Dal Vajont alla Val di Susa: quando l’interesse sacrifica l’uomo

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Val di Susa

È da giorni ormai che i tg, i giornali, le radio, il web e persino qualche piccione viaggiatore portano notizie di scontri, denunce e arresti avvenuti a danno di attivisti NO TAV in Val di Susa: turbano l’ordine pubblico ma, forse, soprattutto il sonno di qualche comitato d’affari che vede nella realizzazione dell’opera l’opportunità speculativa di far gonfiare a dismisura le proprie tasche a danno di un’intera popolazione, quella che vive in valle, che invece sente l’opera sulla sua pelle come una profonda ferita inferta al paesaggio, nonché alla propria salute come a quella delle future generazioni che in quei luoghi vorranno continuare a vivere o arrivare.

Di fronte a tutto questo, però, il governo italiano ha gettato la spugna e, rimettendo il proprio giudizio a quello di un Parlamento a dichiarata trazione SI TAV, ha candidamente rinunciato a difendere quelle volontà umane di cui è pur sempre in parte espressione, facendosi di contro portatore di interessi estranei a quelli di chi oggi è stato nuovamente lasciato solo a difendersi e a difendere tutti noi da forme di invasione tanto apparentemente disarmata quanto disarmante.

La Val di Susa è da sempre territorio di scontri e passaggi: da Annibale e i suoi leggendari elefanti ai Germani, ai Longobardi, ai Franchi, ai Cimbri che scesero fino ai Campi Raudii, nei pressi di Vercelli, per poi essere cacciati via dai Romani che li spinsero lungo tutta la Pianura Padana fin sulla linea del Piave dove, trovata una valle stretta, quella del Vajont, decisero di stabilirsi, iniziando così a viverci per generazioni, fino al tragico evento risalente al 9 ottobre del 1963 in cui una frana di proporzioni colossali scaricò nel lago artificiale ivi costruito 263 milioni di mᶟ di roccia facendo esondare, oltre il ciglio della diga, realizzata a regola d’arte e ancora oggi perfettamente in piedi, un volume pari a circa 50 milioni di mᶟ d’acqua che spazzarono via per sempre dalla faccia della Terra 2mila anime volate via nel firmamento insieme ai cherubini e tutta la teoria celeste. Ma cosa c’entra la vicenda del Vajont con le questioni tuttora aperte, legate alla costruzione o meno di una grande opera come il TAV Torino-Lione?

Oggi come allora, siamo in una valle evidentemente chiamata a far fronte a un’invasione, nello specifico a un’invasione di campo della tecnica (economico-finanziaria) a danno della democrazia. Lo aveva ben compreso a suo tempo la grande Tina Merlin che denunciò tale pericolo in relazione alla costruzione della diga sul torrente Vajont, appunto, attraverso le pagine del giornale per cui scriveva, l’Unità, quello fondato da Antonio Gramsci e distrutto dal PD. Per aver mosso suddetta denuncia, la Merlin fu accusata da parte della SADE (Società Adriatica di Elettricità) di aver pubblicato notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico. I fatti però, a seguito del processo lampo tenutosi a Milano, diedero ragione alla giornalista partigiana che trovò purtroppo confermate le sue preoccupazioni nell’apocalisse che segnò quei territori, ma non la memoria dell’intero Paese a discapito o a presunto beneficio del quale i media, come i libri di storia, non raccontarono praticamente nulla fino a quando un uomo di teatro, Marco Paolini, non costrinse tutti, con il suo magistrale Racconto del Vajont, a buttar giù la maschera e a toglierci il cappello in segno di rispetto per quei morti, vittime di un’autentica strage causata dall’azione criminale dovuta agli interessi privati di soggetti grandi ed economicamente forti al punto tale da configurarsi come un vero e proprio Stato nello Stato. Ecco, dunque, il punto di contatto tra ieri e oggi: quella che si sta esercitando contro la costruzione del TAV è, infatti, una vera Resistenza di popolo, quello di una valle che non vuol vedersi espropriare sotto il naso, esattamente come i contadini del Vajont, il proprio diritto a restare, adesso come in futuro, opponendosi a un invasore che non si chiama di certo SADE né ENEL, ma UE. Il senso di un tale parallelismo è presto dimostrato.

All’epoca, la minaccia era rappresentata dall’esigenza di rispondere a impellenti processi di nazionalizzazione della produzione energia, consentendo a una moltitudine di soggetti privati (come il Conte Volpi di Misurata, proprietario della SADE e fascista fino all’8 settembre del ’43) di dismettere i propri gioielli industriali e dislocare le proprie rendite in giro per il mondo, segnatamente in Svizzera, attraverso forme di vendita a uno Stato foraggiato ad arte tramite programmi di erogazione controllata di risorse, passate successivamente alla storia con il nome di Piano MarshallOggi, l’impellenza dei processi di ammodernamento del Paese è invece di natura internazionale. Il super-Stato investito del ruolo di compratore d’ultima istanza di qualunque grande innovazione tecnico-infrastrutturale realizzata da parte di soggetti privati (organizzazioni criminali incluse, dal momento che pecunia non olet) si chiama Unione Europea, là dove l’erogazione controllata di risorse, drenate direttamente dalle tasche dei cittadini e fatta passare attraverso un sistema bancario indipendente dal controllo delle istituzioni democratiche, si chiama Programmazione Economico-Finanziaria, tutta calibrata intorno alle strategie dei condomini più forti (tra cui la Francia) del falansterio fourierista che condividiamo con altri 27 vicini, non sempre facili da mettere d’accordo gli uni con gli altri.

Mutatis mutandis, dunque, il meccanismo speculativo è il medesimo benché il livello sia stato elevato dalla scala nazionale a quella internazionale e le risorse derivino non più da improbabili Piani Marshall, ma direttamente dai bilanci degli Stati membri. Per quanto sia cambiato il pelo, allora, il vizio e l’appetito del lupo sono quanto mai antichi e in costante attesa di essere soddisfatti a danno delle stesse prede, ovvero i cittadini, che un tempo venivano conquistati, oggi invece semplicemente tassati, precarizzati e, se possibile, sradicati.

Sic stantibus rebus, ciò che resta da fare a un popolo che vuole continuare a conservare la propria dignità e il sacrosanto diritto a scongiurare la perdita in via definitiva di qualunque forma di sovranità, è agire in termini di boicottaggio (di qualunque orpello, prodotto o servizio – inclusa la grande distribuzione – provenga d’Oltralpe), come il poeta e scrittore napoletano Erri De Luca ci ha insegnato, quale forma di difesa non violenta contro l’attacco esercitato da forze esterne che hanno come obiettivo quello di turbare non semplicemente l’ordine pubblico, bensì l’ordine naturale di tutte quelle cose riscontrabili nella storia, nella lingua, nella cultura, nelle consuetudini di persone che abitano quel territorio costituendosi in comunità da sempre capaci di comprendere i luoghi in cui vivono e che per tale ragione oggi recriminano un ascolto negato loro, esattamente come accadde ai 2mila morti travolti dall’onda anomala generata dalla frana del Vajont quel maledetto 9 ottobre 1963.

Insomma, poter produrre autonomamente energia, così come potenziare le reti di comunicazione e trasporto – magari soprattutto al Sud, dove ancora oggi in alcune regioni ci vogliono 9 ore e 40 minuti per percorrere 200 km – di un Paese che aderisce a modelli di sviluppo fondati su logiche e dinamiche di libero mercato è strategico e dunque imprescindibile, ma questo non può essere frutto dell’ipocrisia di speculazioni private che operano deliberatamente a danno dell’interesse generale per spedire merci, in senso per lo più unidirezionale Francia-Italia, a velocità ancor più alte rispetto a quelle già sufficientemente elevate con cui normalmente ci inondano di servizi e beni e(s)tero-prodotti. Prima ancora che l’analisi costi-benefici del Prof. Ponti, è la nostra Costituzione a ricordarcelo all’articolo 41L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. 

Questo è ciò che da sempre esigono le popolazioni della Val Susa, non solo per mezzo di azioni riconducibili a gesti eclatanti come il taglio delle reti presso i cantieri di Chiomonte, dei cavi dell’alta tensione o tramite l’opposizione fisica, sempre raccontata come guerriglia passivamente esercitata contro la presenza delle forze dell’ordine, ma anche attraverso l’organizzazione di eventi come tornei di rugby a sostegno della valle, Festival ad Alta Felicità o semplici marce pacifiche, capaci di generare coinvolgimento e condivisione delle motivazioni che spingono i valligiani a lottare da vent’anni, senza arretrare di un solo millimetro dalle loro posizioni.

E poco importa se sul TAV cadrà l’ennesimo governo di un Paese completamente impiccato a logiche da pareggio di bilancio, quel che non deve mai cadere è la democrazia e i principi su cui si fonda, come ad esempio il rispetto delle minoranze, costitutive insieme alle maggioranze di un corpo sociale unico, che quando viene ferito genera un dolore duro da sopportare in egual misura per tutti. Sfregiare la Val Susa vuol dire sfregiare il volto dell’Italia intera. 

È piuttosto nota quella poesia, attribuita a Bertholt Brecht, che recita: Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare. Non dimentichiamolo, altrimenti si che a sarà düra… per tutti!

Dal Vajont alla Val di Susa: quando l’interesse sacrifica l’uomoultima modifica: 2019-08-07T18:42:27+02:00da davi-luciano
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