Tav, la Francia tenta il bluff per evitare di ripartire i costi

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Il tunnel – Parigi aveva rimandato la tratta nazionale al 2038. Ora che l’Italia vuole rivedere le quote, ha avviato studi per valutare se farla
Tav, la Francia tenta il bluff per evitare di ripartire i costi

Ora che l’Italia vuole rivedere i costi del tunnel internazionale della Torino-Lione, la Francia si muove. Al momento, però, si parla soltanto di “studi” sui progetti e i costi della linea nazionale, anche perché in un rapporto del 2018 il governo transalpino ha già detto se ne sarebbe riparlato dal 2038. 

Lunedì il ministro francese dei Trasporti Elisabeth Borne ha firmato una lettera con cui chiede a Sncf Reseau, la società che si occupa della realizzazione delle linee ferroviarie, di avviare un programma di studi “per precisare gli investimenti necessari per la realizzazione delle vie d’accesso” al tunnel internazionale della Torino-Lione, cioè la galleria alla base del Moncenisio da 9,6 miliardi per il quale la Francia non ha ancora stanziato un euro, a differenza dell’Italia e dell’Unione europea.

La decisione del ministro francese arriva dopo i dubbi sollevati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla ripartizione dei costi della galleria, che sono a scapito dell’Italia e che il governo vorrebbe riequilibrare.

Nonostante la maggior parte dei 57,5 chilometri di lunghezza del tunnel siano sul territorio francese (per l’esattezza 45), tolto il contributo europeo del 40%, sarà l’Italia a pagarne il costo maggiore, circa 3,5 miliardi di euro. Per questa ragione, il 22 marzo scorso nel corso di un incontro bilaterale a Bruxelles, Conte ha spiegato al presidente francese Emmanuel Macron di voler rivedere i costi del progetto.

L’unico impegno concreto sarà un incontro a breve tra Borne e il collega Danilo Toninelli.

Quella suddivisione dei costi era stata stabilita nel 2004 (e confermata negli accordi seguenti) per andare incontro a Parigi, che avrebbe dovuto spendere circa otto miliardi di euro per realizzare la linea nazionale da Lione fino a Saint-Jean-de-Maurienne, sede della stazione internazionale. Così l’Italia aveva deciso di “accollarsi” una fetta maggiore del tunnel: dato per buono il 40% finanziato da Bruxelles, anziché dividersi a metà il costo della galleria, l’Italia ha deciso di pagare un 10% in più e quindi, alla fine, a Roma spetta il 35% del tunnel e a Parigi il 25%.

Tuttavia, come spiegato più volte dal Fatto Quotidiano, Parigi non ha stanziato neanche un euro.

Inoltre dall’altra parte delle Alpi, sulla linea nazionale, quella che ha comportato la divisione dei costi del tunnel a loro favore, non c’era intenzione di fare nulla.

A più riprese, prima con la Corte dei conti nel 2012, poi con la Commissione “Mobilité 21” nel 2013 e infine col Rapporto Duron nel 2018, gli esperti francesi avevano messo in discussione i costi e i benefici dell’opera.

I componenti della commissione davano all’opera una priorità bassa per via delle incertezza sulla realizzazione della galleria internazionale: “La commissione non può assicurare che i rischi di saturazione e i conflitti d’uso che giustificano la realizzazione del progetto intervengano prima degli anni dal 2035 al 2040”. Sulla base di questa scala di priorità, quel progetto da 7,9 miliardi era “incompatibile” con la realizzazione di altre opere e con la disponibilità finanziaria. Lo scorso anno il rapporto Duron suggeriva di rinviare oltre il 2038 la realizzazione dell’accesso al tunnel: “Sembra poco probabile che prima di dieci anni ci sia materia per proseguire gli studi su questi lavori che, al meglio, dovranno essere intrapresi dopo il 2038”.

Ora Parigi si è improvvisamente mossa. Borne ha stabilito che uno studio sui costi e sul programma deve essere affrontato subito. “Il lancio di questo programma di studi è una tappa importante nella concretizzazione degli impegni presi dal governo per la realizzazione dell’accesso al tunnel transfrontaliero della Torino-Lione”, ha annunciato lunedì.

Il lavoro di Sncf Réseau sarà affiancato da un comité de pilotage che dovrà cercare soluzioni “per ottimizzare i costi per garantire la sostenibilità finanziaria del programma”.

Allo stesso tempo il ministro Borne vuole un osservatorio che valuti la saturazione delle tratte francesi e del tunnel del Moncenisio “per conoscere meglio il traffico e la capacità disponibile delle infrastrutture attuali”. I primi risultati sono previsti per l’estate prossima.

Ve lo ricordate Stefano Esposito?

https://www.notavterzovalico.info/

ma Esposito non è un dipendentre della Prefettura di Torino?

E fa anche il consulente della ditta Riccoboni

Vi raccontiamo una storia. E’ un po’ lunga ma vi assicuriamo che ne vale la pena.
Ve lo ricordate Stefano Esposito? Per i distratti basti sapere che è stato senatore del Partito Democratico, poi trombato alle ultime elezioni, nonché grandissimo sostenitore del Tav in Valsusa e del Terzo Valico.Un personaggetto sopra le righe sempre pronto a scagliarsi contro chiunque si sia opposto alla costruzione delle grandi opere inutili imposte sui territori. Un paladino assoluto della “legalità”. Il capostipite indiscusso della crociata Sì Tav.Per Stefano non è un momento felice. Stefano soffre. Stefano è triste. Il nostro, dopo i suoi brillanti servigi a favore delle grandi opere, è ingiustamente caduto nel dimenticatoio ed è scomparso dai radar delle TV e dei giornali che contano.Ma dov’è finito il povero Stefano?Stefano questa mattina è stato avvistato a Sezzadio in provincia di Alessandria all’interno di un terreno privato senza l’autorizzazione del proprietario. Caso vuole che insieme ad altre persone stesse facendo delle rilevazioni per la costruzione della tangenziale propedeutica alla discarica di Sezzadio.Quando il proprietario del terreno e alcuni suoi amici corsi in suo aiuto gli hanno chiesto cosa ci facesse a casa d’altri pare che Stefano abbia balbettato cose. Diverse cose.Fino a dire di essere consulente della ditta Riccoboni, la multinazionale dei rifiuti che vorrebbe costruire una nuova discarica sopra una falda acquifera e che ha incontrato la ferrea opposizione della comunità locale. Sul posto sono intervenuti anche i Carabinieri e corre voce che Stefano si beccherà una bella denuncia per violazione di proprietà privata.Facciamo notare che siamo davanti a una storia incredibilmente triste che merita molta compassione. Siamo davanti a un ex politico sedotto e abbandonato dal suo ex capo Matteo Renzi. Un politico che dopo essere stato trombato a furor di popolo ha saputo rimettersi in discussione e oggi è magicamente diventato consulente di una multinazionale dei rifiuti. Ma non siate maliziosi. Stefano ha grandi competenze in materia.Stefano è un uomo molto brillante. Stefano desidera rimettersi in discussione.Stefano attraversa un momento difficile ma non demorde.Stefano è un guerriero.E’ solo grazie a queste sue doti che Stefano è diventato consulente della ditta Riccoboni.Noi ti ringraziamo caro Stefano.Perché sei ricomparso ma lo hai fatto con la stessa arroganza di sempre. Perché erano alcuni mesi che non sapevamo più chi prendere per il culo.Bentornato fra noi “ragazzo di strada”.
 
“Noi Esposito ce l’abbiamo avuto pure come assessore qui a Roma… Ex giovane turco, ex bersaniano, poi ultrarenziano è l’immagine perfetta di quella sinistra ex comunista che si è fatta destra più della destra vera”
“Deve ringraziare la sua buona stella se non è stato impallinato dal proprietario del terreno, in ottemperanza al decreto sicurezza.”
“Solo fra i rifiuti poteva stare !”
“Potevano menarlo almeno, cazzo di buonisti, la denuncia non da risultati veloci, 2 calci inculo si”
“Bravo….gran bella mossa…. Questo qui era bello tranquillo a casa nostra,pagato,per arrivare a violare una proprietà privata. In questo momento mi prudono le mani e anche molto, anche se quella proprietà non era la mia. Questa gente qui o in un modo o nell’altro non deve più essere lasciata nella posizione di poter nuocere. È solo un modesto parere.”

LIBIA, ULTIMA BATTAGLIA —– CHI HA PAURA DI KHALIFA HAFTAR ?.

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MONDOCANE

LUNEDÌ 8 APRILE 2019

 

Biscazzieri e bari

Nel paese del milione e mezzo di tossici da gioco d’azzardo, dei 70mila minori dipendenti, dei 19 miliardi spesi per il gioco, dei107 miliardi raccolti, delle 366.399 slotmachine,  delle 55.824 videolottery e delle 529 concessioni tra sportive, online, bingo, lotto e lotterie, volete che non ci siano e trionfino i bari? E’ un’intuizione facile. Basta  leggere nel giornale di oggi, prima, i dati allarmanti dei biscazzieri e delle loro vittime e, poi, i resoconti allarmatissimi sulle vicende di una Libia a rischio di essere unificata, diononvoglia, addirittura militarmente. Anatema, dopo che, negli 8 anni dalla frantumazione del più ricco e avanzato paese dell’Africa, tanto si era fatto per tenerlo diviso e spartito tra i vari interessi che, dopo averlo cucinato, si apprestavano a divorarlo.

Bari allora, quando ci trascinavano per i capelli alla guerra raccontandoci che Gheddafi bombardava la sua gente (e io ero proprio nel punto dove sarebbero cadute le bombe e non c’era che un tranquillo mercato), che allestiva fosse comuni e tutti vedemmo un cimitero normale con fosse scavate per morti normali, che rimpinzava di viagra i soldati libici perché stuprassero meglio le donne libiche (Save the Children, Ong ripresa da tutti), mentre io incontravo ragazze del liceo che, con i loro compagni, si addestravano alla resistenza. Bari oggi, quando ci terrorizzano con una Libia nel caos per colpa del “feldmaresciallo” militarista, mentre sul caos dai loro padrini militaristi, provocato dal 2011 in qua, ci hanno costruito traffici di petrolio e migranti.

Perché da quando il colonialismo è colonialismo, l’imperialismo è imperialismo, la Nato è Nato e il PNAC è PNAC (Piano per il Nuovo Secolo Americano dei Neocon), se non riesci a farne un boccone, del soggetto da abbattere, ne fai spezzatino. Approfittando del caos che, in mancanza di vittoria, ti sei lasciato dietro e che andrai potenziando. Così abbiamo visto nella recentemente rivisitata Jugoslavia, spezzettata in almeno sei frantumi; nella Serbia, cui hanno epurato e poi strappato il cuore kosovaro; nella Siria, con un terzo, etnicamente pulito, affidato dagli Usa prima all’Isis e poi ai curdi; nell’Iraq, dove però è andata buca l’operazione califfato, ma aleggia ancora quella della spartizione tra sciti e sunniti; e da noi, dove quelli delle “autonomie differenziate” vanno spaccando l’Italia per mettersi a disposizione del nuovo Sacro Impero franco-tedesco.

Haftar, unità della Libia in vista

Ora salta fuori quel generalone di Khalifa Belkasim Haftar, già comandante di Gheddafi nella guerra persa in Ciad, esule negli Usa, rientrato dopo l’impresa di Sarkozy, Cameron, Obama e del nano da giardino Berlusconi e per niente d’accordo, né con il proposito di costoro e dei loro successori, di dividere il paese in tre, né di decidere loro a chi e quanto gas e petrolio vadano. Per cui si è messo a capo delle forze armate, Esercito Nazionale Libico, che obbediscono all’unico governo legittimo, quello eletto e insediato a Tobruk.

E qui tocca puntualizzare un tantino, rispetto al quadretto che i bari in Occidente, e con particolare diligenza i nostri, ci impongono sulla situazione istituzionale della Libia. All’inizio del 2014, con un colpo di mano, i Fratelli Musulmani, sconfitti in Egitto, esautorano la maggioranza parlamentare nazionalista, laica e federale e impongono la Sharìa. A giugno, nuove elezioni decretano il trionfo dello schieramento laico e nazionalista, che decide di trasferire la Camera dei Rappresentanti  a Tobruk, nel frattempo liberato in gran parte dal generale Haftar dagli elementi islamisti, nell’intento di avvicinare la Cirenaica al resto del paese, Tripolitania e Fezzan al Sud. I Fratelli Musulmani si impongono a Tripoli, si definiscono Governo di Accordo Nazionale, si avvalgono dell’arrivo dei jihadisti di Al Qaida e Isis da Turchia e Qatar e governano poco più della città, grazie a una pletora di milizie, peraltro in lotta continua tra loro, in uno spietato arraffa arraffa di quanto lo spolpato paese può ancora offrire tra contrabbando di petrolio, prelievi dalla Banca Nazionale e traffico di migranti in combutta con le note Ong.

Riconoscere chi è stato eletto? Quando mai.

Chi si affretta a riconoscere un legittimo rappresentante della Libia? Coloro che ne avevano operato la distruzione? Cioè il mondo della democrazia rappresentativa, quello fondato su libere elezioni e sui diritti umani e civili? Quelli che si definiscono “comunità internazionale” (leggi Nato) e che mettono le loro ipocrisie al riparo dell’ombrello dell’ONU? E non riconoscono forse l’unico parlamento e rispettivo presidente, Aguila Saleh, legittimati da elezioni regolari, tra l’altro meritevoli di encomio per essere l’unica forza politica e militare che combatte l’estremismo terrorista patrocinato dalla Fratellanza e che ha portato in Cirenaica un’accettabile ordine economico e sociale, con tanto di terminali petroliferi, concentrati sulla costa della  Cirenaica fatti mettere in azione dalle rispettive compagnie, oltre alla NOC libica, l’ENI e altre?

Figurarsi!  Sono i colpevoli di aver messo i bastoni tra le ruote a chi prospettava i suoi successi su spartizione e caos. A coloro che, quanto meno, puntavano sul proconsolato di un governo controllato  dai Fratelli Musulmani che, fin dagli anni venti, sono i fiduciari del Regno Unito e dell’Occidente colonialista nel contrasto al panarabismo laico e socialista. Sono i nostalgici di una dittatura che ha riaccolto la componente gheddafiana, sociale, politica e militare, giustamente epurati da quelli di Tripoli, gli amici della Sharìa, che ne avevano condannato a morte, o al carcere, tutti gli esponenti, fino all’ultimo maestro di scuola pubblica. Figurarsi! Con il Tribunale Penale Internazionale che, dopo Muammar, aveva voluto incriminare anche Saif al Islam Gheddafi, il figlio maggiore, per crimini contro l’umanità. Sono i detriti revanscisti che ora arrivano a parlare di Said come possibile candidato alla presidenza!

Figurarsi! Sarebbe un controsenso nell’inappuntabile logica dell’imperialismo. Come nel caso dell’Egitto, con i Fratelli musulmani di Morsi e rispettive milizie terroriste, la scelta non può non cadere su chi obbedisce, promette spappolamento dell’unità nazionale con conseguente subalternità strutturale agli interessi che nel 2011 si erano avventati sul bottino. La scelta non poteva non cadere su Fayez Al Serraj, proclamatosi presidente di quanto di islamista era rimasto a Tripoli, e sul suo pseudo-parlamentare entourage. Lo traghetta a Tripoli una nave italiana, sulla quale rimane bloccato per l’impossibilità di entrare in una capitale in preda alle bande islamiste. Grazie a spartizioni di varia natura garantite ai capibanda, riesce ad assicurarsi l’appoggio, per altro costantemente a rischio, di alcune e, soprattutto, della più attrezzata ed esperta milizia della città Stato di Misurata. Riesce così a spostare il suo “governo” in un albergo della capitale e ad assicurarsi il controllo di qualche quartiere e di alcune località lungo la costa verso la Tunisia. Quelle che hanno in mano il business dei migranti e dei rispettivi campi di raccolta. E, di conseguenze, la collaborazione con le Ong e i ricatti nei confronti dei paesi di sbarco.

La mia Libia

Durante la guerra, nella primavera del 2011, ho trascorso due lunghi periodi in Libia. L’ho percorsa in lungo e in largo incontrando di tutto: studenti, mercanti, politici, giornalisti, lavoratori, donne, combattenti, insegnanti, migranti africani.  Ero a Tripoli quando cadevano i missili e le bombe partiti da Sigonella e sfracellavano case, ospedali, scuole per disabili, centro di solidarietà araba e africana, infrastrutture, depositi di viveri, porti e aeroporti. Da est avanzavano i jiahadisti e le forze speciali dei vari paesi Nato. Con mezzi infinitamente inadeguati, Gheddafi, l’esercito, le forze popolari resistevano. Ma si era tutti consapevoli che l’assalto di mezzo mondo contro il più renitente, ma anche il più pacifico, dei paesi africani sarebbe finito come è finito. Ciononostante, ovunque la gente, la popolazione, dichiarava con assemblee, presidi, corsa alle armi, soccorso civile, la sua lealtà alla Jamahirja, la sua fedeltà a Gheddafi, poi trucidato come Hillary Clinton voleva. Non c’era dubbio che questo popolo sapeva chi fossero i nemici. Tanto è vero che quelli li hanno dovuti importare tutti quanti.  E non se l’è scordato.Tanto è vero che, almeno da qualche informatore estero, si apprende che la marcia di Haftar, fino  a circondare Tripoli da tutti i lati in due o tre giorni, dopo aver liberato il Sud del Fezzan e della Tripolitania, con i rispettivi grandi giacimenti, è stata ovunque accolta dal giubilo della popolazione.

Misurata, un inferno vero

Ho anche avuto esperienza di Misurata. Una città in mano a una dozzina di oligarchi cui i rifornitori Nato avevano prestato particolare attenzione. E anche i celebrati Medici Senza Frontiere, lì installati. Mai li ho visti, tra Somalia, Iraq e Siria, dalla parte delle vittime dell’Occidente. Efferata nei confronti dei “gheddafiani”, anche solo contro chi non intendeva partecipare, la milizia di Misurata dava a questi la caccia, li catturava, torturava, stuprava le donne e le faceva a pezzi. Quello,sì, un vero inferno di cui nessuna Ong, con i  rispettivi corifei medatici, si è mai scandalizzata, ma di cui potete trovare agghiacciante testimonianza nel mio documentario “Maledetta Primavera – Arabi tra rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre Nato”.

I misuratini si sono poi confermati un’eccellenza nel mercenariato assoldato dai nostri pacificatori nella successiva pulizia etnica dei libici neri, quelli di cui Gheddafi aveva proibito si chiamassero “neri”, Tawergha era una città vicina a Misurata, popolata interamente da libici neri, provenienti dal Sud del paese. Sono stati massacrati a migliaia dai prodi miliziani della città-Stato, un bagno di sangue senza precedenti in Libia, dopo quelli del maresciallo Graziani. Oggi le forze di Misurata costituiscono l’estrema possibilità per Al Serraj di non essere spazzato via e per il progetto colonialista di spartizione del paese di non vanificarsi.

Non va bene chi libera i rifugiati?

Fa riflettere che sulle nefandezze in Libia contro i neri, non solo di Tawergha, non si senta un sospiro, una deprecazione, al cospetto degli orrori negli attuali campi di raccolta ossessivamente denunciati da coloro che, per alimentare il traffico di persone, hanno bisogno di quegli orrori. Strano, visto che in tutti quei campi sono ormai presenti sia l’UNHCR, sia l’OIM, enti Onu per i migranti, che non si riesce mai a vedere, sui sanissimi giovanotti in arrivo l’indelebile marchio della tortura e delle privazioni e che per molto meno attribuito – falsamente – a Gheddafi, sulla Libia si scatenò l’apocalissi della “comunità internazionale”. Strano, anche, che proprio coloro che cercano di farti rizzare i capelli all’idea che i naufraghi “salvati” possano essere riconsegnati ai loro aguzzini in Libia, oggi siano, “manifesto”  come “Repubblica” e tutti gli altri sicofanti dell’accoglienza, in prima fila ad agitare la “minaccia del generale Haftar”. Non hanno udito la sua promessa di eliminare dalla scena tutti i 3000 terroristi che a Tripoli, tra le altre opere buone, trattengono i migranti nei loro “lager”? Non dovrebbe suonargli bene una tale annuncio? Forse no.

Dialogo per dividere, lotta per unire

Dal cripto-colonialista “manifesto”, ai giornaloni e alle televisionone dei magnati in combutta con il revanscismo coloniale, è tutto uno stracciarsi le vesti per essersi persa in Libia la burletta del “dialogo” (ricordate il “dialogo” per la pace in Palestina?), invocata e complottata in vertici e conferenze, e di essere passati alla tanto brutta opzione militare. Che tanto brutta non era quando si trattava di rimuovere un tizio che ai popoli del mondo aveva insegnato che si può vivere indipendenti, sovrani, liberi e con il consenso del popolo. E anche felici, grazie a istruzione, salute, casa, mezzo di trasporto, reddito, acqua potabile, gratuiti, tutti assicurati da una strepitosamente equa distribuzione della ricchezza. Tutti accompagnati – questo era più inaccettabile dell’insieme delle altre magagne anticapitaliste – dal futuro di un continente unito e reso padrone delle sue risorse e sovrano dalla sua moneta. Ci pensano quelli che, in sinergia con gli spogliatori economici e militari dell’Africa e del Medioriente, oggi coltivano l’accoglienza senza se e senza ma? No, non ci pensano. Provate a chiedergli un’opinione su Gheddafi (che di migranti ne ospitava due milioni, con pari diritti dei cittadini, ma investiva anche nei paesi dai quali i migranti non avrebbero mai voluto andar via).

Resta da meditare su cosa potrà succedere. Non v’è dubbio, a dispetto degli orchi bene armati di Misurata, che Haftar e il suo Esercito Nazionale Libico (altro che “milizia”, è la forza armata di un parlamento eletto democraticamente) delle sbrindellate e affamate milizie tripoline si farebbero un boccone. Lo faranno? Alla luce delle posizioni geopolitiche manifestatesi c’è da dubitarne. Si sa che la Francia, che sa fare i conti, da tempo sostiene Haftar, che pure l’Italia, pur dando idea di traccheggiare, con Conte, si è sbilanciata verso Tobruk. Che è sostenuta da Russia, Egitto, Arabia Saudita. Emirati. Il resto dell’Occidente sta a vedere cosa succede. Al Consiglio di Sicurezza tutti si sono espressi in favore di una sospensione delle ostilità. Russi e cinesi, probabilmente, per mantenere le apparenze.

A metà mese si sarebbe dovuta tenere la grande conferenza internazionale di tutte le parti, promossa dall’ONU. E poi elezioni. Di cui si sa fin d’ora chi le vincerà, Per cui i fantocci e le loro milizie non le vogliono. E Haftar? Prendere Tripoli con la forza e assicurare a sé e ai libici una nazione riunificata, contro tutti i piani di chi ha dato il via a questa storia? Oppure presentarsi alla conferenza dalle posizioni di forza acquisite (vedi mappa), e imporre comunque la fine della divisione, del cancro islamista e un rapporto con l’esterno che imponga di trattare con una Libia riunita da quella che, giustamente, è chiamata “Operazione Dignità”? Questo è il problema.

Intanto Tripoli sembra la Saigon della disfatta: gli americani che, dall’ambasciata  si arrampicano sulle scalette degli elicotteri, mentre scalciano verso il basso a cacciare i collaborazionisti terrorizzati. Per primi, da Tripoli, sono partiti, raccolti da una portaerei, i Marines. E’ stato il segnale del fuggi fuggi generale dei bonzi di Serraj. Non c’è che dire, è un bel vedere.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:57

PARLA IL MINISTRO DEGLI ESTERI DI MILOSEVIC ——- SERBIA: VITTIME, CARNEFICI E LORO VIVANDIERE ——- IN MARGINE A UN CONVEGNO A FIRENZE

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MONDOCANE

SABATO 6 APRILE 2019

Una Serbia che non muore

Zivadin Jovanovic  ha 80 anni, ne dimostra venti di meno, da viceministro degli Esteri fino al 1998 e poi ministro fino alla caduta del governo nel 2000, è stato protagonista e testimone serbo, accanto a Slobodan Milosevic, dell’intera vicenda jugoslava e balcanica. Oggi è il protagonista della custodia, rivendicazione e propagazione della memoria di quanto fatto alla Serbia dalla Nato. Contro le turbe di occultatori e mentitori, è anche il combattente della verità sui Balcani e sulla Serbia di oggi e sui complotti che l’Occidente insiste a tessere a danno di sovranità, integrità e autodeterminazione della Serbia. Alto, snello, dritto e determinato, come uno di quegli abeti rossi che nel Sud Tirolo svettano verso la luce del sole, ha appena organizzato, nel XX dell’aggressione Nato e nel LXX della fondazione dell’Alleanza Militare Atlantica, l’ennesimo  convegno internazionale del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali, da lui presieduto e al quale ho avuto il privilegio di partecipare. Ve ne ho riferito in  www.fulviogrimaldicontroblog.info: Convegno internazionale a vent’anni dall’aggressione – “DIMENTICARE?  PERDONARE?  MAI !” Inviato sotto le bombe, testimone di oggi.

Ci siamo trovati fianco a fianco, in amicizia e causa comune, grazie al modesto contributo che ho potuto dare da responsabile del “Comitato Ramsey Clark per la Jugoslavia” e poi da portavoce, insieme a Enrico Vigna, del “Comitato Milosevic”, che si batteva per la liberazione del Presidente della Federazione Jugoslava e della Repubblica Serba, e per la demistificazione delle menzogne che ne volevano giustificare l’arresto e il processo da parte di un tribunale-farsa.

Le trombe degli eserciti

Jovanovic mi ha concesso l’intervista sull’oggi dei Balcani, sottoposto a nuove minacce da parte degli stessi criminali di ieri e di sempre. La leggerete più avanti. Prima, mi vorrei soffermare brevemente sul contributo che alla tragedia serba hanno fornito quelli che chiamerei “vivandiere”, o “corifei”, dei carnefici. Coloro che, pur passando per oppositori dell’opzione guerra, per “sinistri”, pur lamentando bombe e uranio, ne hanno avvallato gli obiettivi, spesso nel nome della democrazia, dei diritti umani e del dittatore da abbattere. Quella volta e tutte le successive.. Una genìa che non ha mai smesso di prosperare e che, oggi come non mai, rappresenta una conventicola clerico-sinistra di amici del giaguaro e utili idioti per i Grandi Vecchi dei genocidi. Il manto fatto di  buonismo, di carità, solidarietà, democrazia, diritti umani e civili, inserito nel guardaroba dell’epistemologia imperialista, continua a fornirgli copertura e credibilità.

Se ne registra la comparsa sia nell’ante, quando si tratta di condividere calunnie e falsità dell’aggressore, lastricandone la strada; sia nel post, dove ci si può permettere di piangere sui piatti rotti, ma senza mai smentire l’iniziale assunto mistificatorio. Ciò vale per l’operazione global-neoliberista e neocolonialista di spostamento e confusione dei popoli, come per le varie guerre per le quali quella della Serbia – “colpa degli ultranazionalisti, pulitori etnici, dittatori (solo Milosevic, però) del Balcani” – ha fornito il precedente e il modello, con effetto di progressiva normalizzazione di efferatezze belliche, regime change, sanzioni e conseguente passivizzazione dell’opinione pubblica.

Sotto questo cielo, striato di scie tossiche (stavolta vere), a Firenze, vittime, loro difensori e vivandiere del carnefice, sono stati riuniti, all’insaputa dei più della prima categoria, per una grande kermesse per il  20° della frantumazione delle Serbia e il 70° della fondazione Nato. Per un obiettivo assolutamente da condividere, la lotta alla Nato, hanno partecipato alcuni tra i più intemerati assertori della verità e della denuncia, come lo stesso Jovanovic, il canadese prof. Michel Chossudovsky, Diana Johnstone, saggista euro-americana e tra coloro che più a fondo hanno guardato nel pozzo delle mistificazioni e dei delitti Nato, Paul Craig Roberts, analista Usa, Peter Koenig, analista svizzero. Gente davanti alla quale tutti, non solo i patrioti serbi, devono togliersi il cappello. Gente che ha costituito il plotone di esecuzione politico e morale di mandanti ed esecutori. Tra i relatori degni di attenzione da molti anni, per la profonda e onesta osservazione dei fatti balcanici (seppure spesso presente su una rivista come “Limes”), va citata anche Jean Toschi Marazzani Visconti.

Ma, incredibilmente, perfino preponderanti, accanto ad alcune delle più valide e coraggiose figure dell’informazione corretta e della battaglia per la verità sui Balcani, il battaglione delle vivandiere delle armate con i cingoli e le bombe all’uranio, alla grafite, a grappolo, degli spargitori di veleni perenni attraverso la disseminazione di sostanze chimiche conseguenti a bombardamenti assolutamente intelligenti. Cosacce deprecate, è ovvio, “restiamo umani”, no? Ma che l’altro ieri, ieri e fino a stamattina, non hanno ritirato quanto, da corifei dell’inganno, del rovesciamento dei fatti, avevano avallato: Milosevic macellaio ultra nazionalista, dittatore, repressore delle opposizioni e dei media e pulitore etnico in Kosovo, i serbi tutti in preda a fanatismo nazionalista ed etnico, gli albanesi del Kosovo perseguitati e massacrati, Mladic e Karadzic sterminatori di bosniaci fino all’eccidio di Srebrenica. E intanto correvano a Sarajevo, “città martire” per colpa dei serbi, a straparlare di un assedio  serbo che decimava civili. Erano due le parti in conflitto, ma sono stati i 130mila serbi a essere cacciati, sostituiti dai jihadisti importati dal despota vero, Izetbegovic e di quell’altro fascista, il croato Tudjman, pagati dai sauditi, ma definiti vittime della Grande Serbia di Milosevic. Jihadisti poi ritrovatisi in centinaia in Siria.

Acrobati tra pace e guerra: deprecare i bombaroli e condividerne le ragioni

Uno Slobo iperdemocratico, che tollerava le bugie e i sabotaggi dei media di Soros e Cia , libere elezioni, rivoluzioni colorate in piena aggressione, con libertà d’azione per la Quinta Colonna esterna (Casarini e i suoi centri sociali, i pellegrini di Sarajevo) ed interna (Donne in Nero, monarchici, Otpor, Zoran Djindjic, poi premier per grazia di Washington, che da Vienna indicava ai raid di D’Alema e Clinton gli obiettivi serbi da disintegrare). Io stesso ho potuto incontrare, sotto le bombe, in una sala di governo in pieno centro di Belgrado, dirigenti politici e sindacali d’opposizione , compreso il famigerato Srda Popovic di Otpor (da allora utilizzato in tutti i colpi di Stato), che si vantavano di essere sostenuti dalle “democrazie occidentali”, CIA e NED in particolare.

Il Comitato No Guerra No Nato, che fa capo a Giulietto Chiesa, organizzatore del convegno, ha ritenuto di mettere a fianco di chi ha subito o denunciato i crimini Nato (e dei fantasmi degli oltre 4.000 civili che ne sono morti, delle generazioni di avvelenati da uranio e chimica), coloro che hanno lastricato la via dell’inferno accreditandone le bugie. Manca Casarini, impegnato in mare per impresa analoga a quella di Belgrado, quando è corso ad abbracciate i giornalisti di Soros di Radio B-92. Manca Adriano Sofri, che s’inventò, reiterando la menzogna, due bombardamenti serbi sulle donne al mercato di Sarajevo, poi provati colpi dei bosniaci. Manca Alex Langer, che a Lotta Continua allestiva “processi del popolo”  contro devianti e poi si erse a santone della non violenza, ma sui serbi invocò le bombe.

Ma molti altri ci sono: Tommaso Di Francesco, vicedirettore del “manifesto”, che incontrai mentre gironzolava per Belgrado, mandava a Roma notizie sul despota Milosevic e ribadiva, ancora oggi, sia la “contropulizia etnica” inflitta agli albanesi, sia  la terribile balla di Srebrenica (*). Un suo collega in mestiere e spirito, Salvatore Cannavò, cestinava miei reportage sui profughi Rom del Kosovo, accolti a Belgrado e sistemati nelle ottime case del quartiere della loro etnia, perché tornavano “troppo a favore di Milosevic”. Poi tutti i pacifisti, nonviolenti, protettori dei poveri musulmani di Bosnia, assertori della naturale malvagità dei serbi come constatata a Sarajevo, o biasimatori dei fanatici nazionalisti eredi di Tito: i comboniani con Zanotelli che scriveva: “Una Europa che in tutti questi anni e’ stata incapace di fare una politica seria per i Balcani lasciandola fare solo agli interessi economici, egemonici o imperial, quando proprio l’Europa, dentro la Nato, Germania in testa, era fautrice ed esecutrice della tragedia balcanica. Insieme al papa di Zanotelli, postosi a vessillifero della distruzione.

“Sarajevo, la Gerusalemme d’Europa”

Alberto Negri, allora del Sole24 Ore e ora del “manifesto”, sempre dalla parte di chi è schiacciato da “dittatori”. Oggi denuncia la “minaccia” di Haftar che sta investendo Tripoli. Quella del generale Haftar è l’unica forza nazionale legittima, emanata dall’unico parlamento eletto, sostenuto dai gheddafiani. Ovunque arrivi, viene festeggiato dalle popolazioni patriottiche, salvo che dai jihadisti di Misurata, quelli dello sterminio della popolazione nera a Tawarga, cari al fantoccio Serraj e alla “comunità internazionale”. I religiosi dei Beati Costruttori di Pace, i preti e le suore di Pax Christi (“Sarajevo, la Gerusalemme d’Europa”), soliti a tornare sul luogo del delitto per ribadire le coltellate alla schiena della Serbia, accompagnati anche da questo papa che non si è mai dolto, anzi, del bellicismo del predecessore in armi, ma ne ha ribadito le ragioni. Delle quali l’apparentemente meno complice, ma più infingarda, era e rimane quella che mette tutti sullo stesso piano, croati, bosniaci, albanesi, serbi, Clinton, e poi immerge le mani nella bacinella di Ponzio Pilato. Ma che la pulizia etnica fosse fatta dai serbi, e mai più dagli albanesi sostenuti da Soros e da Madre Teresa fin dagli anni ’60, e poi dai trafficanti di droga e organi dell’UCK, nessuno di questi l’ha mai messo in dubbio.

Neanche la Tavola della Pace, invitata al convegno, ha avuto mai dubbi in proposito. Il suo leader Flavio Lotti, ultimamente visto a fianco dei “ribelli” anti-Assad, è uno che marcia per la pace sottobraccio al bombardiere D’Alema e che ha avallato, senza un attimo di dubbio, ogni campagna diffamatrice inventata dall’imperialismo per far fuori regimi e paesi disobbedienti. Qualche martellata ai chiodi nelle tombe di Milosevic, Saddam, Gheddafi, dei serbi, iracheni, libici, siriani, l’ha data anche lui. Con particolare accanimento.

Ma la ciliegina su questa torta è stato il deus ex machina Michail Gorbaciov, tuttora in vita, con un suo epocale messaggio. Poteva esserci un più splendido coronamento dell’iniziativa che la parola, a quanto pare riguadagnata grazie a qualche borbottio sugli eccessi militari Usa, tra una conferenza multimilionaria e l’altra, tra Boston e Los Angeles, di questo supremo costruttore di ponti tra banche e multinazionali Usa e le macerie dell’URSS?

Gorbaciov e Bush Sr

Concludo. E’ a questo che si arriva quando, come qualcuno ritiene si debba fare, si inalbera il vessillo italiota del volemose bene, dell’uniamoci tutti, anche se del panorama complessivo si condivide solo un albero e del bosco nient’altro. Tocca far numero, anche se poi  qualcuno dei commensali sporca la tovaglia in modo indelebile.  I “poveri bosniaci” sostenuti e compianti da certi commensali di Firenze, hanno avuto lo stesso ruolo dei curdi in Siria. Mercenari al servizio di un progetto nazionicida e sociocida dell’imperialismo USA-UE. Pure in questo caso strumenti consapevoli dello squartamento di un paese democratico, socialista, multiculturale, multietnico, multiconfessionale, antimperialista. Con il risultato, in Siria per ora fallito, di una costellazione di satelliti inoffensivi, subordinati, fuori dalla Storia.

Chissà se  al convegno di Firenze, Tommaso Di Francesco avrà avuto l’occasione di ripetere a colui che è stato per 8 anni l’uomo della politica estera di Milosevic, Zivadin Jovanovic e oggi custodisce la memoria di quelle vicende, che il suo presidente era un despota che praticava “contropulizie etniche”  in Kosovo e che i suoi serbi uccisero 8000 persone a Srebrenica.

Serbi, con voi non abbiamo finito: Grande Albania e altro

Passiamo all’oggi. Nuovi nuvoloni si addensano sulle terre europee degli slavi. Alla Serbia, circondata da frammenti di Jugoslavia diventati Stati Nato, o alla Nato infeudati e inseriti nel corteo armato che Usa, UE e Nato stanno muovendo contro la Russia, si continua a non perdonare di essere stato l’unico paese ad aver avuto ragione, di continuare a non aderire alla Nato, di traccheggiare sull’inserimento-subordinazione alla UE, di denunciare i crimini dell’aggressore e di coltivare rapporti, alleanza e amicizia con la Russia di Putin. Tsipras, il rinnegato greco, accedendo alla nuova denominazione di “Macedonia del Nord” del vicino  settentrionale, ha dato il via libera all’accesso di Skopje ai due grandi concerti della democrazia, della pace e della sovranità popolare: Nato e UE. Manca un altro passo decisivo per la destabilizzazione-normalizzazione dell’assetto dei Balcani uscito dalla guerra Nato: la Grande Albania.

La riunione in un unico Stato, inesorabilmente atlantista e islamista, di “tutte le terre su cui vivono albanesi”, formula che imperversa da Tirana a Pristina, dal Montenegro alla Macedonia del Nord, alla Grecia e alla Serbia e che riecheggia quella di Hitler relativa alle terre su cui c’erano tedeschi, dovrebbe essere il prossimo passo. Comporterebbe la mutilazione del Montenegro, la cui parte meridionale è popolata da Greci e albanesi, della Macedonia, in cui gli albanesi sono disseminati ovunque, ma anche i greci, e della Serbia, che annovera una minoranza albanese nella valle di Presevo. E si può immaginare con quali conseguenze: maggioranze che diverrebbero minoranze, sul modello tragico e feroce dei serbi sopravvissuti a Mitrovica, in Kosovo, alla pulizia etnica dell’UCK.

Trattative molto opache su uno scambio di territori, sotto l’egida delle potenze vincitrici, si sarebbero svolte tra Vucic e il narcos Thaci, presidenti rispettivamente di Serbia e dello pseudostato kosovaro, a latere di questo progetto imperial-albanese con griffe Nato. Vucic le ha disconosciute, forse sotto la pressione di un’opinione serba che in quasi tutte le sue componenti, rifiuta ogni cedimento sull’identità storica serba del Kosmet. E il milione di profughi dalle terre sottratte alla Serbia e da questa ospitato, un decimo della popolazione attuale, non glielo consentirebbe mai.

Del resto, con un Kosovo in cui Mitrovica Nord popolata da serbi passerebbe alla madrepatria e in cambio vi entrasse la valle serba popolata da una minoranza di albanesi, le istituzioni serbe che, bene o male, in Kosovo convivono con quelle albanesi a Pristina, cesserebbero di esistere e le restanti enclavi serbe sparse su tutta la regione sarebbero alla mercè di chi in Kosovo ha bruciato 230 monasteri, cacciato 300mila tra serbi (di cui solo 1% sono rientrati), Rom e altre nazionalità, fattosi portinaio della più grande base Usa d’Europa e principale ponte per il passaggio  della droga afghana in Europa.  Il Kosovo riceverebbe il riconoscimento degli 80 Stati che finora lo hanno rifiutato. Un abominio non meno gravido di disastri di una Grande Albania nel ruolo di Israele in Medioriente. Alla Serbia occorre lo spirito del suo popolo e una mano da Putin e Xi Jin Ping.

(*)Sempre su Srebrenica articolo interessante: http://informare.over-blog.it/2014/07/il-massacro-di-srebrenica-un-altro-falso-pianificato-con-cura-dagli-americani.html
La cosa più interessante è l’esistenza di un “rapporto redatto sui fatti di Srebrenica da una commissione speciale del governo della Republika Srpska” che “pur ammettendo che sporadici episodi di giustizia privata e di vendetta sommaria possono aver avuto luogo ai danni della popolazione musulmana, evidenzia come fu proprio la presenza sul campo e la determinazione del generale Ratko Mladić a scongiurare il reiterarsi di tali circostanze”. Rapporto che guarda caso non è mai stato tradotto dall’ONU che ha preferito farne redigere una propria versione.

Mia intervista a Zivadin Jovanovic


La UE e la Nato circondano la Serbia . Vi sentite isolati o fidate, per conservare sovranità e indipendenza, nel fronte alternativo di Russia e Cina?

Sono convinto che l’opzione migliore per la Serbia sia il mantenimento di relazioni equilibrate tra Est e Ovest, per restare libera e neutrale. Per questo occorrono buoni rapporti di vicinato con la UE e la Nato e, allo stesso tempo, l’espandersi della collaborazione strategica con Russia, Cina e altri paesi importanti. Ricordandoci che la Serbia non ha mai fatto parte di un’alleanza militare, una tale politica rispetterebbe sia le esperienze storiche della Serbia , sia i profondi mutamenti attuali nei rapporti globali.

Cosa si ripromettono le manifestazioni e i tumulti delle opposizioni contro il governo, con la loro curiosa combinazione di destre e sinistre. C’è qualcosa che ricorda il movimento del 2000-2001 di Otpor?

Non riesco a vedere alcun programma o visione coerente nell’opposizione serba. Alcuni dei capi lo erano anche con Otpor, per cui le affinità col passato non sorprendono. Sono la loro seconda natura. Altri leader sono detriti  della passata coalizione antisocialista e ripetono la formula del “nuovo accordo con il popolo”. Ma non spiegano cosa ne sia stato dell’accordo precedente, che avrebbero concluso con il popolo nel settembre 2000. A cosa puntavano quando, l’altro giorno, hanno fatto irruzione nelle redazioni della TV RTS (Tv di Stato), nel preciso momento in cui la nazione commemorava le vittime della criminale aggressione Nato di vent’anni fa e la Serbia è sottoposta a nuove pressioni perché riconosca il furto delle provincie di Kosovo e Metohija in cambio dell’entrata nell’UE, chissà quando dopo il 2030!

Viviamo in un’epoca in cui globalizzazione, militarizzazione, finanzcapitalismo totalitario attaccano la base stessa della sovranità e autodeterminazione delle nazioni e infrangono ogni legge e trattato internazionali. Quale sarà il futuro e ci sono forze che sapranno resistere?

Il nostro futuro è incerto e contiene molti rischi, compreso il pericolo di un conflitto globale. La “Sacra Trinità” del capitalismo liberista multinazionale, la strategia del dominio e la Nato come suo strumento sono la principale fonte delle minacce alla pace e alla stabilità. A partire dall’aggressione Nato del 1999 alla Jugoslavia, il principio militarista nel processo decisionale ha occupato tutte le sfere della vita politica, economica e sociale. Nell’UE, ad esempio, infrastrutture civili come ferrovie, autostrade, ponti, aeroporti, dovranno in futuro soddisfare standard militari. Paesi membri devono anche reclutare imprese che garantiscano la sicurezza nazionale, ma sottratte alla trasparenza del libero mercato. Aggiungiamo a ciò l’assoluto disinteresse per i trattati internazionali, la nuova corsa alle armi, comprese le nucleari, la proliferazione di basi all’estero, soprattutto nelle regioni della “nuova Europa”, abbondano i motivi di preoccupazione e per chiederci dove siamo diretti. Un nuovo ordine mondiale, fondato sul multipolarismo apre spazi alla democratizzazione delle relazioni internazionali, al partneriato e a una cooperazione win-win. Le forze della pace dovrebbero evolversi, rafforzarsi e unirsi, al fine di fermare la globalizzazione di guerre, sfruttamento e povertà. Media di massa indipendenti sono chiamati a sostenere questi obiettivi e sforzi.

Kosovo-Metohija e Grande Albania: una nuova minaccia per i Balcani e l’Occidente. Come affrontarla?

La questione di Kosovo e Metohija può essere risolta soltanto rispettando i principi base del diritto internazionale. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 (1999) garantisce la sovranità e integrità territoriale della Serbia, che della Jugoslavia è il successore legale, e autonomia essenziale alla provincia di Kosovo e Metohija all’interno della Serbia. Premere sulla Serbia e perfino ricattarla, come fa l’Occidente, per legittimare il furto di territori dello Stato, significa caricare un potenziale conflitto di conseguenze incalcolabili. Questa problema non può essere affrontato solo dal punto di vista degli interessi geopolitici dei grandi paesi occidentali, nel quadro della loro “espansione ad Est”. Per una soluzione equa e sostenibile il processo negoziale deve includere anche Russia e Cina, vale a dire tutti i membri permanenti del CDS. Non dobbiamo dimenticare che vi sono molti “Kosovo” in lista d’attesa sul continente euroasiatico.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:50

COMMERCIANTI, PROF E ANCHE I RAGAZZI DI GRETA: TUTTE LE ALLEANZE DEL SÌ

https://www.lastampa.it/2019/04/07/cronaca/commercianti-prof-e-anche-i-ragazzi-di-greta-tutte-le-alleanze-del-s-doezGH64wArQumYPQiSFjM/pagina.html?lgut=1

E dal palco un ex operaio del cantiere di Chiomonte invita a fare in fretta. “Niente elemosine: il migliore ammortizzatore sociale è il lavoro”
REPORTERS
 
Pubblicato il 07/04/2019
FABRIZIO ASSANDRI CLAUDIA LUISE
TORINO

La prima volta è stata come un grido di liberazione: la società civile che si riscopre pronta a manifestare il suo sì alla Tav e a contrastare una visione di Torino ripiegata su se stessa. La seconda volta è stata il banco di prova che il fronte del sì – coagulato sul web dalle madamine e da Mino Giachino a cui si sono aggiunte imprese e sindacati – poteva convergere su un obiettivo superando anche le divisioni tra imprenditori e lavoratori.

Questa volta è stata una scommessa che non tutti pensavano si sarebbe potuta vincere. Invece ancora una volta la gente ha risposto all’appello e ha riempito il corteo da piazza Vittorio a piazza Castello. Con alcune differenze. Innanzitutto è stata una partecipazione meno spontanea, con più associazioni e sindacati dietro alle bandiere. Poi è mancata una presenza sostanziosa del mondo industriale, solo i costruttori hanno rappresentato Confindustria, con palloncini blu e la scritta Ance. Ma c’erano anche tanti giovani, poco presenti nelle altre due occasioni. Le madamine hanno dettato le parole d’ordine. «Non ci basta la mini-Tav: questo è un avviso ai naviganti – dice Maria Luisa Coppa dell’Ascom – cioè ai candidati alle regionali ed europee: se pensano altro, non vengano da noi».

In strada risuona l’inno di Mameli e l’inno alla Gioia. In via Po qualcuno butta un gavettone da una finestra. I sospetti vanno su quella a cui è appesa la bandiera del Che. La risposta della folla è sabauda: nessun insulto o grida. Si va avanti tra passeggini e cartelli in cui la mini-tav diventa un gioco da tavola «con analisi costi e benefici inclusa».

Ci sono i camionisti e gli ingegneri, ma anche persone del mondo della cultura, come la soprintendente Luisa Papotti, con adesivo Sì Tav sulla giacca. A distribuirli sono i volontari, come Enrico Pompili, dirigente di una società finanziaria in pensione e nonno. Ci sono professori universitari, come Carla Zotti, di Medicina, che con Lione ha lavorato a un progetto sulle infezioni ospedaliere. «Questi scambi devono essere facilitati anche dalle infrastrutture – dice – tra colleghi condividiamo un senso di immobilismo in cui siamo piombati». Per invertire la rotta, secondo Paolo Bertolini, presidente dei negozianti di via Roma:«Torino ha bisogno al suo interno di essere viva e attrattiva e di avere all’esterno collegamenti efficienti». A spingere la protesta è anche il no alla Ztl e alle Olimpiadi per una «decrescita infelice».

All’appello rispondono pure tanti «Greta boys», i ragazzi che ogni venerdì marciano per l’ambiente. Partecipano a titolo personale, perché il movimento «Fridays For Future» non si schiera, anche due degli organizzatori della marcia sul clima, Luca Sardo e Andrea Borello. Con loro ci sono due gemelli di 14 anni, Leonardo e Ludovico, che studiano al Galileo Ferraris, e Francesca – 16 anni – che a scuola ha fatto una ricerca sul Tav e sui benefici dei trasporti su rotaia.

Sul palco prende la parola Vincenzo Russo, ex operaio del cantiere di Chiomonte: «Il migliore ammortizzatore sociale è il lavoro, quello dignitoso, sicuro e retribuito degnamente. Ecco, ed io lo preferisco di gran lunga a qualsiasi tipo di elemosina». È disoccupato da quando i lavori alla Tav si sono interrotti. Corrado Alberto, presidente Api Torino, non trattiene l’entusiasmo. «Siamo tanti anche stavolta – dice – ora che ci siamo saldati proveremo ad andare avanti». Anche se, con le elezioni alle porte e Telt che ha pubblicato gli avvisi di interesse, è improbabile ci possano essere altre manifestazioni. Alberto, però, guarda avanti: «Sei mesi passano in fretta e allora il governo dovrà sciogliere i nodi. Non si potranno trovare altre scappatoie».

Sì Tav, Torino torna in piazza: 20mila partecipanti al corteo

https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-04-06/torino-torna-piazza-il-si-tav-110411.shtml?uuid=ABoxBplB

  • 06 aprile 2019

Sì Tav di nuovo in piazza, a Torino, per ribadire il sostegno alla Torino-Lione. I comitati civici e il mondo delle imprese e dei sindacati si ritrovano per la terza manifestazione dal 10 novembre, questa volta una marcia, organizzata dal comitato Sì Torino va avanti, dall’associazione Sì Tav Sì Lavoro e dall’ Osservatorio 21. Vi hanno aderito oltre 40 sigle del mondo produttivo e sindacale e sono presenti, dalle prima stime, 20mila persone.

“Ho massimo rispetto per tutte le manifestazioni, a Torino ce ne sono state per il sì e per il no. La mia posizione è nota, ora è stato deciso di dare mandato al presidente Conte di negoziare e di confrontarsi con la Francia e ho massima fiducia in lui”.

La sindaca di Torino ha poi aggiunto: “C’è un’analisi costi-benefici chiara, bisogna dare a Conte il tempo di confrontarsi”.

Il promotore dell’associazione Sì Tav Sì Lavoro deluso dalla partecipazione
“È stata una manifestazione importante ma sono dispiaciuto che la piazza non fosse piena come l’altra volta,
sarebbe stato meglio mantenere lo spirito della prima volta cioè la società civile, perché la Tav è un’opera troppo importante”.

Ad affermarlo il promotore dell’associazione Sì Tav Sì Lavoro Mino Giachino….”

Sì Tav, il corteo flop tra passerelle Pd e furbate politiche

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/04/07/si-tav-il-corteo-flop-tra-passerelle-pd-e-furbate-politiche/5092513/

In piazza – Lontani dai numeri di novembre, ieri a Torino erano in 15mila. Assenti Lega e Forza Italia: le elezioni sono troppo vicine
Sì Tav, il corteo flop tra passerelle Pd e furbate politiche

È stata una manifestazione importante, ma sono dispiaciuto che la piazza non fosse piena come a novembre. Sarebbe stato meglio mantenere lo spirito della prima volta, la società civile: la Tav è un’opera troppo importante”. 

Il commento di Mino Giachino, ex sottosegretario berlusconiano ai Trasporti e ora anima dei comitato piemontesi del Sì Tav, suggella il mezzo flop della manifestazione torinese di ieri mattina. I promotori, dallo stesso Giachino alle signore subalpine, le famose “madamine”, speravano di riportare in piazza, come era accaduto il 10 novembre scorso, dalle 20 alle 30 mila persone.

Al corteo che ha attraversato un pezzo della vecchia Torino, da piazza Vittorio a piazza Castello, invece erano poco più di 10-15 mila….

Forse non contenti, ma mandati comunque a dire due parole sul palcoerano i quattro che si sono esibiti nella loro onesta ingenuità convinti che il Tav sia la panacea per tutti i mali.

Come lo studente Guglielmo e la studentessa Marta, 23 anni, per la quale Torino “deve essere connessa al mondo con infrastrutture che devono stare al passo con il futuro, per non essere tagliati fuori dall’Europa”.

E come Vincenzo Russo, ex operaio al cantiere della Maddalena, a Chiomonte.

Per realizzare l’opera nei tempi previsti – ha detto – abbiamo sopportato grandi sacrifici, risparmiando soldi rispetto al preventivo. Abbiamo dato l’anima in quel posto. Il 31 maggio 2018 siamo stati tutti licenziati: io oggi sono ancora a casa. A me, che ho quattro figli, hanno insegnato che l’unico ammortizzatore sociale è il lavoro”….”

L’Articolo 17, … ossia il diritto dell’Italia di abbandonare il Progetto Torino-Lione

Comunicato Stampa

PresidioEuropa

Movimento No TAV

4 aprile 2019

www.presidioeuropa.net/blog/?p=19755

Torino – Lione

L’Articolo 17

… ossia il diritto dell’Italia di abbandonare il progetto Torino-Lione …

L’uscita dell’Italia dal progetto Torino-Lione è un diritto stabilito dall’Unione europea e un dovere sulla base delle constatazioni tecnico-economiche, come stabilito dal Regolamento CEF che mira ad accelerare gli investimenti nel campo delle reti transeuropee e a stimolare gli investimenti sia pubblici che privati nel rispetto del principio della neutralità tecnologica.

La decisione di programmare e di attuare il progetto “Torino-Lione” non vincola l’Italia ma dipende dalla sua capacità di finanziamento pubblico nonché dalla fattibilità socioeconomica del progetto, questo in sintesi il contenuto dell’Art. 17 del Regolamento CEF.

La Commissaria europea ai Trasporti Violeta Bulc lo sa bene, tanto che al termine di un breve incontro del 3 aprile scorso con alcune madamin businesswomen che sostengono il progetto Torino-Lione, ha cinguettato che “Le iniziative dei cittadini aiutano sempre a mantenere le questioni di trasporti sull’agenda politica”, con una inevitabile allusione alle cittadine e ai cittadini che sostengono la lotta No TAV da trent’anni.

Ricordiamo che Violeta Bulc ha dichiarato il 29 marzo scorso che “se il progetto non venisse attuato le risorse potrebbero andare perdute e reintegrate nel bilancio del CEF”, in applicazione nel principio use it or lose it.

L’uscita dell’Italia dal progetto è dunque un diritto stabilito dai Regolamenti europei e un dovere sulla base delle constatazioni tecnico-economiche.

Questo Rapporto Giuridico, redatto dal professor Sergio Foà, Ordinario di Diritto Amministrativo dell’Università di Torino, documenta come l’Italia possa abbandonare il progetto e descrive i possibili scenari in caso di mancato avvio dei lavori relativi alla fase definitiva del Progetto Torino-Lione, ossia lo scavo del tunnel di base di 57,5 km.

Sui rapporti tra Italia e Francia

Occorre subito sottolineare che Italia e Francia potrebbero dare il via alla realizzazione dei lavori definitivi (ossia lo scavo del tunnel di base) solo se esistesse la disponibilità finanziaria totale per realizzare l’intera opera. Questa è la prima condizione necessaria per l’avvio di ogni fase dei lavori fissata all’art. 16 dellAccordo di Roma 30.1.2012

Sappiamo che questa condizione non è soddisfatta, quindi i lavori non possono iniziare.

Inoltre, l’Allegato n. 2 dell’Accordo di Roma del 2012 ha indicato ai decisori politici che gli Stati si impegnano a ridurre gli effetti a carico delle finanze pubbliche, in parole povere non si deve realizzare un investimento senza “ritorno” come sarà la Torino-Lione.

Ecco il secondo principio che impedisce l’avvio del progetto definitivo.

Mentre il costo certificato e validato è definito nel protocollo addizionale all’Accordo del 2012 il progetto è posto sotto il controllo paritetico dei due Stati: TELT può dunque agire solo in base ad un’istruzione paritetica dei due Governi, come indicato all’art. 3 dell’Accordo di Roma del 2012 che al momento non è all’orizzonte.

Questo è il terzo fattore che impedisce l’avviamento dei lavori definitivi.

Sui rapporti con l’Unione europea

Il GRANT AGREEMENT del 25 novembre 2015, ossia la risposta alla Domanda di finanziamento alla Commissione Europea del 24.2.2015 di Italia e Francia (il cui accesso è stato negato dalla CE ai Deputati europei e ai  cittadini) ossia il contratto tra Italia, Francia e UE, e che riguarda solo opere da concludere entro il 2019 finanziate dalla Ue per un ammontare complessivo di € 813.781.900, prevede sanzioni amministrative solo in caso di grave inadempienza delle obbligazioni da parte dei beneficiari, che allo stato non esistono.

Le azioni in corso sono solo lavori geognostici, quelli definitivi contenuti nel Grant Agreement non potranno essere iniziati entro il 31 dicembre 2019 per il vincolo della messa a disposizione del progetto di tutti i fondi (ad oggi non disponibili) imposto dall’art. 18 dell’Accordo di Roma del 2012.

Ogni ritardo nel loro utilizzo non produrrà alcuna sanzione, ma solo la mancata erogazione dei fondi secondo il principio use it or lose it.

Sappiamo, ma dovrebbe saperlo soprattutto il Governo, che l’Unione Europea ha stabilito che sono gli Stati membri ad aver l’ultima parola su fare o fermare i progetti finanziabili in base a due criteri: la capacità di finanziamento pubblico e la fattibilità socio-economica.

Il Regolamento (UE) N. 1316_2013 CEF lascia infatti agli Stati membri la decisione di attuare i progetti secondo la “capacità di finanziamento pubblico” e la “fattibilità socio-economica” (art. 17 par. 3), così come prevista dall’art. 7, par. 2, lett. c) attraverso un’Analisi Costi Benefici per la sostenibilità socio-economica.

In conclusione, e alla luce di tali previsioni, gli Stati membri, che rimangono titolari del potere di decidere in ordine all’attuazione dei progetti secondo i criteri evidenziati, sono tenuti a dimostrare la capacità di finanziamento pubblico di ogni fase del progetto secondo l’Analisi Costi Benefici, se intendono proseguire nell’esecuzione del progetto.

Nel caso di conseguente revisione del progetto e dei suoi tempi di esecuzione

In questo caso non vi saranno penali, perché l’Unione europea non vincola gli Stati Membri nelle loro decisioni di programmazione. L’UE dovrebbe valutare la possibilità di modificare il Grant Agreement (tra gli Stati e INEA, per conto dell’UE) oppure, in difetto, potrà rimodulare il finanziamento o revocarlo nelle parti relative alle opere non eseguite.

Ci auguriamo che Italia e Francia abbiano fin qui sorvegliato con attenzione l’attività di TELT, perché ogni inadempimento di questa società rimane comunque imputabile agli Stati membri che l’hanno costituita nei confronti dell’UE, secondo i principi generali che la giurisprudenza europea afferma in materia di mancato utilizzo dei finanziamenti erogati.

Desideriamo inoltre rimarcare che, per quanto riguarda appalti di lavori affidati da TELT, la legge italiana prevede la rinuncia dell’aggiudicatario degli appalti a qualunque pretesa, anche futura, connessa all’eventuale mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi (Art. 2, co. 232 lett. c) legge n. 191 del 2009 (Finanziaria 2010) richiamata dal CIPE, con sua Delibera n. 67/2017. L’applicabilità della predetta normativa italiana ai rapporti contrattuali nascenti da procedure di gara regolate dalla legge francese discende dall’art. 3 della Legge di Ratifica 5 gennaio 2017, n. 1.

Conclusione

In conclusione, l’Italia dovrebbe giustificare politicamente e giuridicamente la necessità di rivedere gli impegni assunti in sede di Accordo con la Francia in ragione di due elementi:

  1. l’iniqua ripartizione dei costi, perché non basata sui km di proprietà del tunnel (Italia 12,5 km, Francia 45 km) ex art. 11 dell’Accordo del 2012 (Cfr. Torino-Lione: Ma quanto ci costi?

– infatti, l’impegno dell’Italia di finanziare il 57,9% dei lavori del tunnel di base (ex art. 18 dell’Accordo del 2012) è una iniqua contropartita finanziaria all’impegno, che la Francia ha già rinviato, di costruire a sue spese senza alcun finanziamento Ue una nuova linea ferroviaria di accesso al tunnel tra Lyon e Saint-Jean-de-Maurienne dotata di 33 km di tunnel a doppia canna, conformemente all’art. 4 del trattato dell’Accordo di Parigi 27 settembre 2011 senza questa contropartita della Francia, l’Italia non avrebbe avuto alcun interesse a sottoscrivere alcun impegno, dato che insistono sul suo territorio solo 12,5 chilometri sul totale di 57,5 chilometri del tunnel di base,

– è legittimo che l’Italia rifiuti di finanziare la costruzione del tunnel di base di 57,5 km più della Francia senza alcuna contropartita dato che le è richiesta una partecipazione finanziaria superiore a quella della Francia come contropartita.

  1. – la previsione italiana di lotti costruttivi non funzionali, parte dei quali non dispone ancora di copertura finanziaria (come risulta dalla stessa Delibera CIPE n. 67/2017, cit.).

Ama la Terra come Te stesso – INCONTRO DI STUDIO, APPROFONDIMENTO E CONDIVISIONE

Comunicato Stampa

Cattolici per la Vita della Valle

PresidioEuropa

Controsservatorio Valsusa

Il Grande Cortile

Movimento No TAV

4 aprile 2019

www.presidioeuropa.net/blog/?p=19488

http://cattoliciperlavitadellavalle.blogspot.com/

Città di Assisi

“Ama la Terra come Te stesso”

INCONTRO DI STUDIO, APPROFONDIMENTO E CONDIVISIONE

Sabato 6 e domenica 7 aprile 2019

Sala della Conciliazione

Palazzo comunale della Città di Assisi

L’incontro, che si presenterà nella forma del convegno aperto, intende avvicinare in modo costruttivo, cercando convergenze e possibili azioni comuni, la cultura laica e quella religiosa sulla sempre più pressante esigenza di salvaguardia del Pianeta e degli esseri viventi che lo abitano.

I relatori saranno chiamati a confrontarsi, tra loro e con il pubblico presente ai lavori, sulle più opportune azioni di contrasto ai cambiamenti climatici, sulla capacità dei Governi di avviarsi concretamente in questa direzione, sul peso che le regole dell’economia hanno su questa deriva ambientale, sugli effetti positivi che una nuova giustizia economica potrebbe portare all’ambiente, sul come l’Essere Umano con la sua cultura razionale e con la sua spiritualità possa intervenire su scelte che cadono su di esso sempre dall’alto, sulle correlazioni tra l’esigenza di pace e reciprocità tra Popoli e rispetto verso la Terra, intesa come parte del Creato.

Messaggio ispiratore di ogni intervento sarà l’enciclica “LAUDATO SI’” di Papa Francesco, attraverso la quale diverse scuole di pensiero potranno mettere a fuoco convergenze e distanze ancora da colmare.

Il Movimento No Tav, attraverso le sue aree di lavoro specifiche che hanno data corso a questa iniziativa, si identifica come portatore di queste tematiche sin dalle proprie origini.

La storica opposizione ad una linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lione ha visto coagulare tra loro esigenze fondamentali quali la tutela ambientale sul territorio, la legittima voce delle comunità coinvolte, la dignità e rispetto delle persone, calpestate con pesanti restrizioni di prerogative costituzionali, il rifiuto di modelli di sviluppo devastanti, la negazione dell’utilità di grandi opere infrastrutturali quando più fini a se stesse che a obiettivi di pubblica utilità, il rifiuto di politiche che in una perdurante stagnazione economica continuano a proporre modelli di crescita infinita, tanto improbabili quanto tangibilmente inefficaci.

Il NO alla più inutile, costosa ed obsoleta delle grandi opere è stato strumento per aprire gli occhi e guardare oltre, strumento che dalla Valle di Susa, ormai da decenni, si è condiviso ovunque, con movimenti di cittadini in Italia e in Europa.

L’orizzonte di osservazione che l’enciclica ha perfettamente individuato e trasmesso a milioni di persone è risultato in piena sintonia con la coraggiosa replica che sin dal 2006 il Movimento No Tav dovette opporre alla sprezzante definizione “nimby”, acronimo inglese di “Non nel mio cortile”.

La Valle di Susa si proclamò in diritto di difendere questo cortile-giardino-casa comune, rivendicandone un’ampiezza che riguardava tutti.

Non nel Nostro cortile perché è così grande che appartiene a tutti

ed è dovere di tutti custodirlo. L’evento rappresenta una tappa del ciclo culturale di incontri denominato “Grande Cortile” ed è promosso dai gruppi: Cattolici per la vita della Valle, Presidio Europa e Controsservatorio Valsusa del Movimento No Tav; la città di Assisi ne accorda il Patrocinio.

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PROGRAMMA

Sabato 6 aprile, a partire dalle ore 10.00

  • Accoglienza ed incontro con gli ospiti e relatori, accreditamento e individuazione delle tematiche più vicine alla sensibilità dei partecipanti.
  • Apertura Mostra ” IL GRIDO DELLA TERRA”, esposizione introduttiva all’Enciclica “Laudato si’ “

ore 14 – Sessione n. 1

Introduce Paolo Anselmo, valsusino, membro del gruppo Cattolici per la vita della valle

Coordina Luca Giunti, valsusino genovese, naturalista, membro delle Commissioni Tecniche del Movimento No Tav, dell’Unione Montana Valle Susa e dell’amministrazione comunale della Città di Torino.

Stefania Proietti, sindaca di Assisi, Carbon Trader Specialist, delegata CEI per i temi ambientali presso il Consiglio dei Vescovi d’Europa. Interverrà su San Francesco e il suo rapporto con la città e riferirà sull’allarme lanciato dalle Nazioni Unite in merito ai cambiamenti climatici e il relativo ruolo che ad esse compete.

Don Ermis Segatti, di Torino, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale; tra i suoi scritti: Tendenze del rinnovamento teologico in India, 1999; Contemporary Philosophy and Catholic Theology, 2014; Cristiani fra molte fedi. Verso una nuova cattolicità, 2018. Interverrà sul pensiero del filosofo e teologo Raimon Panikkar, soffermandosi sui termini: ‘“Ecosofia”, per indicare la saggezza di chi sa ascoltare la Terra e agire di conseguenza; e “Cosmoteandrismo”, per descrivere la visione della Realtà che si sviluppa nelle tre dimensioni: divina, umana, cosmica.

Gianna De Masi, di Rivoli (TO), Controsservatorio Valsusa. La sovrapponibilità tra questione sociale e questione ambientale e l’aggressione agli equilibri del pianeta costituiscono una chiave di lettura dell’attuale modello di società che, disegnato sulle esigenze dei più forti, ricaccia e lascia indietro i più deboli, allontanando la convivenza civile e pacifica.

Guido Viale, di Milano, giornalista, economista, scrittore e cofondatore dell’Associazione Laudato Si’ – Un’alleanza per il clima e la giustizia sociale

PAUSA LAVORI

Herbert Anders, di Roma, pastore della Chiesa Evangelica Battista, curatore e co-autore di Equomanuale, manuale per una spiritualità della giustizia economica

Enrico Gagliano, di Giulianova (TE), del Coordinamento Nazionale “No Triv”, tra gli estensori del referendum abrogativo del 2016 sulla durata delle concessioni per estrarre idrocarburi in zone di mare, ha svolto docenze in materia di politiche energetiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo. Interverrà su  “Dalla conversione interiore della donna e dell’uomo alla riconversione ecologica dell’economia”

Fra Beppe Giunti, francescano di Torino, già docente alla Facoltà Pontificia San Bonaventura di Roma, formatore in cooperative sociali. Interverrà su “Tu sei bellezza: sviluppo e armonia del creato”

Domenica 7 aprile, ore 9.00 – Sessione n. 2 

Coordina Tiziano Cardosi, nonviolento fiorentino, attivista nei movimenti contro la guerra e contro le grandi opere inutili
Alberto Ziparo, Università di Firenze, urbanista territorialista. Interverrà su: “La riscoperta del Belpaese per il risanamento e la valorizzazione autosostenibile dei contesti territoriali italiani”.

Giannozzo Pucci, di Firenze, amico dei principali ispiratori del movimento ecologista, direttore della Libreria Editrice Fiorentina e di Ecologist Italia, autore del libro “La rivoluzione integrale”.

Elisabetta Forni, di Torino, sociologa urbana e dell’ambiente, già docente alla Facoltà di Architettura del Politecnico, impegnata sui temi della giustizia spaziale e della sostenibilità sociale dei modelli urbani e territoriali, interverrà su: crisi irreversibile del paradigma capitalistico, catastrofe ambientale, i conflitti sociali che ne derivano e cosa ci sta insegnando il caso TAV Torino-Lione per la nascita di un nuovo paradigma ecosistemico.

Mons. Vittorio Peri,  di Assisi, Vicario episcopale per la Cultura. Interverrà su: “Posti nel giardino di Eden per coltivarlo e custodirlo” (cf Gen 2,15).

Maria Luisa Boccacci, di Rieti, Comunità Laudato si’, movimento di pensiero e azione impegnato a diffondere le idee e le pratiche dell’enciclica di papa Francesco promosse dalla Chiesa di Rieti e Slow  Food.

Adriano Sella, di Vicenza, missionario laico del creato. In Amazzonia è stato coordinatore della Commissione Giustizia e Pace e delle Pastorali Sociali, accompagnando e sostenendo l’impegno delle comunità ecclesiali di base e dei movimenti sociali. Attualmente è promotore della Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita

DIBATTITO FINALE e CONCLUSIONI

Termine previsto Sessione n. 2 ore 13.00

LE NOUVEAU MONDE GEOPOLITIQUE ET GEOECONOMIQUE DESSINE PAR PEKIN ET MOSCOU (REGARD SUR LES ‘NOUVELLES ROUTES DE LA SOIE’)

 

LM DAILY / COMPLEMENT Nrs-I

Série spéciale “Nouvelles Routes de la Soie”/

2019 04 03/

LUC MICHEL (ЛЮК МИШЕЛЬ) & EODE-TV

COMPL.LM.GEOPOL - série NRS I (2019 04 03)

« Je terminerai simplement par une réflexion qui paraphrasera celle de Marx au XIXe siècle : Le grand Marx disait que « les philosophes jusque-là avaient interprété le monde et qu’il était temps qu’ils changent désormais le monde » … J’affirme aujourd’hui que la géopolitique offre au monde la seule vision pour le changer. Les géopoliticiens doivent aujourd’hui jeter les fondations de ce nouveau monde ! »

– Luc MICHEL (Symposium des Partisans du Livre Vert,

Tripoli, octobre 2009).

PRESS TV, la télévision iranienne internationale francophone, m’interrogeait en mai 2017 sur le nouveau monde de demain qui s’esquisse à Pékin et à Moscou. L’unification eurasiatique « de Vladivostok à Lisbonne », les « nouvelles routes de la Soie » ou encore « l’Axe Eurasie-Afrique » sont mes sujets de prédilection. Parce qu’eux seuls peuvent changer le monde …

* Voir sur LUCMICHEL.ORG-TV/

DOSSIER NOUVELLES ROUTES DE LA SOIE (I):

LUC MICHEL.

LE NOUVEAU MONDE GEOPOLITIQUE DESSINE PAR PEKIN & MOSCOU

sur https://vimeo.com/328111953

Le commentaire de PRESS TV :

« La Chine a organisé récemment un sommet de deux jours consacré au projet des nouvelles Routes de la soie. Le projet est titanesque il englobe 68 pays représentant 4,4 milliards d’habitants et 40 % du PIB mondial, remarque CNN. Ceci peut être une révolution dans le monde géopolitique et géoéconomique et pourrait changer le rôle et la puissance des pays influents dans le monde. Qui seront les nouveaux acteurs de ce monde dessiné par Pékin et Moscou? Écoutons l’analyse de Luc Michel, géopoliticien.»

# LES ANALYSES DE REFERENCE SUR

LUC MICHEL’S GEOPOLITICAL DAILY:

* REGARD SUR LES ‘NOUVELLES ROUTES DE LA SOIE’ (I):

LE GRAND PROJET UNIFICATEUR DE XI JINPING QUI BOULEVERSE LES LIGNES GÉOPOLITIQUES

Sur http://www.lucmichel.net/2019/03/25/luc-michels-geopolitical-daily-regard-sur-les-nouvelles-routes-de-la-soie-i-le-grand-projet-unificateur-de-xi-jinping-qui-bouleverse-les-lignes-geopolitiques/

* REGARD SUR LES ‘NOUVELLES ROUTES DE LA SOIE’ (II):

LES ROUTES AFRICAINES. DE L’AXE EURASIE-AFRIQUE A L’UNIFICATION DE L’AFROEURASIE

Sur http://www.lucmichel.net/2019/03/27/luc-michels-geopolitical-daily-regard-sur-les-nouvelles-routes-de-la-soie-ii-les-routes-africaines-de-laxe-eurasie-afrique-a-lunification-de-l/

* COMMENTAIRES SUR LE CONCEPT D’« AXE EURASIE-AFRIQUE »

Sur http://www.lucmichel.net/2019/03/29/luc-michels-geopolitical-daily-commentaires-le-concept-d-axe-eurasie-afrique/

* REGARD SUR LES ‘NOUVELLES ROUTES DE LA SOIE’ (III):

JUSQUE L’ATLANTIQUE ! COMMENT ARRIMER L’UNION EUROPEENNE A L’EURASIE …

Sur http://www.lucmichel.net/2019/03/30/luc-michels-geopolitical-daily-regard-sur-les-nouvelles-routes-de-la-soie-iii-jusque-latlantique-comment-arrimer-lunion-europeenne-a-leura/

LUC MICHEL (ЛЮК МИШЕЛЬ) & EODE

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* Avec le Géopoliticien de l’Axe Eurasie-Afrique :

Géopolitique – Géoéconomie – Géoidéologie – Géohistoire –

Géopolitismes – Néoeurasisme – Néopanafricanisme

(Vu de Moscou et Malabo) :

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