Le ferrovie sono di destra. Ma in Italia è vietato dirlo

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Il libro dell’economista Marco Ponti racconta una sconfitta: i politici si rifiutano di calcolare costi e benefici prima di spendere miliardi

Le ferrovie sono di destra. Ma in Italia è vietato dirlo

A prima vista ha tutti i caratteri di un implacabile j’accuse, lontano dalla finezza e dalla sottigliezza accademica. Ma è anche la storia di una cocente sconfitta.

Parliamo di Sola andata, pamphlet di Marco Ponti (amico – e cattivo? – maestro di chi scrive), edito per i tipi di Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi. Traspare tra le righe la delusione e forse l’amarezza per un impegno più che trentennale volto a mutare la politica dei trasporti italiana e costellato da una serie di insuccessi.

Modi e contenuti del volume evocano gli scritti di un altro grande perdente della storia italiana, quelli del fondatore del partito popolare, Luigi Sturzo che, tornato in Italia dopo un esilio di 22 anni negli Stati Uniti e a Londra, spese le sue ultime energie nel denunciare i tre mali della democrazia: “Lo statalismo, la partitocrazia e l’abuso del denaro pubblico”. Sturzo nel suo Manuale del buon politico afferma che “il denaro pubblico deve essere considerato sacro” e che “è più facile dal no arrivare al sì che dal sì retrocedere al no. Spesso il no è più utile del sì”.

Nella sua esperienza di accademico e di consulente, Ponti sembra essere stato guidato da questi precetti. Numeri alla mano, ha provato a modificare decisioni che li contraddicevano platealmente: un cattivo utilizzo del denaro pubblico lontano dalla prospettiva di massimizzare i risultati conseguibili, ma guidato dalla volontà di massimizzare la spesa. Basti pensare ai toni entusiastici con i quali vengono presentati nuovi investimenti – l’ultimo, il piano da decine di miliardi delle Ferrovie dello Stato – o gli aumenti di spesa corrente nel settore dei trasporti (ma gli altri ambiti non sono diversi). Non importa che poi, spesso, quegli investimenti non soddisfino un’adeguata domanda di trasporto. Il metro del successo per il decisore politico è rappresentato dal taglio del nastro, dall’inaugurazione, magari ripetuta, di una nuova opera (meglio se “grande”).

È come se il successo di un imprenditore fosse rappresentato dalla realizzazione di un sito produttivo. Ma se l’impianto è stato realizzato a costi eccessivamente elevati oppure se le previsioni di domanda si rivelano errate, l’incauto investitore ne subirà le conseguenze. Nulla di simile accade per gli investimenti pubblici: nessuno promotore di “elefanti bianchi” subirà conseguenze negative delle sue scelte. L’assenza nel caso di scelte pubbliche di un meccanismo automatico di premio o sanzione come quello che opera attraverso profitti e perdite in un mercato concorrenziale determina la necessità di uno strumento succedaneo che consenta di addivenire alla migliore allocazione delle limitate risorse pubbliche.

Tale strumento, l’analisi costi-benefici, è disponibile da più di un secolo ma, come Ponti non si stanca di ricordare, è inviso ai decisori politici i cui obiettivi sono lontani dalla massimizzazione dei benefici per la collettività. L’ex premier Silvio Berlusconi, non sapeva che farsene: per decidere bastava qualche tratto di pennarello su una lavagna in un salotto tv. L’attuale ministro Graziano Delrio ha detto invece di ritenerlo indispensabile per individuare le opere “utili” ma sostenendo allo stesso tempo, a monte di qualsiasi valutazione, la necessità di una “cura del ferro”.

Delrio ha espresso il proprio convinto supporto alla realizzazione di linee che, se passate al vaglio dell’analisi costi-benefici, risulterebbero, come documenta il volume di Ponti, non fattibili. Terapia peraltro inefficace a perseguire la finalità indicata, ossia la sostenibilità ambientale per l’assoluta esiguità del numero di spostamenti su gomma che possono avvenire sui binari pur in presenza di ingenti investimenti. Ed è anche inefficiente e iniqua come rivelerebbe, se la si lasciasse parlare, l’analisi costi-benefici: lo spostamento modale non conviene alla collettività quando i costi esterni sono, come in Italia e in Europa per quelli ambientali, interamente internalizzati dal prelievo fiscale.

Quello della sostenibilità non è l’unico mito sul quale si fa leva per giustificare l’ingente spesa per i binari a carico dei contribuenti. Non manca mai un riferimento alla socialità. Ma, di nuovo, in assenza di dati quantitativi. Degli investimenti per la rete ad alta velocità beneficiano per la stragrande maggioranza utenti che sarebbe difficile classificare come poveri. Ma gli stessi pendolari che utilizzano il treno (solo il 6% del totale) non sono accomunati dal basso livello di reddito ma dal fatto di effettuare spostamenti verso le aree centrali delle maggiori aree urbane, l’unico segmento della mobilità che vede la ferrovia competere con il mezzo individuale. Nessuna attenzione pare essere riservata a tutti coloro che, vivendo e lavorando in periferia o in aree poco densamente popolate, non hanno alternativa all’auto: per costoro, ricchi e poveri, nessun sussidio ma un elevato carico fiscale.

Guardiamo agli spostamenti di lunga percorrenza: negli ultimi due decenni a soddisfare le esigenze delle persone a minor reddito è stato il mercato, non certo lo Stato. Prima le low cost aeree e più di recente i servizi su gomma.

Difficile continuare a sostenere, come fanno in molti, che la ferrovia è “di sinistra” (e l’auto, vero servizio universale, “di destra”). O che il cambio modale sia socialmente auspicabile: per essere attuato necessita di risorse pubbliche inevitabilmente sottratte ad altri scopi e riduce il flusso di entrate che l’uso dell’auto garantisce all’erario.

Difficile stupirsi se il sincero democratico Ponti – ci dicono testimoni che negli anni 70 passeggiava portando sottobraccio l’Unità – guardando alla realtà e non all’ideologia, non cessi di pensare “in direzione ostinata e contraria”.

di Francesco Ramella | 18 ottobre 2017
Le ferrovie sono di destra. Ma in Italia è vietato dirloultima modifica: 2017-10-22T20:16:38+02:00da davi-luciano
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