MILOSEVIC, ULTIMA INTERVISTA PRIMA DELL’ARRESTO

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MERCOLEDÌ 10 APRILE 2019

Molti, dopo l’ultimo mio post sul XX anniversario dell’aggressione Nato alla Serbia, mi chiedono di ripubblicare l’intervista che feci a Milosevic, nella sua abitazione, pochi giorni prima del suo arresto e del successivo trasferimento nel carcere dell’Aja. Eccola. 
L’intervista fu rifiutata da “Liberazione”, con il pretesto che avrebbe “appiattito il giornale e il partito(PRC) su Milosevic“. La pubblicò poi il Corriere della Sera. E’ lunga, ma ne vale la pena ed è  per la Storia.

MILOSEVIC, ULTIMA INTERVISTA PRIMA DELL’ARRESTO IL 29 MARZO 2001

(25 marzo 2001)

Di FULVIO GRIMALDI

L’appuntamento con Slobodan Milosevic ricorda quelli che ho avuto
ripetutamente con Yasser Arafat: assoluta incertezza sul luogo e sui
tempi dell’incontro fino alle 19 di venerdì sera, mentre mi accingevo a
partire per Kragujevac per intervistare i dirigenti del sindacato di
sinistra che hanno appena registrato una sorprendente, schiacciante
vittoria sul sindacato vicino al nuovo potere, nelle elezioni per il
rinnovo dei dirigenti sindacali della fabbrica automobilistica
Zastava.  In quel preciso momento arriva l’ex.ministro degli esteri e
oggi vicepresidente del Partito Socialista Serbo, Zivedin Jovanovic,
del quale pure era stato annunciato l’arresto, poi smentito, insieme a
quello, effettivo, di otto alti dirigenti del partito. Vengo portato di
gran carriera alla residenza dell’ex-presidente e nel tragitto
Jovanovic esprime il timore che tutti questi arresti e una feroce
campagna contro Milosevic, allestita dal movimento giovanile del
premier Zoran Djindjic, le “Camicie Nere”, insieme all’organizzazione
Otpor, rivendicata dagli USA come proprio strumento insurrezionale,
stiano cercando di fare il vuoto intorno a Milosevic, in vista
dell’arresto entro il 31 marzo, intimato da Washington pena il rifiuto
di qualsiasi finanziamento e il mantenimento delle sanzioni.
Passati per la cancellata  della residenza, nella periferia di
Belgrado, attraversiamo un ampio parco, fortemente illuminato e
presidiato da militari dell’esercito e da carri armati che mi  dicono
posti a difesa di Milosevic, contro un qualche colpo di mano che voglia
arrivare alla sua cattura.
Sull’uscio di un fabbricato a un piano, l’ex-presidente jugoslavo mi
viene incontro e mi saluta con cordialità. Vengo introdotto in un ampio
salone di stile neoclassico, con al centro tre divani a ferro di
cavallo. Milosevic si siede su quello centrale, con me e Jovanovic ai
due lati. Chiede di non utilizzare apparecchi di registrazione e
insiste che questa è una conversazione e non un’intervista. Ma mi
consente di pubblicarla.
Slobodan Milosevic, 60 anni, appare più giovane e più vigoroso di
quanto non risulti nelle foto o in televisione. Non da l’impressione di
un uomo sconfitto e piegato, magari impaurito. Si esprime con la stessa
spontanea e tranquilla sicurezza che lo avevano caratterizzato in altre
occasioni. Apparentemente animato da  ottimismo, esprime i suoi
ringraziamenti a tutti coloro che, nel mondo, manifestano solidarietà
alla Jugoslavia, ne sostengono la sovranità  e integrità e condannano
sia l’aggressione Nato, sia la richiesta di Carla del Ponte e degli USA
di consegnarlo al tribunale internazionale dell’Aja, da Milosevic
definito il “braccio illegale della Nato” e “uno strumento per
perpetuare il genocidio della Jugoslavia”. A questo proposito, l’ex-
ministro Jovanovic illustra un forte scontro in corso tra il premier
serbo Zoran Djindjic, definito l’uomo dei servizi tedesco-americani, e
il presidente Vojislav Kostunica. Verterebbe sui vertici delle forze
armate, apparentemente ancora fedeli all’ex-presidente (che però ne
avrebbe sempre voluto inibire l’intervento contro il nuovo potere), che
Djindjic starebbe sostiutuendo  con uomini di sua fiducia. Alla mia
prima domanda sulla possibilità di un arresto di Milosevic, sia
Jovanovic che l’ex-presidente si dicono fiduciosi in una risposta di
massa. Jovanovic parla addirittura di possibile guerra civile,
specialmente se Djindjic dovesse decidere di consegnare Milosevic nelle
mani del Tribunale dell’Aja, un tribunale squalificato non solo agli
occhi dei sostenitori del vecchio governo,  ma visibilmente
inaccettabile per gran parte della popolazione che, pur schierandosi
contro colui che per dieci anni è stato presidente della Serbia e della
Jugoslavia, resta critica dei bombardamenti Nato e di quello che viene
visto come uno strumento legale per rovesciare sui serbi la
responsabilità di quanto hanno subito, in termini di smembramento,
danni e uccisioni, i popoli jugoslavi, nonché per evitare qualsiasi
richiesta di risarcimento e di bonifica dei territori contaminati dalla
chimica e dall’uranio.
La conversazione, dominata da Milosevic e che mi lascia poco spazio per
le domande, scivola subito su quella che, non essendovi ancora state
avvisaglie di un tentativo di cattura del capo socialista, appare come
la questione più bruciante: gli attacchi dei “terroristi” UCK in
Macedonia e Serbia del Sud. “E’ in corso”, dice con gravità
Milosevic, “una enorme manovra di destabilizzazione del Sud-Est
europeo. I terroristi dell’UCK vengono utilizzati dagli USA in funzione
antieuropea ed antibalcanica con il miraggio della “Grande Albania”. In
stretta collaborazione con il regime turco, uno dei massimi
finanziatori degli albanesi, si stanno attivando, sotto la direzione
UCK e con la copertura politica di Rugova, tutte le minoranze albanesi
nei paesi balcanici: Serbia del Sud, l’intera Macedonia e presto anche
Bulgaria e Grecia, dove vivono forti comunità albanesi (800.000 in
Grecia). In Romania, invece, vengono istigate alla rivolta le minoranze
ungheresi. Lo scopo strategico è di mantenere in permanente subbuglio
l’intera area, contro l’interesse europeo ad una stabilizzazione, in
particolare per contrastare le tendenze anti-Nato forti in Grecia e in
crescita in Bulgaria e Romania e per assicurare ampi territorio al
controllo della criminalità narcotrafficante diretta dall’UCK.
L’approccio politico è ancora una volta inteso a sfruttare le
differenze etniche”.
Chiedo al mio interlocutore se non ritenga che anche il precedente
governo jugoslavo non abbia la sua parte di responsabilità in questa
frammentazione lungo linee etniche, religiose, linguistiche, culturali
e per il  controllo delle rotte delle risorse energetiche. Milosevic
risponde con fervore: “La Federazione jugoslava, con la sua convivenza
pacifica, era un modello di Unione Europea, fino a quando non sono
entrate in gioco le trame del’imperialismo tedesco ed americano Viveano
in pace  popoli di diversa cultura, storia, confessione. Vivevano in
armonia da 80 anni. In Jugoslavia non si chiedeva a nessuno di che
razza o nazionalità fosse. La rottura è venuta quando da fuori si sono
istigati gruppi di potere con la promessa di grandi privilegi personali
e di elite. Quanto alla popolazione croata, per esempio, come si
sarebbe potuto convincerla della bontà di una frantumazione, quando
tantissimi croati vivevano in Bosnia, in Serbia e in Kosovo? Lo stesso
valeva per i serbi, a cui invece è poi stata negata
l’autodeterminazione, e per i musulmani. Non era nell’interesse
nazionale di nessuna di queste comunità  arrivare a una divisione e
contrapposizione.”
“Anche la Germania e gli USA hanno un sistema federale”.
“Già, ma nessuno per ora ha cercato di mettere il dito in quei
matrimoni. Quello degli Stati Uniti, del resto, è un sistema federativo
obsoleto e che presto andrà in forte crisi perché riconosce solo
geometriche divisioni geografiche e non le diverse comunità etniche,
culturali, linguistiche, sociali. Di fatti è un sistema che non sa dare
risposta alle sacrosante richieste dei latinos, dei neri, dei nativi,
degli italiani, dei poveri. Si tratta di comunità emergenti che
vorranno essere riconosciute. Tanto che Bush ha sentito il bisogno di
rivolgersi in spagnolo agli immigrati latinos. Dovrebbe essere un
principio di riconoscimento delle comunità etniche e sociali. E’ la
dimostrazione che tutti esigono un nuovo codice, una nuova formula di
convivenza. E di questi la Jugoslavia era un esempio. Anche questo
spiega perché è vista come nemica dai poteri attuali”
A Belgrado, nei giorni precedenti, si era svolto un convegno
internazionale convocato dal Forum di Belgrado, una coalizione delle
sinistre jugoslave, nel secondo anniversario della guerra. Da molti
paesi, Stati Uniti, Germania, Russia, Palestina, Iraq, Libia, Grecia,
Italia e altri paesi erano venute delegazioni ad esprimere solidarietà
a questo paese. Milosevic ne è apparso molto incoraggiato: “Gli
italiani che ci hanno visitato durante la crisi, tra i quali Cossutta e
molti politici di paesi europei,  ci hanno fatti chiaramente capire che
i loro paesi non sono indipendenti. Al popolo italiano non è stato
neanche chiesto se volesse una guerra. Se ne è parlato informalmente in
Parlamento. E’ la prova che la Nato non è un’alleanza tra uguali, ma
una macchina da guerra che si trascina dietro tutto l’Occidente. I
popoli vengono sopraffatti e assistono inermi alla distruzione di
ospedali, scuole, treni e autobus pieni di civili in un paese amico e
inoffensivo”
Poco prima del mio arrivo, Milosevic aveva dato un’intervista al
quotidiano israeliano Haaretz. Ne cita qualche osservazione ribattendo
all’affermazione di Kostunica secondo cui ci sarebbero similarità tra
il Kosovo e Gerusalemme, entrambi aggrediti dai musulmani: ” E’
un’interpretazione aberrante e razzista. Le similarità sono altre, sono
quelle tra genocidio dei serbi e genocidio degli ebrei e, ora,
genocidio dei palestinesi. I mezzi sono differenti: non più camere a
gas, ma una scientifica satanizzazione dei nemici attraverso i media.
Si tratta di anestetizzare la sensibilità pubblica di fronte al
massacro di civili e all’embargo.” Nelle parole di Milosevic si
inserisce una punta di indignazione e il suo gesticolare si fa ampio e
veloce: “Ci hanno lasciato un esercito assolutamente integro, ma hanno
fatto stragi di civili, bambini, infrastrutture: 88mila tonnellate di
esplosivo e di uranio sulle teste degli jugoslavi. Siamo l’unico popolo
che sia stato bombardato in Europa dopo la seconda guerra mondiale. E
con un’arma criminale e genocida come l’uranio. Queste sono le
analogie!”
Sottopongo a Milosevic una questione che dovrebbe risultare
inquietante: la mancata o debole solidarietà manifestatagli nel mondo
da parte della maggioranza delle sinistre, anche di quelle che si
dicono contrarie all’egemonia Nato. L’ex-presidente assume
un’espressione amareggiata e punta ancora una volta il dito sui mezzi
d’informazione che, in questa occasione, avrebbero perfezionato agli
ordini del supremo potere politico-economico-militare USA, salvo poche
eccezioni, un meccanismo quasi perfetto di narcotizzazione: “Un
meccanismo fondato sull’inganno che, dunque, ha abolito la democrazia
sostanziale in America e in Europa. Si sono vendute menzogne anziché
verità. E’ incredibile: adesso non hanno più nessuno scrupolo ad
ammettere di non aver trovato tracce di una pulizia etnica fatta dai
serbi in Kosovo (mentre loro ne hanno protetto una dell’UCK), che le
foto di presunti campi di concentramento serbi erano un fotomontaggio,
che i duecentomila stupri erano secondo l’.ONU, tra tutte le parti e in
tutta la guerra, solo 300, che non si sono trovate le fosse comuni. A
che servono le istituzioni democratiche e la libertà se tu, governo,
non diffondi che bugie? Una democrazia non è possibile senza la verità.
Le istituzioni diventerebbero delle  vuote quinte”.
Poi Milosevic mi ha invitato a confrontare il pluralismo dei media (e
dei partiti) esistenti in Jugoslavia, perfino durante la guerra , con
la granitica omologazione della stampa in Occidente.
“Ma voi alcuni dei media d’opposizione li avete chiusi.” A questo punto
si inserisce nella conversazione il vicepresidente del PSS, Jovanovic:
“Per brevissimo tempo, quando in piena aggressione incitavano il popolo
a liberarsi con la violenza del governo ed era stato provato che
venivano diretti e finanziati dalla CIA. Agivano da quinta colonna e
istigavano alla sovversione violenta. Qualsiasi governo avrebbe reagito
in quel modo. Anzi, da noi, pure in guerra, non c’era neanche la
censura e a Belgrado 4 quotidiani su 6 ci attaccavano
sistematicamente”.
“Presidente. Una domanda che molti dei suoi denigratori considereranno
provocatoria. Cuba, col suo partito unico resiste da oltre 40 anni. Non
c’è stato da voi un eccesso di democrazia, visto che l’opposizione se
la sono potuta comprare gli americani?”
“E chi lo può dire. Io alla democrazia ci tengo. Se non è democrazia il
fatto che ci fossero i partiti d’opposizione e il 95% dei mezzi
d’informazione erano in mano loro… Non hanno mai subito censure. In
Kosovo c’erano 20 giornali albanesi che tuonavano contro il governo.
Non sono mai stati chiusi. Da noi non c’è mai stato un priginiero
politico e ora questi concedono l’amnistia a terroristi, tagliagole,
infanticidi. E così che si difene il Sud della Serbia aggredito? Da noi
tutti potevanol avere il passaporto, Rugova teneva conferene stampa al
centro di Belgrado attaccandomi a morte. Mai nessuna vessazione,
nessuno ucciso. Eppure mi hanno accusato di omicidi quando in 12 anni
nessun oppositore è stato ucciso. Sono stati invece uccisi i miei
migliori amici. Se potessero mi darebbero anche la responsabilità
dell’uccisione di Moro o di Kennedy. Ma le bugie hanno le gambe corte.
Mi hanno accusato di crimini di guerra e il giorno prima hanno lanciato
le foto satellitari delle fosse comuni. C’è stata una rivolta di 22
mesi in Kosovo, e non hanno trovato che una fossa comune, piena di
serbi. Questo tribunale dell’Aja e le sue bugie non sono che una parte
del meccanismo di genocidio del popolo serbo, mascherato con una
spruzzata di croati e musulmani. Del resto, la Del Ponte era coinvolta,
nella Commissione Europea, in un gravissimo scandalo. Poi  l’hanno
fatta procuratore all’Aja”.
Sottopongo a Milosevic l’osservazione di molti, secondo cui lui sarebbe
stato a un certo punto “l’uomo degli americani”. L’ex-presidente
respinge con veemenza la definizione: “Mai. Semmai ho trattato con gli
americani finchè appariva che volessero salvaguardare l’unità della
Jugoslavia, o almeno di quanto rimaneva dopo le secessioni di Croazia
e  Bosnia. Del resto i continui ricatti e strangolamenti del FMI, cui
ci siamo dovuti piegare fino a un certo punto per le condizioni
terribili in cui le secessioni e le sanzioni avevano gettato il nostro
paese, raccontano un’altra storia. Gli USA devono rendersi conto che
non è possibile avere la democrazia in casa propria e sottomettere
altri popoli. E’ una contraddizione in termini. Posso capire che gli
Stati Uniti, il paese oggi più potente e ricco, abbia l’aspirazione a
fare da leader della squadra. Ma due anni fa ho detto a Holbrooke
(inviato di Clinton.Ndr.), quando ci minacciava: avete sbagliato
millennio, non il secolo. Potevate essere i capisquadra lanciando un
grande progresso per il benessere, la diffusione delle tecnologie,
della giustizia, della democrazia. La vostra ossessione di dominio e di
profitti vi  porta invece a uccidere gente e piccole nazioni, come
Giulio Cesare 2000 anni fa. Il vostro è un comportamento cesarista:
comico se non fosse tragico. Per voi esiste solo la vostra economia di
mercato che produce, accanto a straordinari profitti per pochi,
diseguaglianze e sfruttamento. La vostra massima legge nella conquista
del mondo è abbassare il costo del lavoro. Siete portatori di un nuovo
schiavismo.”
Chiedo a Milosevic se non abbia registrato, nei mesi dopo la sconfitta
e la pulizia etnica dell’UCK contro le minoranze in Kosovo ,
riconosciuta se non condannata da tutto il mondo, un mutamento
dell’opinione pubblica interna ed internazionale. “Per fortuna”,
risponde Milosevic, mentre sul tavolino si ammonticchiano caffè,
bibite, tè portati da un militante del partito, “non siamo in Uganda ma
in Europa, dove, nonostante la marcia blindata della stampa, si stanno
aprendo spiragli alla presa di coscienza. Lo noto soprattutto tra gli
albanesi che, in numero enorme, sono fuggiti dal Kosovo in Serbia.
Holbrooke mi disse chiaro e tondo: “Non ce ne importa niente degli
albanesi”. Ebbene, a noi serbi, gli albanesi stanno a cuore, sono
nostri cittadini. Gli ho anche posto una domanda cui non ha risposto:
quali interessi mai potete avere voi, USA, a un’alleanza con terroristi
e trafficanti di armi, droga, organi, che a un certo punto non saprete
più controllare?”
Faccio a Milosevic l’obiezione che tante volte è stata sollevata in
Occidente: l’abolizione dell’autonomia del Kosovo. La risposta è
tecnica. Non ci sarebbe mai stata una tale abolizione. Nel 1989, dopo
numerosi pogrom antiserbi, al Kosovo si sarebbe tolta la facoltà di
paralizzare la federazione con un diritto di veto che una provincia
poteva imporre alle altre provincie autonome,  alle repubbliche e,
addirittura, all’intera federazione. Nel discorso che Milosevic tenne a
Kosovo Polje, giudicato di un nazionalismo esasperato, l’allora
presidente avrebbe invece sollecitato all’uguaglianza  e al rispetto
tra tutti i popoli della federazione. E mi cita le parole testuali del
discorso.

Alla conversazione  non può sfuggire l’antefatto principale della
guerra: Rambouillet e un accordo che prevedeva, come ammesso dallo
stesso Dini più tardi, l’occupazione  dell’intera Jugoslavia da parte
delle forze Nato, a la loro sottrazione alla giurisdizione della
magistratura federale. Racconta Milosevic: “Durante i negoziati di
Rambouillet, il generale Wesley Clark  è andato ripetutamente con
Hashim Thaci, leader dell’UCK, nei ristoranti parigini. Eppure tutti
sapevano che Thaci aveva per ufficiali pagatori i narcotrafficanti
albanesi. Cosa ne poteva venire di positivo al popolo americano? Di
intese con la mafia si può avvantaggiare solo un profitto economico
senza scrupoli. Ma quell’intesa continua a funzionare e a produrre
disastri nei Balcani”.
Milosevic, sul quale di lì a poco si abbatterà la resa dei conti
finale, non da l’impressione di un uomo braccato, in cerca di una
qualsiasi via d’uscita per sé e per la famiglia. Anzi, del suo destino
personale non parla mai. Crede nella possibilità di una resistenza che
si svilupperà e che trarrà impulso dalle sempre più disastrose
condizioni della popolazione. In effetti, la Belgrado di oggi, tuttora
sottoposta ad embargo, salvo per il petrolio, appare più spenta, cupa,
desolata di quella del tempo di guerra e del dopoguerra. L’inflazione
galoppa al 100%. Secondo dati dei ricercatori scientifici, taciuti o
minimizzati dalle autorità, le patologie da contaminazione chimica e
radioattiva dilagano. A Pancevo, l’Istituto dell’Igiene del Lavoro
denuncia un  buon 80% della popolazione adulta affetta da tumori,
linfomi e malattie connesse all’inquinamento.

Su una possibile risposta di lotta ai vincitori delle elezioni
presidenziali, Milosevic dice:”Quella che conta, nella vita delle
nazioni, è resistere. Il complotto antijugoslavo sta diventando
visibile. Guardate ai fatti semplici della storia. Nell’ottobre del
1997 c’è il vertice sudeuropeo a Creta. C’eravamo tutti e tra tutti si
era stabilito un ottimo accordo. Avevo anche suggerito un’area di
libero scambio sudeuropea, senza dogane. In un’economia di mercato, pur
con le nostre irrinunciabili salvaguardie dei lavoratori (la legge che
garantiva ai lavoratori delle industrie privatizzate il 60% delle
quote. Ndr), ogni paese avrebbe avuto spazi più ampi di manovra,
mercati più vasti. Un’ottima soluzione anche prima di un ingresso
nell’UE. Per gli americani era una minaccia. Anche Fatos Nano, il
premier albanese, era d’accordo per l’apertura delle frontiere alle
persone, alle merci, alla normalizzazione. Mi disse: il Kosovo è un
problema interno della Jugoslavia, non negoziabile. Nel sud-est le cose
si sarebbero potute risolvere in pace e cooperazione. E’ stato un forte
segnale d’allarme per i destabilizzatori e un mese dopo il ministro
degli esteri francese, Hubert Vedrine, espresse gravi preoccupazioni
per la sorte del Kosovo. Perché, se non era preoccupato neppure Fatos
Nano? E subito dopo la Germania si mette ad organizzare e armare i
gruppi criminali. Nel 1988 iniziano a sparare a poliziotti, forestali,
magistrati, postini, bombe nei caffè, nei mercati. Abbiamo reagito come
tutti avrebbero fatto. Alla fine del ’98 l’UCK era finito. In TV si
vedevano camionate di armi UCK consegnate alla polizia. Ma arriva
Holbrooke e insiste sulla spedizione di personale armato. Rifiutai
ovviamente e ci accordammo sulla missione di osservatori dell’OSCE,
solo civili. Appena Holbrooke ametteva che il problema era risolto, il
giorno dopo lo riapriva: erano arrivate nuove istruzioni da Washington.
Ma in Kosovo tutto restava calmo, alla presenza di 2000 osservatori
Osce, centinaia di membri della Croce Rossa, giornalisti, diplomatici.
Poi il criminale William Walker (capo dell”OSCE. Ndr) si inventò la
strage di Racak, successivamente smentita da tutti gli investigatori.
Fu il pretesto per Rambouillet e per l’aggressione. Quando il nostro
giurista Radko Markovic definì il diktat “spazzatura”, James  O’Brian,
assistente della Albright, si inalberò: “Come può dirci questo? Non si
rende conto che il testo è stato preparato da colui che ha elaborato il
testo per l’indipendenza tibetana?” Ho detto tutto.”
Chiedo a Milosevic se anche la distruzione della Jugoslavia faccia
parte del processo di globalizzazione. “La distruzione del mio paese è
la dimostrazione che non esiste la globalizzazione, ma solo un nuovo
colonialismo. Se si trattasse di vera globalizzazione, cercherebbe
l’integrazione, su basi di parità, di popoli, culture, religioni. Si
sarebbe preservata la Jugoslavia, che aveva messo in atto la formula
migliore. Se le nazioni, gli stati, i popoli fossero trattati da
soggetti pari, non conquistati, stuprati, se il mondo non dovesse
appartenere a una minoranza ricca, che deve diventare più ricca mentre
i poveri diventano più poveri, si avrebbe la giusta globalizzazione.
Non si è ma vista una colonia svilupparsi e conquistare la felicità. Se
si perdono l’indipendenza e la libertà, tutte le altre battaglie sono
perse. Gli schiavi non prosperano”.
“Eppure a condurre la guerra sono stati i governi di sinistra,
socialdemocratici, europei”.
“La disinformazione e manipolazione sono purtroppo penetrati anche
nelle sinistre, dato che oggi in Europa abbiamo solo sinistre false.
Blair, Schoreder, Jospin, D’Alema sono forse di sinistra? Perché Kohl è
stata rimosso  con il solito sistema degli scandali? Perché rifiutava
di sottomettere la Germania totalmente al controllo USA. Questi qua,
invece, sono disposti a fare da sciuscià. Gli USA sono penetrati nelle
loro strutture politiche e dunque mediatiche. Sono state
paradossalmente le sinistre a bombardarci. Con i greci di Mitsotakis,
per esempio, c’era un’intesa più rispettosa che con l’amerikano
Papandreu. Quanto agli italiani, ho poco da dire. Non si sono molto
adoperati per avere un dialogo con noi. Sono rimasti nell’ombra”
Chiedo a Milosevic giudizi su paesi e personaggi in qualche misura
all’orizzonte della crisi jugoslava. “La Cina? Ci sostiene
discretamente e indirettamente, ma si occupa dei fatti suoi. I cinesi
sono calmi e pazienti. Dicono di aver bisogno di cent’anni per
competere con le potenze imperiali. La Russia è stata distrutta
dall’amerikano Gorbaciov. Ingenui i russi se pensavano che la
devastazione si sarebbe fermata ai loro confini. Ora, forse, c’è
qualche segnale di ripresa. Ramsey Clark, l’ex-ministro statunitense
della giustizia  e leader dei diritti civili, è un grande combattente
per la pace. Quando iniziò la guerra Iraq-Iran, la crisi degli ostaggi,
Clark chiese a Kissinger cosa si aspettasse da quella guerra. La
risposta fu “che si uccidano a vicenda”. La storia si ripete: guerra
tra slavi e tra slavi e musulmani perché si indeboliscano, si uccidano,
sgomberino il campo. Basta guardare al Kosovo, alla Cecenia, al
Daghestan, alla Macedonia. Ora gli USA si sentono minacciati da Putin
(sul nome del presidente russo Milosevic alza dubbiose sopracciglia.
Ndr), dalla Moldavia, dalla Bielorussia, dall’Ucraina. Li considerano
tutti minacce all’Occidente solo perché hanno iniziato a muoversi verso
sinistra e a curare con maggiore responsabilità i propri interessi.
Molte cose stanno cambiando. La gente si sveglia dall’ipnosi che gli
aveva fatto credere che il suo futuro dipendesse da FMI e Banca
Mondiale. Hanno rubato alla Russia centinaia di miliardi e poi
vorrebbero negoziare crediti a tassi d’interesse da strozzino. Questa
Russia ha un potenziale enorme. Deve liberarsi delle mafie nutrite
dall’Occidente che ne governano l’economia. Putin se ne rende conto e
questo spiega  tutte le sue recenti iniziative internazionali. La
Russia deve mandare al diavolo il Fondo Monetario i cui schemi servono
solo a distruggere quel paese”.
“Certa sinistra europea l’ha accusata per le privatizzazioni”.
Nella nostra costituzione tutte le proprietà sono garantite: statali,
sociali, cooperative, private. Il grado di privatizzazione dipende
dallo sviluppo dell’economia, dalle condizioni imposte dagli organismi
internazionali (che alla fine abbiamo rifiutato), dall’indebitamento e
dalla protezione sociale. Noi abbiamo cercato un equilibrio ottimale
nelle circostanze date. Abbiamo respinto una privatizzazione totale,
soprattutto dei settori strategici, per mantenerne il controllo
pubblico. Abbiamo assicurato ai nostri operai il 60% delle aziende
privatizzate e limitato al 40% i capitali nazionali o stranieri.
Nessuno in Europa lo ha fatto. Abbiamo dato molta terra ai contadini. I
10 ettari della precedente legge erano troppo pochi per una famiglia
nell’economia moderna. Ora gli ettari che si possono possedere  sono
160. Non è certo un latifondo.
Quanto alla Telekom, la mediazione di un miliardo e mezzo di un prezzo
che per noi era conveniente,  per gli italiani costoso, è andata per
metà a intermediari cechi. Noi non abbiamo visto un dinaro in termini
di mazzette. Quella somma ci occorreva per ricostruire un’economia
devastata dalle sanzioni che avevano determinato nel 1993 un’inflazione
del 350mila per cento. Entro il 1994 eravamo riusciti a ridurre
l’inflazione a zero. Il dinaro rimase stabile, l’inflazione sotto
controllo fino al l999. Eravamo in miseria, ma sani, e tra il 1994 e il
1998 il nostro PIL aumentò tra il 4 e l’8 per cento, più che in tutti i
paesi vicini, per quanto foraggiati. Ecco un’altra minaccia jugoslava:
non c’è un serbo che lavori in altri paesi, mentre qui vengono a
lavorare migliaia di rumeni e bulgari. Ne sono fiero.  Come sono fiero
della ricostruzione che in poco più di un anno questo paese ha saputo
fare. Oggi ci sono i black-out continui, allora neanche uno.

“Presidente, l’accusano spesso di aver accumulato tesori in banche
estere, anche se alcuni sospettano che si trattava di conti che
servivano ad aggirare l’embargo e nutrire la popolazione”.
“Già, due anni fa Holbrooke mi annuncia:”La Svizzera ha congelato i
suoi conti”. Gli risposi che gli avrei subito firmato la donazione di
tutti i miei fondi svizzeri. Del resto la massima autorità finanziaria
svizzera ha dichiarato di non aver trovato traccia di miei averi in
quel paese. L’unico conto che possiedo è qui in una banca e serve a
ricevere il mio stipendio. Ora si parla di Cipro, ma anche lì non hanno
trovato niente e hanno fatto arrabbiare molto i ciprioti”.
“Presidente, nutre fiducia nel futuro? Le circostanze sembrano a lei
molto sfavorevoli. Si parla di un arresto imminente. Lo hanno chiesto
gli USA.”
“Credo di poter nutrire fiducia. Tutto dipende dalla linea politica del
nuovo governo, da chi vi prevarrà e da come reagirà il popolo quando
capirà di essere stato ingannato e impoverito. Il gruppo dirigente è
molto diviso. Kostunica è meglio degli altri, pare voglia difendere gli
interessi nazionali, ma è debole e non ha la maggioranza nella
coalizione. Vedremo cosa ne verrà fuori. Noi intanto lavoriamo al
rafforzamento del partito, nostra unica difesa, e alla presa di
coscienza della gente. Sentiamo che il nostro punto di vista si sta
diffondendo tra operai, contadini, clero. Siamo invalidati dalla quasi
totale mancanza di mezzi d’informazione. Abbiamo un solo quotidiano.
Tutti i media sono controllati dalla DOS, altro che democrazia. Una
volta un giornalista in TV ha preso a criticare questa  blindatura
dell’informazione. Hanno immediatamente interrotto le trasmissioni. Con
noi non era mai successo”.
Milosevic mi congeda con calore. “Grazie per l’informazione corretta”.
E aggiunge con forza: “Never give up”, forse in inglese perché suocera
intenda: arrendersi mai. Poi mi richiama per una citazione di Madeleine
Albright, la segretaria di stato di Clinton, riferitagli dal
giornalista del New York Times, Steve Erlander. Esclamò Albright: “Ma
come, Milosevic ha accettato il risultato delle elezioni? E’ il colmo,
non è possibile! Lo avevamo incriminato apposta di tutti quei delitti,
per dieci ergastoli, onde non rinunciasse a nessun costo al potere. E
adesso questo se ne va… Non è una vittoria, questa”.  Poi, con un
sorriso amaro, mormora una raccomandazione: “Non è vero che avessimo
saputo del bombardamento della nostra televisione. Hanno incarcerato
Dragoljub Milanovic, l’ex-direttore, per questo. Proprio lui che era
rimasto fino a pochi minuti prima delle bombe. Come se uno potesse
sapere il minuto secondo del botto. E’ una delle tante infamie di Carla
del  Ponte per coprire il crimine del bombardamento sui giornalisti.
Non dovevano esserci? E lei in guerra non terrebbe presidiato il mezzo
di comunicazione più immediato per avvertire le popolazioni, chiamare
soccorsi, provvedere a  mantenere operativo il sistema di comunicazione
d’emergenza? Quei ragazzi erano tutti  volontari. Li ha uccisi la Nato.
Come ha fatto uccidere tutti i miei più cari e validi collaboratori
facendo passare gli omicidi come guerre di mafia”.
E qui Slobodan Milosevic abbassa gli occhi. Adesso pare un po’ piegato.

Fulvio Grimaldi

Fonte: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/878

Una versione abbreviata di questa intervista e’ stata pubblicata
sul “Corriere della Sera” dell’1/4/2001

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 09:27

Tav, la Francia tenta il bluff per evitare di ripartire i costi

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/04/10/tav-la-francia-tenta-il-bluff-per-evitare-di-ripartire-i-costi/5099259/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=inedicola-2019-04-09

Il tunnel – Parigi aveva rimandato la tratta nazionale al 2038. Ora che l’Italia vuole rivedere le quote, ha avviato studi per valutare se farla
Tav, la Francia tenta il bluff per evitare di ripartire i costi

Ora che l’Italia vuole rivedere i costi del tunnel internazionale della Torino-Lione, la Francia si muove. Al momento, però, si parla soltanto di “studi” sui progetti e i costi della linea nazionale, anche perché in un rapporto del 2018 il governo transalpino ha già detto se ne sarebbe riparlato dal 2038. 

Lunedì il ministro francese dei Trasporti Elisabeth Borne ha firmato una lettera con cui chiede a Sncf Reseau, la società che si occupa della realizzazione delle linee ferroviarie, di avviare un programma di studi “per precisare gli investimenti necessari per la realizzazione delle vie d’accesso” al tunnel internazionale della Torino-Lione, cioè la galleria alla base del Moncenisio da 9,6 miliardi per il quale la Francia non ha ancora stanziato un euro, a differenza dell’Italia e dell’Unione europea.

La decisione del ministro francese arriva dopo i dubbi sollevati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla ripartizione dei costi della galleria, che sono a scapito dell’Italia e che il governo vorrebbe riequilibrare.

Nonostante la maggior parte dei 57,5 chilometri di lunghezza del tunnel siano sul territorio francese (per l’esattezza 45), tolto il contributo europeo del 40%, sarà l’Italia a pagarne il costo maggiore, circa 3,5 miliardi di euro. Per questa ragione, il 22 marzo scorso nel corso di un incontro bilaterale a Bruxelles, Conte ha spiegato al presidente francese Emmanuel Macron di voler rivedere i costi del progetto.

L’unico impegno concreto sarà un incontro a breve tra Borne e il collega Danilo Toninelli.

Quella suddivisione dei costi era stata stabilita nel 2004 (e confermata negli accordi seguenti) per andare incontro a Parigi, che avrebbe dovuto spendere circa otto miliardi di euro per realizzare la linea nazionale da Lione fino a Saint-Jean-de-Maurienne, sede della stazione internazionale. Così l’Italia aveva deciso di “accollarsi” una fetta maggiore del tunnel: dato per buono il 40% finanziato da Bruxelles, anziché dividersi a metà il costo della galleria, l’Italia ha deciso di pagare un 10% in più e quindi, alla fine, a Roma spetta il 35% del tunnel e a Parigi il 25%.

Tuttavia, come spiegato più volte dal Fatto Quotidiano, Parigi non ha stanziato neanche un euro.

Inoltre dall’altra parte delle Alpi, sulla linea nazionale, quella che ha comportato la divisione dei costi del tunnel a loro favore, non c’era intenzione di fare nulla.

A più riprese, prima con la Corte dei conti nel 2012, poi con la Commissione “Mobilité 21” nel 2013 e infine col Rapporto Duron nel 2018, gli esperti francesi avevano messo in discussione i costi e i benefici dell’opera.

I componenti della commissione davano all’opera una priorità bassa per via delle incertezza sulla realizzazione della galleria internazionale: “La commissione non può assicurare che i rischi di saturazione e i conflitti d’uso che giustificano la realizzazione del progetto intervengano prima degli anni dal 2035 al 2040”. Sulla base di questa scala di priorità, quel progetto da 7,9 miliardi era “incompatibile” con la realizzazione di altre opere e con la disponibilità finanziaria. Lo scorso anno il rapporto Duron suggeriva di rinviare oltre il 2038 la realizzazione dell’accesso al tunnel: “Sembra poco probabile che prima di dieci anni ci sia materia per proseguire gli studi su questi lavori che, al meglio, dovranno essere intrapresi dopo il 2038”.

Ora Parigi si è improvvisamente mossa. Borne ha stabilito che uno studio sui costi e sul programma deve essere affrontato subito. “Il lancio di questo programma di studi è una tappa importante nella concretizzazione degli impegni presi dal governo per la realizzazione dell’accesso al tunnel transfrontaliero della Torino-Lione”, ha annunciato lunedì.

Il lavoro di Sncf Réseau sarà affiancato da un comité de pilotage che dovrà cercare soluzioni “per ottimizzare i costi per garantire la sostenibilità finanziaria del programma”.

Allo stesso tempo il ministro Borne vuole un osservatorio che valuti la saturazione delle tratte francesi e del tunnel del Moncenisio “per conoscere meglio il traffico e la capacità disponibile delle infrastrutture attuali”. I primi risultati sono previsti per l’estate prossima.

Ve lo ricordate Stefano Esposito?

https://www.notavterzovalico.info/

ma Esposito non è un dipendentre della Prefettura di Torino?

E fa anche il consulente della ditta Riccoboni

Vi raccontiamo una storia. E’ un po’ lunga ma vi assicuriamo che ne vale la pena.
Ve lo ricordate Stefano Esposito? Per i distratti basti sapere che è stato senatore del Partito Democratico, poi trombato alle ultime elezioni, nonché grandissimo sostenitore del Tav in Valsusa e del Terzo Valico.Un personaggetto sopra le righe sempre pronto a scagliarsi contro chiunque si sia opposto alla costruzione delle grandi opere inutili imposte sui territori. Un paladino assoluto della “legalità”. Il capostipite indiscusso della crociata Sì Tav.Per Stefano non è un momento felice. Stefano soffre. Stefano è triste. Il nostro, dopo i suoi brillanti servigi a favore delle grandi opere, è ingiustamente caduto nel dimenticatoio ed è scomparso dai radar delle TV e dei giornali che contano.Ma dov’è finito il povero Stefano?Stefano questa mattina è stato avvistato a Sezzadio in provincia di Alessandria all’interno di un terreno privato senza l’autorizzazione del proprietario. Caso vuole che insieme ad altre persone stesse facendo delle rilevazioni per la costruzione della tangenziale propedeutica alla discarica di Sezzadio.Quando il proprietario del terreno e alcuni suoi amici corsi in suo aiuto gli hanno chiesto cosa ci facesse a casa d’altri pare che Stefano abbia balbettato cose. Diverse cose.Fino a dire di essere consulente della ditta Riccoboni, la multinazionale dei rifiuti che vorrebbe costruire una nuova discarica sopra una falda acquifera e che ha incontrato la ferrea opposizione della comunità locale. Sul posto sono intervenuti anche i Carabinieri e corre voce che Stefano si beccherà una bella denuncia per violazione di proprietà privata.Facciamo notare che siamo davanti a una storia incredibilmente triste che merita molta compassione. Siamo davanti a un ex politico sedotto e abbandonato dal suo ex capo Matteo Renzi. Un politico che dopo essere stato trombato a furor di popolo ha saputo rimettersi in discussione e oggi è magicamente diventato consulente di una multinazionale dei rifiuti. Ma non siate maliziosi. Stefano ha grandi competenze in materia.Stefano è un uomo molto brillante. Stefano desidera rimettersi in discussione.Stefano attraversa un momento difficile ma non demorde.Stefano è un guerriero.E’ solo grazie a queste sue doti che Stefano è diventato consulente della ditta Riccoboni.Noi ti ringraziamo caro Stefano.Perché sei ricomparso ma lo hai fatto con la stessa arroganza di sempre. Perché erano alcuni mesi che non sapevamo più chi prendere per il culo.Bentornato fra noi “ragazzo di strada”.
 
“Noi Esposito ce l’abbiamo avuto pure come assessore qui a Roma… Ex giovane turco, ex bersaniano, poi ultrarenziano è l’immagine perfetta di quella sinistra ex comunista che si è fatta destra più della destra vera”
“Deve ringraziare la sua buona stella se non è stato impallinato dal proprietario del terreno, in ottemperanza al decreto sicurezza.”
“Solo fra i rifiuti poteva stare !”
“Potevano menarlo almeno, cazzo di buonisti, la denuncia non da risultati veloci, 2 calci inculo si”
“Bravo….gran bella mossa…. Questo qui era bello tranquillo a casa nostra,pagato,per arrivare a violare una proprietà privata. In questo momento mi prudono le mani e anche molto, anche se quella proprietà non era la mia. Questa gente qui o in un modo o nell’altro non deve più essere lasciata nella posizione di poter nuocere. È solo un modesto parere.”

LIBIA, ULTIMA BATTAGLIA —– CHI HA PAURA DI KHALIFA HAFTAR ?.

http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2019/04/libia-ultima-battaglia-chi-ha-paura-di.html

MONDOCANE

LUNEDÌ 8 APRILE 2019

 

Biscazzieri e bari

Nel paese del milione e mezzo di tossici da gioco d’azzardo, dei 70mila minori dipendenti, dei 19 miliardi spesi per il gioco, dei107 miliardi raccolti, delle 366.399 slotmachine,  delle 55.824 videolottery e delle 529 concessioni tra sportive, online, bingo, lotto e lotterie, volete che non ci siano e trionfino i bari? E’ un’intuizione facile. Basta  leggere nel giornale di oggi, prima, i dati allarmanti dei biscazzieri e delle loro vittime e, poi, i resoconti allarmatissimi sulle vicende di una Libia a rischio di essere unificata, diononvoglia, addirittura militarmente. Anatema, dopo che, negli 8 anni dalla frantumazione del più ricco e avanzato paese dell’Africa, tanto si era fatto per tenerlo diviso e spartito tra i vari interessi che, dopo averlo cucinato, si apprestavano a divorarlo.

Bari allora, quando ci trascinavano per i capelli alla guerra raccontandoci che Gheddafi bombardava la sua gente (e io ero proprio nel punto dove sarebbero cadute le bombe e non c’era che un tranquillo mercato), che allestiva fosse comuni e tutti vedemmo un cimitero normale con fosse scavate per morti normali, che rimpinzava di viagra i soldati libici perché stuprassero meglio le donne libiche (Save the Children, Ong ripresa da tutti), mentre io incontravo ragazze del liceo che, con i loro compagni, si addestravano alla resistenza. Bari oggi, quando ci terrorizzano con una Libia nel caos per colpa del “feldmaresciallo” militarista, mentre sul caos dai loro padrini militaristi, provocato dal 2011 in qua, ci hanno costruito traffici di petrolio e migranti.

Perché da quando il colonialismo è colonialismo, l’imperialismo è imperialismo, la Nato è Nato e il PNAC è PNAC (Piano per il Nuovo Secolo Americano dei Neocon), se non riesci a farne un boccone, del soggetto da abbattere, ne fai spezzatino. Approfittando del caos che, in mancanza di vittoria, ti sei lasciato dietro e che andrai potenziando. Così abbiamo visto nella recentemente rivisitata Jugoslavia, spezzettata in almeno sei frantumi; nella Serbia, cui hanno epurato e poi strappato il cuore kosovaro; nella Siria, con un terzo, etnicamente pulito, affidato dagli Usa prima all’Isis e poi ai curdi; nell’Iraq, dove però è andata buca l’operazione califfato, ma aleggia ancora quella della spartizione tra sciti e sunniti; e da noi, dove quelli delle “autonomie differenziate” vanno spaccando l’Italia per mettersi a disposizione del nuovo Sacro Impero franco-tedesco.

Haftar, unità della Libia in vista

Ora salta fuori quel generalone di Khalifa Belkasim Haftar, già comandante di Gheddafi nella guerra persa in Ciad, esule negli Usa, rientrato dopo l’impresa di Sarkozy, Cameron, Obama e del nano da giardino Berlusconi e per niente d’accordo, né con il proposito di costoro e dei loro successori, di dividere il paese in tre, né di decidere loro a chi e quanto gas e petrolio vadano. Per cui si è messo a capo delle forze armate, Esercito Nazionale Libico, che obbediscono all’unico governo legittimo, quello eletto e insediato a Tobruk.

E qui tocca puntualizzare un tantino, rispetto al quadretto che i bari in Occidente, e con particolare diligenza i nostri, ci impongono sulla situazione istituzionale della Libia. All’inizio del 2014, con un colpo di mano, i Fratelli Musulmani, sconfitti in Egitto, esautorano la maggioranza parlamentare nazionalista, laica e federale e impongono la Sharìa. A giugno, nuove elezioni decretano il trionfo dello schieramento laico e nazionalista, che decide di trasferire la Camera dei Rappresentanti  a Tobruk, nel frattempo liberato in gran parte dal generale Haftar dagli elementi islamisti, nell’intento di avvicinare la Cirenaica al resto del paese, Tripolitania e Fezzan al Sud. I Fratelli Musulmani si impongono a Tripoli, si definiscono Governo di Accordo Nazionale, si avvalgono dell’arrivo dei jihadisti di Al Qaida e Isis da Turchia e Qatar e governano poco più della città, grazie a una pletora di milizie, peraltro in lotta continua tra loro, in uno spietato arraffa arraffa di quanto lo spolpato paese può ancora offrire tra contrabbando di petrolio, prelievi dalla Banca Nazionale e traffico di migranti in combutta con le note Ong.

Riconoscere chi è stato eletto? Quando mai.

Chi si affretta a riconoscere un legittimo rappresentante della Libia? Coloro che ne avevano operato la distruzione? Cioè il mondo della democrazia rappresentativa, quello fondato su libere elezioni e sui diritti umani e civili? Quelli che si definiscono “comunità internazionale” (leggi Nato) e che mettono le loro ipocrisie al riparo dell’ombrello dell’ONU? E non riconoscono forse l’unico parlamento e rispettivo presidente, Aguila Saleh, legittimati da elezioni regolari, tra l’altro meritevoli di encomio per essere l’unica forza politica e militare che combatte l’estremismo terrorista patrocinato dalla Fratellanza e che ha portato in Cirenaica un’accettabile ordine economico e sociale, con tanto di terminali petroliferi, concentrati sulla costa della  Cirenaica fatti mettere in azione dalle rispettive compagnie, oltre alla NOC libica, l’ENI e altre?

Figurarsi!  Sono i colpevoli di aver messo i bastoni tra le ruote a chi prospettava i suoi successi su spartizione e caos. A coloro che, quanto meno, puntavano sul proconsolato di un governo controllato  dai Fratelli Musulmani che, fin dagli anni venti, sono i fiduciari del Regno Unito e dell’Occidente colonialista nel contrasto al panarabismo laico e socialista. Sono i nostalgici di una dittatura che ha riaccolto la componente gheddafiana, sociale, politica e militare, giustamente epurati da quelli di Tripoli, gli amici della Sharìa, che ne avevano condannato a morte, o al carcere, tutti gli esponenti, fino all’ultimo maestro di scuola pubblica. Figurarsi! Con il Tribunale Penale Internazionale che, dopo Muammar, aveva voluto incriminare anche Saif al Islam Gheddafi, il figlio maggiore, per crimini contro l’umanità. Sono i detriti revanscisti che ora arrivano a parlare di Said come possibile candidato alla presidenza!

Figurarsi! Sarebbe un controsenso nell’inappuntabile logica dell’imperialismo. Come nel caso dell’Egitto, con i Fratelli musulmani di Morsi e rispettive milizie terroriste, la scelta non può non cadere su chi obbedisce, promette spappolamento dell’unità nazionale con conseguente subalternità strutturale agli interessi che nel 2011 si erano avventati sul bottino. La scelta non poteva non cadere su Fayez Al Serraj, proclamatosi presidente di quanto di islamista era rimasto a Tripoli, e sul suo pseudo-parlamentare entourage. Lo traghetta a Tripoli una nave italiana, sulla quale rimane bloccato per l’impossibilità di entrare in una capitale in preda alle bande islamiste. Grazie a spartizioni di varia natura garantite ai capibanda, riesce ad assicurarsi l’appoggio, per altro costantemente a rischio, di alcune e, soprattutto, della più attrezzata ed esperta milizia della città Stato di Misurata. Riesce così a spostare il suo “governo” in un albergo della capitale e ad assicurarsi il controllo di qualche quartiere e di alcune località lungo la costa verso la Tunisia. Quelle che hanno in mano il business dei migranti e dei rispettivi campi di raccolta. E, di conseguenze, la collaborazione con le Ong e i ricatti nei confronti dei paesi di sbarco.

La mia Libia

Durante la guerra, nella primavera del 2011, ho trascorso due lunghi periodi in Libia. L’ho percorsa in lungo e in largo incontrando di tutto: studenti, mercanti, politici, giornalisti, lavoratori, donne, combattenti, insegnanti, migranti africani.  Ero a Tripoli quando cadevano i missili e le bombe partiti da Sigonella e sfracellavano case, ospedali, scuole per disabili, centro di solidarietà araba e africana, infrastrutture, depositi di viveri, porti e aeroporti. Da est avanzavano i jiahadisti e le forze speciali dei vari paesi Nato. Con mezzi infinitamente inadeguati, Gheddafi, l’esercito, le forze popolari resistevano. Ma si era tutti consapevoli che l’assalto di mezzo mondo contro il più renitente, ma anche il più pacifico, dei paesi africani sarebbe finito come è finito. Ciononostante, ovunque la gente, la popolazione, dichiarava con assemblee, presidi, corsa alle armi, soccorso civile, la sua lealtà alla Jamahirja, la sua fedeltà a Gheddafi, poi trucidato come Hillary Clinton voleva. Non c’era dubbio che questo popolo sapeva chi fossero i nemici. Tanto è vero che quelli li hanno dovuti importare tutti quanti.  E non se l’è scordato.Tanto è vero che, almeno da qualche informatore estero, si apprende che la marcia di Haftar, fino  a circondare Tripoli da tutti i lati in due o tre giorni, dopo aver liberato il Sud del Fezzan e della Tripolitania, con i rispettivi grandi giacimenti, è stata ovunque accolta dal giubilo della popolazione.

Misurata, un inferno vero

Ho anche avuto esperienza di Misurata. Una città in mano a una dozzina di oligarchi cui i rifornitori Nato avevano prestato particolare attenzione. E anche i celebrati Medici Senza Frontiere, lì installati. Mai li ho visti, tra Somalia, Iraq e Siria, dalla parte delle vittime dell’Occidente. Efferata nei confronti dei “gheddafiani”, anche solo contro chi non intendeva partecipare, la milizia di Misurata dava a questi la caccia, li catturava, torturava, stuprava le donne e le faceva a pezzi. Quello,sì, un vero inferno di cui nessuna Ong, con i  rispettivi corifei medatici, si è mai scandalizzata, ma di cui potete trovare agghiacciante testimonianza nel mio documentario “Maledetta Primavera – Arabi tra rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre Nato”.

I misuratini si sono poi confermati un’eccellenza nel mercenariato assoldato dai nostri pacificatori nella successiva pulizia etnica dei libici neri, quelli di cui Gheddafi aveva proibito si chiamassero “neri”, Tawergha era una città vicina a Misurata, popolata interamente da libici neri, provenienti dal Sud del paese. Sono stati massacrati a migliaia dai prodi miliziani della città-Stato, un bagno di sangue senza precedenti in Libia, dopo quelli del maresciallo Graziani. Oggi le forze di Misurata costituiscono l’estrema possibilità per Al Serraj di non essere spazzato via e per il progetto colonialista di spartizione del paese di non vanificarsi.

Non va bene chi libera i rifugiati?

Fa riflettere che sulle nefandezze in Libia contro i neri, non solo di Tawergha, non si senta un sospiro, una deprecazione, al cospetto degli orrori negli attuali campi di raccolta ossessivamente denunciati da coloro che, per alimentare il traffico di persone, hanno bisogno di quegli orrori. Strano, visto che in tutti quei campi sono ormai presenti sia l’UNHCR, sia l’OIM, enti Onu per i migranti, che non si riesce mai a vedere, sui sanissimi giovanotti in arrivo l’indelebile marchio della tortura e delle privazioni e che per molto meno attribuito – falsamente – a Gheddafi, sulla Libia si scatenò l’apocalissi della “comunità internazionale”. Strano, anche, che proprio coloro che cercano di farti rizzare i capelli all’idea che i naufraghi “salvati” possano essere riconsegnati ai loro aguzzini in Libia, oggi siano, “manifesto”  come “Repubblica” e tutti gli altri sicofanti dell’accoglienza, in prima fila ad agitare la “minaccia del generale Haftar”. Non hanno udito la sua promessa di eliminare dalla scena tutti i 3000 terroristi che a Tripoli, tra le altre opere buone, trattengono i migranti nei loro “lager”? Non dovrebbe suonargli bene una tale annuncio? Forse no.

Dialogo per dividere, lotta per unire

Dal cripto-colonialista “manifesto”, ai giornaloni e alle televisionone dei magnati in combutta con il revanscismo coloniale, è tutto uno stracciarsi le vesti per essersi persa in Libia la burletta del “dialogo” (ricordate il “dialogo” per la pace in Palestina?), invocata e complottata in vertici e conferenze, e di essere passati alla tanto brutta opzione militare. Che tanto brutta non era quando si trattava di rimuovere un tizio che ai popoli del mondo aveva insegnato che si può vivere indipendenti, sovrani, liberi e con il consenso del popolo. E anche felici, grazie a istruzione, salute, casa, mezzo di trasporto, reddito, acqua potabile, gratuiti, tutti assicurati da una strepitosamente equa distribuzione della ricchezza. Tutti accompagnati – questo era più inaccettabile dell’insieme delle altre magagne anticapitaliste – dal futuro di un continente unito e reso padrone delle sue risorse e sovrano dalla sua moneta. Ci pensano quelli che, in sinergia con gli spogliatori economici e militari dell’Africa e del Medioriente, oggi coltivano l’accoglienza senza se e senza ma? No, non ci pensano. Provate a chiedergli un’opinione su Gheddafi (che di migranti ne ospitava due milioni, con pari diritti dei cittadini, ma investiva anche nei paesi dai quali i migranti non avrebbero mai voluto andar via).

Resta da meditare su cosa potrà succedere. Non v’è dubbio, a dispetto degli orchi bene armati di Misurata, che Haftar e il suo Esercito Nazionale Libico (altro che “milizia”, è la forza armata di un parlamento eletto democraticamente) delle sbrindellate e affamate milizie tripoline si farebbero un boccone. Lo faranno? Alla luce delle posizioni geopolitiche manifestatesi c’è da dubitarne. Si sa che la Francia, che sa fare i conti, da tempo sostiene Haftar, che pure l’Italia, pur dando idea di traccheggiare, con Conte, si è sbilanciata verso Tobruk. Che è sostenuta da Russia, Egitto, Arabia Saudita. Emirati. Il resto dell’Occidente sta a vedere cosa succede. Al Consiglio di Sicurezza tutti si sono espressi in favore di una sospensione delle ostilità. Russi e cinesi, probabilmente, per mantenere le apparenze.

A metà mese si sarebbe dovuta tenere la grande conferenza internazionale di tutte le parti, promossa dall’ONU. E poi elezioni. Di cui si sa fin d’ora chi le vincerà, Per cui i fantocci e le loro milizie non le vogliono. E Haftar? Prendere Tripoli con la forza e assicurare a sé e ai libici una nazione riunificata, contro tutti i piani di chi ha dato il via a questa storia? Oppure presentarsi alla conferenza dalle posizioni di forza acquisite (vedi mappa), e imporre comunque la fine della divisione, del cancro islamista e un rapporto con l’esterno che imponga di trattare con una Libia riunita da quella che, giustamente, è chiamata “Operazione Dignità”? Questo è il problema.

Intanto Tripoli sembra la Saigon della disfatta: gli americani che, dall’ambasciata  si arrampicano sulle scalette degli elicotteri, mentre scalciano verso il basso a cacciare i collaborazionisti terrorizzati. Per primi, da Tripoli, sono partiti, raccolti da una portaerei, i Marines. E’ stato il segnale del fuggi fuggi generale dei bonzi di Serraj. Non c’è che dire, è un bel vedere.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:57

PARLA IL MINISTRO DEGLI ESTERI DI MILOSEVIC ——- SERBIA: VITTIME, CARNEFICI E LORO VIVANDIERE ——- IN MARGINE A UN CONVEGNO A FIRENZE

http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2019/04/parla-il-ministro-degli-esteri-di.html

MONDOCANE

SABATO 6 APRILE 2019

Una Serbia che non muore

Zivadin Jovanovic  ha 80 anni, ne dimostra venti di meno, da viceministro degli Esteri fino al 1998 e poi ministro fino alla caduta del governo nel 2000, è stato protagonista e testimone serbo, accanto a Slobodan Milosevic, dell’intera vicenda jugoslava e balcanica. Oggi è il protagonista della custodia, rivendicazione e propagazione della memoria di quanto fatto alla Serbia dalla Nato. Contro le turbe di occultatori e mentitori, è anche il combattente della verità sui Balcani e sulla Serbia di oggi e sui complotti che l’Occidente insiste a tessere a danno di sovranità, integrità e autodeterminazione della Serbia. Alto, snello, dritto e determinato, come uno di quegli abeti rossi che nel Sud Tirolo svettano verso la luce del sole, ha appena organizzato, nel XX dell’aggressione Nato e nel LXX della fondazione dell’Alleanza Militare Atlantica, l’ennesimo  convegno internazionale del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali, da lui presieduto e al quale ho avuto il privilegio di partecipare. Ve ne ho riferito in  www.fulviogrimaldicontroblog.info: Convegno internazionale a vent’anni dall’aggressione – “DIMENTICARE?  PERDONARE?  MAI !” Inviato sotto le bombe, testimone di oggi.

Ci siamo trovati fianco a fianco, in amicizia e causa comune, grazie al modesto contributo che ho potuto dare da responsabile del “Comitato Ramsey Clark per la Jugoslavia” e poi da portavoce, insieme a Enrico Vigna, del “Comitato Milosevic”, che si batteva per la liberazione del Presidente della Federazione Jugoslava e della Repubblica Serba, e per la demistificazione delle menzogne che ne volevano giustificare l’arresto e il processo da parte di un tribunale-farsa.

Le trombe degli eserciti

Jovanovic mi ha concesso l’intervista sull’oggi dei Balcani, sottoposto a nuove minacce da parte degli stessi criminali di ieri e di sempre. La leggerete più avanti. Prima, mi vorrei soffermare brevemente sul contributo che alla tragedia serba hanno fornito quelli che chiamerei “vivandiere”, o “corifei”, dei carnefici. Coloro che, pur passando per oppositori dell’opzione guerra, per “sinistri”, pur lamentando bombe e uranio, ne hanno avvallato gli obiettivi, spesso nel nome della democrazia, dei diritti umani e del dittatore da abbattere. Quella volta e tutte le successive.. Una genìa che non ha mai smesso di prosperare e che, oggi come non mai, rappresenta una conventicola clerico-sinistra di amici del giaguaro e utili idioti per i Grandi Vecchi dei genocidi. Il manto fatto di  buonismo, di carità, solidarietà, democrazia, diritti umani e civili, inserito nel guardaroba dell’epistemologia imperialista, continua a fornirgli copertura e credibilità.

Se ne registra la comparsa sia nell’ante, quando si tratta di condividere calunnie e falsità dell’aggressore, lastricandone la strada; sia nel post, dove ci si può permettere di piangere sui piatti rotti, ma senza mai smentire l’iniziale assunto mistificatorio. Ciò vale per l’operazione global-neoliberista e neocolonialista di spostamento e confusione dei popoli, come per le varie guerre per le quali quella della Serbia – “colpa degli ultranazionalisti, pulitori etnici, dittatori (solo Milosevic, però) del Balcani” – ha fornito il precedente e il modello, con effetto di progressiva normalizzazione di efferatezze belliche, regime change, sanzioni e conseguente passivizzazione dell’opinione pubblica.

Sotto questo cielo, striato di scie tossiche (stavolta vere), a Firenze, vittime, loro difensori e vivandiere del carnefice, sono stati riuniti, all’insaputa dei più della prima categoria, per una grande kermesse per il  20° della frantumazione delle Serbia e il 70° della fondazione Nato. Per un obiettivo assolutamente da condividere, la lotta alla Nato, hanno partecipato alcuni tra i più intemerati assertori della verità e della denuncia, come lo stesso Jovanovic, il canadese prof. Michel Chossudovsky, Diana Johnstone, saggista euro-americana e tra coloro che più a fondo hanno guardato nel pozzo delle mistificazioni e dei delitti Nato, Paul Craig Roberts, analista Usa, Peter Koenig, analista svizzero. Gente davanti alla quale tutti, non solo i patrioti serbi, devono togliersi il cappello. Gente che ha costituito il plotone di esecuzione politico e morale di mandanti ed esecutori. Tra i relatori degni di attenzione da molti anni, per la profonda e onesta osservazione dei fatti balcanici (seppure spesso presente su una rivista come “Limes”), va citata anche Jean Toschi Marazzani Visconti.

Ma, incredibilmente, perfino preponderanti, accanto ad alcune delle più valide e coraggiose figure dell’informazione corretta e della battaglia per la verità sui Balcani, il battaglione delle vivandiere delle armate con i cingoli e le bombe all’uranio, alla grafite, a grappolo, degli spargitori di veleni perenni attraverso la disseminazione di sostanze chimiche conseguenti a bombardamenti assolutamente intelligenti. Cosacce deprecate, è ovvio, “restiamo umani”, no? Ma che l’altro ieri, ieri e fino a stamattina, non hanno ritirato quanto, da corifei dell’inganno, del rovesciamento dei fatti, avevano avallato: Milosevic macellaio ultra nazionalista, dittatore, repressore delle opposizioni e dei media e pulitore etnico in Kosovo, i serbi tutti in preda a fanatismo nazionalista ed etnico, gli albanesi del Kosovo perseguitati e massacrati, Mladic e Karadzic sterminatori di bosniaci fino all’eccidio di Srebrenica. E intanto correvano a Sarajevo, “città martire” per colpa dei serbi, a straparlare di un assedio  serbo che decimava civili. Erano due le parti in conflitto, ma sono stati i 130mila serbi a essere cacciati, sostituiti dai jihadisti importati dal despota vero, Izetbegovic e di quell’altro fascista, il croato Tudjman, pagati dai sauditi, ma definiti vittime della Grande Serbia di Milosevic. Jihadisti poi ritrovatisi in centinaia in Siria.

Acrobati tra pace e guerra: deprecare i bombaroli e condividerne le ragioni

Uno Slobo iperdemocratico, che tollerava le bugie e i sabotaggi dei media di Soros e Cia , libere elezioni, rivoluzioni colorate in piena aggressione, con libertà d’azione per la Quinta Colonna esterna (Casarini e i suoi centri sociali, i pellegrini di Sarajevo) ed interna (Donne in Nero, monarchici, Otpor, Zoran Djindjic, poi premier per grazia di Washington, che da Vienna indicava ai raid di D’Alema e Clinton gli obiettivi serbi da disintegrare). Io stesso ho potuto incontrare, sotto le bombe, in una sala di governo in pieno centro di Belgrado, dirigenti politici e sindacali d’opposizione , compreso il famigerato Srda Popovic di Otpor (da allora utilizzato in tutti i colpi di Stato), che si vantavano di essere sostenuti dalle “democrazie occidentali”, CIA e NED in particolare.

Il Comitato No Guerra No Nato, che fa capo a Giulietto Chiesa, organizzatore del convegno, ha ritenuto di mettere a fianco di chi ha subito o denunciato i crimini Nato (e dei fantasmi degli oltre 4.000 civili che ne sono morti, delle generazioni di avvelenati da uranio e chimica), coloro che hanno lastricato la via dell’inferno accreditandone le bugie. Manca Casarini, impegnato in mare per impresa analoga a quella di Belgrado, quando è corso ad abbracciate i giornalisti di Soros di Radio B-92. Manca Adriano Sofri, che s’inventò, reiterando la menzogna, due bombardamenti serbi sulle donne al mercato di Sarajevo, poi provati colpi dei bosniaci. Manca Alex Langer, che a Lotta Continua allestiva “processi del popolo”  contro devianti e poi si erse a santone della non violenza, ma sui serbi invocò le bombe.

Ma molti altri ci sono: Tommaso Di Francesco, vicedirettore del “manifesto”, che incontrai mentre gironzolava per Belgrado, mandava a Roma notizie sul despota Milosevic e ribadiva, ancora oggi, sia la “contropulizia etnica” inflitta agli albanesi, sia  la terribile balla di Srebrenica (*). Un suo collega in mestiere e spirito, Salvatore Cannavò, cestinava miei reportage sui profughi Rom del Kosovo, accolti a Belgrado e sistemati nelle ottime case del quartiere della loro etnia, perché tornavano “troppo a favore di Milosevic”. Poi tutti i pacifisti, nonviolenti, protettori dei poveri musulmani di Bosnia, assertori della naturale malvagità dei serbi come constatata a Sarajevo, o biasimatori dei fanatici nazionalisti eredi di Tito: i comboniani con Zanotelli che scriveva: “Una Europa che in tutti questi anni e’ stata incapace di fare una politica seria per i Balcani lasciandola fare solo agli interessi economici, egemonici o imperial, quando proprio l’Europa, dentro la Nato, Germania in testa, era fautrice ed esecutrice della tragedia balcanica. Insieme al papa di Zanotelli, postosi a vessillifero della distruzione.

“Sarajevo, la Gerusalemme d’Europa”

Alberto Negri, allora del Sole24 Ore e ora del “manifesto”, sempre dalla parte di chi è schiacciato da “dittatori”. Oggi denuncia la “minaccia” di Haftar che sta investendo Tripoli. Quella del generale Haftar è l’unica forza nazionale legittima, emanata dall’unico parlamento eletto, sostenuto dai gheddafiani. Ovunque arrivi, viene festeggiato dalle popolazioni patriottiche, salvo che dai jihadisti di Misurata, quelli dello sterminio della popolazione nera a Tawarga, cari al fantoccio Serraj e alla “comunità internazionale”. I religiosi dei Beati Costruttori di Pace, i preti e le suore di Pax Christi (“Sarajevo, la Gerusalemme d’Europa”), soliti a tornare sul luogo del delitto per ribadire le coltellate alla schiena della Serbia, accompagnati anche da questo papa che non si è mai dolto, anzi, del bellicismo del predecessore in armi, ma ne ha ribadito le ragioni. Delle quali l’apparentemente meno complice, ma più infingarda, era e rimane quella che mette tutti sullo stesso piano, croati, bosniaci, albanesi, serbi, Clinton, e poi immerge le mani nella bacinella di Ponzio Pilato. Ma che la pulizia etnica fosse fatta dai serbi, e mai più dagli albanesi sostenuti da Soros e da Madre Teresa fin dagli anni ’60, e poi dai trafficanti di droga e organi dell’UCK, nessuno di questi l’ha mai messo in dubbio.

Neanche la Tavola della Pace, invitata al convegno, ha avuto mai dubbi in proposito. Il suo leader Flavio Lotti, ultimamente visto a fianco dei “ribelli” anti-Assad, è uno che marcia per la pace sottobraccio al bombardiere D’Alema e che ha avallato, senza un attimo di dubbio, ogni campagna diffamatrice inventata dall’imperialismo per far fuori regimi e paesi disobbedienti. Qualche martellata ai chiodi nelle tombe di Milosevic, Saddam, Gheddafi, dei serbi, iracheni, libici, siriani, l’ha data anche lui. Con particolare accanimento.

Ma la ciliegina su questa torta è stato il deus ex machina Michail Gorbaciov, tuttora in vita, con un suo epocale messaggio. Poteva esserci un più splendido coronamento dell’iniziativa che la parola, a quanto pare riguadagnata grazie a qualche borbottio sugli eccessi militari Usa, tra una conferenza multimilionaria e l’altra, tra Boston e Los Angeles, di questo supremo costruttore di ponti tra banche e multinazionali Usa e le macerie dell’URSS?

Gorbaciov e Bush Sr

Concludo. E’ a questo che si arriva quando, come qualcuno ritiene si debba fare, si inalbera il vessillo italiota del volemose bene, dell’uniamoci tutti, anche se del panorama complessivo si condivide solo un albero e del bosco nient’altro. Tocca far numero, anche se poi  qualcuno dei commensali sporca la tovaglia in modo indelebile.  I “poveri bosniaci” sostenuti e compianti da certi commensali di Firenze, hanno avuto lo stesso ruolo dei curdi in Siria. Mercenari al servizio di un progetto nazionicida e sociocida dell’imperialismo USA-UE. Pure in questo caso strumenti consapevoli dello squartamento di un paese democratico, socialista, multiculturale, multietnico, multiconfessionale, antimperialista. Con il risultato, in Siria per ora fallito, di una costellazione di satelliti inoffensivi, subordinati, fuori dalla Storia.

Chissà se  al convegno di Firenze, Tommaso Di Francesco avrà avuto l’occasione di ripetere a colui che è stato per 8 anni l’uomo della politica estera di Milosevic, Zivadin Jovanovic e oggi custodisce la memoria di quelle vicende, che il suo presidente era un despota che praticava “contropulizie etniche”  in Kosovo e che i suoi serbi uccisero 8000 persone a Srebrenica.

Serbi, con voi non abbiamo finito: Grande Albania e altro

Passiamo all’oggi. Nuovi nuvoloni si addensano sulle terre europee degli slavi. Alla Serbia, circondata da frammenti di Jugoslavia diventati Stati Nato, o alla Nato infeudati e inseriti nel corteo armato che Usa, UE e Nato stanno muovendo contro la Russia, si continua a non perdonare di essere stato l’unico paese ad aver avuto ragione, di continuare a non aderire alla Nato, di traccheggiare sull’inserimento-subordinazione alla UE, di denunciare i crimini dell’aggressore e di coltivare rapporti, alleanza e amicizia con la Russia di Putin. Tsipras, il rinnegato greco, accedendo alla nuova denominazione di “Macedonia del Nord” del vicino  settentrionale, ha dato il via libera all’accesso di Skopje ai due grandi concerti della democrazia, della pace e della sovranità popolare: Nato e UE. Manca un altro passo decisivo per la destabilizzazione-normalizzazione dell’assetto dei Balcani uscito dalla guerra Nato: la Grande Albania.

La riunione in un unico Stato, inesorabilmente atlantista e islamista, di “tutte le terre su cui vivono albanesi”, formula che imperversa da Tirana a Pristina, dal Montenegro alla Macedonia del Nord, alla Grecia e alla Serbia e che riecheggia quella di Hitler relativa alle terre su cui c’erano tedeschi, dovrebbe essere il prossimo passo. Comporterebbe la mutilazione del Montenegro, la cui parte meridionale è popolata da Greci e albanesi, della Macedonia, in cui gli albanesi sono disseminati ovunque, ma anche i greci, e della Serbia, che annovera una minoranza albanese nella valle di Presevo. E si può immaginare con quali conseguenze: maggioranze che diverrebbero minoranze, sul modello tragico e feroce dei serbi sopravvissuti a Mitrovica, in Kosovo, alla pulizia etnica dell’UCK.

Trattative molto opache su uno scambio di territori, sotto l’egida delle potenze vincitrici, si sarebbero svolte tra Vucic e il narcos Thaci, presidenti rispettivamente di Serbia e dello pseudostato kosovaro, a latere di questo progetto imperial-albanese con griffe Nato. Vucic le ha disconosciute, forse sotto la pressione di un’opinione serba che in quasi tutte le sue componenti, rifiuta ogni cedimento sull’identità storica serba del Kosmet. E il milione di profughi dalle terre sottratte alla Serbia e da questa ospitato, un decimo della popolazione attuale, non glielo consentirebbe mai.

Del resto, con un Kosovo in cui Mitrovica Nord popolata da serbi passerebbe alla madrepatria e in cambio vi entrasse la valle serba popolata da una minoranza di albanesi, le istituzioni serbe che, bene o male, in Kosovo convivono con quelle albanesi a Pristina, cesserebbero di esistere e le restanti enclavi serbe sparse su tutta la regione sarebbero alla mercè di chi in Kosovo ha bruciato 230 monasteri, cacciato 300mila tra serbi (di cui solo 1% sono rientrati), Rom e altre nazionalità, fattosi portinaio della più grande base Usa d’Europa e principale ponte per il passaggio  della droga afghana in Europa.  Il Kosovo riceverebbe il riconoscimento degli 80 Stati che finora lo hanno rifiutato. Un abominio non meno gravido di disastri di una Grande Albania nel ruolo di Israele in Medioriente. Alla Serbia occorre lo spirito del suo popolo e una mano da Putin e Xi Jin Ping.

(*)Sempre su Srebrenica articolo interessante: http://informare.over-blog.it/2014/07/il-massacro-di-srebrenica-un-altro-falso-pianificato-con-cura-dagli-americani.html
La cosa più interessante è l’esistenza di un “rapporto redatto sui fatti di Srebrenica da una commissione speciale del governo della Republika Srpska” che “pur ammettendo che sporadici episodi di giustizia privata e di vendetta sommaria possono aver avuto luogo ai danni della popolazione musulmana, evidenzia come fu proprio la presenza sul campo e la determinazione del generale Ratko Mladić a scongiurare il reiterarsi di tali circostanze”. Rapporto che guarda caso non è mai stato tradotto dall’ONU che ha preferito farne redigere una propria versione.

Mia intervista a Zivadin Jovanovic


La UE e la Nato circondano la Serbia . Vi sentite isolati o fidate, per conservare sovranità e indipendenza, nel fronte alternativo di Russia e Cina?

Sono convinto che l’opzione migliore per la Serbia sia il mantenimento di relazioni equilibrate tra Est e Ovest, per restare libera e neutrale. Per questo occorrono buoni rapporti di vicinato con la UE e la Nato e, allo stesso tempo, l’espandersi della collaborazione strategica con Russia, Cina e altri paesi importanti. Ricordandoci che la Serbia non ha mai fatto parte di un’alleanza militare, una tale politica rispetterebbe sia le esperienze storiche della Serbia , sia i profondi mutamenti attuali nei rapporti globali.

Cosa si ripromettono le manifestazioni e i tumulti delle opposizioni contro il governo, con la loro curiosa combinazione di destre e sinistre. C’è qualcosa che ricorda il movimento del 2000-2001 di Otpor?

Non riesco a vedere alcun programma o visione coerente nell’opposizione serba. Alcuni dei capi lo erano anche con Otpor, per cui le affinità col passato non sorprendono. Sono la loro seconda natura. Altri leader sono detriti  della passata coalizione antisocialista e ripetono la formula del “nuovo accordo con il popolo”. Ma non spiegano cosa ne sia stato dell’accordo precedente, che avrebbero concluso con il popolo nel settembre 2000. A cosa puntavano quando, l’altro giorno, hanno fatto irruzione nelle redazioni della TV RTS (Tv di Stato), nel preciso momento in cui la nazione commemorava le vittime della criminale aggressione Nato di vent’anni fa e la Serbia è sottoposta a nuove pressioni perché riconosca il furto delle provincie di Kosovo e Metohija in cambio dell’entrata nell’UE, chissà quando dopo il 2030!

Viviamo in un’epoca in cui globalizzazione, militarizzazione, finanzcapitalismo totalitario attaccano la base stessa della sovranità e autodeterminazione delle nazioni e infrangono ogni legge e trattato internazionali. Quale sarà il futuro e ci sono forze che sapranno resistere?

Il nostro futuro è incerto e contiene molti rischi, compreso il pericolo di un conflitto globale. La “Sacra Trinità” del capitalismo liberista multinazionale, la strategia del dominio e la Nato come suo strumento sono la principale fonte delle minacce alla pace e alla stabilità. A partire dall’aggressione Nato del 1999 alla Jugoslavia, il principio militarista nel processo decisionale ha occupato tutte le sfere della vita politica, economica e sociale. Nell’UE, ad esempio, infrastrutture civili come ferrovie, autostrade, ponti, aeroporti, dovranno in futuro soddisfare standard militari. Paesi membri devono anche reclutare imprese che garantiscano la sicurezza nazionale, ma sottratte alla trasparenza del libero mercato. Aggiungiamo a ciò l’assoluto disinteresse per i trattati internazionali, la nuova corsa alle armi, comprese le nucleari, la proliferazione di basi all’estero, soprattutto nelle regioni della “nuova Europa”, abbondano i motivi di preoccupazione e per chiederci dove siamo diretti. Un nuovo ordine mondiale, fondato sul multipolarismo apre spazi alla democratizzazione delle relazioni internazionali, al partneriato e a una cooperazione win-win. Le forze della pace dovrebbero evolversi, rafforzarsi e unirsi, al fine di fermare la globalizzazione di guerre, sfruttamento e povertà. Media di massa indipendenti sono chiamati a sostenere questi obiettivi e sforzi.

Kosovo-Metohija e Grande Albania: una nuova minaccia per i Balcani e l’Occidente. Come affrontarla?

La questione di Kosovo e Metohija può essere risolta soltanto rispettando i principi base del diritto internazionale. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 (1999) garantisce la sovranità e integrità territoriale della Serbia, che della Jugoslavia è il successore legale, e autonomia essenziale alla provincia di Kosovo e Metohija all’interno della Serbia. Premere sulla Serbia e perfino ricattarla, come fa l’Occidente, per legittimare il furto di territori dello Stato, significa caricare un potenziale conflitto di conseguenze incalcolabili. Questa problema non può essere affrontato solo dal punto di vista degli interessi geopolitici dei grandi paesi occidentali, nel quadro della loro “espansione ad Est”. Per una soluzione equa e sostenibile il processo negoziale deve includere anche Russia e Cina, vale a dire tutti i membri permanenti del CDS. Non dobbiamo dimenticare che vi sono molti “Kosovo” in lista d’attesa sul continente euroasiatico.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:50

COMMERCIANTI, PROF E ANCHE I RAGAZZI DI GRETA: TUTTE LE ALLEANZE DEL SÌ

https://www.lastampa.it/2019/04/07/cronaca/commercianti-prof-e-anche-i-ragazzi-di-greta-tutte-le-alleanze-del-s-doezGH64wArQumYPQiSFjM/pagina.html?lgut=1

E dal palco un ex operaio del cantiere di Chiomonte invita a fare in fretta. “Niente elemosine: il migliore ammortizzatore sociale è il lavoro”
REPORTERS
 
Pubblicato il 07/04/2019
FABRIZIO ASSANDRI CLAUDIA LUISE
TORINO

La prima volta è stata come un grido di liberazione: la società civile che si riscopre pronta a manifestare il suo sì alla Tav e a contrastare una visione di Torino ripiegata su se stessa. La seconda volta è stata il banco di prova che il fronte del sì – coagulato sul web dalle madamine e da Mino Giachino a cui si sono aggiunte imprese e sindacati – poteva convergere su un obiettivo superando anche le divisioni tra imprenditori e lavoratori.

Questa volta è stata una scommessa che non tutti pensavano si sarebbe potuta vincere. Invece ancora una volta la gente ha risposto all’appello e ha riempito il corteo da piazza Vittorio a piazza Castello. Con alcune differenze. Innanzitutto è stata una partecipazione meno spontanea, con più associazioni e sindacati dietro alle bandiere. Poi è mancata una presenza sostanziosa del mondo industriale, solo i costruttori hanno rappresentato Confindustria, con palloncini blu e la scritta Ance. Ma c’erano anche tanti giovani, poco presenti nelle altre due occasioni. Le madamine hanno dettato le parole d’ordine. «Non ci basta la mini-Tav: questo è un avviso ai naviganti – dice Maria Luisa Coppa dell’Ascom – cioè ai candidati alle regionali ed europee: se pensano altro, non vengano da noi».

In strada risuona l’inno di Mameli e l’inno alla Gioia. In via Po qualcuno butta un gavettone da una finestra. I sospetti vanno su quella a cui è appesa la bandiera del Che. La risposta della folla è sabauda: nessun insulto o grida. Si va avanti tra passeggini e cartelli in cui la mini-tav diventa un gioco da tavola «con analisi costi e benefici inclusa».

Ci sono i camionisti e gli ingegneri, ma anche persone del mondo della cultura, come la soprintendente Luisa Papotti, con adesivo Sì Tav sulla giacca. A distribuirli sono i volontari, come Enrico Pompili, dirigente di una società finanziaria in pensione e nonno. Ci sono professori universitari, come Carla Zotti, di Medicina, che con Lione ha lavorato a un progetto sulle infezioni ospedaliere. «Questi scambi devono essere facilitati anche dalle infrastrutture – dice – tra colleghi condividiamo un senso di immobilismo in cui siamo piombati». Per invertire la rotta, secondo Paolo Bertolini, presidente dei negozianti di via Roma:«Torino ha bisogno al suo interno di essere viva e attrattiva e di avere all’esterno collegamenti efficienti». A spingere la protesta è anche il no alla Ztl e alle Olimpiadi per una «decrescita infelice».

All’appello rispondono pure tanti «Greta boys», i ragazzi che ogni venerdì marciano per l’ambiente. Partecipano a titolo personale, perché il movimento «Fridays For Future» non si schiera, anche due degli organizzatori della marcia sul clima, Luca Sardo e Andrea Borello. Con loro ci sono due gemelli di 14 anni, Leonardo e Ludovico, che studiano al Galileo Ferraris, e Francesca – 16 anni – che a scuola ha fatto una ricerca sul Tav e sui benefici dei trasporti su rotaia.

Sul palco prende la parola Vincenzo Russo, ex operaio del cantiere di Chiomonte: «Il migliore ammortizzatore sociale è il lavoro, quello dignitoso, sicuro e retribuito degnamente. Ecco, ed io lo preferisco di gran lunga a qualsiasi tipo di elemosina». È disoccupato da quando i lavori alla Tav si sono interrotti. Corrado Alberto, presidente Api Torino, non trattiene l’entusiasmo. «Siamo tanti anche stavolta – dice – ora che ci siamo saldati proveremo ad andare avanti». Anche se, con le elezioni alle porte e Telt che ha pubblicato gli avvisi di interesse, è improbabile ci possano essere altre manifestazioni. Alberto, però, guarda avanti: «Sei mesi passano in fretta e allora il governo dovrà sciogliere i nodi. Non si potranno trovare altre scappatoie».

Sì Tav, Torino torna in piazza: 20mila partecipanti al corteo

https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2019-04-06/torino-torna-piazza-il-si-tav-110411.shtml?uuid=ABoxBplB

  • 06 aprile 2019

Sì Tav di nuovo in piazza, a Torino, per ribadire il sostegno alla Torino-Lione. I comitati civici e il mondo delle imprese e dei sindacati si ritrovano per la terza manifestazione dal 10 novembre, questa volta una marcia, organizzata dal comitato Sì Torino va avanti, dall’associazione Sì Tav Sì Lavoro e dall’ Osservatorio 21. Vi hanno aderito oltre 40 sigle del mondo produttivo e sindacale e sono presenti, dalle prima stime, 20mila persone.

“Ho massimo rispetto per tutte le manifestazioni, a Torino ce ne sono state per il sì e per il no. La mia posizione è nota, ora è stato deciso di dare mandato al presidente Conte di negoziare e di confrontarsi con la Francia e ho massima fiducia in lui”.

La sindaca di Torino ha poi aggiunto: “C’è un’analisi costi-benefici chiara, bisogna dare a Conte il tempo di confrontarsi”.

Il promotore dell’associazione Sì Tav Sì Lavoro deluso dalla partecipazione
“È stata una manifestazione importante ma sono dispiaciuto che la piazza non fosse piena come l’altra volta,
sarebbe stato meglio mantenere lo spirito della prima volta cioè la società civile, perché la Tav è un’opera troppo importante”.

Ad affermarlo il promotore dell’associazione Sì Tav Sì Lavoro Mino Giachino….”

Sì Tav, il corteo flop tra passerelle Pd e furbate politiche

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/04/07/si-tav-il-corteo-flop-tra-passerelle-pd-e-furbate-politiche/5092513/

In piazza – Lontani dai numeri di novembre, ieri a Torino erano in 15mila. Assenti Lega e Forza Italia: le elezioni sono troppo vicine
Sì Tav, il corteo flop tra passerelle Pd e furbate politiche

È stata una manifestazione importante, ma sono dispiaciuto che la piazza non fosse piena come a novembre. Sarebbe stato meglio mantenere lo spirito della prima volta, la società civile: la Tav è un’opera troppo importante”. 

Il commento di Mino Giachino, ex sottosegretario berlusconiano ai Trasporti e ora anima dei comitato piemontesi del Sì Tav, suggella il mezzo flop della manifestazione torinese di ieri mattina. I promotori, dallo stesso Giachino alle signore subalpine, le famose “madamine”, speravano di riportare in piazza, come era accaduto il 10 novembre scorso, dalle 20 alle 30 mila persone.

Al corteo che ha attraversato un pezzo della vecchia Torino, da piazza Vittorio a piazza Castello, invece erano poco più di 10-15 mila….

Forse non contenti, ma mandati comunque a dire due parole sul palcoerano i quattro che si sono esibiti nella loro onesta ingenuità convinti che il Tav sia la panacea per tutti i mali.

Come lo studente Guglielmo e la studentessa Marta, 23 anni, per la quale Torino “deve essere connessa al mondo con infrastrutture che devono stare al passo con il futuro, per non essere tagliati fuori dall’Europa”.

E come Vincenzo Russo, ex operaio al cantiere della Maddalena, a Chiomonte.

Per realizzare l’opera nei tempi previsti – ha detto – abbiamo sopportato grandi sacrifici, risparmiando soldi rispetto al preventivo. Abbiamo dato l’anima in quel posto. Il 31 maggio 2018 siamo stati tutti licenziati: io oggi sono ancora a casa. A me, che ho quattro figli, hanno insegnato che l’unico ammortizzatore sociale è il lavoro”….”