Quando provo a spiegare gli aspetti finanziari del progetto del secolo – l’Alta velocità ferroviaria – ho spesso la sensazione di non mordere nella mente di chi mi ascolta. Eppure, sebbene non abbia la competenza di Ivan Cicconi (che ci manca ormai da due anni), ho letto con attenzione i suoi libri e, se non altro per ragioni di mestiere, dovrei essere in grado di farmi capire.
Non credo di essere io alla radice delle difficoltà; il problema è un altro. Il fatto è che mi rivolgo abitualmente a un pubblico di sinistra, o che tale si considera in senso generico, e la sostanza dell’argomento che cerco di esporre – la rapina incontrollata della ricchezza pubblica, più o meno mascherata – sembra ai miei uditori marginale, e la sua denuncia equivoca in termini di schieramento politico. Insomma, passo come un imitatore in sedicesimo di Travaglio, uno che dalla sinistra è visto con poca simpatia: «Ma con chi se la prende, questo, che nel suo discorso mescola insieme forze diverse – le banche, le cooperative di costruzione, i partiti politici di destra e di sinistra, i sindacati confederali, la delinquenza organizzata, i Bersani, i Lunardi, i Delrio che notoriamente figurano come avversari – sul palcoscenico della politica? Non sta enfatizzando per miopia moralista un aspetto secondario nel quadro della lotta di classe?».
Anch’io venti anni fa, di sinistra per convinzione personale e storia di famiglia, e per di più lettore ostinato di Marx, – sono riuscito a leggere, pur trovandole indigeribili, anche quelle parti del Capitale in cui si vorrebbe trattare l’economia come una delle scienze naturali, – sarei rimasto sconcertato, avrei sospettato nell’autore una vena qualunquista.
Avete ragione di sospettare. In effetti oggi considero le forze che prima ho citato, dalle banche alla camorra, passando per partiti politici e sindacati, come soci in affari in una attività predatoria, una minoranza di parassiti che spoglia i poveri del mondo di risorse essenziali per riprodurre ed espandere le proprie condizioni di privilegio. Se sono avversari, lo sono solo al momento della spartizione. E penso che la contrapposizione tra questa élite al potere e tutti gli altri, sia fondamentale per capire le dinamiche del mondo in cui viviamo, e che abbia assorbito in sé anche la classica contrapposizione tra capitale e lavoro.
Insomma, ci ho messo cinquant’anni – e probabilmente se non avessi letto il primo libro di Cicconi Storia del futuro di tangentopoli non ci sarei mai arrivato – ma alla fine mi sono convinto che non è possibile leggere il presente con una visione dei fatti economici che deriva da Ricardo e da Smith, sia pure rivisti attraverso la critica di Marx. Quello che manca nelle categorie del pensiero economico dell’Ottocento è la comprensione dell’importanza che avrebbe assunto in regime capitalistico il controllo politico della ricchezza pubblica, e il suo ruolo perverso e decisivo nel determinarne la distribuzione.
Qualsiasi riflessione sul ruolo dell’intervento statale in economia viene in ambiente di sinistra offuscata da un paio di pregiudizi: il carattere oggettivamente positivo che si attribuisce all’intervento pubblico e la convinzione che chi lo gestisce sia, per il solo fatto di non apparire come il classico padrone delle ferriere, dalla parte giusta della barricata.
Penso che non siano vere né l’una né l’altra cosa. È stato Marx il primo a ritenere che il mercato, ammesso che esista da qualche parte questo luogo mitico di libero scambio di cui parlano i teorici dell’economia classica o neo-classica, sarebbe risultato un sistema instabile, che conteneva i germi della propria fine. Perché i margini di profitto, in un sistema di libera competizione, erano destinati a ridursi progressivamente (la caduta tendenziale del saggio di profitto, per ricordare una frase fatta) e perché tendeva a produrre più merci di quanto le masse impoverite dalla dinamica salariale potessero acquistare (crisi di sovrapproduzione, come sopra). Per cui, per mantenere in vita il processo di sviluppo delle forze produttive, occorreva ricorrere a uno sforzo collettivo che sostituisse l’avidità del capitalista singolo. Gran parte del pensiero socialista del primo Novecento si articolava su queste idee. Non ricordo se Marx abbia mai affermato che l’intervento statale, solo per essere l’espressione di uno sforzo collettivo e programmato, sia di per sé benefico; ma può darsi che questa conclusione derivi implicitamente dalla sua visione, troppo ottimista, del progresso storico. Sono stati tuttavia elementi di propaganda politica, nel senso deteriore, a trasformare in un mantra del pensiero politico progressista la bontà indiscussa dell’intervento pubblico in economia.
In generale, tutti i settori di attività prodotti dall’intervento pubblico presentano lineamenti simili:
– si basano sull’appropriazione della ricchezza pubblica, e quindi non possono prescindere da una componente politica al loro interno;
– le decisioni vengono prese in sedi occulte, e quando emergono alla luce nelle sedi istituzionali sono già impacchettate nella forma di sbracata promozione: gli aggettivi strategico, storico, fondamentale, si sprecano. Si tratta di un processo decisionale che non ha alcuna parentela con l’idea di democrazia rappresentativa dello Stato liberale, per non parlare della democrazia partecipata di cui qualche volta si fantastica. È un sistema di potere che ha gli stessi lineamenti, clandestini e parassitari, dell’organizzazione mafiosa della società; non preclude affatto la presenza di politici eletti, purché questi accettino di cantare su spartiti precostituiti in sedi non istituzionali;
– le caratteristiche tecniche delle imprese sono calibrate sulla somma degli interessi dei promotori, e non sui motivi propagandistici della proposta, di cui in realtà non importa niente a nessuno. Tanto è vero che se le circostanze lo richiedono, le motivazioni vengono fulmineamente cambiate senza che altro sia modificato.
Per tornare a casa nostra e agli argomenti illustrati da Cicconi, è del tutto evidente in che cosa consista la razionalità economica degli investimenti nelle grandi opere. Si tratta di un modo rapido per fare cassa a spese del denaro pubblico, che integra al suo interno molti fattori favorevoli ai gestori dell’operazione: un’architettura contrattuale che non pone alcun limite giuridico all’appropriazione indebita, il ricorso a manodopera dequalificata di poco costo, costituita per la maggior parte da immigrati, la scelta di un settore di bassa tecnologia – cemento e tondino – ove i pochi oggetti di valore tecnico vengono acquistati all’estero, come i sistemi per lo scavo delle gallerie.
Premetto a queste riflessioni conclusive che non ritengo possibile eliminare l’intervento pubblico in economia. La natura dell’intervento è sostanzialmente ambigua; il problema vero è il suo controllo politico. Qualche volta, quando medito sulle conseguenze della perversione della spesa pubblica, spero di sbagliarmi sulla portata del fenomeno. È vero che per mezzo secolo, che mi occupassi di industria delle armi o di finanziamenti per l’innovazione di prodotto, di progetti sostenuti dall’Unione Europea, di aiuti al terzo mondo o di grandi opere sul territorio, non è accaduto una volta che non mi sia imbattuto negli stessi processi degenerativi. Forse sono stato sfortunato; se non fossi abituato per ragioni di lavoro a valutare la probabilità di estrarre da un sacchetto pieno di palline bianche, sempre e soltanto le poche nere, potrei anche crederci. E magari sperare che, espulsi dal Parlamento un paio di decine di delinquenti già condannati, e qualche centinaio dai Consigli di amministrazione delle società partecipate, questo Paese torni a essere retto da una passabile realizzazione dello Stato di diritto: quello in cui il derubare la comunità era considerato un reato. Ma non sono ottimista su una transizione pacifica.
Vi sono dei motivi nel mio scetticismo.
Primo: le forme di appropriazione della ricchezza pubblica sono così diffuse, in Italia e altrove, che riguardano tutto o quasi tutto il ceto dominante. I protagonisti di tante sordide storie sono sufficientemente intelligenti per riconoscere la radice comune del loro benessere, e quindi fanno gruppo, al di là di alcune schermaglie superficiali. Come classe dominante controllano non solo lo Stato ma tutto il resto: il credito, l’informazione, la politica e i meccanismi elettorali. Inoltre, vanno cancellando progressivamente gli spazi una volta dotati di autonomia, come le Università. In termini numerici rappresentano una minoranza, ma la loro presa su tutti gli aspetti della vita pubblica è pressoché totale.
Secondo. La trovata di espandere la spesa pubblica con la dilatazione del debito, di nasconderlo con artifici formali, e quindi di addossarlo alla generazione successiva, rende difficile per i più la comprensione del processo e l’individuazione delle responsabilità. Quando si arriva alla resa dei conti la reazione inferocita di chi scopre improvvisamente di essere povero viene indirizzata verso nemici inesistenti. L’invito al linciaggio di extracomunitari e rom in cui si esibiscono al giorno d’oggi tanti squallidi buffoni non promette niente di buono.
Terzo. La natura dello scontro si va facendo sempre più aspra. L’attività di rapina coinvolge beni comuni fondamentali, il territorio, l’acqua, l’atmosfera. Il territorio viene coperto da colate di cemento, la distribuzione dell’acqua e il controllo delle fonti idriche è privatizzato, il terreno, le falde, l’atmosfera vengono avvelenate progressivamente. Qualunque occasione di guadagno privato a breve ha il sopravvento sulla cura e il mantenimento di risorse di tutti, in qualche caso irrecuperabili.
Non so come andrà a finire. Non sono tuttavia ottimista; mi limito a pensare che occorrerebbe fare qualcosa per liberarsi dell’attuale classe dominante in tutte le sue articolazioni: banche, finanziarie, mezzi di comunicazione, partiti e sindacati di Stato. Perché più tempo passerà, più i problemi si presenteranno in forma drammatica. Lo scontro sarà violento; ci sarà poco da divertirsi per tutti.