promettere il furbo ministro Franceschini), ma dalla Laguna. Perché è la Laguna come ecosistema che va salvata, non solo l’immagine da cartolina. E quel che non solo Conte, ma tutti noi dovremmo capire è che Venezia è un terribile acceleratore. Ci mostra cosa succede a una città d’arte che viva solo di un turismo predatorio che cresce fino a espellere i residenti, a cancellare un’identità civile. Ci mostra cosa succede a un patrimonio culturale tutto orientato alla follia delle grandi mostre invece che alla cura del tessuto urbano, in un tripudio di tagli di nastri e inaugurazioni che tolgono soldi e consenso all’umile necessità quotidiana della manutenzione. Ci mostra con anni di anticipo quel che succederà in mezzo mondo se non fermiamo l’innalzamento delle acque provocato dal cambiamento climatico dovuto al dogma della crescita infinita.  

Venezia che muore annegata è uno schiaffo in faccia a noi tutti, è un modo terribile di ricordarci che si può, si deve, smettere di sfruttare e consumare il suo fragilissimo ecosistema: «Moltissime specie hanno trovato il modo di vivere in armonia con la natura, senza che per farlo abbiano bisogno di suicidarsi. Lo fanno prendendo meno di quanto il pianeta è in grado di produrre e salvaguardando gli ecosistemi. Lo fanno vivendo come se avessimo solo una Terra, e non quattro». Se, in questa frase dello scrittore Jonathan Safran Foer, sostituiamo alla parola “pianeta” o “Terra” la parola “Venezia”, riusciremo a capire perché non è colpa del maltempo: e come possiamo ancora, nonostante tutto, salvare Venezia.

INTERNAZIONALE FASCISTA E QUARTO POTERE ——- BOLIVIA, CHI, COME, PERCHE’ —— QUELLI CHE GRIDANO “AL LUPO FASCIORAZZISTA” E NON LO VEDONO QUANDO C’È.

https://fulviogrimaldi.blogspot.com/2019/11/internazionale-fascista-e-quarto-potere.htmlMONDOCANE

VENERDÌ 15 NOVEMBRE 2019

“Una stampa cinica, mercenaria, demagogica produrrà nel corso del tempo una società altrettanto spregevole”. (Joseph Pulitzer)

Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, sono come quelli che vorrebbero mangiare vitello senza uccidere il vitello” (Berthold Brecht)

Lo strabismo autoindotto dei media

La manipolazione-mistificazione-falsificazione dei media di regime, che ciarlano, a proposito di Bolivia, di un paese rivoltatosi in nome della democrazia contro il caudillo che non vuole mollare il potere, è scontata. Come lo è la demagogia e retorica progressisto-cerchiobottista che celebra la Bolivia di Evo Morales, ma con la riserva che era estrattivista e lui si ostinava a fare il presidente a vita. Sono gli stessi sedicenti progressisti che rimpiangono gli Usa multilateralisti di Obama e Hillary. Che poi sarebbero i due protagonisti delle sette guerre di sterminio, dei colpi di Stato in Honduras, Paraguay e Ucraina e di varie rivoluzioni colorate. Tra l’altro utilizzando le stesse manovalanze: terroristi islamici o pseudo-islamici in Oriente, ancora quelli, più lo squadrismo neonazista, in Europa, squadristi fascisti in America Latina dove islamisti non ce ne sono. Con la particolarità asiatica degli squadristi neocolonialisti, fascioteppisti quanto altri mai, sotto le bandiere britannica e statunitense a Hong Kong. E dunque amati dal “manifesto”.

Di queste manovalanze il nostro paese sa tutto, sulla base di dati processuali e d’inchiesta, fin da De Lorenzo, paragolpe Borghese, Piazza Fontana, terrorismo mafiostatale. Sa anche tutto, ma alla Pasolini, sui relativi mandanti, interni ed esteri. E’ assordante il coro dei chierichetti dell’establishment che, ogni due per tre, gridano al lupo, vale a dire alla minaccia del fascismo risorgente, sotto forma di Salvini, Casa Pound, o Le Pen, Orban, AFD tedesca. O dell’antisemitismo, o del bullismo, o dell’odio dilagante da ogni poro. Per poi vedere nei golpisti boliviani il bisogno di democrazia.

Fascismo operetta e fascismo che opera

Minacce inventate, o gonfiate all’inverosimile, o solo potenziali, o perfino supposte, che stanno a quanto davvero ci viene inflitto dal capitalismo, come i razzi di Gaza stanno ai missili di Israele, o come l’% della ricchezza planetaria in mano al 50% degli umani sta al 45% dell’1% degli umani. O come le buggerature della mia locale Cassa di risparmio stanno agli interventi del Fondo Monetario Internazionale. Chi è più fascista, l’ungherese Orban, che ha la migliore distribuzione della ricchezza di tutti i paesi dell’UE, o la famiglia Walton che, con i suoi supermarket Walmart, guadagna 70.000 dollari al minuto grazie alla dabbenaggine di consumatori decerebrati e il lavoro schiavistico degli addetti?

Quando parliamo di manovalanza fascista parliamo di delinquenza pura e semplice, o di cretinotti  nostalgici di quanto non conoscono. Ma che indossano roboanti “valori” e simboli detti fascisti, valori che, rispetto a quelli imposti oggi dall’élite, valgono quelli di un Carminati a paragone di Jack lo Squartatore. Delinquenza teppista che indossa la camicia nera, mentre persegue obiettivi che gli vengono dettati da razzisti molto in alto nella scala sociale e geopolitica, perlopiù attraverso i centri nevralgici del capitalismo imperialista, servizi segreti e Ong. Questo nella fase della propaganda eversiva e del reclutamento di inclini alla violenza. Quando poi si tratta di venire alla luce del sole, nella battaglia risolutiva, ecco che si tramutano in attivisti dei diritti umani e della democrazia contro un dittatore…. fascista.

Cosa vi ricorda questa immagine?

Così è in Bolivia, in Ucraina, Venezuela, Honduras. Questo serpeggia nelle “rivolte popolari” finalizzate al cambio di regime in Stati che non si fanno riassorbire dal colonialismo. Il colpo di Stato in Bolivia parte da lontano, con una prima fase nel 2008 e quella attuale attivata nel 2016, in occasione del referendum per un terzo mandato di Evo Morales. Ha subito un’accelerazione quest’anno, alla vista del vento contrario al revanscismo neoliberale e fascistoide di Duque in Colombia, Pinera in Cile, Bolsonaro in Brasile, Hernàndez in Honduras: la sollevazione di un intero popolo in Cile, la vittoria del peronismo di sinistra con Cristina Kirchner e Alberto Fernàndez, le proteste di massa in Honduras e Haiti, la vittoria di Obrador in Messico, la resistenza vittoriosa di Maduro in Venezuela e Ortega in Nicaragua.

La preda del capitalismo del terzo millennio: litio

E, sul piano strettamente economico, la messa in opera, con due società tedesche e una svizzera, dell’immensa ricchezza mineraria della Bolivia, paese che, insieme all’Argentina, vanta i più vasti giacimenti di litio nel mondo, il minerale necessaria alla terza rivoluzione industriale, quella degli smartphone, dei tablet, delle vetture elettriche, eccetera.

Hai visto mai che Morales avrebbe nazionalizzato quel popò di roba, indispensabile alla ripresa del profitto capitalista nel nome di Greta e con la supervisione delle piattaforme di Silicon Valley. Indispensabile anche alla prevalenza su Cina e Russia, come al controllo sugli esseri umani tutti? Molti, negli States, ricordano, con brividi lungo la schiena, la “Guerra del gas”  e poi quella dell’acqua in Bolivia, quando un intero popolo si ribellò alla svendita dei suoi beni maggiori alle multinazionali Usa e, guidato da Evo e dal partito Movimento al Socialismo (MAS), si liberò dell’ultimo dei suoi caudilli, Sanchez De Lozada. Costui, dopo aver massacrato 70 cittadini, se ne dovette fuggire. Dove? Indovinate un po’. Lo sostituì il suo vice, Carlos Mesa, poi sepolto, nel 2006, da una valanga di voti per Morales, a dispetto della sedizione dei separatisti fascisti di Santa Cruz, emersi in quell’occasione. Avevo intervistato Evo poche settimane prima. Potete vederlo nel mio “L’Asse del bene”.

Come falsare un referendum

In occasione del referendum sulla rielezione di Morales si è riattivata la piaga purulenta dei feudatari secessionisti di Santa Cruz, provincia del Sud, che Morales non è riuscito, nei suoi 13 anni, a ridurre alla ragione di un’equa distribuzione delle terre, fuori dalla logica del contadino indigeno servo della gleba e relegato ai margini della società da un razzismo più virulento di quello nostro, al quale dobbiamo lo sradicamento dei migranti africani, asiatici e mediorientali. Non mi riferisco alla vittoria di misura di Evo nelle ultime elezioni presidenziali, verificata da osservatori indipendenti, ma non dall’Organizzazione degli Stati Americani che, con il lacchè amerikano Luis Almagro, già sperimentato su Venezuela e Honduras, ha insinuato la probabilità di “inesattezze”.

Rivolta di un popolo, o pogrom di manovali fascioteppisti?

Abbiamo tutti potuto vedere il pogrom anti-indigeni di questi giorni che ha visto l’uscita di scena di Evo e del suo vice Linera e l’ingresso nel palazzo presidenziale dell’autoproclamata presidente Jeanine Anez, la Guaidò boliviana, subito riconosciuta da Washington, e del tribuno fascista dei Comitati di Santa Cruz, Luis Camacho. Entrambi hanno fatto ingresso in parlamento con in mano la bibbia e sulle labbra la maledizione alla pachamama, divinità degli indios Aymara e Quechua (“la pachamama non tornerà mai in questo palazzo, la Bolivia appartiene a Cristo”, così la signora presidente) e con sotto alle scarpe la wiphala, la loro bandiera, quella che, con l’indio Morales, sventolava insieme alla nazionale. Quando si parla di razzisti e fascisti a proposito. E di odio.

Parlo invece del 2016, referendum sulla rielezione di Morales, sancita dalla Corte Costituzionale e inizio della corsa al golpe. In un’atmosfera di pesantissime accuse di immoralità, irresponsabilità, frode e menzogna, Morales, che aveva trionfato con larghissimo margine in tutte le elezioni, perse il referendum per pochi voti. Sulla stampa che, come evidentemente l’esercito e la polizia, diversamente da Hugo Chavez in Venezuela, Evo non era riuscito a bonificare dal controllo dell’oligarchia della destra bianca, da sempre golpista e connessa agli Usa, si scatenò un urgano di atroci calunnie: Evo avrebbe avuto un figlio segreto da una relazione extraconiugale e poi avrebbe rinnegato il bambino e ripudiato la donna. Di cui, tuttavia, avrebbe favorito  una vertiginosa ascesa sociale e istituzionale.

Il presidente non negò la relazione e neanche la nascita del figlio, che però sarebbe quasi subito morto. Mentre della donna, convolata ad altri rapporti, non si sarebbe più occupato. Quella che una prestigiosa femminista aymara, Adriana Guzmàn, definisce una “élite bianca, razzista, patriarcale, clericale e padronale”, non si diede per vinta e, alla vigilia del voto, produsse un ragazzo di cui la presunta madre, passata all’opposizione, affermava essere il figlio di cui Evo si sarebbe disinteressato. Fu il fattore che probabilmente determinò disgusto e delusione in settori dell’elettorato e, quindi, determinò l’esito del voto in tal modo manipolato. Troppo tardi gli architetti del complotto rivelarono l’inganno, rifiutandosi di fare il confronto del DNA. Da allora il presunto figlio è svaporato nel nulla.

 13 anni di indipendenza ed emancipazione

Tuttavia, l’uomo che aveva cacciato l’FMI e le Ong colonialiste, che aveva ridotto la povertà dei boliviani dal 40 al 15%, garantito a tutti istruzione e sanità, aumentato l’aspettativa di vita dai 56 ai 72 anni, ridotto la disoccupazione al 4%, risultato migliore del subcontinente, ed elevato il tasso di crescita al quasi 7%, anche questo il più alto dell’America Latina, solidificato l’asse antimperialista ed emancipatorio, da quella campagna rimase indebolito. Al punto che a dargli la maggioranza di 10 punti alle recenti elezioni, evitando il ballottaggio, ci vollero i 600mila voti arrivati nelle ultime ore dai distretti più lontani, indigeni e contadini. Coloro sui quali in queste ore si abbatte la furia genocida degli squadristi del multimilionario Luis Camacho, detto, per la gioia di Adriana Guzmàn, “el macho Camacho”.

Se il cosiddetto Quarto Potere, quello che è passato da “cane da guardia contro il Potere” a “cane da guardia contro il popolo”, non fa trasparire, neanche fra le righe la definizione “colpo di Stato”, e si guarda bene di dare del fascista al carcinoma che punta a rimangiarsi la Bolivia, “el macho Camacho”, è il classico prodotto coltivato dalle Ong e dai servizi  di quei paesi che hanno dato vita all’orda Al Qaida e Isis, come a Ordine Nuovo e  succedanei da noi. Se noi abbiamo avuto Delle Chiaie (e poi, più raffinatamente, le finte BR), loro hanno Luis Fernando Camacho. El Macho era, fino a ieri, un oscuro squadrista di una famiglia arricchitasi col gas, poi nazionalizzato da Morales, a capo della fascistissima Uniòn Juvenil Crucenista, di Santa Cruz, affratellata al battaglione nazista Azov di Kiev, ai suprematisti indù della RSS e a quanto resta della Falange spagnola. Fino adesso si era fatta le ossa nei pestaggi di indigeni, contadini Semterra che lottano contro il latifondo, giornalisti non conformi, sostenitori di Evo, tv di Stato. Grazie alla benevolenza della CNN, del New York Times e dell’agenzia britannica Reuter, è assurta a popolarità internazionale e a vindice della democrazia boliviana. Ci fosse ancora Delle Chiaie, sarebbe lì.

Camacho con il presidente colombiano Duque

Sempre facenti parte della manovalanza fascio-teppista per i regime change imperiali, che poi diventano gli organizzatori del sostegno fascio-teppista ai regimi tirannici, grazie a loro dagli Usa installati ovunque possibile, sono i consiglieri ideologico-organizzativi della dimensione fascio-teppista internazionale, stavolta senza Otpor e pugno chiuso, ma con tanto di logo simil-SS e saluti romani.

 Fascisti della Unione Juvenil Crucenista

Washington e l’Internazionale nera

Padrino e maestro di Camacho è il fascistissimo oligarca e terrateniente croato Branko Markovic, erede di una famiglia legata agli Ustasha di Ante Pavelic, oggi fervente sostenitore di Bolsonaro e del terrorista venzuelano Leopoldo Lopez. Nel 2008 fu accusato di un tentativo di assassinio di Morales in combutta con elementi croati e ungheresi e un neofascista irlandese, Michael Dwyer. Ai cospiratori aveva fatto avere 200.000 dollari. In fuga, aveva ottenuto asilo politico negli Usa. Rientrato,  avendo avuto parte delle sue terre espropriate da Morales, ha creato e presieduto il Comitato Santa Cruz, punta di lancia di un separatismo che, adesso, punta al paese intero. La Federazione Internazionale dei Diritti Umani, pur tenera nei confronti degli abusi Usa, ha stigmatizzato il Comitato come “attore e promotore di razzismo e violenza in Bolivia”. Quella che si vede ora per le strade del paese, nella caccia all’indio e all’evista (fenomeno di cui i nostri media invertono cacciatori e prede). Il Comitato è il successore della Falange Socialista Boliviana, gruppo fascista, stavolta con precisa ideologia, che ospitò molti gerarchi nazisti, compreso Klaus Barbie.

Squadrismo internazionale: Dwyer e Rosza

Altro esponente dell’internazionale squadrista a disposizione del terrorismo Usa, protagonista della campagna golpista era Eduardo Rosza-Flores, che combinava la sua iscrizione all’Opus Dei, organizzazione cattolica cara al franchismo, con la maschera del giornalista sinistrorso. Protagonista del tentativo di assassinare il primo presidente indio dell’America Latina (Chavez era meticcio), aveva combattuto contro la Jugoslavia unita nella formazione neo-ustasha croata, “Primo Plotone Internazionale (PIV)”, un reparto tracimante elementi criminali, fascisti e nazisti, tedeschi e irlandesi. Rientrato in Bolivia, fu ucciso in un hotel di lusso di Santa Cruz. Il governo boliviano pubblicò una serie di messaggi email tra il terrorista e l’agente Cia ungherese Istvan Beloval.

Altro collegamento tra Washington e i cospiratori era costituito da Hugo Acha Melgar, fondatore della filiale boliviana dell’americana “Human Rights Foundation”, Ong che ospita una “Scuola della rivoluzione” per fascioteppisti disposti a impegnarsi in rivoluzioni colorate e regime change. Una dirigente di questa Ong, finanziata anche da Amnesty International, Jhanisse Vaca Daza, contribuì al lancio del Golpe, diffondendo accuse a Morales per gli incendi nell’Amazzonia boliviana. Un gruppo, questo, che si vanta di essere attivo anche nei pogrom di Hong Kong.

Verso la resistenza

Su questa manovalanza squadrista internazionale ci sarebbe ancora parecchio da aggiungere, tra nomi e fatti. Ora conta osservare cosa succede. Se la forza maggioritaria del popolo, che sono i sostenitori di Morales e del MAS, riesce a prevalere sulla sanguinaria repressione di polizia, militari e relative orde fascioteppisti. Se finisce in uno stallo, comunque fallimentare per i golpisti, come in Venezuela. O se i i feudatari razzisti bianchi, con la loro manovalanza, riescono a consolidarsi. Forse Evo Morales ha fatto un errore a rifugiarsi nel lontano Messico dell’ottimo Obrador. Semmai era più vicina la confinante Argentina, dove Kirchner e Fernandez stanno subentrando al virgulto Usa Macri. Forse avrebbe potuto restare tra i suoi sostenitori che, privati del leader, potrebbero sentirsi senza guida, addirittura abbandonati. Vai a sapere. Un grosso errore il presidente l’aveva già commesso, quando ha invitato l’OAS, ambasciata degli Usa pe l’America Latina, con il fantoccio dello Stato Profondo Almagro, a verificare i risultati elettorali. L’avevo definita, nel pezzo precedente, un’ ingenuità incomprensibile.

Tocca chiudere. E finisco con un riferimento alla recente votazione delle Nazioni Unite sulla condanna del nazismo e del fascismo. Una risoluzione presentata dalla Russia (oltre 20 milioni di morti nella guerra contro il nazismo) e votata da 121 Stati contro 2. Il resto, Italia compresa, ha ritenuto non valesse la pena pronunciarsi. A favore, oltre a Russia, Bielorussia, Cina, Cuba, La Repubblica Popolare di Corea, Nicaragua, Venezuela, Siria, Zimbabwe, tutti paesi sotto sanzioni decretate dagli Usa o dall’ONU. Contro, Stati Uniti e Ucraina. C’è coerenza tra quel voto degli Usa e quanto succede in Bolivia. E non solo in Bolivia.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:59