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MERCOLEDÌ 27 MARZO 2019
(Abbiate pietà, siamo di nuovo lunghi, ma è la storia della Serbia che è lunga e complessa)
Il contributo dei pellegrini di Sarajevo
Coloro che in questi giorni, in occasione del XX anniversario dell’aggressione Nato alla Serbia, si stracciano le vesti per una guerra che ha lacerato l’Europa e sancito la fine dellojus gentium, del diritto che regola i rapporti tra i popoli e impone il governo della legge su abusi e arbitri, sono quelli che il 24 marzo 1999, la mattina dopo le prime bombe, si armarono di menzogne e partirono per Sarajevo. Quinte colonne di pellegrini della pace accorsi a offrire un contributo alla frode che parlava di nazionalismo etnico dei serbi, del “dittatore” Milosevic, della persecuzione degli albanesi nel Kosovo, dell’assedio stragista dei serbi alla città bosniaca, del massacro di 8000 innocenti di Srebrenica (solo miliziani del capobanda Nasr Oric, fiduciario del fascista islamista Izetbegovic, massacratore – vero – di 3.500 serbi attorno a Srebrenica. Ma è Karadzic, il difensore dei serbi dalle orde jihadiste del fascista Izetbegovic, reclutate dalla Nato, che oggi viene condannato all’ergastolo dal tribunale pinocchiesco dell’Aja).
Sicari civili del generale bombarolo Wesley Clark esordivano alla grande a Sarajevo e Belgrado nella missione di asfaltare, con le calunnie sui serbi e sul loro governo, la via alla distruzione dell’ultimo lembo di quel grande esperimento di convivenza e progetto comune che era stata la Jugoslavia socialista di Tito. Comunità sovrana di popoli perno di un altro grande e positivo progetto di alternativa allo spadroneggiare dell’imperialismo: l’organizzazione dei Non Allineati.
Kosovo: l’inversione delle pulizie etniche
UCK e Isis
Insieme ai pionieri del 1992, Pannella e Bonino, in mimetica accanto ai neo-ustasha croati, al Papa polacco in testa alle sue truppe in tonaca, al pacifista Alex Langer convertitosi al bellicismo Nato, con l’invocazione di bombardamenti sui serbi, ai revanscisti di Berlino, che i serbi, pur con una mano legata dietro alla schiena, avevano sconfitto da soli, torme di Ong avevano già invaso il Kosovo e s’erano già fatte apprezzare da vivandiere degli squartatori dei Balcani. Nei decenni precedenti, la sistematica caccia al serbo, nel cuore kosovaro della Serbia, da parte di albanesi perlopiù immigrati dall’Albania e così diventati maggioranza, era stata resa possibile dalla tolleranza di Tito, nel nome di un equilibrismo preoccupato di non irritare, con un’egemonia serba, gli altri componenti della Federazione.
Così la pulizia etnica operata dalle bande UCK, sostenuta dalle università di George Soros etnicamente pulite (riservate ai soli albanesi) e dalle strutture sanitarie di Teresa di Calcutta, etnicamente pulite nello stesso senso, venne risolta da queste Ong nel suo opposto: serbi colpevoli, albanesi vittime. L’avallo della stampa italiana e internazionale sul posto, onesta quanto Gianni Schicchi che “va rabbioso altrui così conciando” (Canto XXX dell’Inferno), non si avvide dell’inizio dell’esodo che, alla fine, avrebbe visto 230mila serbi resi profughi perenni, ma privi di neanche un grammo di quella solidarietà elargita oggi ai nuovi sradicati all’ombra dello stesso imperialismo. Non si avvide neanche dei 150 monasteri del XII, XIII, XIV, XV secolo bruciati che, poi, sarebbero cresciuti, sotto gli occhi della KFOR, a oltre 230. Né delle case serbe occupate dagli albanesi, né delle istituzioni dello Stato date alle fiamme. Meriti deontologici che a qualcuno fruttarono l’elevazione al rango di corrispondente da New York. Mentre il banditismo narco- e organo-trafficante dell’UCK valse ai tagliagole il riconoscimento, non dell’ONU, ma di alcuni governi di pari qualità.
Presidenti democratici nominati dittatori, pulizie etniche, narcostati e interpreti simultanei Ong
Tanto blindata era la dittatura di Slobodan Milosevic, presidente di una federazione e di una repubblica in cui si votava, correttamente, più che in qualsiasi altro paese europeo, dove esistevano forti e vociferanti partiti d’opposizione ed emittenti radio e televisive infeudate ai propagandisti occidentali senza che nessuno li invitasse a moderare le menzogne suggerite da Berlino e Washington. E Ong arlecchinesche, come l’ICS o le Tute Bianche del noto navigatore Luca Casarini, venivano ospitate da quinte colonne come, rispettivamente, le “Donne in Nero” e Radio B92, organo di George Soros, specializzata in scagliare contumelie sul “regime” e pietre sui partigiani in corteo sotto le sue finestre.
Troppo democratico, Slobo, e troppo preciso rivelatore della strategia dei necrofori all’assalto dei popoli sovrani nella strategia del Nuovo Ordine Mondiale in nuce, da poter essere lasciato in vita nel carcere dell’Aja, dopo che neppure il soldo di Bill Clinton era riuscito a far trovare ai giudici di quel tribunale-burletta la minima prova di una qualche colpa del presidente serbo. Lo salutammo da sotto le sbarre del carcere di Scheveningen. Ma di quelle Ong umanitarie non se ne vide nessuna. E neppure il giornaletto finto di sinistra che, con un suo inviato, piagnucolava sulle bombe cattive, ma si riprendeva parlando del “despota” Milosevic, ancora più cattivo, metteva sullo stesso piano le parti in causa in Kosovo, cianciava di contropulizia etnica dei serbi quando di pulizia etnica ce n’era una sola, quella dell’UCK. Il risultato a cui costui ha dato il suo bel contributo, è un Kosovo messo in mano al gangster UCK Hashim Thaci, dimostrato responsabile dell’unica pulizia etnica perpetrata e del traffico di organi di civili e soldati serbi catturati. Un paese in miseria nonostante riceva più aiuti di qualsiasi altro, sede della più grande base USA d’Europa, ponte del trasferimento in Occidente dell’eroina in arrivo dalle zone dell’Afghanistan controllate dall’occupante Nato.
Dall’ “intervento umanitario” all’inferno.
A me, in redazione al Tg3 la mattina del primo dei 78 giorni di bombardamento, l’invito a considerare l’attacco un “intervento umanitario” (il primo di quelli costati all’umanità l’Afghanistan, la Somalia, l’Iraq, la Libia, la Siria, lo Yemen, l’Honduras, diononvoglia il Venezuela), non tornò né giusto, né corretto. Impossibile condividere, schifoso sottostare e in RAI non mi feci vedere più. Presi una telecamera e mi feci vedere a Belgrado, insieme alla gente del “target” che, cantando, sfidava sul Ponte Branko, obiettivo per eccellenza, i topgun Nato che partivano da Aviano su ordine, anche, di D’Alema premier e Mattarella vicepremier e ministro della Difesa. A Kraguievac, con Raniero La Valle, Sandra e il bassotto Nando, schivammo un paio di missili, a Belgrado, di notte, vedemmo in fiamme l’ambasciata cinese e, la mattina, colpito il reparto incubatrici dell’ospedale pubblico. Dal 1999 al 2001 mi aggirai per la Serbia, tra le rovine di ospedali, scuole, ponti, treni, case, orfanotrofi, fabbriche, ambasciata cinese, televisione di Stato e suoi giornalisti e tecnici, la Zastava a Kragujevac, cuore operaio della Serbia jugoslava, vista rasa al suolo dall’uranio e un anno dopo rimessa in opera dagli stessi, eroici, operai. Ne vennero i due unici documentari che in Italia ed Europa provarono a dire un’altra verità. Per la quale, a Belgrado, ora hanno avuto la generosità di offrirmi un riconoscimento. Che terrò incorniciato e in vista, per non dimenticare mai. Come promesso dai convegnisti del Forum di Belgrado.
Il PRC: No, Milosevic no!
Ma ne vennero anche i reportage che “Liberazione”, quotidiano del PRC, mi aveva chiesto di mandargli. E che apparvero nella misura in cui descrissi gli effetti dei bombardamenti. Poi mi occupai della resistenza operaia, intellettuale, popolare, dell’incredibile ricostruzione in pochissimi mesi, in particolare dei magnifici ponti sul Danubio a Novi Sad e della Zastava. E qui, al ritorno, scopersi che il caporedattore Cannavò, – oggi, coerentemente, all’atlantista Fatto Quotidiano – ne aveva cestinato gran parte. “Mica potevamo appiattirci su Milosevic”, fu la giustificazione dell’indecente abuso. La stessa che mi diede la vicedirettrice Rina Gagliardi quando rifiutò la mia intervista a Milosevic. L’ultima che diede, prima dell’arresto tre giorni dopo, dando prova di generosità d’animo, amore per la patria, acutezza di analisi e di impressionante lungimiranza su quello che la distruzione della Jugoslavia avrebbe comportato. La pubblicai sul Corriere della Sera, giornale che almeno sapeva di giornalismo.
Vent’anni dopo. Un convegno. Della memoria e della resistenza.
Ero venuto a Belgrado per il convegno nel X anniversario dell’aggressione. Ci sono tornato ora nel XX. Dubito, a 85 anni, che mi rivedranno al XXX. Ma loro terranno duro, fino a quando la vulgata delle menzogne su Jugoslavia, Serbi, loro uccisori e devastatori non sarà riconosciuta da un’opinione pubblica che insiste a farsi turlupinare da delinquenti della guerra, dello schiavismo coloniale e dell’informazione. Fino a quando le vittime non saranno state risarcite, bonificati i territori e curati i corpi bruciati dall’uranio impoverito (tra i ragazzi sotto i 15 anni tre volte i tumori della normalità senza uranio) e avvelenati dalle sostanze chimiche fatte sprigionare dagli impianti petrolchimici di Pancevo. Sparute voci invocavano memoria, ma anche perdono. Subito subissate dal coro:”Non dimentichiamo, non perdoniamo“.
Loro che tengono duro, fin dai giorni dell’aggressione, sono capeggiati da un uomo della cui specie ne vorremmo avere anche da noi. Zivadin Jovanovic era ministro degli esteri nel governo di Slobodan Milosevic, testimone dell’infame inganno di Rambouillet, trattato di “pace” con cui Madeleine Albright (quella dei “500mila bambini morti che valevano la pena per prendersi l’Iraq”) pretendeva di imporre alla Serbia di farsi occupare dalla Nato. Testimone, alla fine dei bombardamenti, della “pace” di Kumanovo. Forse l’unico, grande errore di Milosevic: il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo. Difficilmente l’UCK, se non la Nato, avrebbero prevalso, tra le montagne serbe, sull’esercito erede della lotta partigiana ai tedeschi. Avremmo vissuto un’altra storia.
Sicuramente non quella di una Grande Albania che incorpori Kosovo e pezzi di Serbia, Montenegro e Macedonia, vascello pirata sospinto dal soffio Nato e UE, tornato virulento in questi mesi e ansioso di farla finita con una Serbia che a Putin in visita a gennaio offre tripudio, un milione di cittadini in festa e il rifiuto della Nato (“Per difenderci basta il nostro esercito. Non abbiamo bisogno della Nato”. Così, alla conferenza, il ministro della Difesa, Aleksander Vulin, ripetendo ciò che aveva detto il presidente Vucic). Una Serbia che dall’inverno scorso viene descritta come assediata dalle opposizioni anti-Vucic, ma che a fine marzo abbiamo visto in piazza ridotta a poche decine di manifestanti. Tra l’altro con parole d’ordine che richiamano con precisione quelle di Otpor, la Quinta Colonna creata dalla Cia nel 2000 e poi attiva nell’innesco di quasi tutte le “rivoluzioni colorate”, fino al golpe di Guaidò in Venezuela.
Forum di Belgrado per un Mondo di uguali
Zivadin Jovanovic (occhiali), Enrico Vigna (in blu) e il sottoscritto (in rosso). Sotto: Jovanovic al palco.
Con il Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali, di cui è rappresentante per l’Italia Enrico Vigna, meritevole anche per i progetti con i serbi del Kosovo che ha illustrato nel suo intervento, Jovanovic, detto Zica dagli amici, dà da vent’anni forma e contenuto alla resistenza serba e alla verità. Per questo anniversario ha riunito nella capitale, da tutto il mondo, 500 tra storici, giornalisti, analisti, esperti militari, biologi e tanti di coloro che su vari piani, in questi anni, tra oblio indotto e ripetizione delle menzogne, hanno tenuto accesi ricordi e verità. A Belgrado siamo, opportunamente, nel palazzo delle Forze Armate Serbe, quelle del cui patriottismo i serbi continuano a fidarsi. Per l’Italia ci siamo io, Vigna e il gruppo di Jugocoord che, da anni, si occupa eminentemente di ricerche storiche su Jugoslavia e fascismo.
Non avevo una precisa idea su quale tema trattare nel mio intervento alla conferenza. Si trattava di evitare dati e considerazioni che sicuramente sarebbero stati trattati dai tanti iscritti a parlare: quasi 30mila raid aerei, 10.000 missili Cruise, 21.700 tonnellate di esplosivo, 350 di uranio impoverito, 36mila bombe a grappolo, bombe alla grafite, 2.200 civili uccisi, 33 ospedali centrati, 23 raffinerie, lo stesso Kosmet, caro alla Nato, con un aumento del 200% dei casi di cancro. E poi la denuncia del complotto genocida che ha visto complici Germania, in primis, e poi Usa, Ue, Vaticano, i mancati risarcimenti, le bonifiche negate, come negata dai paesi Nato è la causalità tra Uranio ed effetti patologici letali. A dispetto dei 400 e passa soldati italiani uccisi dai tumori e dei 6000 ammalati in seguito al contatto, non protetto, con quelle armi, in Kosovo, come nei poligoni della Sardegna.
Il battesimo delle False Flag del secondo millennio
Il bacio della musa dei convegnisti arriva durante il trasferimento dall’aeroporto al centro della capitale. La mia grande amica e compagna serba in resistenza, Gordana Pavlovic, vedova di guerra (una delle grandi donne serbe che ho avuto la fortuna di conoscere, con in testa Ivana, che in Italia tiene viva la fiamma della verità sulla Serbia), mi indica la sede, che avevo visto semicarbonizzata, del Comitato Centrale del Partito. Forse l’avrebbero lasciata lì, pensavo, monumento perenne al crimine di aggressione. Ma lo sguardo si scontra con un gigantesco complesso commerciale su cui spicca la scritta “Zara” e quella di altre griffe del consumo spietato e imbecille. La grande piazza è un parcheggio. Case, caffè, botteghe, alberi, gente del vicinato, spariti. Un’identità cancellata. L’innesco, il bacio della musa, è stata la parola “identità”. Venutami in mente in quel momento e poi pronunciata da un solo relatore: Pyotr Olegovich Tolstoy, vicepresidente della Duma, Federazione Russa. Tolstoy ha riferito il termine alla mai sufficiente denuncia delle truffe, inganni, bugie, falsità sesquipedali con le quali si è voluto deformare l’immagine, l’identità della Jugoslavia e indurre l’opinione pubblica a tollerarne il disfacimento, prodromo alla guerra infinita, detta “al terrorismo”, da parte di una congrega di Stati costruitisi e perpetuatisi nel terrorismo.
A partire dalla frode di Racak, innesco all’attacco, quando qualche decina di cadaveri mutilati di civili erano stati attribuiti dal capo dell’OCSE, presunto ente mediatore, William Walker, a una strage perpetrata dai serbi. Gli anatomologhi finlandesi che esaminarono la scena documentarono che trattavasi di miliziani UCK caduti in combattimento e che erano stati mutilati dopo la loro morte. Poi vennero le armi di distruzione di massa di Saddam, Osama bin Laden, l’11 settembre, Gheddafi e Assad che bombardano il loro popolo… Insomma la False Flag come madre di tutti i crimini contro l’umanità.
Le frodi si possono rivelare, le colpe attribuire, ponti, palazzi, ferrovie, ospedali, case, scuole, fabbriche, si possono ricostruire. Ma quando un’identità è ferita, mutilata, non smette di sanguinare. Fino alla morte. Ed è questo l’obiettivo strategico dei necrofori con la falce della globalizzazione. Cancellare l’identità con la guerra, o ingabbiarla e soffocarla con la gabbia delle strutture politiche ed economiche, tipo Nato, tipo UE. Il terrorismo bellico mira a colpire cultura, testimonianze, radici, opere che una comunità ha espresso nel tempo, i suoi modi e le sue strutture della convivenza. Punta a sottrarre l’anima, a cancellare il nome. La guerra per l’annientamento di ciò in cui un popolo si riconosce, che lo lega a quella Storia e a quel territorio, è terribilmente sottovalutata. Al convegno di Belgrado non ne ha parlato nessun altro, ma che la questione fosse sotterraneamente presente lo hanno dimostrato il consenso e la condivisione.
Non solo case, ospedali, monasteri, ponti, scuole…
In Iraq gli americani hanno, per primissima cosa, c’ero ancora, fatto devastare, da manovalanze importate dal Kuwait, il Museo e la Biblioteca Nazionali, contenitori di quattro millenni di civiltà, che poi ha saputo trasferirsi nel resto dell’umanità (non a tutta, per la verità). Con i cingoli a Ur, patria di Abramo, hanno frantumato il primo asfalto inventato dall’uomo. La distruzione di Babilonia, Niniveh, Atra, Nimrud, Mosul, l’hanno perpetrata con le bombe e delegata ai mercenari Isis. Come in Siria per Palmira, Aleppo, Raqqa. Come in Libia per Cyrene, Leptis Magna, Ghadames…
Della Serbia sappiamo dei 150 monasteri ortodossi distrutti nel Kosovo e di altri 100 sotto gli occhi della Kfor. Qualcosa è trapelato sugli effetti genocidi nel tempo dei fumi sprigionati dalle raffinerie incendiate, delle sostanze chimiche mortali uscite dai serbatoi di Pancevo, appositamente e precisamente mirati (quelli vuoti non sono stati sfiorati!). Non sappiamo della distruzione o del danneggiamento dei musei, delle cattedrali, della Fortezza di Belgrado, dei cimiteri antichi, dei monumenti bizantini e medievali, delle chiese, moschee e sinagoghe, del Parco della Memoria a Kraguievac, del Parco Nazionale di Fruska Gora, dove alberi e monasteri venivano frantumati sotto i nostri occhi, dei centri urbani antichi e, dunque, della loro forme di convivenza. Tutti crimini contro l’umanità, violazioni di leggi e convenzioni. Tutto per cancellare radici, identità, anime, livellare, uniformare. E senza identità non c’è sovranità. Se non quella dei globalizzatori, livellatori, espropriatori, odiatori di cultura. Da dove trarre la forza, il senso di comunità, per lottare?
Identità, nemico principale
Il lavoro dei globalizzatori non finisce con la guerra e le bombe. Ne è prova la global-imperialista Operazione Migranti, riesumazione della tratta schiavista e del razzismo colonialista dei secoli passati, coperta dall’ipocrisia dei buonisti e accoglitori senza se e senza ma, ma finalizzata a svuotare di giovani i paesi delle risorse e ad annullare la coscienza della propria identità in chi parte e in chi accoglie. Ne è testimonianza l’universalizzazione delle gentrificazioni nelle metropoli. Con l’arrivo dei ricchi e dei manager e di torme di turisti uniformati da scenari uniformi,tra Tokio, Chicago, Londra, Lisbona e la Milano guastata da sindaci e architetti. Con l’espulsione in periferia del corpo vivo del popolo e il subentrare di centri commerciali, B&B, catene di hotel, ristoranti e boutique in franchising, dopo aver raso al suolo botteghe, caffè, trattorie, le piazze dei muretti, dei balli e delle fontane per il sabato sera della comunità di ieri e di oggi, di sempre.
“Siede con le vicine a filar la vecchierella incontro là dove si perde il giorno… “I fanciulli gridando sulla piazzola in frotta e qua e là saltando fanno un lieto rumore…. Poeta, ma anche profeta, Giacomo: “Ma la tua festa, ch’anco tardi a venir, non ti sia grave”. Il Centro Commerciale Zara & Co. al posto del palazzo del Comitato Centrale, è un brutto segno. Lo è anche il nuovo quartiere dei ricchissimi, la Waterfront (all’inglese!) sul fiume. Per ora sembra salvo il centro.
Quello del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali è stato, doveva essere, alla vista dell’oblio indotto dai responsabili e dai loro amanuensi, un convegno della memoria. Ma da Zivadin Jovanovic all’ultimo delegato, eravamo coscienti che la memoria non serve se resta galleria degli antenati e dei paesaggi. Ambiente in cui si crogiola troppa gente. La memoria dei serbi non cessa di accusare e avvertire: per i necrofori, la Serbia dovrebbe essere diventata il paradigma dell’umanità. O si resiste alle sirene Usa, Nato, UE, o si muore tutti. La memoria, quando è denuncia, diventa resistenza. A partire dalla lotta contro coloro che oggi vengono di nuovo incaricati di agitare la piazza. Piazza spuria e strumentale per abbattere un presidente che, forse ondeggiante, ha comunque dichiarato un no epocale alla Nato. Una Nato che, a partire dal progetto che riunisca tutti gli albanesi in unico Stato all’ordine della criminalità internazionale e locale, prosegua l’infinita destabilizzazione dei Balcani e la faccia finita con quel cuore serbo che ha vinto i nazisti e ora rifiuta di farsi testa di ponte per la guerra alla Russia.
Le conclusioni tracciate da Jovanovic sottolineano l’impegno a difendere e diffondere a livello internazionale la memoria dei crimini e dei loro responsabili. A trarne il rafforzamento dell’opposizione alla Nato e all’UE nel nome di un diritto internazionale e di una sovranità nazionale da ricuperare. A stringere rapporti sempre più stretti con la tradizionale alleata russa. A inserirsi, con la forza dell’esperienza e della sofferenza subita, nel fronte internazionale dell’antimperialismo e dell’autodeterminazione dei popoli. Sotto il segno della parola d’ordine del convegno: “Pace e progresso contro guerra e dominio”.
Ho chiuso il mio discorsetto con una promessa. Che tutti e cinquecento ci saremmo ritrovati qui al XXX anniversario e, anche, al XL. Visto che ci battiamo tutti per una causa giusta, buona e bella, non moriamo mai. Siamo immortali. Un sorriso ci vuole ogni tanto.
Seguirà, nel prossimo post, un’intervista con Zivadin Jovanovic, presidente del Forum di Belgrado e ministro degli esteri del governo Milosevic
Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 09:33