“BARBARIE” DELLO ZAR, “DIRITTI UMANI” DELL’OCCIDENTE (SU NAVALNY E COMPAGNIA)

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2017/03/barbarie-dello-zar-diritti-umani.html

MONDOCANE

MERCOLEDÌ 29 MARZO 2017

 

I meriti di Navalny

E’ bastato innescare una spia da quattro soldi a Mosca per farci dimenticare tutta una serie di belle azioni della “comunità internazionale” (quella Usa-Nato). Tipo: i 200 tra uomini, donne e bambini polverizzati dall’incursione yankee su Mosul che le truppe irachene vorrebbero liberare e non uccidere, successiva ad altre incursioni a  guida Usa in Siria e Iraq, sistematicamente dirette su civili e infrastrutture, quando non contro gli eserciti nazionali impegnati contro Isis e Al Qaida. Tipo: la scandalosa violazione della sovranità siriana commessa da Washington con l’invasione di suoi contingenti e armamenti, facilitati da un nuovo mercenariato, quello curdo, che ha sostituito il jihadista a cui è stato dato il benservito (servirà per gli attentati di ritorsione e destabilizzazione qua e là nel mondo); invasione finalizzata a impedire che siriani e russi arrivino prima a Raqqa, ultimo grande centro da liberare, e a mettere in piedi una colonia Usa su territori arabi predati detta “Kurdistan siro-iracheno”, garante della, da sempre programmata, frantumazione della Siria e salutata in Occidente come la “nuova vera democrazia in Medioriente dopo quella israeliana.

Tipo: il genocidio in corso da tre anni in Yemen e che  USA, UE, Nato con l’armaiolo Italia, hanno commissionato all’altra vera democrazia mediorientale, la saudita, quella del record mondiale delle forniture di petrolio all’Occidente, delle scudisciate e mutilazioni  inflitte ai reprobi, delle condanne a morte mediante decapitazione e lapidazione (donne). Tipo: i 16 anni di guerra Usa-UE-Nato (con l’ascaro Italia) contro un incolpevole popolo afghano, guerra perduta dal primo giorno, ma utile a conservare controllo e gestione del monopolio Usa dell’oppio-eroina (come in Colombia e nel Centroamerica della cocaina). Tipo: il colpo di Stato strisciante che una fazione di licantropi Usa, quella alleata alla sinistra, attua contro l’altra, alleata ai “populisti”, tritando i detriti post-11 settembre di quella che pareva la democrazia americana ed è sempre stata la più sfrenata plutocrazia fondata sul complesso militar-industriale e oggi anche finanziar-mediatico.

La copia caricaturale nostrana di quel complesso, a sua volta si è lanciata  come un solo Mazinga sul boccone moscovita, facendo sparire tra le invettive e l’indignazione dei probi la scellerata gestione poliziesca di una legittima, ordinata, pacifica, manifestazione contro quel carcinoma europeo a 27 che dei diritti umani (sociali, ambientali, di  vita, di pace) che non siano appannaggio dei gay, se ne sbatte. La terroristica diffusione della paura di una neroniana obliterazione della città da parte dei Black Bloc. Il fermo di centinaia di inermi passeggeri di pullman impediti dall’esercitare il loro diritto costituzionale a frequentare la capitale e  manifestare. L’arresto di altre decine a conclusione di un corteo che, a forza di buona educazione, non ne aveva voluto sapere di sfasciare o gettare qualcosa e di fornire agli agitprop della paranoia di Stato (Repubblica, La Stampa, Corriere e affini, i tg) un minimo di sangue da mescolare alla merda che rifilano ai loro decerebrati lettori.

Occidente: mazzate a chi si difende. Russia: spintoni a chi offende

Gli euroboss commissionati dai padrini Usa a Roma rilanciano la distruzione delle nazioni europee e relativa cultura, con sullo sfondo la loro impresa più riuscita, l’uccisione della Grecia e suo fastidioso retaggio di civiltà, con sicario Tsipras, vestale Castellina  e i taffazzisti dell’ “Altra Europa con Tsipras”. La ciarlataneria politico-mediatica nostrana lancia compatta anatemi contro il repressore di Mosca, a suon di spintoni,  della presunta volontà popolare, coprendo così il culo a un regime di nostrani devastatori dell’ambiente che la vera volontà popolare, abbarbicata ai suoi ulivi, cioè alla vita della sua terra, la rispettano a suon di randellate in assetto antiterrorismo a protezione di un missile di acciaio e gas (TAP) che sfonderà il Salento. Poi però, cattolicamente ipocriti fino all’oscenità, scatenano rampogne al carbonifero Donald Trump e rimpianti dell’eco-eroe Obama, legalizzatore del fracking, moltiplicatore delle trivelle marine  e negatore dei vincoli ambientali “suggeriti” dal vertice di Parigi.

 Alla brutalità.fatta di mazzate, gas tossici CS, idranti, arresti, sevizie in carcere e condanne spropositate inflitta a No Tav, No Muos, No Triv, No Tap, pensionati, terremotati, pescatori e minatori sardi, studenti, operai; alle incursioni omicide dei robocop Usa militarizzati da Obama e che ammazzano impuniti 5000 civili all’anno, quasi sempre neri, alle pallottole d’acciaio rivestite di gomma e, di nuovo, alle manganellate e ai gas velenosi delle europolizie in Francia, Belgio, Germania, protette dall’anonimato, dall’immunità e dal’alibi terrorista, l’intervento della polizia  di Mosca contro i fan di Navalny, senza una bastonata, un candelotto, un idrante, sta come un volo di deltaplani a quello stormo di B52 che ha schiantato Mosul.

Ci sono le immagini e, per quanto abbiano potuto inventarsi violenza e orrori russi i vari travet italioti nel concerto occidentale di presstitute russofobe, per quante nefandezze putiniane abbiano preannunciato e poi descritto i vari Formigli, Littizzetto, Travaglio, Coen, Colombo, Caldiron, Fazio, Molinari, Calabresi e tutta la crème de la créme di questo paese al 70° posto nella libertà d’informazione, grazie anche a un sindacato che va in piazza per Giulio Regeni dietro ai pifferai Cia e Mossad, porcaccia la miseria, un qualcosa di sanguinolento che oscurasse le teste rotte dai picchiatori in divisa europei, proprie non si è riusciti a vedere e a mostrare.

Settemila i manifestanti richiamati in piazza a Mosca dal carisma di Alexey Navalny. Alcune centinaia in una ventina di altre città. Flop cosmico, sempre che non lo guardiate attraverso la lente d’ingrandimento del New York Times, del Manifesto, o di Repubblica, dove vedete una mongolfiera al posto di un aeroplanino di carta. 7000, secondo la Questura, i manifestanti anti-Ue, anti-euro e anti-Nato sabato a Roma. Mosca ha 12 milioni di abitanti, Roma meno di 3. Facendo le proporzioni, i 7000 di Mosca equivalgono a meno di 2.500 a Roma. Me cojoni, una vera rivoluzione anti-Putin! E’ che la forza d’attrazione di un Navalny (3% di consensi, contro l’84% attribuito dai sondaggi di società Usa a Putin) scaturisce dal suo curriculum. Per i cicisbei di corte di cui sopra ne esce una specie di arcangelo Michele che agita la spada fiammeggiante  dei diritti umani sul regno di Mordor. Per i russi, che di curricula del genere sono pratici, li hanno visti in casa e li hanno osservati in varie parti del mondo, chi li vanta ha il carisma di una cacchetta  di piccione sul marciapiede.

Pesce pilota pescato da Soros

E’ il curriculum di un rivoluzionario colorato. Quelli made in Soros. Un lanzichenecco dell’imperatore. Un soldato di ventura. Di solito un farabutto con storie sporche alle spalle e quindi ampiamente ricattabile. Ne abbiamo visti, del genere, a Tehran, ancora a Mosca, in Georgia, in Libano, in Venezuela,  a Haiti. Il due volte condannato per corruzione Navalny ha lo stesso cursus honorum di suoi predecessori. Esce da una cosca di tipo cospiratoriale messa su all’università di Yale, la “Greenberg World Fellows Program”, che alleva candidati a funzioni di spionaggio, provocazione, infiltrazione, ovunque l’Impero intenda destabilizzare. Vengono addestrati, come lo fu Otpor in Serbia, a utilizzare facili e comprensibile parole d’ordine (Navalny: “Tutti corrotti e ladri”) in grado di raccattare scontenti o frustrati, politicamente sprovveduti. L’accusa di corruzione, che la parte del pianeta più corrotta della storia, con un’élite che prospera grazie a depredazione, devastazione, sfruttamento del resto del mondo e dei propri cittadini, lancia contro Putin (e non ha mai lanciato contro Eltsin quando svendeva il suo paese a oligarchi e multinazionali), viene poi condivisa da noi che per corruzione siamo primi in Europa e le offriamo ogni anno un obolo tra gli 80 e 100 miliardi di euro.

Il movimentuccolo di Navalny, “Alternativa Democratica” ha gli stessi padrini finanziatori di tutti gli Otpor e affini messi in scena da Cia e Mossad negli anni di Bush-Obama: ilNational Endowment for Democracy (NED), inventato da Reagan per fare il lavoro della Cia quando questa, in occasione dello scandalo droga-Contras,  si era rivelata al mondo più che un’agenzia di intelligence, lo strumento imperiale delle operazioni sporche, colpi di Stato, sabotaggi, destabilizzazioni, rivoluzioni finte, squadroni della morte di John Negroponte (il principale di Giulio Regeni). E’ un nanerottolo deforme in Russia e un gigante radioso in Occidente. La storia se lo papperà come Ernesto bassotto fa secchi i topi.

E’ tua questa talpa?

Se Totò Riina fosse russo, sarebbe un dissidente

Navalny, già funzionario governativo processato per appropriazione indebita (vendeva legname di Stato sottocosto a privati); gli oligarchi Khodorkovsky, Nevzlin, Berezovsky, Gusinsky,  Abramovic, tutti della banda criminale di Eltsin, tutti traditori, processati per indicibili delitti di ogni genere, tutti fuggiti all’estero con i miliardi rubati, tutti ebrei; la Politovskaya, una specie di Sofri russa che sosteneva la destabilizzazione Cia-Mossad in Cecenia raccontando balle alla radio della Cia Radio Liberty/Free Europe (frequentata da Giulietto Chiesa ai tempi di Gorbaciov-Eltsin e, a Belgrado, dalle Tute Bianche di Casarini); Dmitry Voronenkov, deputato comunista russo fuggito da Mosca, ucciso l’altro giorno a Kiev e, grazie all’individuazione di un killer russo, subito diventato martire anti-Putin. Poi, colpo di scena, risulta invece vittima dei nazi installati dalla coppia Obama-Clinton, visto che investigatori onesti hanno scoperto l’assassino vero: Pavel Parshov, veterano della Guardia Nazionale Ucraina fondata dal nazista Andrey Parubiy e formata da teppisti con la croce uncinata tratti dai battaglioni nazi.

Infine, Alma Shalabajeva, moglie di Mukhtar Ablyazov, deportata e consegnata alle autorità del Kazakistan (paese filorusso)  in base all’unico provvedimento corretto mai adottato dall’incredibile Alfano, pianta come vittima sacrificale dal menzognifico mediatico  in quanto consorte di un “oppositore” del regime kazako (filorusso). Con pervicacia degna delle loro cause, questi giornalai hanno sistematicamente occultato il fatto che la signora era complice del marito, in quanto ne aveva occultato i delitti e lo nascondeva. Marito  ladro che aveva svuotato la banca BTA ad Astana, sottratto fondi per milioni di dollari alle banche russe e ucraine, era ricercato da Interpol e polizie di Kazakistan, Russia, Ucraina e Gran Bretagna. Un delinquente di altissimo bordo internazionale, ma per i nostri gazzettieri e politicanti  un democratico dissidente. Come tutti gli altri menzionati prima.

Si comprende che per  regimi occidentali, fondati come sono su ladrocinio, truffa, azzardo, rapina a mano armata, speculazione, gente come quella possa elevarsi da criminali a dissidenti, modelli di opposizione democratica. Dai letterati, scienziati, scacchisti, gli Sharansky, Zakharov, Pasternak, Kasparov, che all’epoca dell’URSS venivano incaricati di fare da quinta colonna anticomunista, si è passati ai briganti di passo. Segno dei tempi. Certo, però, che se Putin si deve guardare da oppositori del genere, difficile che venga intaccato quel suo 84% di consenso popolare.

Democrazia e democrature

Riconosciamo a Putin, per esperienza diretta e documentata, non solo di aver tirato fuori il suo immenso e complesso paese dalla catastrofe in cui l’avevano cacciato Gorbaciov, Eltsin e i loro mandanti occidentali, di aver risollevato dalla povertà più abietta un’intera nazione, di averle ridato benessere, dignità, autostima, decisivo ruolo nel mondo, soprattutto per quanto riguarda la difesa del diritto internazionale. Assolutamente imperdonabile. Per neutralizzare l’effetto stima e contagio tocca aprire la cataratte della calunnia. Poi, magari, gli arsenali atomici.

L’Occidente degli Obama, Clinton, Trump, Blair, Merkel, Hollande, Juncker, Renzi e tutto il cucuzzaro di padrini, picciotti e fratelli, si autoproclama “democrazia”, mentre annichilisce a forza di attentati false flag, di  tecnologie  e chip nel cervello (da oggi in produzione di serie) i propri sudditi, annienta con guerre e terrorismi i popoli disobbedienti, spiana le coscienze con la concentrazione dell’informazione in poche mani sporche di petrolio, armi, chimica  e dollari. Rispetto a questo modello di democrazia, quello di Putin  sfavilla. Con le sue libere elezioni, i suoi partiti d’opposizione, le sue agenzie, tv, pubblicazioni, di opposizione, di cui, alla faccia degli accanimenti diffamatori, si può aver quotidiana evidenza sul posto e in rete – persino maldestri diffamatori citano le critiche fatte da media e oppositori – sarebbe un paese a cui chiedere asilo politico. Dal 2014 sono mezzo milione i rifugiati dall’Ucraina. E non stanno nei CIE.

Ma della Siria cosa vogliamo farne?

A Putin, piuttosto, vorremmo porre qualche domanda sulla Siria, sugli Usa che la invadono con i mercenari curdi, tagliano la strada per Raqqa all’esercito siriano, stanno mettendo in piedi, su territori rubati agli arabi, un Grande Kurdistan siro-iracheno che spacchi in  due quei paesi. Domande anche sulla Turchia che occupa 2000 km quadrati di Siria e si allarga, su Israele che, sempre più regolarmente, corre in aiuto all’Isis bombardando la Siria, sui curdi che stanno sostituendo i jihadisti  nel ruolo di soldati di ventura dell’Impero, sui jihadisti cui, in cambio, è affidato il nuovo caos da creare in Iran, Xinjiang, Cecenia, repubbliche ex-sovietiche, Filippine.

Abbiamo saputo che l’ottimo ministro Lavrov ha convocato l’ambasciatore di Israele. In compenso il golpista ucraino Poroshenko ha convocato il presidente israeliano, Rivlin, che gli ha assicurato pieno appoggio per il  “recupero della Crimea” (vedi foto). Ne parliamo al prossimo giro. Intanto ci diciamo preoccupati.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:36

Chi controlla i controllori?

robotLa nuova rivoluzione industriale è quindi una spada a doppio taglio. Essa può essere usata per il benessere dell’umanità [.]. Ma se noi continueremo a muoverci sui binari liberi ed ovvi del nostro comportamento tradizionale, e a seguire il nostro tradizionale culto del progresso e della quinta libertà – la libertà di sfruttare – è certo che dovremmo  aspettarci un decennio ed anche più di rovina e disperazione.
N. Wiener, 1950[1]
 
Tema caldo, di recente lanciato e rilanciato, è la prossima catastrofe nell’ambito del lavoro determinata dall’erosione della funzione umana da parte delle macchine. La retorica tecno-futurista induce a pensare che l’intelligenza artificiale stia per replicare l’umano ma piuttosto che replicare le funzioni superiori  sono invece quelle inferiori, il calcolo, la elaborazione dei dati, la sequenza lineare di if.than ad essere replicate e visto che le macchine non hanno disturbi emotivi o limiti biologici, le svolgeranno senz’altro meglio degli umani stessi. Potremmo allora dire che più che scoprire quanto intelligenti stanno diventando le macchine, stiamo verificando quanto ancora è stupida ed alienante la routine di molti lavori umani.  Senz’altro però, questa componente routinaria ed esecutiva che compone ancora la totalità o grande parte o piccola parte di molti lavori, vedrà l’implacabile sostituzione dell’umano con l’informatico-meccanico.
 
Sebbene inizialmente molti lavori non saranno cancellati ma progressivamente mixati tra umano e info-maccanico, alla fine il saldo netto sarà in termini di posti di lavoro. Quello che giustamente preoccupa è la stretta relazione  tra l’enorme quantità di ore lavoro umane sostituibili, l’incentivo del profitto che deriva dalla comparazione tra costo del lavoro umano e costo del lavoro info-meccanico e il tempo estremamente breve in cui tutto ciò sta accadendo.
Ulteriore preoccupazione, sembra che gli esperti del problema prevedano a breve una sorta di salto quantico delle performance dei robot e dei software[2], una di quelle rivoluzioni stile “periodo Cambriano”[3] per le quali, ricombinandosi i fattori, il risultato è di molti gradi superiore alla somma delle parti[4]. Lo stato interconnesso delle nostre economie intorno la principio di concorrenza, imporrà il cambiamento come nuovo standard planetario, lo si desideri o meno.
Il libro inchiesta di Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, 2016, è un competente ed onesto lavoro sul tema, al posto tuouna aggiornata overview sul fenomeno su cui l’autore, già centrato da anni sui temi delle nuove tecnologie, ha raccolto informazioni negli ultimi cinque anni. La posizione di Staglianò è critica verso il tecno-entusiasmo[5] e cerca di indagare fattivamente quanto il fenomeno sia in effetti preoccupante[6], soprattutto in via previsionale.
 
Ma al di là delle ancora non stabilizzate previsioni c’è anche un segnale indiretto che avverte con chiarezza di dove la bilancia stia pendendo. Ci riferiamo alla mobilitazione dei grandi del settore (Google, Facebook, Amazon, Apple etc.), in favore di un set di idee che vanno dal reddito  di base, alla partecipazione azionaria diffusa al capitale delle imprese che sfornano innovazioni di modo che quegli stessi che perdono il lavoro o parte del reddito ne recupererebbero almeno un po’ in quanto azionisti[7], alle spinte a rivedere a fondo la formazione scolastica in direzione meno specializzata e più complessa, alla commissione di studi (Deloitte, Forrester research, PWC ed altri) che cerchino di ribilanciare le previsioni più allarmate ed allarmanti. Stante che -comunque- nessuno di loro ha la minima intenzione di mettere in discussione quei 100-130 miliardi di dollari di sottrazione fiscale dovuta alla ricca offerta di tassazioni di favore di cui approfittano con implacabile sistematicità. Così, le previsioni sul futuro espanso dell’economia digitale, oltre a prevedere consistente crescita della disoccupazione tecnologica, indicano anche l’ennesima creazione di valore ristretta a sempre meno persone[8] con conseguente ulteriore radicalizzazione di quella diseguaglianze che ci sembravano già insopportabili ma il cui fondo insondabile siamo -pare- ancora ben lungi dal toccare.
Se a tutto ciò, uniamo i quarti di luna su i “web nazionali” che secessionano dall’impero delle signorie della Valle del Silicio[9], i propositi di web tax che aleggiano in molte parti d’Europa (con il significativo distinguo del nostro ex Presidente del Consiglio ormai colonna portante dell’internazionale libertarian-liberista-liberale, di recente proprio a prendere il brief in Silicon Valley), il sempre più vasto movimento di conflitto contro le ricadute perverse di Uber, Airbnb, Foodora e company e da ultimo, la certificazione pubblica data da Wikileaks (Vault 7) sull’utilizzo dei device personali e casalinghi (Internet of Things, IoT) da parte della Cia e dei suoi 15 tra fratelli e sorelle (più amici privati che ne hanno comprato le tecnologie sottobanco tanto tutto ha un prezzo), allora vediamo che il problema c’è, ci sarà sempre di più e le reazioni che s’annunciano preoccupano quelli stessi che prosperano sul fenomeno che crea e sempre più creerà tali problemi.
 
Loro sanno, prevedono e si preoccupano, quindi vanno presi sul serio e non come taluni hanno fatto, pensando che Bill Gates che si danna per propagare la “sua” idea di tassare i robot (guadagnare meno, guadagnare a lungo), ha i neuroni deteriorati dall’età e si è trasformato in un tecno-luddista. Questa gente si vede, si parla, fa piani e strategie comuni salvo poi azzannarsi nell’agone competitivo e pare evidente che questa cupola di tecnologi è preoccupata degli effetti del proprio stesso agire, stante che su questi effetti ne sanno senz’altro più di noi, avendo sdoganato fondi massicci su ricerche che hanno previsto gli effetti finali di ciò che si ripromettevano di produrre.
Non certo preoccupati al punto da fermarsi, ma al punto da spingere gli stati a fornire le migliori condizioni di possibilità sociali affinché loro possano continuare a sfornare salti quantistici di performance tecnica. Addirittura disponibili a far tassare i loro clienti, cioè le aziende che comprano robot e software per sostituire lavoro umano, stante che i margini sono così abbondanti (il caso medio sembra essere un vantaggio di costo di 1.10 se non di più) che un po’ di redistribuzione non fa male a nessuno[10].
Si preoccupano loro e con loro, l’industria finanziaria che li sorregge, i servizi d’informazione dello stato da cui provengono (sono tutti americani), il complesso militar-industriale che sulle loro invenzioni prospera, il complesso educativo-intellettuale che fornisce loro il personale e la giustificazione culturale nonché l’attraente immagine di mondo, l’area politica lib-dem che scambiando il concetto di progresso come incremento dell’emancipazione umana con la Legge di Moore, li coccola e li protegge. Ecco quindi la mobilitazione in direzione dell’ampio ventaglio di soluzioni-vasellina, sempre che Zukerberg, Bezos, Page e company non meditino di scendere direttamente in campo se le cose dovessero mettersi davvero male.
 
Le operazioni di basic lobbyng ovvero usare gli utenti per premere sulle istituzioni locali in favore di questo o quel servizio-azienda della sharing economy, prefigurano, nei fatti, un potenziale elettorato[11]. Potenziale elettorato affascinato dalla disintermediazione, la partecipazione diretta e dal basso che si veste di idealismo democratico quando, in assenza di concrete condizioni per una reale democrazia, si rivela  solo come demagogia sfocata preda della sindrome da petizione stile Change.org et affini.  Petizioni che fanno bene all’animo del “democratico indignato” che lascia poi la sua mail che verrà venduta al mercato dello spam.
Se quindi i nostri dioscuri si agitano tanto, vuol dire che i rischi sono all’orizzonte degli eventi. Staglianò apre ogni capitolo evidenziando la categoria che rischia l’impatto distruttivo delle innovazioni di cui poi ci fornisce il racconto aggiornato delle possibili minacce. Commercianti e vari addetti, distribuzione, logistica, trasporti, call center, traduttori, giornalisti, insegnanti e professori, industria già pesantemente aggredita ed anche la più esposta allo standard di concorrenza internazionale, giornalisti, fotografi, bancari, assicurativi, finanziari, medici, infermieri, farmacisti, tassisti, addetti alle attività turistiche, moltissimi lavoratori autonomi, sono solo le principali categorie che vanno variamente incontro al big bang info-tecnico.
 
Per l’Italia, sono poco meno di 20 milioni di occupati a fonte ISTAT che vanno a rischio. Il rischio è rappresentato da una sempre più vasta rete di innovazioni che allargano il dilemma tra il vantaggio del consumatore e lo svantaggio del lavoratore stante che i due aspetti si riuniscono nello stesso individuo. La rete di innovazioni è fatta di laser, scanner ottici, braccia e mani servo-meccanici, robot antropomorfi e non, nano-tecnologie, reti di sensori auto-diagnostici, stampanti 3D che ormai stampano case, algoritmi imputati ma anche quelli che auto-apprendono, quel deep learning o learning machine che con il rientro dell’informazione che corregge o incrementa se stessa porta l’info-elettro-meccanico ad una soglia prima della soggettività. Tutto ciò messo in rete, una rete che convoglia tutte le informazioni uso-performance-utente in enormi stoccaggi di dati (Big Data) che fanno la memoria delle menti-corporation della Valley a cui l’intelligenza strategica del governo americano ha normalmente pieno accesso sebbene si premurino di farci sapere il contrario (tanto siamo in regime di post verità).
 
Un Internet che ci sta penetrando psico-biologicamente, costituendo un nuovo sistema accanto a quello respiratorio, circolatorio, nervoso, immunitario con la differenza che diversamente da questi, non fa capo a noi ma noi a lui. Un progetto che a sua volta aspetta di potersi congiungere alla biologia tecno-sintetica per aumentare la sua potenza strutturale. Lo sgretolamento progressivo del sociale e soprattutto dei suoi aspetti lavoro-reddito, inclusione-esclusione, identità-nullità, autonomia-eteronomia porterà i più ad un pulviscolo di lavoretti a cottimo, di collaborazioni gratuite che dovremo fornire per sperare di aumentare la nostra awareness dato che a quel punto ognuno di noi diventerà una marca (brand) col suo patrimonio di like e stelline e dovrà curare la sua reputazione, una marca che compete in un mercato globale di concorrenze al ribasso.
Se di questo mercato globale sino ad oggi abbiamo temuto i concorrenti cinesi e vietnamiti de-sindacalizzati e sotto-pagati, in quello che viene dovremo temere le macchine che costano meno dei vietnamiti e fanno comunque di più e meglio di noi e di loro messi assieme. Macchine nate sofisticate ma che apprendono da noi e dai loro stessi sempre più residui sbagli fino all’errore zero, guasti zero, manutenzione zero, costo quasi zero quando ripartito su indici di produttività da distopia fantascientifica.  Una realtà che non si chiama più “virtuale” ma “aumentata” e che punirà critici eccessivi ed eventuali ribelli con la più antica delle pene sociali: l’ostracismo (la de-connessione).
A questo punto, facendo perno sulla fallacia della linearità che postula che questa distruzione sarà pur sempre e come sempre è stato (dove “sempre” vale centosettanta anni o poco più[12]), sì una distruzione ma anche creatrice di nuove opportunità, ci si spiega con paterna accondiscendenza che l’umano evolverà sviluppando di più se stesso e che tutti dovremo acquisire capacità creative e di cognizione complessa, di modo da far del problema una opportunità[13]Ci sono tre errori in questa linea di ragionamento.
Il primo è proprio la linearità, cigni neri, salti non lineari che portano emergenze, tempi compressi, reti di feedback dicono che la previsione del “come è stato sempre sarà” è puro wishful thinking proiettato sull’indomabile disordine del mondo. Anche la globalizzazione doveva garantirci il migliore dei mondi possibili, anche la finanziarizzazione di massa, anche l’-Europa della conoscenza- promessa a Lisbona nel 2000. 
La seconda è che la prima distruzione di lavoro già avvenuta, ha devastato proprio l’ambito creativo e culturale (giornali, edicole, librerie, case editrici, case discografiche, musicisti, fotografi, riproduzioni gratuite e senza diritti) e proprio Staglianò indagando sulle promesse di farci diventare tutti youtuber o self-published-star, mostra le ridicole proporzioni tra le migliaia che ci provano per l’uno che ci riesce, forse. La piramide dell’auto-successo, al di là della critica che se può fare sul piano socio-culturale, ha invero una forma ben poco attraente anche rispetto alle sue stesse promesse.
 
Il terzo è che la cultura dell’info-digitale va di sua natura dalla parte opposta a quella della creazione di un vasta e diffusa cultura complessa che si reclama come necessaria visto che ormai la cultura semplice verrà portata avanti dalle macchine[14]. Il diluvio della quantità informativa non si traduce in qualità conoscitiva. Insomma promesse infondate, esagerate, sbagliate. Infine, che sia la distribuzione di ricchezza individuale, che sia la distribuzione della ricchezza imprenditoriale e finanziaria, che sia la distribuzione della  share of market[15], la geometria della piramide di questo macro-fenomeno è invece una certezza: base larghissima, sezione media in contrazione, punta sottile e sempre più affilata. Sempre più Pochi su sempre più Molti[16], la statica della società-Eiffel su cui si basa la geometria gerarchica contemporanea.
 
Ma vediamo meglio il punto tre di questa impalcatura di promesse traballanti. Oggi siamo letteralmente annegati nell’informazione ma stiamo scoprendo che questa inflazione di informazione, disorienta e non fertilizza la conoscenza. La prima ragione di questa paradossale ricchezza sterile è che, con l’accesso individuale alle fonti del nuovo e potente informadotto che è Internet, ognuno di noi si trova in una bolla solipsistica. Il nostro “daily me” sarà anche tagliato a pennello sui nostri gusti e tendenze ma -nel tempo- tende a scavare un solco di reciproca incomunicabilità. Sia perché la fruizione dell’informazione è viepiù solitaria, sia perché temi e linguaggi specialistici formano il nostro vocabolario e la nostra mentalità senza alcun filtro, determinando menti “isola” che hanno forma, linguaggi ed aspettative sempre meno comuni, sia perché tendiamo a confermare i nostri interessi tanto da farli diventare “manie” e tendiamo a diventare del tutto alieni a quelli degli altri.
 
Semplicemente, la modalità Internet + social network, tende a costituirci come mondi separati, il che, nell’epoca della comunicazione, è davvero un paradosso. Anche la complessità del mondo che in sé è un unico sistema, è rifratta in un caleidoscopio di frammenti di cui ognuno di noi conosce sempre più la parte ma ignora sempre di più il tutto. Emittenti e distributori generalisti dell’informazione, vanno perdendo ruolo e con essi, la nostra possibilità di capitare -per caso- nei pressi di una conoscenza inaspettata. Di contro, emittenti e distributori di informazione on line sono per molti versi, pre-decisi dall’architettura dei link quando non dall’offerta dei semimonopolisti della rete . Questi architetti invisibili decidono ex ante che in base al nostro profilo, ci potrebbe interessare questo o quello ma così facendo la vantata libera individualizzazione diventa invece massificazione poiché i profili previsti sono sempre di meno dell’effettiva varietà sociale, sono “medie” di comportamento, definizioni statistiche, incasellamento in un numero prefissato di cluster idealtipici. Cluster definiti poi in base a specifici interessi commerciali.  Questa continua riconferma narcisistica  ci sta modellando nel profondo e da qui discende sia la violenza verbale di alcune discussioni su i social che presto deragliano in due paralleli ”tu non hai capito che .”, sia la base cognitiva sempre meno in comune sulla quale prospera l’egotismo narcisistico. Così come la scrittura modificò sensibilmente i modi di trasmettere l’informazione rispetto all’oralità e modificò la forma ed anche il contenuto del messaggio, la sua fruizione, la struttura stessa dell’apparato cognitivo che come tutte le componenti biologiche rinforza i sottosistemi più usati e fa decadere e disconnette parzialmente quelli meno usati (o usati molto saltuariamente), c’è da aspettarsi che i formati espressivi molto brevi, il primato dell’immagine, la sintesi grafica, la seduzione musicale, daranno il format prevalente di ogni possibile messaggio.
Spesso, chi scrive sul computer, non calcola che il suo messaggio sarà letto su uno smartphone, magari camminando o in attesa di qualcos’altro.  Con ciò, un nuovo primato dell’emozione, dell’attention getting ed una progressiva decadenza della riflessione e con essa della razionalità[17]. Inoltre, si sta presentando anche lo spettro della perdita storica di informazione affidata a supporti che poi diventano obsoleti, a siti che poi verranno cancellati, a bisogni di “memoria” semplicemente impossibili da fornire stante una produzione ormai quantitativamente fuori controllo. Nel decidere cosa trattenere e cosa lasciar evaporare nell’entropia, si fisserà una certa memoria del tempo ma a chi deleghiamo questo compito storico?
 
Infine, il pur limitatamente positivo proliferare delle fonti informative sta portando le élite a introdurre la pericolosa nozione di “falsa verità” che se non prendesse le forme di un ostracismo repressivo della spontaneità informativa, sarebbe semplicemente da sbeffeggiare ricordando che i più ampi cultori del pensiero umano -i filosofi- si interrogano senza soluzione di continuità da più di due millenni sul sfuggente concetto di “verità”, del “fatto” e della sua “interpretazione”. Che ora sia la banda Zuckerberg a dirci quale sia la verità, ci pare segno dei tempi, brutti tempi, tempi in cui sbeffeggiare non basta più[18].
Tutto lo sviluppo info-digitale è figlio di una intuizione originaria di Norbert Wiener, il fondatore della nuova scienza cibernetica, da lui stesso definita:  scienza del controllo. Ma lo stesso Weiner, passò il resto della sua vita ad ammonire che per usare e non esser usati dalla scienza del controllo, occorreva averne il controllo[19]. Questo controllo, che siano capitali, tasse, flussi di merci o di persone, distribuzione dei redditi, monopoli commerciali, programmi di ricerca, conseguenze ambientali del nostro agire, decisioni da prendere su i conflitti e la pace, rilievi etico – sociali – culturali e politici dell’innovazione tecno-scientifica, censure, non è nelle mani di nessuno che faccia l’interesse generale. Tutto ciò è sempre e solo nella mano invisibile del mercato ed in quelle visibilissime della Prima potenza geopolitica planetaria.
 
Per controllare questo che non è che l’ennesimo fenomeno di cambiamento profondo delle forme della nostra vita associata (oltre quello geopolitico, quello demografico, quello ambientale, quello distributivo), mancano due cose: la sufficiente conoscenza e l’istituzione della volontà generale che lo governi secondo il più ampio e responsabile interesse.
Il deficit di conoscenza che si rivela qui come altrove è proprio relativo alla complessità intrinseca di questo come di altri fenomeni. Ho letto analisi di economisti, tecnologi, sociologi, filosofi prima di scrivere questo articolo, ma rimane sempre insoddisfatto il senso di completezza, di completa definizione della cosa. Come lavorano tutti questi fatti messi assieme nel reale? L’informazione non produce conoscenza se non fertilizzando un intelletto già ben formato. Ed è proprio la coincidenza tra massima produzione e diffusione dell’informazione e minima strutturazione e capacità dell’intelletto contemporaneo di processarla, il dato di prima preoccupazione.
 
Da cui consegue che un vero soggetto generale in grado di valutare il suo interesse non c’è. La formazione è sempre più spezzettata in sottodiscpline e specialismi, il dibattito pubblico è sempre ostaggio di opinionisti al servizio dello status quo, le forme stesse dell’interrelazione sociale date dalle nuove tecnologie portano a stereotipie, semplificazioni, riduzionismi, esaltazioni a priori e sfoghi di rabbia impotente, la politica oscilla tra ignoranza, visione tattica a breve termine e sudditanza nei confronti dell’ordinatore economico che è il primo agente di disordine. La domanda di benessere economico, in tempi difficili, si fa sempre più isterica e quelle sull’adeguatezza del nostro modo di pensare e delle strutture sociali che dovrebbero riflettere le nostre consapevoli intenzioni è accolta col sorriso e l’indulgenza che si riserva all’ingenuità dei fanciulli.
Controllare la scienza del controllo è l’ennesimo punto in agenda per la democrazia che non c’è.
[1] N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino, 1966-2001, pp. 203.204
[2] BANG = Bit, Atomi, Neuroni, Geni, messi in interrelazione, genereranno il nuovo macro-sistema.
[3] S. Jay Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano, 2008
[4] Personaggio inquietante. Ray Kurzweil, autore di La singolarità è vicina (Maggioli PDE, 2013), ha profetato che la “legge dei ritorni esponenziali” (qui)  ci porterebbe alla nascita di macchine autocoscienti entro il 2050. Kurzweil che di primo acchito può sembrare un tipo eccentrico, ha lanciato la Singularity University in California con la partnership di Google, NASA, Nokia, LinkedIn ed altri ed è membro influente dell’Army Science Board  (qui) snodo di incontro tra gli alti vertici dell’esercito americano e la più avanzata parte della comunità scientifica. L’impasto di genetica, nanotecnologie e robot lo fa l’esponente di punta del trans-umanesimo.
[5] L’atteggiamento verso la rivoluzione info-tecnica, è stato definito non senza malizia epistemica come tecno-entusiasta o tecno-scettico. Non si vede la necessità di apporre categorie dell’emotività al giudizio su i fatti. I fatti sono l’insieme degli aspetti coinvolti e componenti la rivoluzione info-tecnica, semmai le analisi si dividono tra ingenui e critici, tra coloro che accettano la narrazione del migliore dei mondi possibili e coloro che assumo un atteggiamento più critico, leggendo non solo gli aspetti migliori ma anche quelli peggiori e derivandone indicazioni per altri mondi possibili oltre a quello sfornato dalle dinamiche del mercato. Qui Staglianò intervista Eughenji Morozov (secondo filmato della pagina) sull’argomento:
[6] Due professori del MIT, A.McAfee e E.Brynjolfsson, in Race Against Machine (2011), dimostrano che dal 2000 le curve dell’incremento della produttività e dell’occupazione, cominciano a divergere. Classica ormai, la citazione del The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerisation 2013, C.B. Frey e M. A. Osborne della Oxford University che dimostrerebbero fondate preoccupazioni per poco meno del 50% dei mestieri, da qui a venti anni. Nel 2013 l’Economist, in Rise of the Software Machines  (qui) decreta la prossima fine di tutte le imprese  prosperate sulla tendenza all’outsourcing. Federal Reserve Economic Data, certifica che negli USA, dal 1987, si producono l’85% dei beni in più con due terzi della forza lavoro di allora.  UNCTAD-ONU, prevede impatti molto negativi sulla forza lavoro dei paesi emergenti (qui). Anche se con stime meno tragiche, il tema di come “gestire” la quarta rivoluzione industriale di cui si ammette sia l’impatto occupazione, sia l’aggravio delle diseguaglianze, è stato al centro dell’annuale Forum di Davos 2017.  Link commentati attraverso cui approdare ai rapporti Bank of America e Merrill Lynch (qui) e McKinsey (qui) . Economisti quali Jeffrey Sachs e L. Kotikoff, T. Cowen e Larry Summers (ex rettore di Harvard, tra le altre cose) ma anche P. Krugman, R. Reich e N. Roubini, oltre a R. Prodi, hanno sviluppato punti interrogativi sull’argomento.
[7] Idea promossa da R. B. Freeman economista di Harvard.
[8] I rapporti tra impiegati e capitalizzazione di borsa di queste imprese è ridicolo, specie se raffrontato con quello delle industrie o dei servizi “tradizionali”.
[9] Cina, Corea del Sud, Russia, Iran, Bielorussia, Arabia Saudita hanno già un loro Internet nazionale o pesanti firewall che ne limitano il libero accesso. L’India ha mostrato crescente nervosismo per certe invadenze esterne, l’hackeraggio e la pirateria internazionale ma anche lo spionaggio dati, privato o industriale, preoccupano più o meno tutti. La Germania, è capofila dell’idea di creare in Internet europeo. Poiché l’infosfera tende a coincidere con l’anglosfera è ovvio che in un processo di riconfigurazione multipolare del mondo, anche Internet “rete delle reti” diventerà un po’ meno la prima cosa ed un po’ più la seconda. Il BRICS Cable, 34.000 km di cavo sottomarino con portanza di 12,8 Tbit/s, prefigura la volontà di creare proprie reti da parte del mondo emergente.
[10] E’ il classico aggiustamento della mano invisibile che riguarda sempre gli altri. Gli stati spendano un po’ di più in welfare, le aziende acquirenti di robot vengano un po’ tassate, i lavoratori accettino un po’ meno ed un po’ di precarietà creativa in più, così noi possiamo continuare a prosperare.
[12] La datazione del cuore esplosivo della Rivoluzione industriale, ha subito varie oscillazioni. Oggi si ritiene che il più decisivo impatto (ciò che segna il tempo in cui accade effettivamente una “rivoluzione”) sia da collocare tra il 1850 ed il 1870 e non prima.
[13] C’è anche chi vede solo opportunità come Michael Nielsen, (Le nuove vie della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 2012) per il quale “La conoscenza scientifica non è piú il frutto dell’avventura, eroica e solitaria, del grande uomo e dell’intelligenza singolare, o delle diverse convergenze fra industria, apparati militari, capitale finanziario e istituti di ricerca. La cultura scientifica contemporanea ha incorporato ormai come parte integrante degli stessi oggetti, obiettivi e protocolli della ricerca, fin dall’atto della loro primitiva elaborazione, il criterio della necessaria, e il piú possibile ampia, condivisione di teorie, scoperte, modelli e paradigmi”. Ma se la fase di ricerca è sharing, lo è anche quella dell’applicazione brevettata?
[14] Ne accenna J.C. De Martin nell’introduzione a L. Floridi, La rivoluzione dell’informazione, Codice edizioni, Torino, 2015 e credo lo riaffermi nel suo Università futura, Codice edizioni, Torino, 2017. “Credo” perché non l’ho ancora letto ma ne ho desunto tesi da vari articoli.
[16] Come ripete Jeremy Rifkin, la sharing economy è speculativa almeno quanto l’economia classica” riporta in una intervista a Wired, Andrew Keen autore di “Internet non è la risposta” Egea, 2015 (qui). In verità ha una struttura più simile a quella dell’economia finanziaria.
[18] Clamoroso il caso di censura operato dagli algoritmi di Facebook della famosa foto di Nick Ut/1972 (premio Pulitzer) dei bambini vietnamiti piangenti in fuga da un bombardamento al napalm perché compare una bambini nuda. (Qui)
[19] L’anello controllato – controllore prefigura una tipica situazione quale descritta nella cibernetica di second’ordine, si veda H. von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Firenze, 1987
Fonte: Megachip di Pierluigi Fagan – 22/03/2017

Perché Renzi odia il reddito di cittadinanza e propone il lavoro di cittadinanza

reddito-minimo-garantitoStraordinario Renzi: di ritorno dalla California, dove si sperimenta il reddito di cittadinanza, annuncia in Italia una tesi opposta: il lavoro di cittadinanza. Dopo la batosta del 4 dicembre deve recuperare il voto di giovani e poveri. Come? Mettendoli a lavorare (su cosa?) in cambio di una “cittadinanza”: qualche spicciolo o bonus. Il lavoro di cittadinanza è una delle tesi della sinistra lavorista. Ad essa va contrapposto il reddito di base come diritto universale di esistenza e sviluppo dell’autonomia della persona. Questo diritto oggi può strutturare una proposta radicale e alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista e dalle accuse infondate storicamente dei lavoristi di sinistra per i quali il reddito di base è una proposta “neoliberista”
***
Ma Renzi è davvero stato in California? Oppure ha dato un indirizzo sbagliato ai giornalisti ed è rimasto a casetta? La sua gita nella Silicon Valley è stata inutile: dallo stato dove si discute, e si sta sperimentando un reddito di cittadinanza a Oakland, Renzi ha importato il concetto opposto: il lavoro di cittadinanza. Ovvero: obbligo di lavoro per tutti i precari e disoccupati, gestito dallo Stato garante in ultima istanza del «lavoro pubblico garantito».
Ripresentarsi con la proposta di lavoro cittadinanza senza citare il reddito di cittadinanza sostenuto, non senza problematicità, dai principali esponenti e teorici della Silicon Valley che parlano di robot e automazione la dice lunga sul livello di arretratezza e subordinazione culturale in cui vive la stampa e buona parte della “sinistra” italiana. Parlare di “lavoro di cittadinanza” è surreale all’indomani della bocciatura delle destre neoliberiste all’europarlamento di una tassa sull’automazione e dei robot per finanziare un reddito di base. Benoit Hamon, candidato dei socialisti francesi alle presidenziali (il partito alla cui sedicente “famiglia” politica dovrebbe appartenere il Pd-partito di Renzi), ha sbaragliato la destra social-liberista di Manuel Valls alle primarie con questa proposta che è più avanzata rispetto alle posizioni neoliberiste espresse da Emmanuel Macron, favorito nella corsa all’Eliseo. In base ai primi risultati della sperimentazione di Oakland condotta su mille persone sembra che il reddito dimostri le posizioni di chi da tempo lo sostiene: l’aumento delle tutele contro la precarietà e la disoccupazione non diminuisce la capacità di lavoro, ma rafforza l’autonomia del titolare di un diritto al reddito di base.
Il personaggio-Renzi è dotato di un’enorme capacità di mistificare tutto e il suo contrario e i media ne sono affascinati in un gioco di auto-distruzione che si autoalimenta. Risultato ineguagliato, per il momento, resta il catastrofico (per lui, non per il paese) referendum del 4 dicembre. Ora, il mistificatore ha bisogno di recuperare voti sul “sociale”, i “giovani”, i “poveri”. La proposta sul “lavoro di cittadinanza” mette benzina sul fuoco.
 
“Fermare il progresso e la tecnologia o pensare di rallentare è assurdo”, ha detto l’ex premier ed ex segretario del Pd: “Le invenzioni, dalla stampa all’automobile, hanno avuto sempre ricadute sociali. Compito della politica è ora affrontare i problemi che derivano dalla rivoluzione digitale e i costi in termini di perdita di posti di lavoro”. Ma, aggiunge, “contesto la risposta grillina al problema. Garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione che parla di lavoro non di stipendio. Il lavoro non è solo stipendio, ma anche dignità. Il reddito di cittadinanza nega il primo articolo della nostra Costituzione”, invece “serve un lavoro di cittadinanza”.
Luigi Di Maio, candidato a Palazzo Chigi contro Renzi per i Cinque Stelle, si è chiesto cosa significhi “lavoro di cittadinanza”. Qualcuno ha provato a dare una risposta: sarebbe addirittura una proposta di Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, e  di Berlusconi che di recente si è scoperto sostenitore del “reddito di cittadinanza”.
Brunetta starebbe pensando a un lavoro di cittadinanza che impone, per legge, un’occupazione di 3 mesi a chi ne farà domanda. I tre mesi di lavoro daranno diritto a trascorrerne altrettanti con l’indennità di disoccupazione, e così via. Si desume che l’obbligo al lavoro, magari attraverso i vecchi lavori socialmente utili o con i più “moderni” voucher. In questo caso, tutti i cittadini in disagio lavorativo saranno costretti a svolgere nuove corvée o lavori servili di ogni tipo per avere in cambio un sussidio di povertà di ultima istanza (chiamato da Berlusconi, senza vergogna, “reddito di cittadinanza”) in una turnazione trimestrale. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) creata dal Jobs Act di Renzi e i centri per l’impiego, enti che hanno una buona parte dei dipendenti precari o in scadenza a marzo, dovrebbero gestire il nuovo lavoro servile, chiamato “lavoro di cittadinanza”. Resta da capire cosa faranno i richiedenti asilo che, a causa delle disfunzioni strutturali del sistema di asilo e del razzismo dilagante, saranno messi al lavoro (gratuito) per ottenere quello che sarebbe un loro diritto. Il piano Minniti-Morcone rientra, e in che modo, nel lavoro di cittadinanza?
 
Per chi ha una pur minima conoscenza dello stato delle politiche del lavoro, e dei risultati reali (non quelli renziani) del Jobs Act, sa che queste proposte di contrasto alla disoccupazione, tra l’altro in una crisi economica come la nostra, sono fuffa. Vale tuttavia la pena di analizzarle perché da oggi a febbraio 2018 – quando presumibilmente si voterà in Italia, salvo rovesci – questa sarà materia di propaganda. Potrebbe essere un punto dell’agenda del governo Pd-partito di Renzi-Forza Italia-Ncd e vari satelliti.
Renzi è spregiudicato. Quando parla di “lavoro di cittadinanza” allude a una tesi della sinistra lavorista. E’ stata avanzata da Laura Pennacchi (nel 2013; o nel 2017). Questa proposta è contro un reddito di base, soprattutto se incondizionato, accusato di favorire “la scissione del nesso costituzionale tra lavoro e dignità, il quale considera il lavoro non solo come attività ma come processo antropologicamente strutturante l’identità umana”. Prima che se ne appropriasse Renzi, la proposta era stata avanzata in politica da Stefano Fassina (Sinistra Italiana, già viceministro dell’Economia nel governo Letta quando militava nel Pd): “il lavoro di cittadinanza, non reddito di cittadinanza – ha sostenuto Fassina – Che deve servire all’inserimento lavorativo, quindi deve essere condizionato ad attività formative e all’accettazione di offerte dignitose di lavoro. Lo vedo come un veicolo per condurre o ricondurre le persone al lavoro”.
 
Questa sinistra sostiene il ritorno dello Stato a cui affidare il ruolo di “creatore di ultima istanza” di lavoro. Impresa ambiziosa che si ritrova nel piano sul lavoro presentato dalla Cgil e viene tramandato dal tempo in cui alcuni economisti progressisti consigliavano di impiegare persone facendogli scavare le buche. Più di recente se ne è parlato per creare occupazione statale nella manutenzione dei disastrati territori italiani. A Renzi, invece, non interessa un simile ruolo dello Stato, se non limitato all’erogazione degli incentivi alle imprese: 18 miliardi per il Jobs Act. Si appropria del lavorismo e, con la sua personale interpretazione del populismo, lo mescola con l’assistenzialismo statale agli imprenditori in chiave di capitalismo compassionevole. Un patchwork conservatore e liberista, di destra e di sinistra, in chiave anti-Movimento Cinque Stelle.
 
Renzi è impegnato in una battaglia ideologica lavorista contro la proposta workferista del Movimento Cinque Stelle su un presunto (e infondato) reddito di cittadinanza (si tratta di un reddito minimo, come si dimostra qui e qui). Ha trovato nel sintagma “lavoro di cittadinanza” la parola ideale per confondere ancora di più le acque della propaganda da una parte e dall’altra. La mossa è studiata: visto che la micro-scissione dal Pd (e da Sinistra Italiana) della “ditta” Bersani-D’Alema (e Speranza, Scotto, Smeriglio ecc) si chiamerà “Articolo 1 – Movimento dei democratici e dei progressisti), Renzi ha pensato di impadronirsi dell’ingombrante portato giuridico dell’articolo della Costituzione per rubare la scena ai suoi attuali avversari “di sinistra” e scaricarlo contro i Cinque Stelle accusati, a torto, di essere meno lavoristi del Pd.
 
Renzi sostiene queste posizioni da almeno quattro anni. Impadronendosi oggi della parola d’ordine  del “lavoro di cittadinanza”, l’ex premier otterrà l’effetto di neutralizzare la principale – e modesta – proposta di “sinistra” per affrontare, si fa per dire, il problema epocale della precarietà, del lavoro povero, della totale mancanza di tutele universalistiche per la persona e infine dell’automazione che-distrugge-i-posti-di-lavoro. La sinistra non lavorista rischia di restare, come sempre, senza voce. A meno che non rilanci – contro la proposta dei Cinque Stelle e contro il lavorismo di Renzi e della sua “sinistra” – la prospettiva del reddito di base universale. Destinato anche ai residenti stranieri, non solo ai “cittadini”.
 
Impresa difficile perché il lavorismo ha una presa ideologica anche nei quadri dirigenti sindacali, Cgil compresa. Qualche cambiamento c’è stato negli ultimi sei o sette anni nella Fiom e nella Flc, ma il reddito non è mai diventato un argomento di discussione dirimente nel sindacato, a cominciare dalla “Carta dei diritti del lavoro” che la Cgil sostiene con i referendum contro i voucher e sugli appalti. Senza contare che la confederazione sindacale sostiene una proposta di “reddito di inclusione sociale” (Reis), una misura parziale e non universalistica contro la povertà, e non un reddito di base a sostegno della persona vulnerabile nel mercato del lavoro nella società finalizzata al libero e autonomo sviluppo della sua dignità sociale, umana e professionale.
In questa confusione politica e ideologica la battaglia è feroce. A sinistra, tra i Cinque stelle e Renzi non si faranno prigionieri. Chi sta perdendo sono milioni di persone la cui vita migliorerebbe con una riforma universalistica del Welfare familistico, lavorista, burocratico e anacronistico come quello italiano. Gli unici, ad oggi, che sostengono una prospettiva di “reddito minimo garantito” sono in parte in Sinistra Italiana, Possibile di Civati o parte di Rifondazione Comunista, le reti dei movimenti e dei centri sociali, la rete dei Numeri Pari (composta da Libera, Cnca, Rete della Conoscenza, Roma Social Pride), il Basic Income Network-Italia. Molto interesse desta la proposta di “reddito di autodeterminazione” avanzata dal movimento Non una di meno. La novità più interessante nella politica degli ultimi tempi porterò questa rivendicazione in piazza nello sciopero delle donne del prossimo 8 marzo. Queste posizioni che potrebbero evolvere verso un vero reddito di base universale. Una parte ancora poco visibile politicamente, a cui bisognerebbe chiedere più coraggio e azione politica per sfuggire alla tenaglia ideologica del pauperismo, del miserabilismo e di un’equivoca, nostalgica e acritica idea “socialdemocratica” dello stato che oggi unisce lavoristi di destra e di sinistra.
Una precedente campagna sul reddito di dignità, sostenuta da Libera e da centinaia di associazioni e movimenti, è stata cannibalizzata dagli opportunismi dei lavoristi. Il governatore della Puglia Michele Emiliano ha stravolto quella proposta spuria (una forma di reddito minimo garantito) in un sussidio di ultima istanza per i poverissimi con famiglie numerose, sottoponendoli alle condizioni di un workfare ispettivo che prevede penalizzazioni per chi non accetta una manciata di euro in cambio di lavori socialmente utili. Emiliano ha chiamato questa proposta “reddito di dignità”. Uno scippo che ha mostrato la debolezza politica delle istanze che chiedono in Italia una forma di dignità e giustizia sociale. Il consenso per una misura come il reddito resta tuttavia, potenzialmente, molto ampio nel paese. Per questo non dovrebbe restare confinato nei limiti di uno spazio politico ultra-identitario e altrettanto incerto, e infinitamente condizionabile da una duplice dialettica: quella distruttiva pd-centrica oppure quella neutralizzante dei Cinque Stelle.
 
In questa prospettiva bisogna liberare il campo da un equivoco. Il discorso sul reddito di base non è una prerogativa della Silicon Valley, né tanto meno dei liberisti alla Milton Friedman. Di sganciamento del reddito dal lavoro, e di riforma del Welfare, si parla perlomeno dagli anni Settanta in Italia, in Germania e nella sinistra europea più avanzata. Senza contare che un reddito di base non esclude il lavoro, ma libera il soggetto dal suo ricatto, per un libero sviluppo della sua personalità. Un’antica aspirazione del Marx teorico della “forza lavoro” e non del “lavoro”, come ritengono i lavoristi che hanno del marxismo un’immagine umanistica, smithian-ricardiana e certamente non comunista. Da un altro punto di vista, altrettanto radicale, di recente Stefano Rodotà ha proposto la formulazione di un diritto fondamentale al reddito che ha chiamato diritto universale di esistenza. Un diritto che oggi può strutturare ogni proposta alternativa di tipo politico, economico, sociale ed esistenziale al di là della fascinazione acritica per gli automatismi della Silicon Valley in cui è caduta la sinistra non lavorista.
 
Sostenere che il reddito di base è una proposta neoliberista è dunque un falso storico usato dai lavoristi che parlano di “piena occupazione”. Dire che Milton Friedman propone forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione. Quella dei neoliberisti è solo una delle possibili varianti del reddito di base. Non certo l’unica.
 
Una volta messo in ordine il quadro teorico e storico, è giunto il momento di un’iniziativa politica autonoma sul reddito. Non è mai troppo tardi.
 
***qui e qui le differenze tra reddito minimo garantito, reddito di inclusione sociale, reddito di povertà e reddito di base universale
Quinto Stato
Roberto Ciccarelli 27.02.2017
 

La seconda gamba del Jobs Act: l’Anpal e il management della precarietà di massa

copertina-300x300per fortuna che ci sono tante lotte dure senza paure. SE SI E’ ARRIVATI FIN QUI QUALCUNO COMPLICE E’ STATO. Ed ad ogni SUICIDIO per indigenza CENSURIAMO bel paese dominato dai giusti moralmente superiori
SOLO SE LA COSIDDETTA SOLIDARIETA’ SI TRASFORMA IN UN SISTEMA MAFIOSO-TANGENTISTA VIENE INTRODOTTA IN STA FOGNA DI PAESE

Non solo voucher. Il Jobs Act è un mondo. L’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) è la sua seconda gamba. Anticipazione del futuro in Italia. Quello che saranno le politiche neoliberali del lavoro e il management della precarietà di massa.  Non senza problemi: l’Anpal che dovrà organizzare i servizi per reinserire i lavoratori precari o disoccupati è tenuta in piedi da 760 precari i cui contratti scadranno il 31 luglio. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
 
***
 
La stagione delle politiche attive del lavoro in Italia è iniziata ad Avellino. Il Presidente del Consiglio Gentiloni e il presidente dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal) Maurizio Del Conte hanno visitato il Centro per l’Impiego della città campana per lanciare un’operazione ambiziosa: introdurre anche nel Belpaese un sistema di workfare secondo i canoni più stringenti del neoliberismo applicato al mercato del lavoro. Un’operazione che può essere compresa in relazione all’approvazione del “reddito di inclusione” nell’ambito di un intervento sottofinanziato, vessatorio e incompleto contro la povertà.
Questo reddito riguarda i poverissimi, capofamiglia di nuclei numerosi al di sotto dei 3 mila euro di Isee; l’assegno di ricollocazione che sarà gestito dai centri dell’impiego monitorati dall’Anpal interessa invece i disoccupati.
La logica è la stessa: il soggetto che non accetta un’offerta di lavoro, e non rispetta il “patto” con lo Stato (o con le agenzie private titolari di un progetto di ricollocazione), sarà penalizzato fino alla perdita del sussidio stesso.
Il set è un centro per l’impiego del Sud, dove ci sono i tassi di disoccupazione e di povertà più alti del paese. Gli attori – Gentiloni e Del Conte (bocconiano, e già autore del Ddl lavoro autonomo) – hanno annunciato le seguenti misure: 30 mila lettere ai disoccupati per “ricollocarli” sul mercato del lavoro; rilancio del fallimentare programma sulla “Garanzia giovani” e del Bonus assunzioni Sud per il 2017, parte superstite degli sgravi erogati dal governo Renzi alle imprese che assumono con il contratto precario “a tutele crescenti”, 18 miliardi in tre anni con esiti deludenti. Sarà creato un nuovo bacino di precari: mille “tutor” garantiranno il sistema del lavoro gratuito dei liceali nelle aziende nell’ambito del sistema “alternanza scuola-lavoro” strutturato da un’altra riforma renziana: la “Buona scuola”. Previsti interventi a supporto della ricollocazione di 1.666 licenziati di Almaviva Contact.
 
Esperimento Almaviva
Il ricollocamento degli ex Almaviva è una sperimentazione che prevede tre strumenti di incentivazione per una somma da investire sui lavoratori licenziati fino a 15mila euro: alle società private che formeranno il lavoratore andranno fino a 2mila euro; alle società di collocamento ma solo nel caso di esito positivo del percorso, un assegno di ricollocazione fino a 5mila euro;  alle aziende che assumeranno il lavoratore con contratto a tempo indeterminato fino a 8mila euro.
I disoccupati continueranno ad usufruire, per tutto il percorso di ricerca di lavoro, della Naspi. in alternativa, sono previsti incentivi per l’auto-impiego fino a 18mila euro a lavoratore, 15mila sul capitale e 3mila per il percorso di accompagnamento all’auto-imprenditorialità, oltre a risorse per la ricollocazione degli over 60, fino a 10mila euro a testa per l’accompagno verso un lavoro di pubblica utilità. L’accesso ai programmi disegnati dal governo sarà volontario. Nella regione Lazio apriranno 5 sportelli, in collaborazione con la regione, per gestire un’operazione complessa. Dal 9 al 16 aprile inizieranno i colloqui individuali con i lavoratori “ricollocandi”.
 
Le proposte di lavoro dovranno essere “congrue” e in linea con le competenze e il salario dell’esperienza precedente del lavoratore. Tutto dipende dalla “domanda che emergerà dal territorio” e dall’interesse di imprese pubbliche e private, società parastatali o amministrazioni pubbliche, ad occupare gli ex licenziati Almaviva. Se il lavoratore rifiuterà l’occupazione perderà il diritto all’indennità di disoccupazione. Su questa operazione il governo investirà 8 milioni di euro rimborsati dal fondo europeo Feg.
Questa sperimentazione permette di squadernare la logica governamentale già presente nelle politiche del lavoro in Italia e che il JobsAct ha cercato di sistematizzare in quella che è stata definita “seconda gamba”. I 30 mila destinatari delle lettere sono stati individuati tra i percettori della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (Naspi) da almeno 4 mesi. Queste persone avranno a disposizione un buono fino a un massimo di 5.000 euro per usufruire di servizi di assistenza intensiva alla ricollocazione, presso un centro per l’impiego o un’agenzia per il lavoro accreditata. Va specificato che questa somma non è erogata direttamente al disoccupato, ma agli operatori – pubblici e privati – attraverso un meccanismo che viene definito “incentivante”. L’operatore sarà retribuito solo a risultato raggiunto, cioè alla firma di un contratto di lavoro da parte del lavoratore. L’intervento ha una durata di sei mesi, prorogabile per altri sei nel caso non sia stato consumato l’intero ammontare dell’assegno di ricollocazione.
Management del mercato del lavoro
Su questa base è possibile ipotizzare che per reciproco interesse il lavoratore e l’agenzia a cui si è rivolto possano avere interesse a mantenere in vita la prestazione di disoccupazione. Il primo potrebbe mantenere il sussidio per la sua intera durata; la seconda continuare a prendere il voucher. Nel primo caso, il diritto fondamentale della libera scelta – e il corrispettivo principio costituzionale -saranno aggirati dall’approccio prestazionale e produttivistico proprio del dispositivo del management by objective. Nel secondo caso si rischia di alimentare comportamenti opportunistici nelle strutture private.
 
I “soggetti accreditati” possono anche spingere il loro “cliente” ad accettare qualsiasi offerta che riterranno congrua rispetto al curriculum del lavoratore. Dal numero di ricollocamenti dipende sia la riscossione della percentuale sul fondo destinato al lavoratore sia il rating dell’agenzia interinale che è in concorrenza con le altre, così come lo saranno gli stessi centri per l’impiego in un sistema “misto” dove l’Anpal dovrebbe giocare un ruolo di arbitro e di coordinatrice-monitoratrice delle attività  del pubblico e del privato, dello stato e delle regioni.
Al lavoratore spetterà la scelta di accettare un lavoro oppure ricevere la penalità da parte dello Stato. Per lui le “politiche attive” prevedono una serie micidiale di sanzioni nel caso di rifiuto di un’offerta “congrua” di lavoro, fino alla punizione finale: il rifiuto del sussidio.Su questo concetto di “congruità” si giocherà, presumibilmente, la partita esistenziale, politica ed epistemologica delle “nuove” politiche del lavoro. Il contrasto tra la logica del rating -seguita dal sistema di collocamento scelto dal JobsAct – e quella della libera scelta è palese.
Alla base della “politica attiva del lavoro” esiste l’approccio sanzionatorio e parossistico del work first: il “lavoro purchessia”, basato sui requisiti quantitativi e non qualitativi. Questa logica incide sia sul lavoratore che sui soggetti che li seguono. L’obbligo della scelta può arrivare a negare la libertà del soggetto che ha stretto un “patto” con lo Stato. Il ricollocamento, l’occupazione, la disoccupazione diventano un caso morale, ovvero uno dei dispositivi che governano la vita delle persone oggi nella società, e non solo nel lavoro.
 
Esistono altre ipotesi. Ad esempio, una volta entrati in vigore a livello sistemico, i voucher potrebbero essere liberamente versati nelle casse delle multinazionali private e non in quelle pubbliche, date le attuali e future inefficienze. Il governo elargirà fondi pubblici a privati, ma sarà rimborsato con i fondi europei. La politica, che molto sta puntando sulla finzione delle “politiche attive” potrà comunque appendersi una medaglietta al petto. I giornali potranno titolare sul successo dell’operazione.
 
L’Unione Europea – ispiratrice di questo sistema neoliberale di workfare – potrà brindare al miglioramento delle statistiche sull’occupazione. E i lavoratori? I lavoratori troveranno un altro modo per vivere la loro condizione di disoccupazione attiva o di attivazione occupazionale permanente restando, in fondo, intermittenti del reddito e delle tutele.
E ancora: il soggetto potrebbe preferire non entrare nel quasi-mercato dei sussidi e delle politiche attive istituito con l’Anpal per evitare di essere ricattato, monitorato e disciplinato. In Italia sembra quasi inconcepibile questa eventualità, data l’assenza di una reale politica attiva. Casi simili si registrano in tutta Europa, dalla Francia all’Inghilterra e in Germania. Paesi dove il sistema di ricollocamento esiste. Il restringimento punitivo dei parametri, avvenuto nell’ultimo decennio, sta causando una fuga dal workfare da parte di soggetti che rifiutano di assoggettarsi alle nuove condizioni.
Le politiche attive del lavoro sono un concentrato di politiche neoliberiste con lo scopo di creare un “quasi mercato” dell’offerta di lavoro sia nel pubblico che nel privato. Il loro obiettivo è trasformare la governance inefficiente attuale in un dispositivo manageriale che funziona con premi, obiettivi e competizione tra istituzioni e imprese del reclutamento di forza-lavoro. La politica attiva del lavoro è un governo della vita.
 
Sono precari coloro che aiutano i disoccupati a trovare un lavoro
Ad oggi l’intero sistema dell’Anpal si regge sul precariato di 760 operatori i cui contratti sono stati da poco prorogati al 31 luglio 2017. E poi? Dovrebbero ripetere una selezione che hanno già fatto tra il 2015 e il 2016 per continuare a fare un lavoro che in molti casi svolgono da anni. E’ l’immagine speculare della forza lavoro che dovrebbero aiutare a “ricollocarsi”.
Il caso dei 760 precari di Anpal è significativo. Sono loro che dovrebbero seguire la “ricollocazione” dei licenziati Almaviva. Senza contare i mille “tutor” che dovrebbero seguire e formare le attività dell’alternanza scuola lavoro: una pedagogia neoliberale obbligatoria che serve ad addestrare gli studenti al lavoro inteso come stage permanente o vero e proprio lavoro gratuito che avrà un peso sul voto della maturità.
“È inaccettabile – scrivono gli interessati – che le risorse impegnate in progetti di ricollocazione, come il Piano Almaviva, garantiscano servizi a disoccupati vivendo sulla propria pelle una forte incertezza sul proprio futuro professionale e lavorativo. È necessario che Anpal e il Governo garantiscano l’inizio di un percorso di stabilizzazione che passi attraverso il rispetto dell’intesa quadro del 22 luglio 2015, la salvaguardia della continuità occupazionale dei lavoratori e delle attività di Anpal Servizi e la proroga dei contratti fino al 2020 senza passare per ulteriori selezioni visto che abbiamo già superato vacancies sulla programmazione 2014-2020”.
Non bisogna mai credere agli annunci degli aspiranti stregoni del mercato del lavoro. Sotto la patina dell’ottimismo tecnocratico, dentro le pieghe della neo-lingua, c’è sempre un’intenzione di controllo e governo. C’è sempre il precariato. Un dato può essere utile per dare un senso alle prospettive delle “politiche attive del lavoro” in Italia. Solo in Germania – stella polare delle classi dirigenti italiane sul workfare i mini-jobs e le politiche contro i poveri – nelle politiche del lavoro e nelle politiche attive sono impiegate circa 110 mila persone, oltre 11 volte in più rispetto ai circa 9 mila italiani, di cui circa 2 mila precari.
 
Roberto Ciccarelli 17.03.2017

Biella, suicidio di coppia per due ambulanti sessantenni: “Perdonateci, siamo sul lastrico”

copertina-300x300GRAZIE ITALIA. GRAZIE PER L’INDIFFERENZA MOSTRATA loro non sbarcano non meritano solidarietà, ed i tanti come loro che sono in difficoltà economica

E’ stata la polizia a scoprire i corpi dei coniugi
 
Tragedia nel quartiere Chiavazza. Marito e moglie hanno lasciato messaggi in cui spiegano i motivi del gesto: non riuscivano più a vivere del lavoro al mercato
 
Si sono tolti la vita perché non riuscivano più a vivere con il loro guadagno. E lo hanno fatto insieme. Doppio suicidio a Chiavazza, nel biellese: marito e moglie sessantenni sono stati trovati morti impiccati nel garage della loro casa in via Coda. Erano entrambi venditori ambulanti al mercato ma da qualche tempo con ogni probabilità non riuscivano più, con il loro lavoro, a sopravvivere.
 
A dare l’allarme è stato il proprietario dell’autorimessa dove i coniugi parcheggiavano il camion. Il fatto che da alcuni giorni nessuno lo avesse spostati ha destato dei sospetti. I cadaveri
 
sono stati scoperti oggi dalla polizia, entrata nella villetta. La coppia ha lasciato alcuni messaggi (“Perdonateci, siamo sul lastrico”) per spiegare il doppio suicidio, che sarebbe dovuto a motivi economici. La loro casa era in vendita da due anni, e sembra che marito e moglie sognassero di trasferirsi in Toscana per godersi la pensione: due anni fa, raccontano i vicini, la coppia aveva subito un furto in casa, fatto che aveva lasciato un segno profondo soprattutto nella donna.
di FLORIANA RULLO – 17 marzo 2017

Jobs Act, anche il centro studi di Biagi certifica flop: “Sempre più lavoratori a termine. Boom occupati? Solo over 50”

El-paro-aumenta-el-riesgo-de-pobreza.-Luis-SerranoA due anni dalla riforma, un working paper della fondazione Adapt fa il bilancio. Nonostante gli sgravi contributivi, costati circa 20,3 miliardi di euro, “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale”, cioè invertire il rapporto tra i nuovi contratti a tempo determinato e quelli stabili. Nel 2007 erano a termine 13,7 lavoratori su 100, nel 2016 si è toccato il record di 14,4. Inoltre gli incentivi hanno giocato a sfavore dei giovani, il cui tasso di occupazione resta 8 punti sotto il livello pre-crisi
 
Che il Jobs Act abbia mancato gli obiettivi di diminuire la precarietà e rendere stabilmente più appetibili per i datori di lavoro i contratti a tempo indeterminato è ormai molto più che un sospetto dei sindacati o un’accusa delle opposizioni: basta guardare gli ultimi dati Inps sull’andamento di assunzioni e licenziamenti nel 2016. Ma ora, a due anni esatti dal suo varo, a sancire il flop di una delle riforme simbolo del governo di Matteo Renzi è un working paper della Fondazione Adapt, il centro studi fondato dal giuslavorista Marco Biagi due anni prima del suo assassinio per mano delle Nuove Brigate Rosse. La valutazione arriva dunque da una fonte cui non si può imputare un pregiudizio negativo nei confronti della flessibilità, considerato che porta il nome di Biagi la legge che ha introdotto in Italia i contratti a progetto, il lavoro occasionale e quello a chiamata.
Le conclusioni dell’analisi, firmata dal direttore generale di Adapt Francesco Seghezzi e dal ricercatore Francesco Nespoli, sono nette: per prima cosa, alla luce dei dati disponibili “non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale del Jobs Act, più volte comunicato, di invertire il rapporto tra il flusso dei contratti a tempo determinato e quello dei contratti a tempo indeterminato”, nonostante i generosi sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato concessi dal gennaio 2015 al dicembre 2016 proprio per spingere le stabilizzazioni siano costati alle casse dello Stato una cifra che l’articolo stima in “circa 20,3 miliardi di euro“, l’equivalente di una manovra finanziaria. Infatti appena la decontribuzione si è ridotta, nel 2016, “abbiamo assistito ad una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%)”.
Nel 2016 record di lavoratori a tempo determinato – Risultato: “Complessivamente sia nel 2015 che nel 2016 la percentuale degli occupati a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti è cresciuta. Se infatti nel 2007 13,2 lavoratori dipendenti su 100 avevano un contratto a termine, il numero è calato lievemente durante la crisi per poi tornare a crescere arrivando a 13,7 nel 2015 e al valore record di 14,4 nel 2016“. Tutto considerato, i dati finora disponibili mostrano secondo il paper come “l’investimento fatto non abbia portato ad un cambio strutturale delle preferenze delle imprese e come esso possa prefigurarsi come legato tuttalpiù a una modifica strutturale dei rapporti di convenienza economica delle due diverse tipologie contrattuali”. Per di più, il legame tra decontribuzione e attivazione di contratti suggerisce che le imprese favorite dal Jobs Act siano state “quelle che competono sui costi fissi piuttosto che sull’innovazione“.
“Ripresa occupazionale concentrata nella fascia più anziana” – Se poi si va a guardare quali fasce di età hanno beneficiato maggiormente delle stabilizzazioni, il risultato è quasi paradossale nel contesto di un Paese che ha un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa (per non parlare dei Neet): l’unica crescita consistente del tasso di occupazione si è registrata nel gruppo 50-64 anni. Andando ancora più a fondo, si scopre che “la ripresa occupazionale alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni si è concentrata quasi totalmente sulla fascia più anziana della popolazione lavorativa italiana”. Una constatazione che “getta una diversa luce sulle possibili cause”, scrivono i ricercatori: vale a dire che “è quantomeno possibile introdurre tra i fattori l’aumento dell’età pensionabile e la conseguente diminuzione del numero dei pensionati italiani, diminuzione che ha fatto sì che il numero di occupati nella fascia 50-64 aumentasse, contribuendo quindi all’aumento complessivo degli occupati”. Più del Jobs Act, dunque, poté la riforma Fornero. Del resto, il fatto che gli incentivi non fossero differenziati – per esempio più alti per i giovani al primo impiego – “pare avere giocato addirittura a sfavore dei giovani, facendo propendere le imprese verso l’assunzione dei più esperti” anziché puntare su ragazzi da formare.
I contratti a tempo determinato nel 2016 hanno ricominciato ad aumentare – Le conclusioni del paper sono ovviamente basate sui dati ufficiali di Inps e Istat. Si parte dalle rilevazioni dell’istituto previdenziale sui nuovi contratti. Nel 2015 si sono registrati, al netto delle cessazioni e includendo le trasformazioni, 934mila contratti a tempo indeterminato in più. “È indubbio quindi che i provvedimenti, soprattutto quello della decontribuzione, abbiano generato nel 2015 una vera e propria impennata di contratti di lavoro”. Purtroppo però è altrettanto indubbio “che nel 2016 questo trend abbia subito una brusca frenata“: nel 2016 sono stati 82mila (-91%). Al contrario “sul fronte dei contratti a tempo determinato, la cui diminuzione era tra gli obiettivi di policy principali (se non quello primario) del Jobs Act, si assiste ad una dinamica opposta”. Se nel 2015 erano diminuiti di 253mila unità, l’anno scorso (quando lo sgravio contributivo è stato ridotto dal 100 al 40%) sono aumentati di 221mila, +187%.
 
Rispetto a prima della crisi 264mila lavoratori in meno – Passando alla panoramica del mercato del lavoro prima e dopo la riforma, il quadro è altrettanto negativo: “Alla fine del 2016 avevamo in Italia 22.783mila occupati, con un tasso di occupazione pari al 57,3% della forza lavoro. Un dato che confrontato con il 2007 pre-crisi mostra la diminuzione di 264mila lavoratori e soprattutto (considerando anche la crescita della popolazione e la forza lavoro cresciuta di 1,2 milioni di unità) la diminuzione dell’1,5% del tasso di occupazione“.
L’anno scorso 217mila nuovi occupati su 293mila sono stati over 50 – Quanto alla ripartizione dei benefici degli incentivi tra le diverse fasce di età, il tasso di occupazione dei 15-24enni che nel 2007 era al 24,2% e nel 2013 era sceso al 15,6% ha conosciuto solo un mini recupero, arrivando al 16,3% nel 2016: circa 8 punti in meno rispetto al periodo pre-crisi. Dinamica simile per la fascia della prima maturità, tra i 25 e i 34 anni: “se nel 2007 lavoravano 70,6 persone su 100 in tale coorte anagrafica, nel 2013 erano scese a 59,1 per risalire debolmente a 60,5 nel 2016”. Stesso andamento, anche se più contenuto nelle variazioni, per la fascia 35-49 anni. Al contrario, “l’unica crescita consistente si è verificata nel gruppo 50-64 anni che ha visto una crescita costante che ha portato la percentuale degli occupati dal 46,8% del 2007 al 53,8% del 2013 per poi salire ancora al 58,5% del 2016“. Depurare i dati dall’effetto della demografia, che “svuota” le corti più giovani, non migliora la situazione, anzi: “In una stima sul 2016 si evince che su un totale di 293mila occupati in più, sarebbero 217.000 quelli tra i 50 e i 64 anni, 49.000 coloro tra i 35 e i 49 anni e 27.000 tra i 15 e i 34 anni. Nell’ultimo anno quindi ad ogni nuovo occupato tra i 15 e i 49 anni sono corrisposti 2,8 nuovi occupati tra i 50 e i 64 anni”.
Sui licenziamenti troppo pochi dati. Ma sono aumentati quelli per giusta causa e giustificato motivo soggettivo – Meno schiaccianti le evidenze sul fronte dei licenziamenti: ancora oggi, spiegano Seghezzi e Nespoli, “mancano i dati che possano dirci con chiarezza se i contratti cessati in questo modo fossero o meno contratti stipulati dopo l’introduzione delle norme istitutive delle tutele crescenti. Per questo motivo non si può oggi ragionevolmente sostenere né che il Jobs Act abbia generato un aumento di licenziamenti, né il contrario”. Si può però prendere atto del fatto che tra 2014 e 2016 c’è stato un aumento costante dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, mentre è stato più altalenante l’andamento di quelli per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi, diminuiti nel 2015 e aumentati nel 2016.
 
La conclusione del paper è che se un governo intende davvero promuovere le assunzioni a tempo indeterminato è inutile “armarsi e scendere nel campo di battaglia dei numeri che ogni mese vengono diffusi”. Bisogna “discutere l’idea profonda del mercato del lavoro che vogliamo costruire, senza pensare di poter affrontare una grande trasformazione, ormai ammessa da tutti, rinverdendo un poco strumenti vecchi. Una rivoluzione implica risposte all’altezza della sfida, o quanto meno domande per un’analisi meno approssimativa possibile”.
di Chiara Brusini | 14 marzo 2017

DEMENZA DIGITALE

lavoro tecIl ras di quello che una volta era il partito dei lavoratori si è recato recentemente in visita negli Stati Uniti, alla Corte dei capitalisti della Silicon Valley.
L’ ex premier Matteo Renzi, come nel suo stile, ha trionfalisticamente annunziato l’iniziativa transcontinentale motivandola con la necessità di dovere apprendere da quelli che, per capirci, con l’informatizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione e la rete informatica guadagnano denari a palate. E così mandano sul lastrico milionate di aziende e lavoratori.
Chi vi scrive non appartiene di certo alla ristretta cerchia del giglio magico. Allorquando opportunamente interpellato lo scrivente, comunque, si sarebbe adoperato per evitare al leader piddino la defatigante esperienza californiana.
 
Non è. invero, necessario recarsi di persona nella lontana Silicon Valley per intuire i meccanismi che determinano il formidabile successo di aziende come Amazon, Microsoft, Apple, Google, Netflix twitter, starbucks, Adobe. Bisogna però avere l’onestà intellettuale di riconoscere che tale successo fonda su un modello sociale ed economico nefasto.
Pochi sanno che, insieme, tali imprese capitalizzano in borsa oltre 2718 miliardi di dollari. Molto di più del prodotto interno lordo italiano che vale, invece, 1961 miliardi. I vertici di tali colossi del web sono quelli che recentemente si sono messi anche a far politica. Come un sol uomo sono insorti contro la decisione di Trump che aveva bloccato gli ingressi negli Stati Uniti provenienti da stati canaglia.
 
Queste aziende, per capitale e fatturato di questo settore, contano oltre 900.000 dipendenti. Amazon, da sola, impiega 306.800 persone per smistare, a basso costo, pacchi in 14 paesi. Mentre Starbucks, con fatturato decisamente più basso, si serve di 238.000 dipendenti per recapitare dolcetti e caffè americani in tutto il mondo. E’ intuitivo comprendere che costoro si oppongono, allora, alle scelte di contrasto dei flussi immigratori incontrollati non certamente per ragioni umanitarie.
Le ondate di disperati, disponibili a lavorare a basso costo, rappresentano un ineliminabile pilastro del loro successo. Il dumping commerciale che tale aziende praticano postula la disponibilità di un elevatissimo numero di dipendenti disponibili a farsi sfruttare per salari da fame. E l’immigrazione alimenta l’offerta di manodopera disponibile a lavorare a basso costo. Renzi, di ritorno dalla Silicon Valley, avrà finalmente compreso l’ arcano della new economy. Ed a sinistra i nodi giungono al pettine.
 
Sul tema del lavoro, da che parte sta la sinistra? Con Uber, per esempio, o con i tassisti? La questione va correttamente affrontata in termini di principio. Stare con Uber significa accettare quella sharing economy che sta progressivamente annientando il mercato ed il mondo del lavoro. Si tratta di un progressismo peculiare, che piace molto alla grande finanza, agli intellettuali politicamente corretti, foraggiati da contratti che a loro riservano le reti pubbliche o le maggiori testate giornalistiche.
Chiunque non sia in malafede non può più negare che la robotizzazione e la digitalizzazione determinano la drastica riduzione di posti di lavoro e un progressivo aumento della disoccupazione.
Nell’arco di dieci anni, stando ad autorevoli stime, il tasso di disoccupazione passerà dal 10 al 47%. Di fronte a tale stato di cose, ed alle conseguenti prospettive, siamo ormai chiamati tutti ad consapevole presa di posizione universale: o si sta a favore del lavoro oppure ci si schiera a beneficio dei visionari dell’ultratecnica.
La sinistra renziana, invece, promette di tutelare i lavoratori ma intraprende politiche di governo che favoriscono la precarizzazione di tutte le forme di lavoro. Renzi poi una scelta definitiva sembra averla fatta: pubblicamente celebra Google, Apple, Amazon.
Negli Stati Uniti incontra Musk, imprenditore miliardario della new economy, profeta del transumanesimo, che progetta ed investe nella produzione di veicoli senza guidatore e preconizza che uomini l’ibridazione dell’umanità.
Nel frattempo, mentre i vertici del Pd si gingillano ad eludere temi centrali per le prospettive del mondo del lavoro, secondo i dati del Viminale, gli sbarchi segnano un inquietante aumento del 44% rispetto all’anno scorso. Gli immigrati in arrivo sono in gran parte della Nuova Guinea, Costa d’avorio, Nigeria e Senegal, Gambia. Nessuno proviene da scenari di guerra. Si calcola che nel 2017 possa essere superata la cifra dei 200.000 sbarchi. Coloro che si riempiono la bocca di retorica dell’accoglienza – ed il portafoglio di contributi destinati alle strutture di scopo – possono riferirci quali realistiche prospettive di assorbimento, in un mercato del lavoro che va rapidamente assottigliandosi, siamo in condizione di garantire a questi disperati ed ai nostri disoccupati ?
Mar 06, 2017 di Carmine Ippolito
Fonte: Katehon

LUC MICHEL DANS ‘LE MERITE PANAFRICAIN’ : POUTINE – ASSAD – DEBY ITNO. LES TROIS PRESIDENTS QUI COMBATTENT VRAIMENT LE DJIHADISME !

Ce vendredi 24 mars 2017
Dans ‘LE MERITE PANAFRICAIN’
la grande émission du vendredi soir de AFRIQUE MEDIA !
Thème de l’émission :
BOKO HARAM /DJIHADISME
POUTINE, BACHAR EL ASSAD, IDRISS DEBY ITNO.
Trois chefs d’Etat patriotes mènent seuls la guerre contre les forces du mal.
llklm
Avec 
* Le Géopoliticien Luc MICHEL, patron du Think Tank EODE :
la Guerre pour annihiler le terrorisme (Poutine, Bachar al-Assad, Idriss Deby Itno) VS le Théâtre occidental de la « guerre au terrorisme » (Plus de trente ans d’imposture) ;
* Fabrice BEAUR (correspondant en Russie, EODE-RUSSIA) :
la Russie, une longue expérience de lutte contre les djihadismes.
EODE-TV / EODE PRESS OFFICE
___________________
SUR AFRIQUE MEDIA/
LUC MICHEL DANS 
‘LE MERITE PANAFRICAIN’
La grande émission du vendredi
Ce vendredi 24 mars 2017
de 20h00 GMT à 22h30 GMT
(Douala/Ndjaména/Malabo et Bruxelles-Paris-Berlin)
___________________________
AFRIQUE MEDIA

PRESIDENTIELLE FRANCAISE 2017 : CETTE FOIS ILS PRENNENT VRAIMENT LES ELECTEURS POUR DES IMBECILES…

 

Luc MICHEL/ En Bref/ 2017 03 24/

Qui est le soi-disant “candidat hors Système” ?

114956989_o

Macron :

“Young Leader” (*) de la French American Foundation (FAF) en 2012,

Ministre des Finances de Hollande-Vals,

Banquier d’Affaire à la Banque Rotschild,

Protégé de Jacques Attali,

Proche du  milliardaire Patrick Drahi (Groupe ALICE-SFR) …

(*) Comme Hollande (1996), Alain Juppé (1982), Arnaud Montebourg (2000), Laurent Wauquiez (2006), Najat Vallaud-Belkacem (2006) ou … Nicolas Dupont-Aignan (2001), candidat “souverainiste” !

Ce sont au total, « 400 dirigeants français et américains issus de la politique, du monde des affaires, de la culture, de la recherche, et du secteur militaire» qui sont passés par cet “incubateur de la pensée atlantiste et pro-américaine”.

A noter qu’entre 1997 et 2001, John Negroponte présida la FAF, avant de devenir entre 2005 et 2007, sous Georges Bush, le premier directeur coordonnant tous les services secrets américains (DNI), dirigeant l’US States Intelligence Community (qui regroupe une quinzaine de membres, dont le FBI et la CIA).

MAIS Libération (dont le directeur Laurent Joffrin est aussi un “young leader” en 1994) vous expliquera que tout çà “relève d’une vision complotiste” …

LM

# Lire Luc MICHEL sur PCN-INFO :

COMPRENDRE CE QUI SE PASSE EN FRANCE. LA VERITABLE NATURE DU REGIME FRANÇAIS ET SA SUJETION A L’AXE AMERICANO-SIONISTE

sur http://www.lucmichel.net/2014/01/10/pcn-info-comprendre-ce-qui-se-passe-en-france-1-la-veritable-nature-du-regime-francais-et-sa-sujetion-a-laxe-americano-sioniste/

____________________________________

# SUIVEZ AUSSI LUC MICHEL SUR TWITTER !

* Luc MICHEL PCN

@LucMichelPCN

Mes Réseaux :

PCN-NCP / MEDD-RCM / NNK / ELAC /

SYRIA COMMITTEES / PANAFRICOM /

EODE / AFRIQUE MEDIA

* Allez vous abonner !

https://twitter.com/LucMichelPCN

AFREXIT CPI : LUC MICHEL ANALYSE LA CRISE DE LA CPI ET LA ‘CHUTE DE LA PROCUREUR BENSOUDA’ SUR ‘LIGNE ROUGE’…

AFRIQUE MEDIA & EODE-TV/ 

Ce vendredi matin 24 mars 2017

Dans LIGNE ROUGE

la grande émission matinale de AFRIQUE MEDIA !

Présentée par Vanessa Ngadi Kwa

2017-03-24_025449

Thème de l’émission de ce jour :

« Comment comprendre la chute de Bensouda dans le procès de Laurent Gbagbo ? ».

En direct de Bruxelles, le géopoliticien Luc MICHEL (et patron de EODE Think Tank) dévoile tous les dessous de la crise de la CPI, soumise à l’AFREXIT CFA (1).

POURQUOI LA CPI, CRITIQUEE POUR SON INEFFICACITE ET CONFRONTEE A L’AFREXIT CPI, EST-ELLE EN CRISE ?

QU’EST-CE QUI FAIT CHUTER LA PROCUREUR-GENERALE BENSOUDA TAXEE D’INCOMPETENCE ?

Le géopoliticien, qui est aussi un militant panafricaniste et dirige l’organisation transnationale PANAFRICOM (2), « néopanafricaniste » (3), répondra aux questions :

* La CPI est en crise et la presse évoque la « chute de la procureur Bensouda. Le procès Gbagbo-Blé Goudé se révèle dévastateur pour une CPI confrontée à l’AFREXIT CPI africain et russe, lancé par le Burundi. Que se passe-t-il à La Haye ?

* La crise de la CPI est donc générale ? On met en premier lieu en cause l’inefficacité de la Cour, mais aussi l’incompétence de la procureur Bensouda ?

* La presse parle de la « chute de la procureur-général Bensouda ». Vous évoquez vous « le naufrage de Ben Souda ». Elle a même réussi à se confronter par son arrogance au Conseil de Sécurité de l’ONU, son vrai patron, et aux juges de la CPI, à commencer par le juge italien Tarfusser qui préside la Procès Gbagbo-Bensouda ?

* Terminons par les derniers mois du Procès Gbagbo-Blé Goudé lui-même. Les incidents se sont multipliés : faux témoignages, faux documents, incidents de procédures, fausse video. La procueur-générale Bensouda triche-t-elle se décrébilisant définitivement ? Où sont les droits de la défense et l’obligation de « loyauté des parties à l’établissement de la vérité judiciaire », base d’un procès équitable ?

(1) Il existe depuis plusieurs mois un mouvement d’insoumission généralisée de l’Afrique à l’encontre de la CPI, initié par le Burundi, le premier État à quitter l’institution. Mouvement que l’on désigne sous le nom d’ « AFREXIT CPI » et parallèle à l’ « AFREXIT CFA » contre le Franc CFA, deux grandes causes panafricaines initiées par AFRIQUE MEDIA …

(2) Sur PANAFRICOM :

* Découvrir la WebTv/

http://www.panafricom-tv.com/

* Voir la Page Officielle Panafricom/

@panafricom https://www.facebook.com/panafricom/

(3) Sur le NEOPANAFRICANISME :

* Aborder l’Idéologie panafricaniste/

Voir la Page Panafricom II – Néopanafricanisme

@Panafricom2 https://www.facebook.com/Panafricom2/

EODE-TV / EODE PRESS OFFICE

___________________

SUR AFRIQUE MEDIA/

LUC MICHEL DANS ‘LIGNE ROUGE’

LA GRANDE EMISSION DU MATIN

Ce vendredi matin 24 mars 2017

de 05h30 GMT à 08h GMT

(Malabo-Ndjaména-Douala et

Bruxelles-Paris-Berlin de 6h30 à 9h)

___________________________

AFRIQUE MEDIA

* en STREAMING sur http://lb.streamakaci.com/afm

* sur SATELLITE sur http://www.lyngsat.com/Eutelsat-9B.html

* WebTV sur http://www.afriquemedia-webtv.org