IN MARGINE A KHASHOGGI — JACK THE RIPPER, UNA SINEDDOCHE

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MONDOCANE

MERCOLEDÌ 24 OTTOBRE 2018

 

Jack the ripper, Giacomo lo squartatore, ricordate, è il personaggio reale che sbudellava donne, prostitute perlopiù, nel quartiere londinese di Whitechapel, di cui si mormorava potesse essere un altissimo membro di Casa Reale, allora retta, nel massimo fulgore della gloria ed espansione del suo impero, dalla regina Vittoria. Non si mai saputo, voluto sapere, chi il serial killer fosse. Anche oggi, specie da noi, sono pochi i colletti bianchi che finiscono davanti al giudice, e pochissimi che vadano dietro le sbarre. Figuriamoci, allora, i colletti di sangue blu. Jack divenne lo spunto per una letteratura gialla che si premurò di seppellire nelle fatiscenze e tra le stamberghe da gentrificare di Whitechapel la torbida e imbarazzante crepa  in una società borghese i cui cantori, salvo eccezioni tipo Dickens e Oscar Wilde, la celebravano come l’apoteosi della vicenda umana. Una specie di “fine della storia”, come cent’anni dopo la riprese Fukuyama  per sancire che nulla ci sarebbe potuto essere al di là del capitalismo neoliberista e mondialista voluto dalla finanza, interpretato dai neocon e attuato da Clinton, Obama, Blair, nanetti da giardino a Bruxelles, facilitatori e influencer  locali vari.

La parte per il tutto: uno, due, tanti Jack the ripper

Sineddoche è la figura retorica più diffusa. Quando si usa la parte per il tutto. Per esempio dire “bevo un bicchiere”, “Palazzo Chigi dichiara”. Alcuni lo sapevano, altri meno, ma i tanti che hanno illustrato le imprese di Jack the ripper, in libri, film, teatro, fumetti, hanno disegnato la sineddoche della società di allora e di oggi, una società che ha sbaragliato, con i metodi e strumenti di Jack, a volte metaforici a volte no, ogni pensiero e ogni assetto che non fossero quelli unici. Jack è la parte per il totale di questa società. Una società che stava costruendo  il suo edificio del potere, oggi giunto al completamento, con i mattoni fatti delle  ossa e cementati col sangue di un’umanità  il cui mattatoio era la sua stessa casa. Casa senza finestre e senza uscite.  Jack si è moltiplicato all’infinito: capitalismo, vuoi liberale, socialdemocratico, vuoi nazifascista, colonialismo, imperialismo, neocolonialismo in forma di emigrazione. La guerra di Jack contro le donne di Whitechapel che esprimevano una condizione umana determinata da povertà e ingiustizia, era la guerra contro chi lacerava il quadro della buona società borghese trionfante. La lacerazione dell’ipocrisia andava lacerata. Squartata, appunto. E nessuno avrebbe mai dovuto e potuto scoprire e punire lo squartatore.

Jack non va in galera

Nessuno scoprirà e punirà mai quel Jack the ripper  che, nella sede diplomatica saudita di Istanbul, ha ucciso, squartato e seppellito il giornalista del Washington Post e membro del settore dell’élite saudita spodestata, Jamal Khashoggi. Ognuno utilizzerà la prodezza dell’infante, Mohammed bin Salman, detto MBS, per riformattare i rapporti di forza all’interno del circuito dei Global Jacks the rippers (per coloro che di inglese sanno smart, fashion, glamour, start up, street food, è plurale). Alla Davos saudita, dopo l’ovazione in piedi tributata al Jack padrone di casa, fresco fresco del sospetto granitico di aver ordinato l’affettamento del disturbatore, sono stati conclusi affari per 50 miliardi. Erdogan, bue che dà del cornuto all’asino, con le sue centinaia di giornalisti in carcere e le decine di migliaia di statali, avvocati, magistrati “infedeli” cacciati, fa finta di indagare sul Jack saudita, ma non  lo menziona, si limita di tenerlo per il bavero perché l’egemonia sull’Islam sunnita (nonché sul mercenariato jihadista) sia suo e dei suoi Fratelli Musulmani piuttosto che dei wahabiti e salafiti del Golfo. Pensino a massacrare sciti tra Yemen, Saudìa, Bahrein e Libano e non rompano. E sulla Siria decidiamo noi.

Il processo a MBS si ferma lì. Del resto, non si è ancora visto all’orizzonte, come non si era visto a Scotland Yard 120 anni fa chi indagasse seriamente sul Ripper,  il temerario che se la sentirebbe di redarguire un fronte di Jacks che, tra idrocarburi, armamenti e internazionale tribale, costituisce una delle pietre miliari nella marcia verso il mondo uno e trino: banca, armi e genocidi. Il mondo dove ci promettono – e il pecorame sinistro-destro conferma –  albeggia la vera democrazia.

Per un attimo, Trump ha sollevato il ciglio sullo smembramento di Khashoggi, ma l’ha istantaneamente riabbassato, parlando di “fatto malavitoso”. S’è ricordato che il 18% di tutto il petrolio mondiale è saudita, pulito, a basso costo, mentre quello suo, di scisto, costa un botto e fa schifo. Ha anche pensato che, se lo Jack saudita non si compra quelle armi per 100 miliardi, altro che vittoria alle elezioni di medio termine, con qualche decina di migliaia di operai in strada e l’intero complesso militar-industriale, che tiene in piedi la baracca economica a stelle e strisce, già seccato perché quando Trump incontra Putin non gli spacca la faccia, che gli scatena contro l’armageddon finale.

O con Jack, o squartati da Jack. O zitti.

Quanto poco gli importi di mettersi a tavola con Jack, pur di guadagnare punti nei confronti dei bari che fanno saltare consolidati accordi anti-olocausto nucleare (quelli che noialtri, a costo di parecchi bozzi da manganello in testa per cacciare Cruise e Pershing da Comiso, contribuimmo a far concludere da Reagan e Gorbaciov), lo ha dimostrato ai suoi sostenitori anche Putin. Non era passato quel battito di ciglio di Trump, che il salvatore della Siria già si presentava da MBS con in mano un piatto pieno di S-400, ultimo grido di difesa anti-aereo (difesa contro le cento squadriglie di MIG 17 degli Houthi yemeniti, evidentemente). Quello venduto anche a turchi e indiani, ma negato ai siriani.

E che nel mondo dei Jack, se non puoi stare a tavola con loro, conviene almeno star zitti su quanto sbranano e divorano. Come ha ben capito il governo Salvimaio quando si è ben guardato neppure dal sollevare quel ciglio alla Trump, o alla Merkel e, tanto meno, di porre un freno al flusso di armamenti dall’Italia, via Riad, in capo ai 18 milioni di yemeniti che la fame e il colera da blocco saudi-statunitense non hanno ancora stroncato.

Jacks sull’Honduras

E’ un mondo di Jacks. C’è un Jack a Tegucigalpa, Honduras, ennesimo spurgo del colpo di Stato voluto da Obama e organizzato da Hillary contro un presidente amico degli anti-Jack del Venezuela, che costringe il suo popolo a togliersi dai maroni per lasciare il posto a multinazionali dell’estrazione e della palma d’olio (rivedetevi questa prodezza hillariana nel docufilm: “Il ritorno del Condor”. Ci trovate, tra grandi lotte di resistenza, anche la mia intervista alla grandissima Berta Cacares, trucidata dal regime). E c’è un Jack a Washington che dai paesi dell’America Latina non vuole saperne di affamati e assetati, ma di essere da loro nutrito e dissetato a forza di oro, legname, chimica, hamburger e petrolio. Quanto siano sineddoche questi Jacks, lo dicono i 20 assassinati al giorno a Tegucigalpa, il più alto tasso di omicidi del mondo da quando hanno spazzato via Zelaya, presidente eletto dal popolo, ma nel paese dei padroni delle banane. Va così, nel mondo dei Jacks.

C’è un altro Jack in questa storia che non si sa se sia concepita contro Trump, o a suo favore. E’ uno che campa assassinando nazioni. Circola la voce che la partenza da San Pedro Sula, nel Nord dell’Honduras, delle prime centinaia di marciatori verso gli Usa e poi l’afflusso in San Salvador e Guatemala di altri disperati di questi paesi da sempre sotto l’anfibio Usa, fino ad arrivare ai 7000 sul confine col Messico, si siano svolti sotto gli auspici e con il concorso di George Soros. L’amico di tutti i migranti che lasciano il posto alle multinazionali e il nemico di tutti coloro che vogliono restare a casa e farselo loro il proprio paese, ci avrebbe messo la zampa per inguaiare da destra (lo sradicamento-spostamento di popolazioni è operazione di destra, mondialista) l’odiato presidente che la bufala cosmica Russiagate non è ancora riuscita a disarcionare.

Resta da vedere se il calcolo è azzeccato. Chè se quell’ondata, magari ingrossata dalle vittime messicane dei narco-Jacks che hanno preceduto Lopez Obrador alla presidenza del Messico, si dovesse infrangere contro il muro tra Texas e Chihuahua, o lo dovesse addirittura superare, sai la psicosi razzista che si solleverebbe tra i diseredati nordamericani, gli esiti potrebbero essere due. O Trump ci guadagna, perché da sempre minaccia blocchi e chiusure alle torme che vorrebbero invadere il paese del benessere e, spaventata dall’ondata centroamericana, la gente si rifuggirebbe nel voto repubblicano; o ci rimette perché, pur tuonando e promettendo sfracelli, non riesce quell’ondata a fermarla sul nascere,  a dispetto di tutte le leve di dominio di cui gli Usa godono in quella regione.

Dal mattatoio Honduras alla discarica di Tapachula

Ai disperati in marcia verso il “sogno americano”, manipolati o meno che siano da uno dei tanti Jack che incombono da secoli sui destini del continente, non dice bene. Prima di arrivare a Ciudad Juarez, davanti al Texas, saranno selezionati dai narcos, bastonati, sequestrati, uccisi da questi, quando non dalle maras, angariati e rinchiusi da queste o quelle forze dell’ordine, spiaggiati sui due lati del fiume Suchiate, in Honduras o Messico, a rimediare un po’ di lavoro e un po’ di alcol. Li ho visti lì, alcuni da anni, sotto tetti di cartone, instupiditi dall’attesa, dal niente, dalla dissipazione di ogni prospettiva. Con loro, su pneumatici di camion, ho attraversato il Suchiate, li ho visti attendere da un’eternità il treno buono per il nord, arrampicarvici, caderne per la stanchezza, morire. Soprattutto li ho visti finire nell’immensa discarica di Tapachula, a lavorare sotto caporali frugando tra i rifiuti. Donne del Guatemala, lì da anni, rosicchiate dalla tubercolosi, con i figli nati prima, ma anche lì, che si grattavano la scabbia. Ho raccontato tutto in “Messico: angeli e demoni nel laboratorio dell’Impero”. Scusate  lo spot.

Tra i tanti che lacrimano dai loro salotti al seguito dei marciatori honduregni ci  sarà qualcuno che, anziché parlare di accoglienza, lì solo un po’ più sanguinaria della nostra tra i pomodori, parlasse di partenza coatta. Come quella dalla Nigeria imbrattata dal petrolio dell’ENI  (di cui il “manifesto” pubblica i paginoni promo redazionali), o come quella  dalle terre rubate agli indigeni per  i quali Berta Cacares si è battuta contro l’olio di palma degli avvelenatori. E  che dicesse che quella partenza è dovuta ai Jacks di cui, nel nostro emisfero, si accettano tutti i corollari culturali e geopolitici. Potrebbe essere una bella sineddoche. Ma non la vedo.

Mi fermo qui. Dei Jacks in gessato, whiskino a portata e porte girevoli sempre in funzione tra Bruxelles e Goldman Sachs e tutti i padroni – privati e paperoni ! – delle agenzie di rating che stabiliscono chi deve vivere e chi morire, inorriditi dal cambio di direzione che i flussi hanno preso in Italia, anziché dal basso verso l’alto all’incontrario, mettendo a rischio tutto il bello schemino realizzato assieme ai Jacks americani da settant’anni in qua, parleremo un’altra volta.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 21:07

IN MARGINE A KHASHOGGI — JACK THE RIPPER, UNA SINEDDOCHEultima modifica: 2018-11-01T17:35:47+01:00da davi-luciano
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