D’Alema: “Irresponsabile il voto anticipato, serve un governo”

eh sia mai consultare il popolo, è ignorate e non sa votare. Sarebbe “irresponsabile”. Votare? Abominevole, e poi perché sarebbero “anticipate”? Non si vota da secoli, ma una volta le elezioni non erano la prassi una volta caduto un governo?

D’Alema: elezioni-urne-voto“Irresponsabile il voto anticipato, serve un governo”

lunedì, 5, dicembre, 2016

“Immagino che in tempi rapidi, il presidente Mattarella dia l’incarico di formare un nuovo governo. C’è una maggioranza parlamentare, i parlamentari del Pd per il No hanno già detto che sosteranno il governo. Questa è la priorità. Dare un governo al Paese”. Lo ha detto Massimo D’Alema al comitato del No al Circo Massimo.

“Non è responsabile – ha aggiunto – l’idea di andare a elezioni in una situazione così caotica. Occorre fare una legge elettorale, lo ha detto anche il presidente del Consiglio e non dimentichiamoci che sull’Italicum pende anche la sentenza della Consulta”.

“Ora – ha affermato – nel Pd serve una profonda svolta politica e c’è da ricostruire l’unità del partito. L’idea centrista del partito della Nazione è stata sconfitta insieme alla riforma”. Per D’Alema “Renzi dovrà riaprire un confronto vero sul futuro del centrosinistra italiano” e comunque “non mi pare che abbia parlato in alcun modo di dimettersi da segretario e poi i problemi del segretario del Pd li affronterà il Pd”. (AdnKronos)

Referendum, Marine Le Pen esulta: ​”Gli taliani ripudiano Renzi”

lunedì, 5, dicembre, 2016

Contrariamente all’antidemocratica Germania, Marine Le Pen,leader del Front National, ha esultato per la vittoria del No al referendum costituzionale, complimentandosi poi con Matteo Salvini per l’obiettivo raggiunto dalla Lega Nord e da tutto il comitato del No.

“Gli italiani hanno ripudiato l’Unione e Renzi – ha scritto su Twitter la candidata alle presidenziali francesi – Dobbiamo ascoltare questa sete di libertà delle nazioni e di protezione! #referendumcostituzionale”. Il messaggio del leader della destra francese ricalca la battaglia realizzata dalla Lega e gli antieuropeisti che vedevano nella riforma della costituzione un’ulteriore cessione di sovranità dell’Italia all’Europa.

“Bravo a Matteo Salvini per la vittoria del No”, ha aggiunto la Le Pen in un secondo tweet. La Lega Nord e il Front National sono ormai alleati stretti al Parlamento Europeo e più di una volta i due leader sono andati l’uno alle manifestazioni politiche degli altri. Uniti anche nella battaglia referendaria contro Matteo Renzi e la “costituzione troppo europeista”. ilgiornale.it

Referendum, Financial Times: “A rischio ricapitalizzazione di Mps”

lunedì, 5, dicembre, 2016

Roma – A rischio il salvataggio di Monte dei Paschi di Siena. Lo scrive il Financial Times che ricorda come oggi Mps e consulenti diJP Morgan e Mediobanca si incontreranno in mattinata per decidere se andare avanti con il piano di ricapitalizzazione da 5 miliardi. I banchieri decideranno se perseguire i loro impegni di sottoscrizione o esercitare il diritto di abbandonare l’operazione a causa delle “avverse condizioni di mercato”.

Nel caso in cui le banche abbandonino il piano di capitalizzazione, secondo il quotidiano finanziario lo Stato italiano nazionalizzerà Mps. AGI

Trump: I Will Abolish The Federal Reserve

Posted on December 4, 2016 by Sean Adl-Tabatabai

Donald Trump has vowed to abolish the Federal Reserve and reinstate the gold standard when he enters the White House in January. 

 One of Trump’s picks for the Treasury Department Secretary, John Allison, hinted that he will implement the gold standard when the current Federal Reserve Chief, Janet Yellen, retires in 2018.

Conservativedailypost.com reports:

On the campaign trail, Trump often questioned the future of the Federal Reserve’s political independence. In line with these comments, Allison wants to abolish Federal Reserve all together and go back to the gold standard.

In fact, Allison takes that rhetoric one step further. While acting as the head of the Cato Institute, Allison published several thesis indicating that the Federal Reserve was obsolete and needed to be abolished as it restricts power from the people and allows billionaire cronies to run banks globally.

“I would get rid of the Federal Reserve because the volatility in the economy is primarily caused by the Fed,” Allison wrote in 2014 for the Cato Journal.

As an alternative, Allison argues that if we allow the market to regulate itself, it would be preferable to the Federal Reserve harming the stability of the financial system.

 “When the Fed is radically changing the money supply, distorting interest rates, and over-regulating the financial sector, it makes rational economic calculation difficult,” Allison wrote. “Markets do form bubbles, but the Fed makes them worse.”

The United States never had a persistent, ongoing problem with inflation until the Federal Reserve was created in 1913. This chart alone proves that theory:

Before and after federal reserve

The Federal Reserve systematically penalizes those that try to save their money. Inflation is a tax, and the value of each one of our dollars goes down a little bit more every single day.

The Federal Reserve system was also designed to trap people. The intent of the bankers was to trap the U.S. government in an endless debt spiral from which it could never escape, and most Americans don’t understand this. In fact, most Americans don’t even understand where money comes from or how he value it.

Point blank, the Federal reserves needs to be abolished if we are ever going to reduce our national debt, create jobs, and give more power back to the people.

A vast majority of these proposals are directly aligned with Donald Trump’s desire to rollback regulations— including Dodd-Frank — on financial institutions, as well.

It would provide a more stable means for markets as well as allowing the monopolization of banks to be broken down instead of allowing less than ten people to control all of the worlds banks.

The Federal Reserve is at the heart of most of the economic woes facing the US. Endless borrowing and money printing will result in massive inflation, and interest rates cannot stay low forever. We could very well see the market collapse again if we do not make drastic changes.

Trump’s meeting is more than notable, it is almost groundbreaking. No president has dared to take power away from the Rothschilds’ and other billionaire elites that control all of the worlds banks.

We could possibly be taking steps to eliminate one of the most corrupt banking schemes to ever take hold in this country.

Should Donald Trump work to abolish the Federal Reserve?

http://yournewswire.com/trump-abolish-federal-reserve/

Trump alle aziende: “Punirò chi va all’estero”. E spunta il n.1 di Exxon per il dopo Kerry

L’annuncio su Twitter: dazi del 35% sui beni delle “compagnie che lasceranno il nostro Paese, licenzierà i dipendenti o costruirà una fabbrica altrove”. E spunta il nome del numero uno di Exxon Mobile come prossimo segretario di StatoTrump-Tariff

New York, 4 dicembre 2016 – Nuova mossa via twitter del presidente eletto Donald Trump, che ora minaccia di punire severamente le aziende che decidono di trasferire le proprie attività all’estero. Trump insomma ricorre al tradizionale bastone e carota per convincere le società a stelle e strisce a lasciare la produzione, e conseguentemente i posti di lavoro, in Usa.

Trump vorrebbe ridurre l’aliquota al 15% dall’attuale 35% mentre ha annunciato oggi che imporrà dazi del 35% su ogni bene prodotto da “qualsiasi compagnia che lascerà il nostro Paese, licenzierà i propri dipendenti o costruirà una nuova fabbrica in un altro e che alla fine rivenderanno i prodotti (creati all’estero) negli Usa”.
Questo, in sintesi, il senso di uno tsunami di tweet con cui Trump ha inondato la rete stamane. Tweet in cui peraltro si è limitato a confermare quanto già annunciato in campagna elettorale. In particolare mentre sull’abbassamento della coporate tax al 15% – finora solo promessa in campagna – c’è stato un coro di consensi unanime, alcuni economisti ritengono che la politica protezionistica di Trump potrebbe danneggiare in primis l’economia Usa.

Anche il Wall Street Journal di Rupert Murdoch ha criticato l’eventuale tassa: per la Bibbia di Wall Street Trump non dovrebbe interferir con le decisioni delle società che vanno lasciate libere di massimizzare i loro profitti. Tra l’altro Trump ha l’enorme vantaggio di partire con la disoccupazione al minimo dal 2006 (4,6%), prima dello scoppio della crisi di Wall Street, così come nel 2000 George W.Bush si trovò da Bill Clinton in eredità un avanzo di bilancio di 1.000 miliardi di dollari.

Intanto, continuano le ricerce del futuro segretario di Stato dell’amministrazione Trump. E secondo il Wall Street Journal, nella rosa dei nomi papabili è spuntato anche quello di Rex Tillerson, numero uno di Exxon Mobile, il colosso energetico che è il più ricco al mondo dopo Apple, e che negli scorsi anni ha chiuso molti accordi energetici con il leader russo Vladimir Putin ed è quindi contrario alle sanzioni contro Mosca. Alla Exxon dal 1975, Tillerson ha 64 anni e viene dal Texas: dovrebbe andare in pensione il prossimo anno. Quello di Tillerson, comunque, è solo uno dei nomi possibili.

In ballo resta anche un altro candidato, che anziché alla Russia guarda questa volta alla Cina: è Jon Huntsman, l’ex ambasciatore Usa a Pechino. Diplomatico in Cina e a Singapore, Huntsman ha 56 anni ed è stato anche governatore dello Utah. Nel 2012 si è candidato alla Casa Bianca, ma è uscito di scena alle primarie repubblicane (vinte poi da Mitt Romney). Le quotazioni di Huntsman come segretario, comunque, parrebbero però al momento in calo: molti fedelissimi di Trump infatti si sono opposti a questo incarico per l’ex governatore, accusandolo di avere contrastato il tycoon durante la campagna elettorale. Allo stesso modo sembra ormai fuori dalla gara sembra anche l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani. Restano invece in corsa l’ex generale e direttore della Cia David Petraeus e il senatore Bob Corker.

http://www.quotidiano.net/esteri/donald-trump-1.2729315

Austria, ballottaggio all’ultimo voto. L’ultradestra sogna la presidenza

I “populismi” che avanzano e che tanto turbano i sogni dell’elité e della finanza, prima la Brexit, poi le elezioni in Bulgaria e Moldavia che vedono le formazioni anti Ue e filorusse vincere, Trump negli Usa, non possono certo perdere altri pezzi. Con il precedente dei brogli in Austria, i sondaggi che davano Hofer in vantaggio, certo, come non credere che non vi siano stati anche questa volta dei barbatrucchi? Non possono sempre uccidere i candidati.

Austria, ballottaggio all’ultimo voto. L’ultradestra sogna la presidenza

Hofer avanti nei sondaggi. I Verdi sperano in un’altra rimonta

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Alexander Van der Bellen e Norbert Hofer (Afp)

Berlino, 4 dicembre 2016 – LA TERZA VOLTA dovrebbe essere quella al di sopra di ogni sospetto, di brogli ed errori, e gli austriaci potrebbero ritrovarsi oggi con il primo presidente della Repubblica in Europa eletto con i voti dei neonazisti. Alla vigilia, in base ai sondaggi si trova in vantaggioNorbert Hofer, il candidato del Fpö, sul verde Alexander Van der Bellen, per 51 a 49. Il più giovane ed estremista, contro l’anziano e democratico. Sarà una sfida all’ultimo voto (gli elettori sono quattro milioni e mezzo), e si teme che per la conta serviranno almeno tre giorni. A Vienna si promette che gli exit poll saranno comunicati già poco dopo la chiusura delle urne, alle 17, ma a meno di un improbabile netto scarto tra i duellanti, servirà una buona dose di pazienza. E non è escluso che il perdente presenti un ennesimo ricorso chiedendo di controllare scheda per scheda. Il 22 aprile, al primo turno con sei candidati, Hofer prevalse con il 35 %, e van der Bellen si piazzò secondo con il 21. La finale tra i due, il 22 maggio, sembrava decisa in partenza, ma van der Bellen compì una rimonta imprevista prevalendo sul filo di lana: 50,3 contro 49,7. Hofer denunciò diverse irregolarità: i 700mila voti per lettera erano stati conteggiati in anticipo, e il risultato venne rivelato mentre l’elezione era ancora in corso. La Corte Costituzionale gli diede ragione, anche se non erano stati commessi brogli, e van der Bellen non poté entrare in carica come previsto l’8 luglio.

IL NUOVO appuntamento per il due ottobre fu annullato in extremis: migliaia di buste elettorali erano difettose, a causa della colla che non garantiva una chiusura perfetta. Una storia grottesca protratta per otto mesi. Hofer, 45 anni, disabile a causa di un incidente in deltaplano, spera in un effetto Trump che dovrebbe favorire tutti i populisti d’Europa, dalla Francia all’Italia. «Ma io non ho i capelli di Donald», scherza l’erede di Jörg Haider. Secondo alcuni analisti, il risultato americano potrebbe invece avere un effetto negativo, spaventando l’elettorato moderato. Hofer ha cavalcato anche la paura per l’invasione islamica, secondo lui provocata «dall’irresponsabile Merkel». Ma un anno dopo, la situazione sembra che si stia normalizzando. L’esodo via terra attraverso i Balcani è bloccato, e i fuggiaschi giungono quasi tutti in Italia. Van der Bellen, 72 anni, economista in pensione, benché meno impetuoso dell’avversario, potrebbe convincere gli austriaci a fidarsi di lui: l’Austria non deve avere paura. Nell’ultima sfida in tv, lo scorso giovedì, entrambi i duellanti sono apparsi stanchi, si sono insultati a vicenda, ma i toni erano meno accesi che in primavera. Nelle ultime ore per il centro di Vienna si sono avute manifestazioni di estremisti, contro gli stranieri, con slogan copiati dal III Reich. Invece di aiutare Hofer, potrebbero fargli perdere i pochi voti decisivi.

di ROBERTO GIARDINA

Ultimo aggiornamento: 4 dicembre 2016
http://www.quotidiano.net/esteri/austria-ballottaggio-1.2727052

Il vero quesito è sulla sovranità

C’è un sesto quesito nascosto tra le righe del   “Referendum costituzionale”, un  quesito che compendia gli altri cinque, stampati sulla scheda: “Siete disposti a cedere la vostra sovranità ?”refinganno

La domanda è tutt’altro che fantasiosa. Sgombrato il campo dalla “pubblicità ingannevole”, diffusa, a piene mani,  dai paladini del , l’essenza del referendum  – a ben leggere – è tutta interna al tema della sovranità, diversamente declinata.

Intanto c’è la sovranità politica, quella che – secondo la Costituzione – appartiene (apparterebbe ?) al popolo. Su questo versante la riforma voluta da Matteo Renzi va giù dura. Il Senato non sarà eletto direttamente dai cittadini (in attesa che una legge ordinaria determini le modalità di scelta da parte delle Regioni e delle “aree vaste”). Stesso discorso per le ex province, nominalmente abolite, ma sostituite dalle aree metropolitane, rette da consigli  metropolitani eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni delle stesse aree. Compendio di questa spogliazione della sovranità popolare è la legge elettorale costruita intorno ad  un premio di maggioranza (340 seggi su 630) alla lista che ottiene  più del 40 per cento al primo turno (o che vince al ballottaggio). Per non parlare del nuovo centralismo burocratico, nascosto nella “revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, con il quale le più importanti decisioni che riguardano la vita dei cittadini e le esigenze dei territori saranno prese  da schiere di “tecnici” ministeriali  privi della conoscenza dei problemi locali, in spregio ai valori della sussidiarietà e della partecipazione che hanno sempre segnato lo sviluppo nazionale.

In linea con questi orientamenti   c’è la spogliazione della  sovranità sociale, realizzata con la  soppressione del CNEL. L’abolizione del Consiglio non può essere giustificata  da una generica  politica delle semplificazioni e dei risparmi. I circa venti milioni di Euro spesi dallo Stato per mantenere in vita il CNEL (tra costo della sede, personale, consiglieri e presidente)  sono  ben poca cosa, di fronte ai buchi e agli sprechi del bilancio pubblico. La questione – diciamolo  chiaramente – è “di sostanza”. Con l’eliminazione di uno degli “organi ausiliari”, previsti dalla Costituzione,  si vuole porre fine all’ultimo, debole tentativo di  dare spazio e voce alla rappresentanza per categorie e agli interessi organizzati della società civile (dei 64 consiglieri – non dimentichiamolo –  10  sono “qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica”;  48 sono  “rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nei settori pubblico e privato”, di cui: 22 rappresentanti dei lavoratori dipendenti, tra i quali 3 “rappresentano i dirigenti e i quadri pubblici e privati”; 9 rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni; 17 rappresentanti delle imprese; 6 rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni del volontariato). E’ il Paese Reale che trova e potrebbe ancor più trovare nel CNEL un utile strumento di rappresentanza/mediazione, finalmente fondato sulle competenze del Corpo Sociale della Nazione. Perché privarsene ? Per risparmiare qualche decina di milioni ? Una ben magra prospettiva, laddove il Consiglio dovrebbe  rappresentare quello spazio istituzionale finalizzato alla condivisione e al dialogo sociale, oggi “ideologicamente” depotenziati dal governo in carica.

 Last but not least, c’è la sovranità nazionale. Mai come in questa occasione essa è stata messa in discussione, direttamente ed indirettamente, dai potentati esteri. Ha iniziato, nel settembre scorso, l’ambasciatore Usa a Roma, John R. Phillips, che – senza mezzi termini  ed andando ben oltre il suo ruolo di “rappresentante” in Italia di uno Stato estero – ha lanciato l’ endorsement a favore del  (“Il  sarebbe una speranza per l’Italia, mentre se vincesse il no sarebbe un passo indietro”) , paventando, in caso di vittoria del no, una riduzione degli investimenti americani nel nostro Paese. Non è stato da meno lo stesso Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che, in occasione della visita di Renzi alla Casa Bianca,  è arrivato a dichiarare: “Il  può aiutare l’Italia”. “Matteo ha fatto riforme giuste e coraggiose”. Per concludere  addirittura: “Non voglio interferire, ma tifo Renzi”. Ecco poi arrivare  l’agenzia di rating Fitch, che per bocca del suo managing directorEdward Parker dichiara  : “Un’ eventuale vittoria del no sarebbe negativa per l’economia del Paese e per il suo merito di credito”. Via  via gli “altri”: banchieri, Banca centrale europea con Draghi, grandi agenzie finanziarie, Barclays, Morgan Stanley, Credit Suisse, Stadard&Poor’s, Deutsche Bank. Il 98% dei manager interpellati da Bloomberg si è dichiarato a favore del .

Parola d’ordine la “volatilità del mercato” l’ incertezza, cioè, sui valori del prezzo di un bene o sui movimenti finanziari,  l’andamento delle Borse, la risalita dello spread. Giusto per tranquillizzare gli investitori, da parte sua,  l’agenzia finanziaria Morgan Stanley, in caso di vittoria del no è arrivata a mettere in dubbio la  stessa ricapitalizzazione di Monte dei Paschi. E poi la “grande” stampa internazionale, con Wall Street Journal Financial Times che, in caso di vittoria del no, arrivano a pronosticare un’Italia fuori dall’euro.

A questo punto il quadro degli interessi in campo appare chiaro.

Siamo veramente all’ultima spiaggia di una battaglia che va oggettivamente ben oltre i cinque quesiti referendari. O di qua o di là. O dalla parte di una riaffermata volontà di ripresa della sovranità nazionale  ovvero della sua cessione. Chi vuole intendere intenda, per non doversi pentire il giorno dopo. Perché allora sarà troppo tardi.

di Mario Bozzi Sentieri – 27/11/2016 Fonte: Arianna editrice

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=57787

La riforma Renzi non é (solo) una riformaccia nel merito: la Costituzione andrebbe riscritta per intero

mani2La Renzi-Boschi-Jp Morgan non è una riforma e non è soltanto una riformaccia: è una riformicchia. Sì è vero, tocca ben 47 articoli della Costituzione, alla rinfusa. Mira a svuotare, di fatto, quel poco e maldestro federalismo introdotto nel 2011 dal centrosinistra che riscrisse il Titolo V (le materie oggi “concorrenti” fra Stato e Regione tornerebbero, nelle intenzioni dei neo-centralisti renziani, di esclusiva spettanza di Roma, «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»). Prevede un comico abbassamento del quorum nei referendum, non più il 50% degli aventi diritto ma la metà dei votanti alle ultime politiche, con il contentino dei nuovi referendum propositivi e d’indirizzo (e non più soltanto abrogativi, alzando tuttavia il numero di firme a 800 mila, a 150 mila per le leggi di iniziativa popolare).

Fa risparmiare la miseria di 48 milioni per ridurre da 315 a 100 i senatori, e 8,7 milioni chiudendo il Cnel (unica novità da sottoscrivere in toto: già nel 1978, l’ex presidente della Costituente, il comunista Terracini, sottolineava che anziché essere «la sede naturale della mediazione fra lavoratori e datori di lavoro», non si era mai discostato dall’essere «un organo inesistente»). Illude di spingere sulla velocità di approvazione delle leggi, falso clamoroso: di leggi se ne sfornano a iosa, il ritmo dipende unicamente dalla volontà politica dei partiti, dalla qualità dei peones in aula e in commissione, dalle loro beghe, tattiche e giochetti di retrobottega.

Se sommiamo il tutto, cosa resterebbe in mano se vincesse il Sì? Quel che serve al signor Renzi per compiacere i comitati d’affari stranieri, blandire l’elettorato alla Cracco che si beve il riformismo purchessia, gettare le fondamenta di un partitone di centro che contemporaneamente elida gli scocciatori della sinistra interna Pd e assorba i senza fissa dimora a destra. Cercando di riuscire là dove tre commissioni bicamerali dal 1983 a oggi (Bozzi, De Mita, D’Alema) non sono riuscite, passando così alla Storia. O di uscirne comunque bene, personalmente più forte, se gli dicesse male nel caso di vittoria del No ma con un Sì sopra il 40%. Perché tutti quei voti favorevoli, dal primo all’ultimo, se li intesterà lui e solo lui,in un referendum che è in realtà un referendum su Renzi. Vince anche se perde, il Machiavelli per meno abbienti.

Ma, per cambiare l’Italia come da slogan governativo, bisognerebbe cambiarla interamente, la sacra Carta. Che sacra non è: scritta da mortali in un determinato periodo storico, è un prodotto storico, mortale e rivedibile. Non è l’appendice dei Dieci Comandamenti. E con tutto il rispetto, chi se ne importa di cosa scrive l’Economist (che non è il Vangelo e non è nemmeno così straniero e neutro: il primo azionista col 43% è la Exor degli Agnelli). Il bicameralismo andrebbe abolito tout court, anziché perpetuarlo in un Senato-pastrocchio, ridotto a camera d’evasione romana per consiglieri regionali e sindaci che potranno frequentarlo poco e quindi male (ma col beneficio dell’immunità parlamentare). Senza per altro assicurare che la “navetta” (l’andirivieni legislativo fra i due rami del Parlamento) sia eliminata, visto che il Senato continuerà a poter inserirsi sempre, sia pur entro 30 giorni, mantenendo potestà piena su leggi costituzionali e garantendosi di far tornare alla Camera quelle riguardanti le Regioni e i trattati internazionali (cioè in pratica il nevralgico campo dei rapporti con l’Unione Europea). Il federalismo andrebbe rafforzato, o per meglio dire fatto seriamente. Non come oggi, litigiosamente, vedi la battaglia vinta alla Consulta dalla Regione Veneto a guida Zaia contro il decreto Madia, che Renzi ha avuto gioco facile a girare a suo favore, come esempio di un’Italia «bloccata».

Ma soprattutto sarebbe il caso di fare le persone serie, indire un’Assemblea Costituente e ripensare la Costituzione fin dall’articolo 1, dato che la sovranità non appartiene più al popolo italiano da un pezzo. Sicuramente a partire dal 2012, quando di soppiatto fu stravolto l’articolo 81 introducendo non già il pareggio di bilancio, come si vuol far credere, ma costituzionalizzando il debito: l’«indebitamento» diventa ammissibile in casi di calamità naturali o per combattere i cicli economici negativi, tanto che è stato abrogato il divieto di stabilire nuove spese o tributi; e questo per rispettare gioiosamente il Fiscal Compact, il pazzesco trattato europeo del 2012 che ci impegna a ridurre il debito di 50 miliardi l’anno fino al 2032, condannandoci ad una politica di austerità (tasse e tagli) eretta a norma costituzionale. A questo punto il nostro quotidiano lavoro su cui si fonda la beneamata Repubblica, ammesso e non concesso sia mai stato un valore, è diventato un disvalore: perché dovremmo lavorare per pagare un debito inestinguibile in un’Europa-gabbia? No, non basta un Sì. Magari bastasse. Meglio votare No.

di Alessio Mannino – 27/11/2016

Fonte: vvox

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=57786