Il PD reo confesso: abbiamo fatto gli interessi dell’UE, non quelli dell’Italia

ah questi cattivi euroscettici populisti e xenofobi, non amalo la UE DELLE BANCHE, che tragedia, sono sicuramente dei guerrafondai. SCUSATE, MA PERCHE’ GIURANO SULLA COSTITUZIONE CHE SANCISCE IL POPOLO SOVRANO e non LA UE?

Era da un po’ che non ritornavo in un post a parlare di delitti contro la personalità dello Stato. Non certo perché si è rinunciato alla battaglia, le denunce continuano ad essere depositate e, all’esito del processo di Trani, vi prometto ulteriori azioni, se sarà necessario anche contro i PM che ad oggi non procedono come per legge contro il crimine palese delle cessioni di sovranità.
 
È infatti pacifico che tali cessioni sono reato. Gli artt. 241 e 243 cp non lasciano dubbi, d’altronde è ovvio che se si priva uno Stato del suo potere d’imperio lo si cancella in quanto tale, si compie l’atto più ostile possibile contro la sua personalità giuridica. Le occupazioni militari avevano esattamente queste conseguenze.
 
Con questo post voglio segnalarvi un tweet surreale dell’account ufficiale del PD, che evidenzia un ulteriore delitto contro la personalità dello Stato, trattasi di un’ennesima confessione dal punto di vista processuale:
Avete letto bene! Il PD si vanta di aver fatto, sino ad oggi, gli interessi dell’Europa e non quelli italiani! Esattamente quanto aveva affermato tempo fa anche uno dei fuoriusciti più noti ed onesti del PD, Alfredo D’Attorre.
L’UE oggi, come noto, è solamente un’oscena dittatura finanziaria, dove la stabilità dei prezzi viene per norma prima del benessere e della pace (per gli euristi che rifiutano di prendere atto dell’evidenza leggere il combinato 127 tfue e 3 tue).
Una dittatura dedita a proteggere esclusivamente gli interessi del grande capitale internazionale. Chi nega tali verità normative certamente non ha mai letto i trattati europei.
 
Ad ogni buon conto, al di là della natura dell’UE, anche se non si ammettesse, per puro cieco campanilismo, che ho ragione su quanto appena detto, nulla cambierebbe. Tutelare gli interessi di un ordinamento diverso dall’Italia resta reato a prescindere dal fine dello stesso.
L’Art. 264 c.p. dispone infatti che: “Chiunque, incaricato dal Governo italiano di trattare all’estero affari di Stato, si rende infedele al mandato è punito, se dal fatto possa derivare nocumento all’interesse nazionale, con la reclusione non inferiore a cinque anni”.
L’infedeltà al mandato, ovvero all’obbligo di tutelare gli interessi nazionali che incombe al governo, è stata a questo punto confessata dal PD che in sostanza ha affermato questo: “abbiamo fatto gli interessi dell’Europa e non quelli dell’Italia”.
 
Il nocumento è più che mai evidente, il Paese grazie a queste politiche dissennate, che hanno favorito altri, ha perso 1/3 del proprio settore manifatturiero ed oltre il 25% della produzione industriale.
 
Con il movimento Alternativa per l’Italia procederemo ad un’interrogazione parlamentare su questa dichiarazione del PD e certamente affronteremo il problema innanzi alla Procura della Repubblica di Roma.
 
Siamo davvero curiosi di leggere cosa risponderanno questa volta, sempre che Grasso, ancora una volta, non decida, ritenendosi illecitamente il sovrano del Senato, di evitare al governo (minuscolo voluto) di dover rispondere su questo scottante tema.
Mai nella storia si era visto un governo, non solo apertamente ostile agli interessi nazionali, ma che addirittura se ne facesse espresso vanto. Ciò non fa che riprovare che l’Italia oggi è un Paese sotto occupazione straniera con un governo imposto dall’invasore che ci ha conquistato.
 
Vi fermeremo, questo è certo!
 
Avv. Marco Mori – scenarieconomici – Alternativa per l’Italia – autore de “Il tramonto della democrazia, analisi giuridica della genesi di una dittatura europea”, disponibile su ibs e amazon

LA TERRIBILE CRONISTORIA DELL’OMICIDIO DI GHEDDAFI

ed i diritto umanisti tanto politically correct sedicenti antirazzisti pacifisti si sono dati tanto da fare ad organizzare sit in in favore dei cosiddetti ribelli moderati, a diffamare la Jahmayria, a fornire racconti epici eroici di questi “combattenti” per la libertà contro il despota e GUAI A DUBITARE, ad inventare fantomatiche fosse comuni mentre occultavano gli eccidi, stupri e sterminio dei neri di Tawerga per esempio (strano per dei sé dicenti antirazzisti)…e poi come non pensare alla malafede ed al loro servizio e devozione verso i liberatori di sempre della NATO ? Ora non dovrebbe essere complicato capire subito chi lavora per i guerrafondai assassini a stelle e strisce, il copione della primavera o rivoluzione colorata è identico, Libia, Ukraina, Siria, ora Polonia e ..gli stessi stati uniti anti – Trump (che non gradisce i piani di espansione militare tanto cari alla Kilary e seguaci).
Il pezzo di Jean Paul Pougala del 14 aprile 2011 su Pambazuka News titolava “Le bugie dietro la guerra occidentale in Libia” descrive come l’Africa inizialmente avesse sviluppato il proprio sistema di comunicazioni transcontinentali comprando un satellite il 26 dicembre 2007: l’African Development Bank aveva sborsato 50 milioni di dollari dei 400 necessari, la West African Development Bank ne aveva aggiunti 27.ghedafi
La Libia aveva contribuito con 300 milioni, rendendo l’acquisto possibile.
Pougala scrive quando tutto è già in opera, il nuovo sistema “connetteva tutto il continente a livello telefonico, radiofonico e televisivo, oltre ad altre applicazioni tecnologiche come la telemedicina e l’insegnamento a distanza”.
Dopo 14 anni di perdite di tempo del FMI e della Banca Mondiale, la generosità del leader libico Muammar Gheddafi aveva permesso l’acquisto, che aveva evitato alle nazioni africane di richiedere un prestito di 500 milioni per avere accesso ad un satellite ed aveva privato le banche occidentali di potenziali miliardi in prestiti ed interessi.. al tempo, Gheddafi stava anche cercando di creare un sistema bancario trans africano basato sull’oro, per liberare il continente dai vincoli finanziari con il FMI e la Banca Mondiale – questo avrebbe gravemente danneggiato i due predatori.
 
Fin dal 2003 Gheddafi aveva lavorato sodo per ristabilire la sua reputazione di finanziatore del terrorismo, rinunciando a qualsiasi futuro supporto alle organizzazioni terroristiche e creando un fondo per le vittime dei voli Pan Am 103 e UTA 772, entrambi abbattuti da attacchi terroristici, dei quali si sospettava un finanziamento libico. Il 10 dicembre 2007 Gheddafi si era recato in Francia per un incontro con il Presidente Nicolas Sarkozy.
Durante il loro incontro dell’11 dicembre all’Eliseo, Gheddafi E Sarkozy avevano siglato accordi per un valore di 15 miliardi di dollari riguardo forniture militari e la costruzione di una centrale nucleare, ma ciò che più contava oltre al commercio era già in agenda. In un report del 12 marzo 2012, il consorzio di giornalismo investigativo Mediapart dichiarava “Secondo informazioni contenute in un report confidenziale preparato da un esperto francese di terrorismo e finanziamenti al terrorismo stesso, la campagna elettorale presidenziale del Presidente Sarkozy del 2007 aveva ricevuto almeno 50 milioni di euro di fondi neri dal regime del dittatore libico Muammar Gheddafi”. Documenti diffusi da Mediapart l’11 settembre 2016 confermano che le relazioni finanziarie tra Sarkozy e Gheddafi risalivano almeno al 10 dicembre 2006.
 
(Appena diffuse queste informazioni nel 2012 Sarkozy aveva negato di aver ricevuto denaro libico come finanziamento – pratica illegale in Francia, che lo avrebbe potuto condurlo al carcere – e aveva tentato di denunciare Mediapart. Tuttavia, parte un’investigazione ufficiale sulla condotta di Sarkozy era trapelata sul sito di Mediapart e le prove riconducevano direttamente al fatto che il Presidente francese aveva ricevuto il denaro).
Gheddafi aveva capito che a causa dell’iniziativa del satellite e della sua proposta di un sistema bancario panafricano (delle quali sicuramente l’occidente era a conoscenza), la sua popolarità presso i leader occidentali era in terribile calo, tanto da renderlo un possibile obiettivo di un “cambio di regime”, perciò aveva sperato che finanziando il leader francese si sarebbe comprato un’assicurazione sulla vita.
 
Nel frattempo aveva fatto del suo meglio per apparire come un uomo di stato pro-occidente. Nell’agosto del 2008 Gheddafi aveva firmato accordi con gli USA formalizzando la compensazione per le vittime del terrorismo di stato e nel settembre 2008 Condoleeza Rice aveva visitato la Libia e dichiarato che le relazioni tra le due nazioni stavano entrando in una “nuova fase”.
 
Nel febbraio 2009, però, Gheddafi era stato eletto Presidente dell’Unione Africana e per la prima volta aveva reso pubblica la definizione “Stati Uniti d’Africa” e aveva suggerito la possibilità di un sistema bancario panafricano. (Profeticamente il 12 marzo 2009 Sarkozy aveva introdotto la Francia nella NATO, violando una tradizione risalente ai tempi di De Gaulle). Successivamente, in Agosto del 2009, Abdelbaset Ali al-Megrahi – pregiudicato per aver partecipato al bombardamento del volo Pan Am 103 – fu rilasciato dal carcere in Scozia ed accolto come un eroe al suo ritorno in Libia, più tardi lo stesso anno la Libia aveva siglato un accordo con la Russia per l’acquisto di 1.8 miliardi di dollari in armi. Questi eventi non migliorarono la posizione di Gheddafi agli occhi dei leader occidentali.
Per di più, il piatto era molto ricco. Prima della caduta di Gheddafi, la Libia aveva riserve liquide per 150 miliardi di dollari, oltre alle 143 tonnellate di oro nelle casseforti di Gheddafi. Come aveva scritto Pougala “[Larga parte di questo denaro] era stata accantonata come contribuzione libica per tre progetti fondamentali che sarebbero serviti a dare l’ultimo tocco alla Federazione Africana – la African Investment Bank a Sirte, Libia, la creazione, nel 2011, del Fondo Monetario Africano, e la creazione della Afrcan central Bank ad Abuja in Nigeria, che iniziando a stampare valuta africana avrebbe suonato un requiem per il franco CFA, attraverso il quale Parigi aveva tenuto al giogo vari stati africani per più di 50 anni”.
 
Il 7 giugno 2016, Bob Fitrakis scrive su Black Opinion:
 
le vere ragioni dell’attacco sono state spiegate da uno dei più famosi sicari economici statunitensi, John Perkins.
Perkins spiega che l’attacco alla Libia, come quello all’Iraq, ha a che fare solo con il controllo delle risorse, non solo petrolio, ma anche oro. La Libia ha il più alto standard di vita in Africa. Secondo il FMI, la Banca Centrale Libica è al 100% di proprietà statale. Il FMI stesso stima che la banca abbia riserve in oro per quasi 144 tonnellate.
La NATO è andata in Libia come un moderno pirata per saccheggiarne l’oro. I media russi, oltre a Perkins, hanno scritto che il panafricanista Gheddafi, l’ex Presidente dell’Unione Africana, sosteneva che l’Africa avrebbe usato l’abbondante oro presente in Libia e Sud Africa per creare una valuta africana basata sul dinaro aureo.
 
È significativo che nei mesi che hanno portato alla risoluzione dell’ONU che ha permesso agli USA ed ai loro alleati di invadere la Libia, Muammar al-Gheddafi parlava apertamente della creazione di una nuova valuta che avrebbe rivaleggiato con dollaro ed euro. Infatti questi invitava le nazioni africane e musulmane ad unirsi in un’alleanza che avrebbe dato vita alla nuova valuta, il dinaro aureo, la forma principale di scambio internazionale. Avrebbero venduto petrolio e altre risorse in dinari aurei.
 
Nel dicembre 2010, una rivoluzione in Tunisia abbatté il governo. In seguito, nel 2011, incominciarono le “Primavere arabe”: rivolte popolari in Oman, Yemen, Egitto, Siria e Marocco. Mentre queste avevano portato al cambio di regime in Tunisia, in Egitto erano state brutalmente soppresse, mentre in Siria e Yemen avevano scatenato guerre civili non ancora estinte. Quelle in Oman e Marocco si erano spente da sole.
In Libia le cose stavano diventando quasi buffe,. A partire dal 15 febbraio 2011, una serie di proteste che chiedevano la cacciata di Gheddafi iniziò a scoppiare in Libia. Il 20 febbraio 2011 si parlava di 300 civili morti e del fatto che Gheddafi avesse sguinzagliato l’aviazione contro i dissidenti a Tripoli. Sarkozy a quel punto aveva trovato il modo di salvare i suoi amici banchieri e di coprire i finanziamenti illegali ricevuti da Gheddafi. Il 10 marzo 2011 Sarkozy decise di riconoscere come governo libico il “Consiglio Nazionale di Transizione”, l’ombrello sotto cui operavano i ribelli, e dichiarò l’istituzione di una no-fly zone, nel caso in cui Gheddafi avesse deciso di utilizzare armi chimiche contro la propria popolazione.
In un report del Guardian dell’11 marzo 2011:
 
La decisione unilaterale di Sarkozy di riconoscere il consiglio di transizione della Libia come legittimo rappresentante del popolo libico era grossolanamente prematuro. “Sarkozy sta agendo da irresponsabile” aveva avvermato un diplomatico europeo.
 
Mark Rutte, Primo Ministro olandese, affermò “La trovo una mossa folle da parte della Francia. Fare un passo avanti e sostenere ‘Riconosco un governo di transizione’ a sfregio di ogni pratica diplomatica non è la giusta soluzione per la Libia”
 
Il 19 marzo 2011 Sarkozy diresse i caccia francesi in missione contro la Libia e ordinò alla portaerei Charles de Gaulle di recarsi in acque libiche. I Francesi non erano soli. Prima nella stessa settimana – il 15 marzo – un F15 statunitense si era schiantato in Libia. Il 29 marzo gli USA avevano confermato che A-10 Warthog e elicotteri d’assalto A-130 erano stati inviati in Libia. Il 16 aprile il giornalista Jeremy Scahill, intervistato a The Eld Show:
Scahill: gli agenti della CIA sul campo in Libia sono in stretta relazione con i ribelli. Questa, come ha detto il Colonnello Jacobs, è la normalità. Ciò che mi preoccupa maggiormente è che sicuramente ci sono già operazioni speciali statunitensi sul territorio, che si preoccupano di marchiare gli obiettivi che dovranno essere colpiti dagli attacchi aerei. Ed, devo dirti che lo scenario di cui parli – quando parli di armare i “combattenti per la libertà”, mi porta alla mente le disastrose guerre sporche degli anni ’80, cioè, gli USA che vengono direttamente coinvolti in una guerra su territorio libico, con un pugno di ribelli … questi non hanno addestramento militare. Voglio dire, tu mi sta dicendo che gli USA sono nettamente schierati con una delle due parti di una guerra civile.
Il 7 giugno 2016 Fitrakis scrive:
in un documento del Dipartimento di Stato declassificato, inviato ad Hillary il 2 aprile 2012, l’assistente Michael Blumenthal conferma che Perkins aveva ragione e che l’attacco sulla Libia non aveva nulla a che fare con il fatto che Gheddafi potesse essere una minaccia per la NATO o gli Stati Uniti, ma che l’unico obiettivo era razziarne l’oro.
Il governo libico possiede 143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento. Nel tardo marzo 2011, queste riserve vennero spostate a Sabha (verso il confine sud occidentale con Niger e Ciad); Blumenthal aveva informato la Clinton, sottolineando l’importanza di quell’oro, che veniva accumulato come riserva per la creazione di una valuta panafricana legata al dinaro aureo libico. Questo piano avrebbe permesso ai paesi francofoni africani di avere un’alternativa al franco francese (CFA).
Blumenthal rivela la ragione dell’attacco NATO e del saccheggio imperiale francese, l’intelligence francese è venuta a conoscenza di questo piano poco dopo lo scoppio della ribellione, questa è stata una delle ragioni che ha spinto il Presidente Sarkozy a sferrare l’attacco.
 
5 erano le ragioni della guerra illegale della NATO contro la Libia. Secondo Blumenthal Sarkozy cercava: a. di ottenere una maggiore fetta della produzione libica di petrolio, b. di aumentare l’influenza francese in nord africa, c. di migliorare la sua posizione in Francia, d. di fornire all’esercito francese un modo di mettersi in luce, e. di soddisfare la preoccupazione dei suoi consiglieri nei confronti del piano a lungo termine di Gheddafi, di soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa francofona.
 
È ovvio che Blumenthal avesse inteso il bisogno di Sarkozy di proteggere i banchieri francesi dal piano di Gheddafi, ma sicuramente non poteva avere idea dell’ulteriore motivo – eliminare le prove del proprio coinvolgimento nei finanziamenti illegali. Va altresì notato – e sottolineato – che nessuna delle ragioni elencate nell’e-mail di Blumenthal potrebbe giustificare un’invasione di uno stato sovrano.
Il 30 marzo 2011 il governo britannico espulse 5 diplomatici dall’ambasciata libica, visto che le relazioni tra Libia e occidente continuavano a peggiorare. Nei mesi successivi la guerra imperversò in tutta la Libia. Ad un certo punto si promosse una tregua tra governo libico e Consiglio Nazionale di Transizione (NTC), che non durò e in agosto la nazione era nuovamente messa a ferro e fuoco dalla guerra civile.
 
Dopo il 31 marzo 2011 gli USA avevano applicato la no-fly zone sui cieli libici, apparentemente per aiutare una rivolta legittima e togliere dal suo trono un dittatore sanguinario, ma i risultati degli attacchi andarono ben oltre il cambio di regime di Gheddafi. Il 18 giugno 2011 la NATO ha attaccato il Grande Fiume Artificiale, un enorme progetto per l’irrigazione che portava l’acqua ad immense distese aride. I caccia colpevoli di questo crimine non solo hanno distrutto un pezzo vitale delle infrastrutture libiche, ma il 22 luglio hanno fatto a pezzi anche l’unica fabbrica che poteva costruire i pezzi per le riparazioni necessarie. Questa mossa malvagia non aveva alcuno scopo, se non quello di punire tutta la popolazione libica.
Aiutati e sostenuti dalle potenze occidentali, i “ribelli” assediarono Tripoli e il 21 agosto 2011 la città cadde nelle mani dell’NTC. Gheddafi e il suo staff volarono immediatamente a Sirte. Poco dopo le 8 di sera il 20 ottobre 2011, con i “ribelli” che incalzavano, Gheddafi tentò di abbandonare Sirte su un convoglio di 75 veicoli, ma la sua fuga fu scoperta da un velivolo della RAF. Un drone predator statunitense guidato da qualcuno seduto nel deserto del Nevada lanciò i primi missili contro il convoglio, lo stesso fece il velivolo della RAF. 10 veicoli furono distrutti. Gheddafi sopravvisse all’attacco, ma fu immediatamente catturato dall’NTC, che lo aveva trovato in un canale di drenaggio. Gheddafi su crivellato di colpi e una baionetta gli fu infilata nel retto.
Prima della morte di Gheddafi la Libia era una nazione stabile, se non una tradizionale nazione stato. Secondo un report intitolato “La Libia di Gheddafi era la più prospera democrazia africana” di Garikai Chengu, apparso il 12 gennaio 2013 “La Libia era divisa in innumerevoli piccole comunità che di base si comportavano come piccoli stati autonomi all’interno di uno stato più grande. Questi avevano il controllo sui propri distretti e potevano prendere una serie di decisioni tra cui come allocare gli introiti della vendita di petrolio. All’interno di questi mini-stati, i tre principali organi della democrazia libica erano Comitati Locali, Congressi Popolari e Consigli Rivoluzionari Esecutivi”. Chengu spiega come i Comitati Locali facessero riferimento ai Congressi del Popolo, che poi passavano le decisioni ai Consigli Rivoluzionari Esecutivi, creando così un consenso diffuso sulle decisioni che riguardavano tutta la popolazione. “La democrazia diretta in Libia utilizzava la parola ‘elevazione’ più che ‘elezione’, ed evitava le campagne politiche, che sono una caratteristica tipica dei partiti e beneficiano solo delle promesse elettorali. A differenza dell’occidente, i Libici non votavano solo ogni 4 anni per il Presidente e un parlamento centrale che prendesse tutte e decisioni per loro. Tutti i Libici prendevano decisioni riguardo la politica interna, quella estera e quella economica.” Rovesciare Gheddafi ha fatto a pezzi un sistema di governo che aveva funzionato bene – e tranquillamente – per quasi 50 anni.
 
Sarkozy rimane un uomo libero. Deve ancora essere perseguito per aver ricevuto illegalmente denaro libico per finanziare la propria campagna elettorale e per aver scatenato una guerra illegale per coprire la propria relazione illegale con Gheddafi.
Molto è stato scritto circa la catastrofe caduta sulla Libia a seguito dei criminali attacchi francesi e statunitensi – 400.000 persone strappate alle proprie case, violenze e repressioni, la creazione di un nuovo stato fantoccio in seguito ad un’iniziativa di politica estera degli USA. Ma il vero danno è stato arrecato all’Africa stessa, se la proposta di Gheddafi di un sistema bancario trans africano fosse giunta a compimento, quello sfortunato continente per la prima volta in secoli avrebbe avuto una vera libertà e una vera indipendenza a portata di mano, una circostanza che le potenze occidentali non si sarebbero potute permettere. Libertà e giustizia non hanno mai fatto parte dell’agenda occidentale.
 
La sera del 20 ottobre 2011, durante un’intervista alla CBS alla notizia della morte di Gheddafi, il Segretario di Stato Hillary Clinton si lasciò scappare una battuta con il suo staff, affermando “Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto”, poi applaudì e rise fragorosamente. Questa rimane la più vile e degradante immagine di sempre di un membro del governo USA.
 
Chris Welzenbach è uno scrittore (“Downsize”), che per anni è stato membro del Walkabout Theater di Chicago. Può essere contattato a incoming@chriswelzenbach.com.
DI CHRIS WELZENBACH
05.10.2016
 
Il testo di questo articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte comedonchisciotte.org e l’autore della traduzione FA RANCO

Appendino scrive a Gentiloni: «Stop al Tav, il paese ha priorità più urgenti»

APPENDINO SCRIVE A GENTILONI

«Terremoti, alluvioni, ferrovie e sicurezza nelle scuole: gravi problemi travolgono il paese». Il documento è firmato dalla sindaca di Torino, da Luigi De Magistris, primo cittadino di Napoli e dal presidente di Unione Montana Valle Susa

Chiara Appendino ha scritto una lettera a Paolo Gentiloni, chiedendo di bloccare la ratifica del trattato sul Tav (© )

TORINO – Una lettera breve ma concisa, che non lascia spazio a dubbi: “Onorevole Paolo Gentiloni, sospenda la ratifica del trattato sul Tav». La firma è di Chiara Appendino (sindaca di Torino), Luigi De Magistris (sindaco di Napoli), Mauro Marinari (sindaco di Rivalta) e Sandro Plano (presidente Unione Montana Valle Susa). Un’unione decisamente insolita, che chiede al neo premier del Consiglio, al ministro delle Infrastrutture e alla Camera dei Deputati di sospendere il trattato italo-francese e al contempo di organizzare un incontro per esporre le esigenze reali del paese.

Le priorità del paese secondo Appendino
Esigenze che peraltro sono spiegate in alcuni punti volti a segnalare i gravi problemi che travolgono, secondo Appendino e gli altri sindaci, il nostro paese:

  • Danni causati dai terremoti
  • Alluvioni e dissesti idrogeologici
  • Situazione ferrovie (specie Sud Italia)
  • Bonifica grandi industrie
  • Inquinamento aree metropolitane
  • Messa in sicurezza scuole ed edifici pubblici

Lettera al Parlamento, ma oggi potrebbe arrivare la ratifica del trattato
I firmatari, di fatto, credono che i soldi destinati ad un’opera come il Tav possano invece essere utilizzati per interventi mirati nelle categorie sopracitate. La lettera viene spedita nei giorni in cui il Parlamento sta discutendo la ratifica dell’accordo tra Italia e Francia per la costruzione della Torino-Lione, che solamente per la parte italiana necessita di un finanziamento di 2,9 miliardi di euro. Difficile però che la lettera possa essere presa in considerazione, in quanto la Camera potrebbe dare il via libera definitivo alla ratifica del trattato già nella giornata odierna

«Mangio io la torta TAV»: e l’imprenditore si prende 7 anni per mafia

«Ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità», aveva detto in una delle telefonate intercettate dagli investigatori. Alla fine, invece, l’imprenditore Giovanni Toro, 49 anni, di Castelletto Ticino, ha rimediato 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il Tribunale di Torino ha favorito la ‘ndrina di San Mauro Marchesato distaccata in Piemonte, smantellata dai carabinieri del Ros e dalla Dda di Torino con l’operazione «San Michele» nell’estate 2014.

Condannati altri cinque imputati (e altri undici erano stati condannati un anno fa in abbreviato). I pm avevano chiesto pene per un totale di 74 anni. Per l’impresario la richiesta era stata di 11 anni.

In base all’impianto accusatorio Toro si era interessato agli affari dell’Alta Velocità in Val di Susa per conto della cosca crotonese «Greco», interessata a estendere radici criminali in Piemonte. L’uomo, già arrestato nel 2014 assieme a altre 25 persone nell’ambito di un’inchiesta nata come stralcio della più vasta operazione «Minotauro» del 2011, si è sempre detto innocente. Per gli inquirenti era invece uomo chiave. Nelle carte dell’indagine ci sono espliciti riferimenti all’interesse delle cosche per gli appalti Tav, tanto da registrare diversi summit preparatori in casa madre calabrese, per decidere e organizzare la spartizione della torta milionaria. È lo stesso Toro a confermarlo in una intercettazione: «Ricordati queste parole… che ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità». E al telefono diceva anche: «No Tav? Se arrivano li schiaccio con il rullo».

Secondo i pm, nel 2012 l’imprenditore di Castelletto aveva ottenuto vantaggi e commesse lavorative dai suoi contatti con la ‘ndrangheta («nei cui confronti manteneva relativa autonomia») aveva permesso a ditte indicate dalla ‘ndrina di partecipare ad appalti assegnati alla Toro srl e di scaricare rifiuti residui di lavorazioni edili e stradali aggirando le normative. E aveva esercitato pressioni e minacce contro alcuni concorrenti che volevano pignorare beni a un amico imprenditore.

(fonte, La Stampa)


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Espropri a Bussoleno parte la mobilitazione istituzionale.

post, top28 dicembre 2016 at 11:46

E’ così partita in modo “ufficiale” la mobilitazione dell’amministrazione comunale contro gli espropri per il futuro cantiere tav di Bussoleno. Si svolge in una tiepida serata invernale l’assemblea di Bussoleno. Ad aprire gli interventi il sindaco Anna Allasio che ricorda la netta contrarietà dell’amministrazione comunale all’opera. Prosegue confrontando l’evidente spreco di denaro pubblico e le reali necessità del paese, piccola edilizia pubblica, messa in sicurezza dei territori, ricostruzioni post-sisma. Da qui la parola ai tecnici che in forze, Roberto Vela, Luca Giunti, Alberto Poggio, Mario Cavargna, Marina Clerico e Gabriella Soffredini sono intervenuti spiegando da un lato il percorso tecnico dell’esproprio e dall’altro i dettagli del futuro cantiere. Circa 3 km di cantieri che invaderanno la piana tra Bussoleno e Susa andando a distruggere sempre di più un fondo valle già fortemente compromesso rosicchiando gli ultimi verdi prati ancora dedicati agli usi agricoli. A seguire con vari interventi dei consiglieri comunali di maggioranza e opposizione si sposta il dibattito sul cosa fare in prospettiva per aprire una battaglia in difesa del territorio comunale. Infatti il comune stesso è tra i soggetti “espropriati” in quanto proprietario di alcuni lotti nell’area interessata e avendo ricevuto esso stesso due lettere di preavviso di esproprio. Vari interventi dal pubblico riportano poi la prospettiva sull’opera in generale e sui tempi della cantierizzazione ricordando che ora l’obiettivo rimane il blocco del tunnel di Chiomonte e del futuro svincolo autostradale, vera porta aperta del cantiere verso il territorio. Dopo vari scambi di opinioni è Luigi Casel a chiudere, capogruppo dell’opposizione che prova a sintetizzare un percorso comune. Entro il 5 gennaio, termine per rispondere al preavviso di TELT il comune invierà una lettera negando ogni disponibilità a cedere i propri terreni. Al tempo stesso la proposta è di chiedere un incontro a TELT come già fatto dal comune di San Didero in cui commissione tecnica, legal team e amministratori possano da un lato conoscere dettagli progettuali e tempi e dall’altra portare il per della mobilitazione negli uffici dei devastatori.

State calmi, è strategia della tensione + Omicidio Karlov: un’esecuzione in diretta, opera di cani rabbiosi

Ankara, Zurigo, Berlino.  Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio;  è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale.   A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in  un centro islamico.  State calmi, è strategia della tensioneAd Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo.
 
E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’IS e da Al Qaeda, certo come no:  attraverso il SITE di  Rita Katz. E’ un indizio abbastanza precisoAnche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio,  prima   di dover traslocare.
katz-site-ankara
A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi  della strategia della tensione,  l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto  dentro di  voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle . Lo è, infatti; solo pensate che è quel nemico musulmano che vi hanno imposto di accettare a centinaia di migliaia,  masse troppo subitanee  che manca il tempo di integrare, giovani maschi per lo più, per cui le fanciulle europee sono una provocazione sessuale; quanti di loro sono criminali e pregiudicati? Jihadisti?
 
Ma  se provate a fare questa domanda siete razzisti, egoisti, privi di carità.
La centrale che vi obbliga ad accoglierli tutti, è la stessa che vuol farvi paura –e giustamente – per questa invasione inassimilabile. Contraddizione? Ma questa  è uno dei suoi strumenti più preziosi nella strategia della tensione, vi lacera fra due pulsioni opposte,   due discrasie cognitive, fra senso di colpa e urto irrazionale di rabbia, voglia di uccidere. E’ un successo.
Perché la strategia della tensione in Europa, in queste ore? Mentre Aleppo è liberata? Mentre Obama fa’  le valige?
 
Putin,  limpido, ha spiegato: “L’assassinio (dell’ambasciatore) è una provocazione mirante a impedire il miglioramento delle relazioni russo-turche, minare il processo di pace in Siria promosso da Russia, Turchia, Iran ed altri paesi interessate a risolvere il conflitto in Siria”.
 
Per noi europei, la strategia della tensione ha uno scopo quasi tradizionale:  farci  travolgere dal terrore  che è dovunque,  odiare i musulmani mentre ci obbligano ad accoglierli, significa che ci sentiamo insicuri – e perciò chiediamo un governo forte, autoritario, con una polizia che censuri i siti – non solo gli islamici, anche i nostri: ne va  della nostra vita!  Leggi speciali d’emergenza, legge marziale.  O stringiamoci tutti sotto l’ombrello della NATO, che ci  difende dai jihadisti…
L’oligarchia di Bruxelles  travolta dalle critiche e contestazioni,  dal crescere del “populismo”,  l’Unione Europea   che vede incagliato il suo progetto sovrannazionale, può trovarvi il suo  tornaconto: imporre ordine e disciplina, recuperare “autorità”.  E’ presto per dirlo. Aspettiamo i media di domani, cosa dicono, quali ricette invocano, quale capo o “fratello”  per l’emergenza, capace di calmare i nostri terrori: sono le parole d’ordine  a cui  ci faranno obbedire.  Quale il prossimo “Je suis Charly”? Aspettiamo domani.
 
Un  camion chiamato Ariel
 
(dall’Ansa: l camion era partito dall’Italia per fare rientro in Polonia. Lo scrive il Guardian, per il quale il mezzo doveva fermarsi a Berlino per consegnare il carico ed il conducente, cugino del proprietario dell’azienda di trasporti polacca, aveva detto di volersi fermare per la serata. Ci sono forti sospetti, afferma il Guardian online, che il mezzo si stato rubato durante il viaggio. L’autocarro è di un’azienda di trasporti di Danzica, che dice di aver perso il contatto con il mezzo attorno alle 16 del pomeriggio.
 
Il proprietario dell’azienda, identificato solo come Ariel Z, è stato intervistato dall’emittente polacca Tvn24 e ha detto che il mezzo era guidato da suo cugino, che aveva intenzione di passare la serata a Berlino. Ha escluso che il suo parente, che guida camion da 15 anni, possa aver provocato lo schianto.
FonteBlondet & Friends dicembre 20 2016
Omicidio Karlov: un’esecuzione in diretta, opera di cani rabbiosi
È stato vittima di un’esecuzione quasi in diretta l’ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov, freddato con una raffica di colpi alla Galleria d’Arte Moderna d’Ankara: le grida dell’omicida, un poliziotto poco più che 20enne, inducono i media a parlare di terrorismo di matrice islamista, una vendetta per le vicende di Aleppo. Diversi elementi suggeriscono che la pista dell’esOmicidio Karlov: un’esecuzione in diretta, opera di cani rabbiositremismo religioso sia solo un paravento e che dietro l’assassinio si nascondano i servizi atlantici, ancora radicati in Turchia grazie alla rete dell’imam Fethullah Gülen. Difficilmente tra Russia e Turchia scenderà il gelo, perché così facendo il Cremlino il gioco dei mandanti: l’omicidio dell’ambasciatore Karlov è però una spia dell’attuale clima internazionale. L’establishment atlantico agisce sempre più come un cane rabbioso.
 
NO, NON CI SARÀ NESSUNA ROTTURA RUSSO-TURCA
 
Lunedì 19 dicembre, Ankara, Galleria d’Arte moderna: l’ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov, sta tenendo un discorso all’inaugurazione della mostra “la Russia vista dai Turchi”. Prima che inizi a parlare, si posiziona alle sue spalle unassassino-spalle uomo: è vestito con camicia bianca e cravatta nera, giovane, ben rasato e composto. L’ambasciatore russo si cimenta nel classico discorso di routine per simili occasioni.
 
 
Il ragazzo alle sue spalle estrae la pistola e gli scarica diversi colpi in corpo, in una drammatica sequenza immortalata dalle telecamere rivolte verso Karlov1.
 
L’attentatore non fugge, né esce dal campo delle telecamere, ma rivendica platealmente il gesto: “Allaha Akbahar”, “Non dimenticate Aleppo, non dimenticate la Siria”, “noi moriamo in Siria voi morite qua”, etc. etc. A quel punto il racconto video si interrompe: intervengono le forze di sicurezza, liquidano il terrorista e, per soddisfare il pubblico che ama il feticcio dei cadaveri, sarà pubblicata solo la sua foto dopo il blitz, riverso a terra e sanguinante, sullo sfondo di un muro crivellato.
Andrei Karlov è dichiarato ufficialmente morto poco dopo, ottenendo così il triste primato di primo ambasciatore russo ucciso in servizio in quasi due secoli di storia: bisogna infatti risalire all’assalto alla delegazione russa a Teheran, nel 1829, per trovare un caso analogo. Trascorrano poche ore ancora e anche l’omicida riceve un nome: è Mevlut Mert Altintas, 22enne, di professione poliziotto. Sfruttando il tesserino, Altintas ha potuto introdursi armato in sala, posizionarsi alle spalle dell’ambasciatore e freddarlo al momento opportuno.
 
A corroborare la pista jihadista interviene, come sempre in questi casi, l’israeliana Rita Katz e la sua società Site Intelligence Group, che sondano la rete alla ricerca di ciò che l’ISIS pensa e dice: il loro lavoro è così prezioso che, in sua assenza, il Califfato sarebbe senza voce. La galassia dell’ISIS, dice la Katz, è in grande fermento per l’assassinio di Karlov e saluta il terrorista come un eroe, caduto difendendo gli eroi di Aleppo.
site-karlov
La matrice “islamista” dell’attentato è credibile? L’assassinio è il secondo, drammatico, atto di un’escalation tra Russia e Turchia dopo l’abbattimento del Su-24 russo nel novembre 2015? C’è da attendersi un repentino deterioramento delle relazioni russo-turche?
La risposta a tutte le domande è: no.
 
Seguendo il classico ragionamento deduttivo, partiremo dal generale per scendere al particolare, dimostrando come la clamorosa uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia non sia opera di un fanatico isolato, ma dei servizi atlantici, decisi a sabotare qualsiasi intesa tra Mosca ed Ankara in un momento cruciale del conflitto siriano. Partiremo quindi dall’analisi geopolitica per scendere ai dettagli dell’omicidio di Karlov: sarà un percorso agevole e lineare, che non lascerà alcun dubbio sulla matrice “NATO” dell’attentato.
 
La Russia e la Turchia sono state, per quasi cinque anni, sul lato opposto della barricata nella guerra siriana: Mosca a sostegno di Bashar Assad, Ankara a fianco dell’insurrezione armata e poi dell’ISIS. La prima difendendo uno storico alleato regionale, la seconda allettata da sogni neo-ottomani, sapientemente alimentati dagli angloamericani che hanno sfruttato la Turchia per i loro piani di destabilizzazione del Medio Oriente. Dalla Turchia, partono armi e terroristi, verso la Turchia, viaggiano i camion cisterna carichi di petrolio da cui il Califfato trae il suo sostentamento.
 
Mosca, nell’autunno 2015, scende direttamente in campo inviando una spedizione militare che nel volgere di poche settimane sposta gli equilibri del conflitto a favore di Damasco. Ankara, sobillata dagli angloamericani (che promettono probabilmente a Recep Erdogan di schierarsi a fianco dell’alleato NATO qualsiasi cosa capiti), reagisce abbattendo il Su-24 russo nei cieli siriani: i rapporti tra Ankara e Mosca precipitano ed il Cremlino adotta una serie di misure economiche in rappresaglia.
 
L’appoggio angloamericano, però, non supera all’atto pratico qualche tiepido pronunciamento da parte del segretario della NATO, Jens Stoltenberg, e del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: Ankara è sostanzialmente lasciata sola dinnanzi ad una superpotenza nucleare, avvelenata per la pugnalata alle spalle. Non solo. Più i mesi passano e più Recep Erdogan intuisce quali siano i progetti più reconditi “dell’Occidente”: smembrare Siria ed Iraq, a vantaggio di un nascente Kurdistan nel cuore del Medio Oriente. La prospettiva è inquietante per Ankara, perché una simile entità finirebbe, presto o tardi, col cannibalizzare le regioni turche a maggioranza curda.
Tradito ed isolato, il “sultano” Erdogan cambia radicalmente strategia: licenzia Ahmet Davutoglu, artefice della politica neo-ottomana ed anti-russa, e nomina un nuovo premier che, il 13 luglio, apre alla riconciliazione con la Siria e Bashar Assad. Come impedire la defezione di Ankara ed una ricomposizione tra Erdogan e Putin? Semplice:destabilizzando la Turchia. Scatta così il colpo di Stato del 15 luglio che, come analizzammo a suo tempo, non mirava tanto a defenestrare Erdogan per sostituirlo con una giunta militare quanto, piuttosto, a scatenare una guerra civile così da gettare il Paese nel caos, sul modello delle insurrezioni in Libia e Siria.
 
C’è chi dice che durante le concitate ore del golpe Erdogan fosse nascosto in una base russa; chi dice che Mosca abbia giocato un ruolo di primo piano nello sventare il putsch: di certo sappiamo soltanto che Recep Erdogan, represso col pugno di ferro il colpo di Stato, vola il 9 agosto a San Pietroburgo per incontrarsi con Vladimir Putin, per la prima visita dopo la rottura diplomatica dell’anno precedente. In parallelo, i rapporti con gli USA precipitano: ministri e giornali vicino al governo accusano direttamente Washington di essere all’origine del putsch, mentre lo stesso Erdogan chiede con insistenza l’estradizione dell’imam Fethullah Gülen, suo vecchio padrino politico oggi residente in Pennsylvania e padrone di un impero mediatico-religioso benedetto dalla CIA.
Lo scenario per gli strateghi angloamericani volge al peggio: si è passati dall’auspicato guerra civile tra sciiti e sunniti ad riappacificazione tra Ankara e Teheran, benedetta da Mosca, in chiave anti-curda ed anti-occidentale. “Iran and Turkey agree to cooperate over Syria” scrive con rammarico la qatariota Aljazeera nell’agosto 20162, presagendo il rischio di un’intesa tra i due Paesi a discapito dell’ISIS e dell’insurrezione islamista.
Grazie al disimpegno di Ankara dal dossier siriano (non totale, perché urterebbe troppi interessi nazionali ed internazionali, ma comunque determinante), russi ed iraniani possono infatti stringere il cerchio intorno ad Aleppo, sino alla totale riconquista del 12 dicembre. Il colpo per Washington e le altre cancellerie occidentali che hanno investito un enorme capitale politico sulla caduta di Assad (Londra, Parigi e Tel Aviv) è durissimo: il “regime di Bashar” riporta una vittoria decisiva e Mosca, galvanizzata dal successo, si afferma come il nuovo dominus del Medio Oriente a discapito delle vecchie potenze occidentali. Gli equilibri regionale si decidono ormai al Cremlino che si assume l’onore e l’onore di conciliare gli interessi, spesso divergenti, dei diversi attori.
A distanza di poco più di una settimana dalla liberazione di Aleppo, è in programma infatti a Mosca una trilaterale tra Russia, Iran e Turchia per discutere sul conflitto siriano alla luce degli ultimi sviluppi: “Russia, Iran and Turkey to hold Syria talks in Moscow on Tuesday” scrive la Reuters il 19 dicembre. Nelle stesse ore in cui esce l’agenzia, l’ambasciatore russo Andrei Karlov è ucciso ad Ankara, nella Galleria d’Arte Moderna, per mano del poliziotto Mevlut Mert Altintas.
 
Possiamo quindi dedurre senza difficoltà l’identità dei mandanti dell’attentato: ad armare la mano dell’assassino di Karlov sono gli stessi che dal 2011 in avanti hanno tentato di rovesciare Assad, gli stessi che hanno inoculato il germe dell’ISIS in Siria, gli stessi che hanno ordito il putsch militare in Turchia della scorsa estate, gli stessi che sognavano un zona d’interdizione di volo sopra la Siria, gli stessi che hanno interesse a sabotare un’intesa tra Turchia, Russia ed Iran. Sono Washington ed i suoi alleati.
 
Il nostro ragionamento si sposta quindi sulla dinamica dell’omicidio: afferrata le realtà a scala generale, grazie all’analisi geopolitica, non ci resta che calarla nel particolare, evidenziando tutte le peculiarità dell’omicidio Karlov che rivelano l’inconfutabile “zampino” dei servizi segreti atlantici:
  • il poliziotto Mevlut Mert Altintas non avrebbe mai potuto introdursi armato nella Galleria d’Arte moderna e posizionarsi alle spalle dell’ambasciatore, né quest’ultimo essere separato dai propri guardaspalle, se un’attenta regia non avesse pianificato nel minimo dettaglio l’operazione: qualcuno ha agito perché tutte le misure di sicurezza fossero aggirate;
  • la presenza di una regia nell’omicidio di Karlov è testimoniata dalla sua esecuzione “a favore di telecamera” e dalla velocità con cui il video ha lasciato la Galleria d’Arte Moderna per invadere la rete ed i media: è stato quasi un omicidio in diretta, così da aumentarne esponenzialmente l’impatto. Il filmato, in altre circostanze, difficilmente avrebbe lasciato la scena del crimine, certamente non così in fretta. Il killer è stato attentamente istruito per agire dentro il campo della telecamera, così da confezionare un video sulla falsariga di quelli prodotti dall’ISIS o da Al Qaida: il poliziotto Mevlut Mert Altintas è nell’inquadratura delle camere prima, durante e dopo l’omicidio;
  • l’attentatore non è un funzionario di polizia qualsiasi: membro delle unità anti-sommossa, ha fatto parte anche della scorta di Recep Erdogan3. Per avvicinare il presidente turco ed essere assegnato al suo corpo di sicurezza personale, Mevlut Mert Altintas deve aver superato un accurato esame psicofisico e politico. Ciò corrobora la tesi del sindaco di Ankara, Melih Gokcek, secondo cui l’attentatore fosse un membro della rete dell’imam Fethullah Gülen, radicata sia nella magistratura che nelle forze dell’ordine. Ricordiamo che Gülen, mentore di Erdogan e suo alleato fino al 2015, ha orchestrato dall’esilio dorato in Pennsylvania il putsch militare della scorsa estate;
  • la concomitanza dell’omicidio di Karlov con l’attentato di Berlino, una riedizione della strage di Nizza del luglio scorso, indica una comune regia ed un’attenta pianificazione: una serie di attacchi terroristici simultanei o separati da poco tempo, hanno un effetto stordente sull’opinione pubblica, che non ha il tempo per metabolizzare gli avvenimenti né la possibilità di porsi interrogativi su quanto stia realmente avvenendo. Lo si è già visto quest’estate in Francia: il 14 luglio muoiono un’ottantina di persone ed il 26 luglio, quando le domande senza risposta sulla strage abbondano ancora, l’attenzione è già dirottata sulla barbara uccisione del parroco di Rouen.
Quali conclusioni si possono quindi trarre dall’omicidio Karlov?
Difficilmente Mosca ed Ankara romperanno i rapporti come lo scorso novembre dopo l’abbattimento del Su-24, perché così facendo agirebbero secondo i piani di chi ha orchestrato l’attentato. L’assassinio dell’ambasciatore è però una spia del clima internazionale che si respira. Il 2016 è stato un annus horribilis per l’establishment euro-atlantico: il referendum inglese di giugno ha decretato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, le presidenziali americane hanno incoronato il populista e filo-putiniano Donald Trump, le forze centrifughe in seno all’eurozona hanno raggiunto livelli allarmanti, la Russia si è imposta come potenza di primo piano in Medio Oriente, la guerra siriana ha svoltato a favore di Bashar Assad.
Cresce l’impotenza dell’oligarchia e ed aumenta, di conseguenza, la sua ferocia: attentati, omicidi e stragi sono ormai tanto frequenti e clamorosi quanto approssimativi e spudorati. L’esecuzione in diretta dell’ambasciatore Andrei Karlov confermare la sensazione che, avvicinandosi la fine, il Potere si comporti sempre più come un cane rabbioso.
 
policeman
Federico Dezzani dicembre 20 2016
 
 
20.12.20161
DI FEDERICO DEZZANI
 
federicodezzani.altervista.org

IL PIU’ PULITO HA LA ROGNA – TRUMP? BASTA CON LE STRONZATE, ANDIAMO UN PO’ PIÙ A FONDO

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2016/12/il-piu-pulito-ha-la-rogna-trump-basta.html

MONDOCANE

SABATO 24 DICEMBRE 2016

 (E’ lunghetto, ma avete molti giorni per frazionarne la lettura. Da qui all’anno nuovo non (ir)romperò più. Intanto che il 2017 ci sia miglioe del 2016 di merda e peggiore del 2018)

Beppe fuori dal vaso

Beppe Grillo, cui non sono mai mancate l’astuzia, la chiaroveggenza e l’alterità,  assenti nel panorama politico tradizionale, lo facevo meno boccalone rispetto a quella che è, dall’inizio in Tunisia, passando per Berlino e finendo a Sesto S. Giovanni, una delle più patetiche e disoneste montature allestite dal terrorismo di Stato globale. Beppe Grillo, non sapendo tenere a bada le sue impennate emotive, non solo manda a puttane l’equilibrato e intelligente lavoro dei 5 Stelle sui migranti con un post che ne invoca l’espulsione perché il terrorismo infesterebbe l’Europa. Si pone a fianco del superspione Minniti, fiduciario storico della Cia e ora ministro degli Interni, nell’esaltazione di pessimo gusto dei due “eroi” in uniforme che, “casualmente”, sono incappati in un pregiudicato armato e lo hanno fatto secco quando, sparando, rifiutava di farsi arrestare. Fatto che, pure, ricorre ogni qualche ora nelle nostre vaste lande infestate dalle mafie.

Come Grillo, tutta l’informazione si beve, e, con rigurgito gastrofaringeo, ripropone all’universo mondo, le cazzate della montatura berlinese sul tunisino Anis Amri e le spacconate di un regime che, avendo ammazzato un tale presentatoci come autore della strage di Berlino in virtù del documento di identità ritrovato nel camion, si vanta di essere il campione del mondo – altro che Cia, FBI, Mossad, BND tedesco e Mi6 britannico – nella lotta al terrorismo. Ma, a proposito di quanto ho già scritto sul nuovo False Flagnell’articolo precedente, che fine hanno fatto le riprese delle telecamere puntate perfino sugli scarafaggi tra i wurstel  del mercatino berlinese e, quindi, inevitabilmente sul terrorista in fuga dal camion?  Sparite, esattamente come quelle del lungomare di Nizza. Chi, caro Beppe, dopo la tua  intemerata sul blog, potrà mai più obiettare al robocop con mitraglia nel proprio tinello? Io me lo sento già alle spalle mentre controlla che tasti pigio sul computer.

Proteggerci! Dal terrorismo di chi?

Ne discende per Grillo, che di solito, va detto, la sa più lunga,  e per tutti, l’invocazione di più polizia, più sicurezza, più controlli e più espulsioni. A chi l’invocazione? A un regime in cui alcuni massimi esponenti istituzionali, dal capo dei carabinieri (“Nei secoli fedeli”. A chi?) al capo dei finanzieri al factotum del governo, finiscono sotto le ferula di giudici che ne ventilano porcate ai danni del contribuente. Con i media che ne proclamano con trombe e cimbali la bravura quando si abbatte brevi manu un presunto terrorista (presunzione di innocenza?) e ne tacciono totalmente le malefatte per le quali sono indagati. E a questa gente che Grillo, vedendo ciò che nessuno vede, cioè “un’Italia che diventa un viavai di terroristi”, dice “ora dobbiamo proteggerci”. Fino a ieri vedeva un viavai di lavoratori licenziati, di giovani senza lavoro, di studenti senza università, di famiglie senza pane, di gente senza casa, di vittime di frane, tutti sistematicamente picchiati dai colleghi di quei due la cui esecuzione di un presunto attentatore si va festeggiando. Chiede, Grillo, protezione a gente che è filiazione di un potere della cui trasparenza e probità nell’interpretazione del terrorismo aveva fin qui molto opportunamente dubitato. La stessa gente che infierisce sulla sua sindaca di Roma, abbrustolita per il 10% dai suoi errori ma per il 90% dal napalm lanciatole addosso dai banditi spodestati.

Così, tra turbe di misericordiosi che, ovviamente a spese altrui e dell’altrui tranquillità sociale, invocano l’accoglienza di tutti, fossero anche miliardi, e grilli e soci che vedono terroristi in tutti coloro che non meritano asilo politico, fossero anche deportati da villaggi africani divorati dall’agrobusiness multinazionale, ognuno si sforza spasmodicamente di non dire che bisogna  smetterla con le aggressioni militari, economiche, climatiche. Di non dire che per fermare l’insostenibile alluvione migrante bisogna bloccare gli Usa, Israele e loro gregari. E di non dire anche che costoro fabbricano terroristi per giustificare agli occhi dei gonzi il loro terrorismo.

 Trump? E’ l’albero. Poi c’è il bosco

Volevo oggi parlare di Donald Trump. Infatti il collegamento c’è. Ed è che da quando siamo piccoli ci condizionano a vedere l’albero e non il bosco. Così i mistificatori della politica, dell’informazione e dell’indottrinamento hanno i nostri neuroni spianati. Beppe, che però prima aveva dato mostra di avere lo sguardo lungo e ampio, e tutti gli altri si fermano al terrorista migrante e non vedono il contesto nel quale si è sviluppato. E quelli che hanno calato la scure su Trump hanno voluto sentire solo le sparate sui migranti da espellere, sui muri da erigere, sulle donne da palpare, sui mori che si vendicano di Roncisvalle. Mentre gli altri, giustamente rallegratisi per le distanze che Trump ha preso da Nato, regime change, guerra alla Russia, pensavano che sarebbero bastate quelle per farci entrare a Shangrilà, o nel regno di Saturno.

Sono alberi, non è il bosco. Che è invece un grande complesso di formazioni botaniche e faunistiche che si avviluppano, si sostengono e integrano, si combattono e falcidiano. Di solito c’è un supremo regolatore di queste collusioni-collisioni che mantiene in piedi il sistema e lo fa proseguire verso i suoi scopi. Nel caso del bosco è madre natura, in quello degli Usa e delle società complesse è un concentrato di interessi economici che io chiamo Cupola, qualcun altro l’1% (ma sono di meno) e che di solito impongono alle varie componenti un esito che fornisca il risultato ambito. Nella contingenza, quello della globalizzazione e del governo mondiale (ma succede dai tempi dei tempi, basta pensare alla Chiesa).

Bislacco o astuto manovratore?

Pareva che rispetto al duo della brutta morte, Obama-Hillary, sostenuto con passione da tutto il mondo talmudista per il suo impegno anti-arabo e anti-islamico, The Donald facesse svettare il suo ciuffo  albicocca su una pax siriana con tanto di Assad. Ed ecco invece che il bizzarro miliardario copre il crine albicocca con la kippà, agita la Torah, si tatua sul cuore la stella a sei punte, promette di spostare la capitale sionista a Gerusalemme e si fa incensare dalla lobby talmudista AIPAC. E quando l’agonizzante Obama raspa tra le sue stragi alla ricerca di un minimo di dignità storica astenendosi al Consiglio di Sicurezza quando passa la condanna dei carcinomi coloniali incistati in Palestina, è Trump che accende il candeliere a sei braccia per dar fuoco all’antisemita predecessore (

Manifesto e Amnesty vendetta sull’Egitto anti-israeliano

Per inciso, è stato l’Egitto di Al Sisi a formulare la proposta di condanna degli insediamenti, poi sospesa sotto le granate sioniste di Trump, ma riattivata e vittoriosa. Ciò, insieme al sostegno militare e politico offerto da Al Sisi ad Assad, la sua intesa con la Russia, fa capire l’intensificarsi del terrorismo dei Fratelli Musulmani in Egitto, parallelo ai nuovi paginoni di contumelie e menzogne contro l’Egitto, riprendendo a pretesto il pupillo di John Negroponte, Regeni, sparate da “manifesto”, Amnesty e altri surrogati USraeliani. E, assieme all’Egitto, è entrata in campo a gamba tesa anche l’Algeria, che ha celebrato il “ristabilimento della sovranità siriana su Aleppo contro il terrorismo”. E’ ora che il manifesto e Amnesty mandino di nuovo qualcuno, tipo Giuliana Sgrena, a sfrucugliare gli algerini su “democrazia e diritti umani” .

Luci che parevano ombre, ombre che parevano luci

Si contava sulla battaglia annunciata dall’immobiliarista di New York a favore degli operai Usa massacrati da subprime e delocalizzazioni, da tagli agli investimenti e al sociale, tutti i soldi ad armi, guerre e delocalizzazioni che sono  opera di banchieri e armieri, ed ecco giungere ai posti di comando della nuova amministrazione squadroni di generali, ex-Pentagono ed ex-industria militare e banchieri miliardari di Goldman Sachs, mostro capofila di ogni banda di criminali. Mentre contemporaneamente svapora la frenesia razzista e xenofoba del nostro,  tra incontri applauditi con tutte le minoranze e il volume a quasi zero su muri ed espulsioni. Bello. Meno bello che Trump assuma il fior fiore dei devastatori di ambiente e clima promettendo al paese e al mondo un futuro fossile. Fossile come le ossa dissotterrate dei dinosauri.

S’era pensato a un imprevisto, un bizzarro, uno sfuggito al controllo dei supremi regolatori che di solito amministrano con avvedutezza l’alternanza tra burattini di diverso temperamento e colore, ma tutti in marcia per il comune obiettivo. E il suo saltabeccare di contraddizione in contraddizione giustificava l’idea: dagli amici Exxon-Mobil della Rosneft e di Putin, da lui addirittura decorati, spediti a Mosca, allo sfregio a Pechino con la telefonata al bubbone anticinese di Taiwan e contemporanea nomina ad ambasciatore in Cina di un intimo di Xi. Che ci sia una logica in tutto questo? Poi c’era il vituperio anti-Trump, da vipera pestata, di John McCain e affini, padrini Cia di Al Baghdadi, santi protettori di tutti i terroristi, Isil o nazisti di Kiev che siano, e, all’incontro, la guerra di sterminio promessa da Trump ai jihadisti , dunque a McCain. Cosa buona.

Proviamo a selezionare il finto dal vero, il demagogico dal serio. Anche per i predecessori al guinzaglio della voracità bellica dei neocon la prospettiva di un blocco eurasiatico era anatema. Ma pensavano di neutralizzarlo minacciando, sì, la Cina con il famoso “Pivot sull’Asia” e il concentramento di flotte e basi tutt’intorno alla Cina. Più in là non pare volessero andare, visto anche che, con i denari e i buoni del Tesoro americani che Pechino tiene in borsa, la sorte economica degli Usa è appesa a quella borsa, per quante ulteriori banconote volesse stampare la Federal Reserve. La Russia, invece, zeppa di risorse energetiche, militarmente in rapidissima ascesa, dinamicissima e decisiva sul piano geostrategico, tentatrice di giri di valzer con gli europei e loro potenziale partner ideale, disgregatrice della strategia imperialsionista in Medioriente, li accecava di furore. Anche perché questi fan di Hillary continuavano a rimediare tranvate, oltretutto mediate da Putin: Egitto, Algeria, Haftar in Libia, l’imprevedibile Erdogan, lo Yemen, piccolo, miserabile che in due anni di sfracelli Usa e sauditi resta in piedi…E poi c’è Dutarte nelle Filippie e chissà quanti altri sentono il profumo di quel vento.

Bloccare l’Eurasia. Da est o da ovest?

Quello che Trump, o i suoi sponsor, pare abbiano capito è, primo, che il costrutto neocon di Obama-Clinton-Bush sta perdendo pezzi. Secondo,  che l’Eurasia,  il più grande e popolato blocco terrestre, con le risorse della Russia, la potenza produttiva della Cina, il gigantesco progetto della Via della Seta che arriva in Africa e costruirebbe una coesione infrastrutturale, economica, politica e militare tra tre continenti, è una minaccia al progetto globalista che non si affronta sparando alla Russia. Che proprio quell’aggressività isterica dei neocon, oggi impersonata da Obama-Clinton-Netaniahu e sguatteri mediatici come Washington Post e NYT,, aveva rinsaldato l’intesa Russia-Cina, fino ad arrivare a enormi accordi economici e, addirittura, bancari, tali da minacciare davvero il dollaro, dominus delle transazioni.

Le mosse di Trump parrebbero un tentativo di rompere il legame Russia-Cina attraverso la seduzione e la collaborazione col partner euroasiatico militarmente più forte ed economicamente più debole. La strategia del ping-pong che Kissinger aveva inaugurato con l’anziano Mao, proprio per isolare l’Urss. Al cui soccorso, in effetti, quando si è disfatto, non è apparsa nessuna Cina. Trump, poderoso affarista, sa bene che ha interlocutori interessati a Mosca tra gli oligarchi atlantisti che convivono ancora con il sistema Putin e non si sa bene quanto possano condizionarlo. Nel comune interesse di annegare il mondo negli idrocarburi e gonfiare i forzieri dei petrolieri e loro sponsor si possono trovare intese. Del resto alla Cina difettano sia il gas che il petrolio e se l’Iran gliene fornisce la maggior parte, ecco che Trump promette di buttare per aria l’accordo sul nucleare con Tehran e sostenere l’aggressività israeliana nei suoi confronti. In ogni caso meglio tenersi buona la Russia, anche a costo di allevare, tra sovranisti e cosiddetti “populisti” anti-UE e anti-Usa vari, suoi amici in Europa. L’isolamento della Cina vale il prezzo.

Sarebbero, Trump e i suoi mandanti, meno bislacchi di quanto si ritiene se calcolano che, per una strategia di dominio mondiale, oltre alla divisione del fronte avversario principale, serve piuttosto un apparato militare meno pletorico, ma innestato su un corpo nazionale tornato in buona salute nelle sue articolazioni sociali ed economiche, che non un mastodonte militare distribuito sui cinque continenti ma sorretto da un corpo debilitato strutturalmente e innervosito dal disagio sociale, come lo hanno ridotto i demenziali terroristi neocon del PNAC (Il Nuovo Secolo Americano).

Non so se tutti questi siano arzigogoli, o prese d’atto di quanto va emergendo. In ogni caso, se non ha sbattuto in un angolo gli immigrati (Obama ne aveva espulso più di tutti i presidenti Usa), Trump non vi ha messo neppure i banchieri, gli industriali del petrolio, delle armi e della produzione manifatturiera. Sembrava una guerra totale tra settori opposti dell’economia Usa: costruttori di ponti e fabbriche contro speculatori e cibernetici. A me pare che non se ne faccia niente e mi dispiace per chi crede in un’irrisolta crisi sistemica. Quella magari c’è, ma qui si continuano a trovare gli antidoti che la facciano procedere nella direzione che distrugge noi e salva loro. Staremo a vedere se il vecchio establishment che, preso in contropiede e scalzato dai posti di comando, latra con tutti i suoi sguatteri mediatici e umanitaristi contro il bifolco miliardario, se ne saprà fare una ragione.  O verrà ricondotto alla ragione dalla Cupola. In Bilderberg questi ci stanno tutti.

A noi resta l’amara constatazione che, da quella parti, il più pulito ha la rogna.  E l’attacca.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:34

MIA INTERVISTA A “LA VOCE DI NEW YORK”: TRUMP, SOROS, HILLARY, SIRIA, FIDEL…..

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2016/12/mia-intervista-la-voce-di-new-york.html

MONDOCANE

MERCOLEDÌ 21 DICEMBRE 2016

MIA INTERVISTA A “LA VOCE DI NEW YORK”, GIORNALE DEGLI ITALIANI NEGLI USA

Trump e le crisi del mondo osservate fuori dagli schemi

Trump, la Russia, la Siria, Castro: l’attualità internazionale vista da Fulvio Grimaldi, giornalista scomodo.
Fulvio Grimaldi è un giornalista indipendente, a volte “troppo”: Esperto inviato di guerra, ha idee in conflitto con quelle del “mainstream media”. In questa conversazione ci parla dell’elezione di Donald Trump e delle cause delle crisi internazionali: “Trump costituisce una rottura rispetto all’establishment costituito”

di Fabrizio Rostelli – 19 dicembre 2016

Fulvio Grimaldi non è uno che te le manda a dire, va giù duro, non lascia spazio ad attenuanti. E come potrebbe comportarsi diversamente un giornalista che in 50 anni di carriera ha raccontato, come inviato di guerra, i principali conflitti armati in giro per il mondo. Solo per citare un episodio, è stato l’unico testimone italiano della strage di Derry nell’Irlanda del Nord del 1972 (Bloody Sunday), esperienza che poi ha documentato dettagliatamente.

In pochi giorni sulla scacchiera mondiale si mettono in fila una dietro l’altra una serie di mosse determinanti per il prosieguo della partita:l’elezione di Trump, la morte di Castro, la riconquista di Aleppo da parte dell’esercito siriano. Lo chiamo telefonicamente da New York mentre sta preparando il suo ultimo documentario su Africa ed Eritrea (da anni lavora all’autoproduzione di video-documentari su crisi globali e guerre) perché sono curioso di avere un suo commento sui recenti avvenimenti.

Fulvio Grimaldi, nonostante fosse osteggiato anche dal suo stesso partito, ha vinto “l’impresentabile Trump”. Per quale motivo secondo te?

“Trump costituisce una rottura rispetto all’establishment costituito, rispetto a tutto l’esistente. Forse anche lui potrebbe essere controllato da chi di solito determina le scelte dei candidati nelle posizioni di vertice degli Stati Uniti, da quella cupola invisibile che tira i fili. Può darsi che anche lui sia uno strumento di questo burattinaio. Ma può anche essere invece una variabile impazzita che stanno faticando a mettere sotto controllo. in ogni caso si tratta di una rottura drastica con quella che è stata finora la politica interna ed estera degli USA. Trump ha fatto appello a ceti sociali trascurati, emarginati, deprivati, ridotti in miseria da chi ha governato in questi anni; per quanto riguarda l’estero, ha fatto aperture nei confronti della Russia e della Siria e di conseguenza verso la possibilità di non arrivare ad uno scontro diretto, che invece è quello che finora è stato perseguito da Obama e da chi lo aveva messo lì. Una posizione inedita e piuttosto sconvolgente per coloro che avevano interesse ad accentuare la “guerra fredda” e a spingerla verso una “guerra calda”. Quindi Trump rappresenta comunque un momento di rottura che sembrerebbe indicare una crisi sistemica dell’intero Occidente, poiché dagli Stati Uniti dipende un po’ tutto l’assetto occidentale. Crisi sistemica fin qui creata e diretta contro le classi popolari e i popoli.

Trump ha veramente tutti contro? Nella sua squadra di governo ci sono ben tre ex dipendenti Goldman Sachs (Stephen Bannon, Steven Mnuchine Gary Cohn).

“Credo che in questa fase le valutazioni siano premature. Certe nomine fanno rabbrividire. Ma colpisce che l’intero establishment, tutti i grandi poteri costituiti – militari, industriali, di sicurezza, dell’energia, dell’informatica, della stampa, lobby ebraica – stavano con Hillary Clinton. Su questo non ci sono dubbi. Anche quando è stato comunicato il risultato della vittoria di Trump, s’è vista una levata di scudi da parte di tutti i mezzi di comunicazione facenti capo ai vari poli di potere statunitensi e occidentali. Reazioni di shock, sorpresa e rigetto, evolutisi addirittura in tentativi paragolpisti di sabotare l’insediamento di Trump. Questo è un dato accertato, quello che invece potrà avvenire dalla effettiva realizzazione, o non realizzazione, dei piani annunciati da Trump, per quanto siano noti, andrà valutato.

In questo momento non si può ancora dire molto, salvo che pare delinearsi un’inedita apertura alla Russia, un più netto sostegno alle posizioni oltranziste di Netaniahu in Israele, attraverso la nomina di un fanatico sostenitore dei coloni, la promessa di spostare la capitale da Tel Aviv a Gerusalemme, posizione che però sembra in conflitto con il proposito di lasciare al potere Assad in Siria e combattere con decisione i jihadisti, sostenuti e armati da Israele e dagli alleati del Golfo. Contrasta però con queste aperture ai sionisti, la virulenta avversione nei confronti di Trump di tutta la lobby mediatica, politica e finanziaria ebraica. Una novità vera si profila invece all’orizzonte per quanto riguarda un cambio di priorità nei rapporti geopolitici: intesa con la Russia e aggressività nei confronti della Cina”.

Hai scritto più volte che peggio di Trump c’è solo Hillary Clinton, perché?

“Perché Hillary Clinton ha fatto, Trump non ha ancora fatto. Hillary ha alle spalle una scia di sangue spaventosa, da lei provocata in felice simbiosi con Bush, Obama e con i grandi potentati imperiali. Trump ha parlato e straparlato, ha detto alcune cose che aprono possibilità di miglioramento delle condizioni planetarie generali, come ad esempio una minore insistenza sul confronto e sul conflitto, e ha detto invece delle cose pesantissime nei confronti dei migranti, dell’Islam, dell’Iran e, soprattutto, a danno dell’ambiente e del clima, il cui cambiamento per cause umane non pare riconoscere e che viene minacciato dalle sue scelte pro-fossili e pro-petrolieri. Le famose battute sessiste, misogine, invece, sono folklore, brioche per le turbe, Quelle sui migranti sono già rientrate nel corso del suo tour di ringraziamento tra le minoranze.

Peggio di Trump poteva esserci naturalmente solo una che ha già compiuto il suo percorso ed ha già realizzato i suoi atti. Hillary Clinton è la persona che in tutte le ultime guerre, a partire da quella del marito nei Balcani, ha rappresentato la forza propulsiva. È stata quella che ha spinto sia sul macello dei Balcani, quando era nell’ombra come first lady, sia per quanto riguarda le guerre mediorientali. Clinton inoltre è stata una protagonista di primissimo piano nella distruzione della Libia, quando era Segretario di Stato.

Le possiamo direttamente attribuire la distruzione feroce di un Paese prospero e comunque pacifico e l’uccisione diretta di Mu’ammar Gheddafi, di cui lei ha gioito in pubblico davanti a delle telecamere, cosa che ne caratterizza indelebilmente l’identità caratteriale e psicologica. Poi ha organizzato il colpo di Stato in Honduras , che ha trasformato un paese avviato verso uno sviluppo accettabile, abbandonando una condizione da “repubblica delle banane”, e l’ha consegnata alla spoliazione alle stragi dei suoi clienti locali. Oggi l’Honduras è il paese dove si viene ammazzati di più in America Latina, superando il record del Messico, altro Paese “curato” da Obama e da Clinton. Di Hillary Clinton è noto il ruolo decisivo nel colpo di Stato in Ucraina. La sua assistente al tempo della Segreteria di Stato, Victoria Nuland, è stata l’esponente americana che ha più insistito per il colpo di Stato e per l’inclusione nel governo dell’Ucraina di elementi dichiaratamente nazisti . Quindi di Hillary Clinton si sa tutto, di Trump si deve ancora vedere, anche se, al la luce delle nomine fatte, o ventilate, c’è da preoccuparsi molto. Senza, peraltro, le false lacrime di coccodrillo dei sostenitori di Hillary”.

Sei molto cauto nel valutare l’elezione di Trump. La sinistra europea non ha invece avuto nessun dubbio nel contestarlo. Perché?

“Non chiamiamola sinistra. La cosiddetta “sinistra europea” ha perso ogni caratteristica storica della sinistra: è bellicosa, sostiene il neoliberismo, ha giustificato, aderendo alle demonizzazioni di presunte “dittature”, la ricolonizzazione dei Paesi del Sud del mondo. Dovremmo classificare di sinistra Hollande che ha fatto la guerra in Mali, Niger, Costa d’Avorio e Chad e che sta intraprendendo un’avventura neocolonialista dopo l’altra? Oppure considerare Renzi uomo di sinistra mentre saccheggia quanto rimane in tasca e di salute nelle classi disagiate e ha tentato di stravolgere in senso autoritario la Costituzione democratica, discretamente di sinistra, indirizzandola verso una pericolosissima verticalizzazione del potere? O ancora classificare di sinistra un criminale di guerra e nemico della classe operaia come Blair?

All’interno di questo quadro possiamo comprendere benissimo perché venga osteggiato un uomo (Trump ndr) che alle problematiche riguardanti i diritti civili, i matrimoni gay, il sessismo ecc., trattate con insensato disprezzo, antepone questioni che forse rivestono per l’umanità un’importanza più drammatica, come la guerra o la pace, la vita o la morte, la conflittualità o la coesistenza. Capisco bene perché venga criticato un soggetto che mette in discussione i pilastri della politica della cosiddetta “sinistra europea”: il confronto con la Russia, i regime-change, il neocolonialismo in Africa e Medio Oriente. Sempre che queste sue iniziali indicazioni resistano ai fatti che vorrà compiere da presidente e non risultino specchietti per le allodole”.

Hai analizzato criticamente le proteste anti-Trump che si sono tenute in 25 città negli USA. Per quale motivo? Ci sono prove che Soros sia davvero coinvolto?

“Sono convinto che in queste proteste, come nella furibonda campagna anti-Trump che continua tuttora, abbiano partecipato persone in assoluta buona fede, gente che è rimasta scioccata di fronte a certe dichiarazioni di Trump, come quella dell’espulsione di 3 milioni di migranti messicani., sulla quale peraltro si è già ricreduto. Ricordiamoci sempre che Obama ne ha espulsi un milione e mezzo, cioè più di qualsiasi altro presidente degli Stati Uniti. C’erano sicuramente persone veramente indignate in piazza per protestare contro il sessismo, le volgarità, il muro. Muro che peraltro è già stato costruito da Bill Clinton e che poi è stato rafforzato e completato da Obama. Esiste già un muro di 3mila chilometri tra USA e Messico. Il discorso del muro era puramente demagogico.

Esistono però anche le prove che queste manifestazioni siano state in parte sollecitate, innescate, promosse da elementi esterni. Ci sono le prove di società che hanno promesso a chi scendeva in piazza di essere assunto, di ottenere benefit, privilegi (uno degli annunci sospetti – poi rimosso dal web – è stato pubblicato dalla Washington CAN! acronimo di Washington Community Action Network ndr). Quindi una manipolazione di queste manifestazioni contro Trump sicuramente c’è stata, anche perché il grande manipolatore delle manifestazioni in giro per il mondo, che di solito puntano ad un regime-change, e in questo caso alla delegittimazione di Trump, è un bandito della speculazione e delle destabilizzazioni come George Soros. La sua Open Society è un organismo che ha alimentato, finanziato e sostenuto le grandi manifestazioni che vengono definite “rivoluzioni colorate” . In questo caso anche lui si è espresso a favore dei manifestanti. Un uomo, tra l’altro sostenitore appassionato di Israele, che finanzia tutte queste operazioni è molto probabile che stia anche dietro a queste“.

Sul tuo sito hai citato ONG come Move on e Avaaz.

“Sì perché hanno appoggiato tutte le manovre e campagne di cui sopra, sempre al servizio degli interessi imperialisti. Avaaz la conosco meglio di Move on che in Europa non è molto attiva. Avaaz è una ONG che raccoglie firme per obiettivi che sono condivisibili da tutti, tipo la protezione dell’orso bianco, la difesa della foresta amazzonica, la promozione di energie rinnovabili. Tutte cose molto simpatiche, perfettamente compatibili peraltro con lo sviluppo e con gli interessi di alcuni settori del grande capitale che sanno benissimo come fingersi ecologisti per poi sabotare ogni freno alla devastazione del pianeta. Dall’altra parte raccoglie anche firme per incriminare il dittatore Assad, per sostenere la no-fly zone in Siria e tutte le grandi operazioni militari della Nato e degli Stati Uniti. E’ qui dove casca l’asino, dove si rivelano la vera natura e i veri scopi.

Sono ONG, come la Open Society di Soros o la National Endowment for Democracy, Amnesty International, Human Rights Watch, che spuntano dietro a ogni regime-change attuato nei confronti di governi non obbedienti. La loro ostilità nei confronti di Trump è confermata dalla matrice unica di queste creature, la CIA, che ultimamente si è scagliata con virulenza contro il neo-presidente, rafforzando la grottesca bufala di un Trump eletto grazie agli intrighi e agli hackeraggi di Putin. Pare proprio che stiamo assistendo a uno scontro durissimo tra settori rivali del grande capitale, banche, apparato produttivo, complesso militar-industriale, scontro non ancora del tutto chiaro nelle sue componenti e nei suoi obiettivi. Alla fine la Cupola, da cui tutti i protagonisti politici dipendono, ricomporrà un qualche ordine decidendo chi debba prevalere nel migliore interesse che la congiuntura detta ai divoratori del mondo”.

Da anni ti batti per una corretta informazione sul Medio Oriente, penso al tuo documentario “Armageddon sulla via di Damasco”, a quelli sulla Libia, l’Iran. L’Iraq.È d’obbligo quindi una domanda sulla Siria. Qual è la situazione attuale?

“In 6 anni le più grandi potenze, Francia, Germania, Regno Unito, tutte quelle della Nato, compresa l’Italia che è presente con le sue forze speciali, con i suoi addestratori e le sue armi, e gli Stati Uniti, non sono riuscite ad avere ragione di un paese piccolo, debole e minato dalle sanzioni come la Siria. Al suo soccorso, insieme agli hezbollah libanesi e agli iraniani, è intervenuta, dopo 3 anni di resistenze eroica di tutto un popolo, la Russia di Putin. Sulla Siria si sono avventate sotto guida Nato, altre forti potenze militarti e finanziarie, l’Arabia Saudita, gli Emirati, il Qatar e la più potente nazione Nato, dopo USA e Israele, che è la Turchia. Il fatto che in 6 anni non siano riusciti a far fuori questo Paese è il segno che la popolazione, come è stato dimostrato da elezioni legittimate dagli osservatori internazionali dell’ONU, sostiene il suo presidente e la sua classe dirigente. In caso contrario la Siria sarebbe da tempo crollata, anche con tutto ciò che i suoi amici potevano fare.

L’intervento della Russia ha comunque impedito che si operasse sulla Siria come si è operato sulla Libia, cioè sterminando il Paese a forza di bombardamenti, di missili e di bombe. Le ultime notizie ci dicono che l’esercito lealista, le forze armate di Damasco, stiano vincendo su molti fronti e abbiano riconquistato l’intera Aleppo, a dispetto dei costanti sabotaggi dell’evacuazione dei civili e degli attentati dei terroristi non rassegnati alla sconfitta e ininterrottamente stimolati dall’Occidente e dalla Turchia.

La stessa cosa si può dire dell’Iraq, dove le forze governative di Baghdad hanno ripreso la maggior parte del territorio occupato dall’Isis e stanno per riprendere Mosul, la seconda città dell’Iraq. Vuol dire che in questo caso il grande disegno di riordino del Medio Oriente, il cosiddetto Nuovo Medio Oriente, che consisteva nella frantumazione dei grandi Stati nazionali arabi – Libia, Iraq, Siria, Sudan e poi Egitto e Algeria – è temporaneamente in crisi. Non è riuscito a concludersi. La reazione rabbiosa dei jihadisti contro Palmira ha raccolto un successo temporaneo, ma dimostra ancora una volta come tutto l’apparato jihadista sia un mercenariato degli Usa e della Nato. È infatti grazie all’appoggio Usa e dei loro subordinati curdi che da Mosul si sono potuti trasferire verso Palmira migliaia di combattenti ISIS. Ci saranno indubbiamente altri colpi di coda, soprattutto contro la Russia”.

Ti renderai conto che la situazione è talmente complessa che è facile perdersi tra le centinaia di informazioni false, parziali, infondate, vere, dalle quali siamo bombardati. A meno che non ci si fidi di un determinato organo di informazione come si fa a capire davvero che accade in Siria?

“Non credo sia così difficile. Intanto molto si capisce dall’esame degli interessi in campo: quali di conquista e distruzione, quali di difesa e giustizia. E’ difficile districarsi se uno si basa esclusivamente sulle fonti di informazione ufficiali, sui massmedia, che costituiscono un esercito compatto, reclutato, addestrato e formato dai poteri esistenti in Occidente. Non c’è praticamente nessuna eccezione all’uniformità; dal Washington Post al New York Times, al Time, al Corriere della Sera, a Repubblica, alla Frankfurter Allgemeine Zeitung In tutti i grandi giornali dell’Occidente, ma anche in quelli minori che si pretendono di opposizione, troviamo uniformità di interpretazione dell’esistente e in particolare delle situazioni di attrito tra Occidente e altre parti del mondo. Il fatto che l’interpretazione sia talmente univoca, mentre ancora ai tempi del Vietnam c’era un’ampia diversificazione, è il segno che non c’è onestà; non ci può essere onestà dove non c’è pluralismo.

Negli ultimi decenni si è arrivati a una concentrazione senza precedenti della proprietà dei media. Una volta, fino a circa 20 anni fa, negli Stati Uniti i grandi aggregati di informazione erano 56, adesso sono solo 5. C’è una presa di controllo sui mezzi di informazione che è il prerequisito affinché la gente si convinca e così stia buona e ascolti soltanto la voce del padrone. Oltretutto non esistono più editori puri dei media: il tessuto oligarchico che li governa ha altri interessi prioritari, militari, chimici, agroindustriali, informatici, che giornali e tv sono chiamati a sostenere.Succede anche, però, che questa rozza uniformità dell’informazione abbia provocato una crisi diffusa di credibilità. Lo si è visto nel fallimento di Hillary nonostante l’appoggio totalitario dei media e, parallelamente nel nostro piccolo, nel fatto che il No al referendum di stravolgimento costituzionale, voluto dalla destra (che si definisce “sinistra”) in Italia abbia prevalso nonostante tutta l’informazione importante fosse dalla parte del Si. Per rimediare a questa crisi di credibilità, il mondo dei mass media ha lanciato ora questa sua forsennata campagna contro le presunte “fake news”, che sarebbero tutte le notizie che non rientrano nel quadro prestabilito dal potere, in massima parte diffusa dai social media alternativi e dalle emittenti di paesi non succubi all’imperialismo. E’ la seria anticipazione di una repressione che verrà.

In fondo la realtà sarebbe molto semplice da interpretare: c’è una parte del mondo dominata da una piccola élite di persone ricchissime che stanno procedendo da anni, attraverso il neoliberismo, l’austerity, attraverso i propri organi come l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale, a un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, dal basso delle proprie classi lavoratrici all’alto delle proprie élite, dal basso dei popoli del Sud del mondo alle classi dirigenti dell’Occidente. Tutto questo richiede che la stampa informi in maniera univoca, in modo che la gente non si renda conto di quello che sta succedendo. La guerra è sempre quella: tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli e si può benissimo trovarne le ragioni, le analisi e le spiegazioni in internet”. E anche utilizzando un po’ di logica, quellad dell’antico cui prodest”.

Usciamo un attimo fuori tema. Non posso non farti una domanda su Fidel Castro. Hai scritto “Cade un gigante”. L’eredità di Castro rimane, ma per chi sostiene ancora le idee socialiste, la sensazione è quella di aver perso anche l’ultimo punto di riferimento.

Non credo. Prima di tutto l’idea socialista non ha bisogno di punti di riferimento fisici, personali. Aiutano, ma non sono indispensabili. L’idea di Socrate sopravvive anche senza Socrate. Ho titolato il mio pezzo “Cade un gigante”, però bisogna dire che questo gigante negli ultimi 20 anni aveva perso molto della sua statura. Forse non tanto per colpa sua, semmai gli si possono rimproverare passività e silenzi, ma per volontà diretta dei suoi successori. Hanno in grande misura annullato le sue conquiste e invertito la direzione di marcia che Fidel aveva tracciato per Cuba fin dalla rivoluzione. È questa la tragedia. Cuba, con Raul Castro, ha cessato di essere un faro per l’America Latina e per gli oppressi del mondo. E’ diventata un esempio negativo di subalternità all’imperialismo neoliberista.

Non credo manchino punti di riferimento, ci sono ancora Paesi dell’America Latina che presumono, pretendono e affermano, in parte con buone ragioni , di perseguire il socialismo. Ci sono il Venezuela, la Bolivia, l’Equador. Non per nulla è in corso una feroce controffensiva reazionaria delle destre sostenute dagli Stati Uniti, come in Argentina e Brasile, ma i punti di riferimento, anche se non sono necessari dal punto di vista del loro incarnarsi in persone fisiche, esistono. Stanno nei cuori e nelle menti dei popoli che resistono, penso proprio alla Siria, ai paesi latinoamericani, ma anche alla Russia, all’Eritrea in un’Africa esposta nuovamente all’assalto dei predatori coloniali. Stanno nell’esempio di chi non si è fatto corrompere, di chi non si è arreso. Penso ai tanti protagonisti del riscatto umano, a Lumumba, Cabral, Sankara, agli eroi del riscatto latinoamericano, ai nostri partigiani, al Che. E naturalmente a Lenin.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 12:32