Le mani di JP Morgan sul referendum costituzionale

Quel che i media non dicono (se non poche sporadiche fonti “di nicchia”, prevalentemente on line) è che la “controriforma” (anti)costituzionale Boschi-Renzi è stata direttamente insufflata da JP Morgan Chase. C’è il PDF  di 16 pagine, già più volte postato nel corso dei commenti di questo blog. Ma soprattutto ci sono al suo interno delle frasi topiche ed esemplificative che parlano chiaro circa le loro intenzioni. Ma ciò non basta ancora renzijpa renderci conto di che cosa perdiamo se non riusciamo a far prevalere il nostro più che legittimo NO.

 Innanzitutto però un po’ di storia su questo colosso bancario che si è spacchettato in mille rivoli e ha subito numerose fusioni e mutazioni nel corso del tempo. Detta banca americana viene ritenuta responsabile della bolla dei mutui sub-prime che ha scatenato la grave crisi mondiale del 2008.
 L’attuale struttura JP Morgan Chase è nata nel 2000 dalla fusione di due grandi gruppi: JP Morgan e Chase Manhattan. Quasi un migliaio gli antenati (banche di credito ordinario, banche d’affari e holding) confluiti nel corso di oltre due secoli nell’attuale istituto. Nel 1799 Aaron Burr (poi vice presidente americano) fonda la Bank of the Manhattan Company. Nel 1871 il finanziere John Pierpont Morgan e il banchiere di Filadelfia Anthony Drexel fondano la Drexel, Morgan & Co, che poi sarebbe diventata la JP Morgan & Co. Nel 1877 John Thompson (editore e finanziere di Wall Street) fonda la Chase National Bank, che nel 1930 diventa il più grande istituto di credito del mondo. Nel 1930 Chase National Bank si fonde con la Equitable Trust Company, controllata dalla famiglia Rockefeller. Nel 1955 Chase National Bank e Bank of the Manhattan Company si fondono nella Chase Manhattan Bank. Nel 2000 con la fusione tra Chase Manhattan e JP Morgan & Co. Nel 2004 l’azienda acquista la Bank One of Chicago, quinto gruppo bancario Usa. Nel settembre 2013 è stata condannata dalla Securities and Exchange Commission Usa a pagare una multa di 920 milioni di dollari per la mancanza di supervisione e la gestione del rischio carente che avevano permesso ai trader di derivati della sua sede di Londra di creare un buco da 6,2 miliardi di dollari nel 2012.
• La sede del colosso bancario si trova al 270 di Park Avenue, Manhattan, New York. (fonte Corriere).
 JP Morgan dispone anche di filiali in Italia, la cui evoluzione  potrete trovare sul Sole 24 ore (La Storia di JP Morgan in Italia). Raccomando di leggere in particolare i passaggi relativi dagli anni ’90  fino al 2015: ne scoprirete delle belle!
 Ma torno al PDF  (cliccare) del 28 maggio 2013 di 16 pagine dal titolo “Aggiustamenti nell’area euro” (The Euroarea adjustmentabout halfway there” ) nel quale si spiega per filo e per segno come vanno “riformati” i paesi del Sud Europa, tra i quali, ovviamente,  spicca l’Italia. E’ qui che JP Morgan scrive a chiare lettere che la costituzione deve essere cambiata.
«Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del Sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea».
E ancora:
«I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”
Pertanto: «I sistemi politici e costituzionali del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».
I numerosi indizi che testimoniano un rapporto  reale, ancorché non istituzionalmente documentato tra Renzi e JPMorgan, complice anche l’ex primo ministro inglese Tony Blair,  hanno spinto l’ Adusbef (l’associazione in difesa dei consumatori e utenti bancari, finanziari e assicurativi), a denunciare il premier italiano alla Procura di Roma per alto tradimento.Secondo l’associazione, infatti, l’intera riforma costituzionale messa alla prova al referendum del 4 dicembre sarebbe frutto di accordi privati e di comodo tra Renzi e l’istituto finanziario americano.
Come appena detto, il primo filo conduttore è Tony Blair, ex primo ministro del Regno Unito e consulente pluriennale per l’americana JPMorgan.
Dell’incontro a cena  tra Renzi e Blair (foto sopra) ho già dato conto nel post del 30 settembre scorso .
Renzi, Blair e il numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon, si sono incontrati più volte in occasioni non istituzionali. A partire dalla  fatidica cena a Palazzo Corsini a Firenze, alla quale Jamie Dimon invitò l’allora sindaco fiorentino Matteo Renzi e Blair. Poi ancora nel 2014, con un Renzi in veste assai diversa: divenne primo ministro italiano.
Riepilogando, ecco almeno sette importanti indizi  inseriti in sequenza cronologica dal sito Forex :
  • 1 giugno 2012 – Renzi è invitato alla cena presso palazzo Corsini organizzata dal grande istituto finanziario a Firenze, nella veste di sindaco della città. A mandare l’invito è Jamie Dimon, CEO di JPMorgan. Presente anche Tony Bair, allora già non più primo ministro inglese, ma lobbista per conto della banca. Nessun report, nessuna notizia sui contenuti dell’incontro.28 maggio 2013 – JPMorgan divulga il tanto discusso report dal titolo “Aggiustamenti nell’area euro” già ampiamente discusso  e di cui ho fornito degli estratti in corsivo.1 Aprile 2014 – Renzi visita l’ambasciata italiana a Londra a poco meno di due mesi dalla nomina a presidente del Consiglio, ospite di Pasquale Terracciano. Presente anche Tony Blair, con il quale Renzi discute in in privato. Due giorni dopo Blair definirà Renzi «mio erede» in un’intervista a “La Repubblica”.6 luglio 2016 – Questione MPS: ad inizio  dell’anno Renzi invita ad investire su MPS, “ormai risanata, su cui investire è un affare”. In estate Jamie Dimon, CEO di JPMorgan, convince Renzi a lasciargli campo libero su MPS, con la conseguente rimozione di Viola dal ruolo di ad.8 settembre 2016 – Fabrizio Viola si dimette da ad di Monte Paschi. «Alla luce delle perplessità espresse da alcuni investitori in vista del prossimo aumento di capitale e d’accordo con la Presidenza del Consiglio, riteniamo opportuno che lei si faccia da parte», racconterà Viola circa la chiamata ricevuta da Padoan, ministro dell’economia.13 ottobre 2016 – Al via al terrorismo dell’agenzia di rating Moody’s, per cui «con il no al referendum rischi per l’aumento di capitale di Mps».25 ottobre 2016 – Il futuro di MPS viene ancorato alla vittoria del SI al referendum costituzionale da tutte le grandi banche internazionali. Alla guida di MPS, da un mese, Marco Morelli – ex di JPMorgan. (altra coincidenza!)
Come si può  vedere, alla fine tutto torna al pezzo: gli indizi e i sospetti di trame torbide si sprecano e le ragioni per assestare un grande e grosso NO il 4 dicembre prossimo, si moltiplicano ogni giorno che passa.
Fermiamo i traditori del nostro Paese!

Il voto referendario tra governance e sovranità

La complessità della riforma costituzionale pone, tra i primi interrogativi, quello relativo alla consapevolezza degli elettori circa l’ubi consistam del referenreferendum4dicdum che si svolgerà il 4 dicembre.

Il confronto tra le parti, o meglio le scaramucce tra gli alfieri del “Sì” e del “No”,  si sono infatti basate, ad oggi, più sul piano delle mozioni emotive (“sblocchiamo l’Italia”, “mandiamo Renzi a casa”, “No alla riforma voluta dalla Goldman Sachs”, “difendiamo la Costituzione”, “ce lo chiede l’Europa”, fino alla sempiterna evocazione della lotta tra fascismo e antifascismo), a scapito  della diffusione di argomentazioni comprensibili (perlomeno ai più) di architettura costituzionale.

Ed è pertanto realistico affermare che il voto non si esprimerà, generalmente, in base alla consapevolezza della scelta circa il migliore -o il meno peggio- modello costituzionale, bensì su antipatie/simpatie o, in definitiva, sulle consueta dinamica delle opposte tifoserie (simulacro di quello scontro tra opposti estremismi, ormai svuotato di senso da un quarto di secolo vissuto all’insegna della deideologizzazione degli schieramenti).

Un dato emblematico del dibattito è però costituito dal fatto che il concetto di “governabilità” sta assumendo maggior rilevanza rispetto a quello di “sovranità”.

Piacerebbe, a chi scrive, che il confronto/scontro tra le due fazioni referendarie fosse riconducibile alla contrapposizone tra chi vuole “governare la globalizzazione” e chi rivendica la primazia della “sovranità popolare”, senonchè sappiamo che il concetto di sovranità popolare in Italia è sempre stato alquanto fumoso e -se rapportato alla prassi- vicino all’inconsistenza, tant’è che la stessa Unità d’Italia, quella su cui secondo Massimo d’Azeglio dovevano “farsi” gli italiani, nasce da piccole guerre d’annessione volute e combattute da minoranze e non già da un’insurrezione del popolo intero, tant’è  che il tema della conquista sabauda è icasticamente rappresentato dal fatto che il primo Re dell’Italia unita si chiamerà Vittorio Emanuele II (secondo), così come la prima legislatura dello Stato unitario sarà chiamata VIII (ottava) legislatura.

E a  conclamare la realtà dell’annessione sarà poi la scelta di far dello Statuto albertino la carta fondamentale del Regno italiano, anziché dar vita ad una assemblea costituente.

Del resto anche l’unica  “rivoluzione” che l’Italia ha conosciuto (o che si è definita tale) è stata sui generis visto che il capo dei rivoluzionari, anziché spodestare il Re, riceverà da lui il mandato di formare il governo.
E la particolarità delle cose italiane la troveremo anche nella formulazione di alcuni articoli della  Costituzione italiana del 1948, laddove la stessa Assemblea Costituente che un anno prima aveva ratificato il Trattato di pace di Parigi che minava fortemente la nostra sovranità nazionale e popolare (quest’ultima ulteriormente penalizzata dai canoni dell’accordo di Yalta) sancirà, all’art. 1, che la questa (limitata) sovranità appartiene al Popolo, il quale ad oggi non è però riuscito ad esercitarla adeguatamente, tanto da diventare -nella prassi- poco più che una figura retorica,

E di tanto ci si rende conto analizzando la stessa giurisprudenza costituzionale che, grossomodo dal 1989,  muta l’orizzonte di interpretazione della costituzionalità delle leggi: assistiamo infatti alla transizione dalla “Costituzione dei poteri”  alla “Costituzione dei diritti”, si registra, cioè, un processo di rideterminazione del “Bene/Valore” costituzionale di riferimento, processo che coincide  con  l’indebolimento delle strutture intermedie (partiti, sindacati, istituzioni), le quali -al pari del Parlamento- si dimostrano sempre più inidonee a comporre nella dimesione politica  le problematiche portate dalle nuove dinamiche sociali e dall’avvento del Mercato come attore globale.

Assistiamo così, contestualmente al declino dell’impegno politico di massa,  all’impatto della strategia dei diritti -sempre più individuali- sulla cultura diffusa, un impatto che sposta l’orizzonte politico e l’attenzione pubblica dai problemi collettivi, che riguardano il potere e le sue radici, e -in ultima analisi- la democrazia, alle vicende dei singoli, attribuendo, ai giudici il ruolo di custodi delle aspettative di giustizia: in assenza di mediazione politica il ricorso ai Tribunali -una volta percepita come extrema ratio- diventa invece strategia politica primaria: basti pensare a quanto è successo per le Unioni Civili, la Stepchild adoption o, ancor più di recente, sulla questione del doppio cognome.

L’assenza del popolo e, di conserva, di organismi esercenti la sovranità politica, porta dunque a sostituire il soggetto “Popolo” con il soggetto “Individuo”: il dialogo non è più tra il cittadino, attraverso i corpi intermedi,  e le Istituzioni,  ma assume carattere dialogico tra l’individuo astratto, neutro portatore di diritti, e il potere giudiziario.

E in questa dialettica viene a cadere ogni concetto di autoderminazione dei Popoli e con essa la sovranità statale: come la potestà degli Stati non ha resistito alle leggi del Mercato, così rincula dinanzi alla rivendicazione dei diritti assoluti dell’individuo neutro.

Come ha preconizzato Pietro Barcellona, i diritti civili “sono stati l’utopia più potente che l’Occidente abbia prodotto, perché attraverso essi vengono distrutti i vecchi legami che opprimevano l’individualità. Ma la distruzione dei legami premoderni era contestuale all’Istituzione della Repubblica e della democrazia. I nuovi cittadini appartenevano alle Nazioni. Oggi i diritti umani sono punti di riferimento. Se non c’è città non possiamo parlare di cittadini, i cittadini del mondo sono cittadini del nulla.”

In uno scenario in cui i diritti degli individui contano più di quelli dei popoli, la sovranità popolare si conferma la grande assente di questo tentativo di riforma costituzionale, improntata alla esigenze della governance, dell’efficientismo e del risparmio, parole che rimandano a una grammatica della finanza, del Mercato e non già della politica.

In Italia abbiamo un’infinità di leggi e francamente non si sente la necessità di leggi “più veloci”, ma di leggi migliori, più giuste, che guardino più al bene comune che agli interessi particolari individuali o di gruppi, che siano ispirate alla tutela dell’interesse nazionale e della cittadinanza e non delle agenzie di rating, degli speculatori e di chi è più sensibile a quel che “chiede l’europa” rispetto a quel che chiede il proprio popolo.

Questioni che, ahimè, non saranno risolte dall’esito del referendum, qualunque esso sia.

di Lorenzo Borrè – 14/11/2016

Fonte: Katehon

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=57670

NO a Riforma che toglie al Parlamento i poteri di guerra

Fonte: Megachip

Intervista di Rossella Guadagnini al generale Fabio Mini (*)
Riforme, democrazia, governabilità e inganni. Ne parliamo con una voce fuori dal coro, un uomo che per 46 anni è stato nelle Forze Armate e oggi si definisce molto progressista. Ci racconta di una legge ‘immaginaria’ e di un Parlamento ‘defraudato’, di una maggioranza non rappresentativa del Paese e di una ‘guerra fredda interna’ all’Italia. Di spazi informativi pubblici a favore del marketing governativo e di una grande festa della dis-unità a cui, volenti o no, siamo tutti invitati.riforma2
D. Generale Fabio Mini cosa pensa delle riforme costituzionali?
R. Non sono contrario alle riforme costituzionali, ma sono nettamente contrario a questa riforma. Respingo il sillogismo che chi vota “sì” vuole un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende dividere gli italiani ed io penso invece che una Costituzione debba unire i cittadini.
D. Il fronte del No è molto variegato e ispirato da ideologie addirittura opposte: come si conciliano?
R. Personalmente, mi schiero con il No proposto da un Movimento di cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e  intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. Non condivido l’obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da partiti e movimenti d’ispirazione fascista, veterocomunista, populista e quant’altro, che vogliono soltanto la caduta del governo. Non condivido le loro finalità, ideologie e prassi, ma riconosco legittime e fondate alcune delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a fare del No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di un pensiero unico, e quindi – nel suo complesso – essenzialmente democratico.
D. Con il No cosa succederebbe al Governo ?
R. Non collego il No alla caduta del Governo. Penso che sia stata una grossa sciocchezza legare il Referendum alla sopravvivenza politica del capo del Governo: un narcisismo inopportuno che non è finito con la tardiva e strumentale ammissione dell’errore. Anzi è stato fatto qualcosa di peggio, perché tutto l’esecutivo, a partire dal suo vertice, ha riversato sull’Italia la prospettiva di fallimento e sfascio nazionale in caso di prevalenza del No, alimentando così la disunione all’interno e i sospetti d’instabilità nazionale all’esterno. Viste le conseguenze in campo internazionale e nella speculazione economica a danno dell’Italia, questa operazione, in altri tempi e Stati, sarebbe stata considerata e perseguita come “Alto tradimento”. Da noi è una “furbata”. Dopo il voto ciascuna parte politica dovrà trarre le conclusioni e agire di conseguenza, ma se il Referendum non realizza una massiccia affluenza alle urne nessuno potrà veramente cantare vittoria: avrà perso l’Italia. E il conteggio dei voti dovrà far riflettere invece di far gioire. La prevalenza risicata del “si” inasprirà ancor di più il clima politico e indurrà il Governo a irrigidirsi su posizioni non condivise. Secondo me, tutto questo porterà nel giro di breve tempo alla fine dell’esecutivo o della stessa legislatura. Se dovesse prevalere il No, tecnicamente sarebbe soltanto il rinvio della Riforma e con questo Parlamento il Governo potrebbe restare in carica fino al termine di legislatura. Ma gli equilibri politici sarebbero mutati e il Governo non potrebbe imporsi sul Parlamento come ora. Non è detto che questo sia necessariamente un male. Inoltre, se oggi il No di altri gruppi tende solo allo sfascio del Governo bisogna riflettere sulle ragioni e le responsabilità di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso democratico non ha avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando quasi mezzo Parlamento è costretto a lasciare l’aula, per non essere coinvolto in uno schema  che non condivide e i restanti festeggiano come allo stadio, si celebra l’effimera vittoria di una parte e si detta il necrologio della democrazia.
D. Entrando nel merito della riforma, perché vota NO?
R. E’ stato detto che questa riforma, “dopo un dibattito trentennale infruttuoso e controverso”, era diventata improcrastinabile. Non è stato detto che la controversia non derivava dalla carenza di norme, ma dalla necessità (riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con il più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo dell’articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati tra Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione intendeva promuovere un largo consenso. Tant’è che nel caso esso fosse venuto a mancare si prevedeva la possibilità di ricorrere alla consultazione diretta del popolo. Ora, si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa della Nazione. Abbiamo assistito a manovre di qualsiasi genere, a ricatti politici, disinformazione, emarginazione dei dissidenti o soltanto dei non favorevoli, sostituzione di membri di commissioni parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi, promesse populistiche, ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro. Di peggio è avvenuto nell’ombra. La forma non è stata violata, ma il metodo si è rivelato ingiusto e scorretto perché nel frattempo la rappresentatività parlamentare e governativa era passata, con successive “porcate” e “leggi incostituzionali”,  dal sistema proporzionale a quello maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della riforma erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di manipolazione.
D. Lo ritiene un fenomeno nuovo?
R. No, ma nel passato, quando gli obiettivi delle riforme costituzionali erano chiari, puntuali e condivisi sono state promulgate leggi costituzionali senza difficoltà. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 38 leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari opportunità, l’abolizione della pena di morte anche per i reati militari in tempo di guerra, il voto degli italiani all’estero, l’estradizione per delitti di genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio ecc. I problemi si sono posti quando le riforme si presentavano strumentali o soltanto imparziali e soprattutto quando rispecchiavano interessi di potere particolari e clientelari.
D. La riforma vorrebbe snellire la burocrazia legislativa, ridurre i costi della politica.
R. Purtroppo questa riforma non snellisce e non fa risparmiare. Si sarebbe invece risparmiato molto utilizzando strumenti legislativi ordinari senza scomodare la Costituzione. E anche ammettendo che ci sia qualche risparmio sul piano contabile, la riforma comporta costi enormi  in credibilità delle istituzioni, bilanciamento dei poteri e quindi in democrazia. Non sono costi teorici o morali, a ognuno di tali elementi sono collegate pratiche politiche e amministrative che se non adeguatamente controllate generano corruzione, sprechi, abusi di potere, imposizioni di tasse esose, aumento del debito e dissoluzione dei rapporti di fiducia tra Stato e cittadini. E’ vero, ci è stato detto che   “Abbiamo bisogno di capacità decisionali e di procedimenti legislativi più rapidi e non di un sistema immaginato e pensato a quei tempi, in cui forse si credeva si dovesse decidere raramente“. Ebbene, dobbiamo ricordare che  la rapidità non è sinonimo di migliore qualità o efficacia dei provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati  nei problemi creati dalla fretta dei governi e dalle loro false priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto è sempre una forma di denigrazione e, in questa frase, è chiara la volontà di delegittimare un’Italia che i denigratori  non hanno né conosciuto né studiato.
D. Cosa trascurano?
R. Più che trascurare, in realtà non sanno e quindi non possono nemmeno ricordare. Questo progetto fa parte dello schema di rottamazione non di ciò che non funziona, ma di ciò che non si conosce. Siccome l’ignoranza è molta, non deve stupire che la cosiddetta rottamazione colpisca a vanvera in molti settori. Se i denigratori non possono ricordare, potrebbero ascoltare, ma di solito l’ignoranza va di pari passo con l’arroganza e perciò bisogna accontentarsi di dire cose che non ascolteranno mai. Noi però possiamo ricordare che quel sistema immaginato nel 1948 è stato realizzato e ha preso le decisioni più difficili della nostra storia. Con successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità internazionale, risollevato l’economia, affrontato emergenze naturali senza scandali, combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le Forze Armate e le abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a rappresentare l’Italia e abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette delle maggiori economie (G-7). Poi, con una breve stagione di “decisionisti” e  fantasiosi innovatori abbiamo decuplicato il debito nazionale, aumentato la disoccupazione e il precariato, diminuito la nostra competitività. Infine, grazie alle virtù taumaturgiche del mercato, dei tecnocrati e dei rottamatori abbiamo centuplicato il debito e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che non ci avrebbe riguardato così da vicino, se non avessimo avuto immaginifici finanzieri di Stato e speculatori privati rivolti esclusivamente allo sfruttamento delle bolle finanziarie.
D. E oggi come siamo messi?
R. Andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e siamo più deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza,  succubi delle decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione globali ed europei, ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di provvedere al rilancio dell’economia e costretti ad elemosinare non denaro (che nessuno regala), ma la possibilità di fare altri debiti. Non si può addossare la responsabilità di tutto questo solo al sistema bicamerale o ai governi del passato. Negli ultimi dieci anni sono state approvate più leggi richieste dal Governo che quelle promosse dal Parlamento. In alcuni periodi delle legislature passate e di quella presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che non erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d’iniziativa governativa (109 in questa legislatura), facendo ricorso eccessivo ai colpi di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su temi  fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica ecc.) e al voto di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e mezzo). Oggi non andiamo a votare per migliorare, ma per  istituzionalizzare un Parlamento defraudato del potere legislativo e assoggettato al potere esecutivo molto di più di quanto non lo sia già ora.
D. Un altro elemento su cui insistono i fautori della riforma è la governabilità. Argomento convincente, a suo parere?
R. La “governabilità è ormai un dogma. Ma non è un’invenzione di oggi. Il tema è stato sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni ’70), quando con i voti di un partito largamente minoritario voleva guidare per sempre l’intero Paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che stessero al governo “certamente” almeno per turni di 5 anni) o di “governo presidenziale”, pensando di diventare presidente. Ma i governi erano comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell’appoggio esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai era evidente l’insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in maniera geniale, anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico, esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni, non nell’egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza istituzionale del Presidente del Consiglio. Di fatto, sostituiva la forza dei partiti con la forza del ruolo di Capo del Governo. Intendeva istituire il “regime del primo ministro” al posto del “regime dei partiti”. “Perché -diceva- il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani». Era una proposta al limite della liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era Spadolini e governò a modo suo, non per molto, ma senza modificare una sola virgola della Costituzione. Nel caso si fosse resa necessaria una riforma, Spadolini ebbe a dire: “Il governo ricercherà sempre con l’opposizione lo “idem sentire de Constitutione”. Questa riforma è lontana anni luce dall’idem sentire di Spadolini e di tutti i Padri costituenti. Non vuole eliminare “il regime dei partiti”, ma istituire il regime di un partito, anche se oggettivamente non maggioritario, come lo sono tutti i grandi partiti di oggi.
D. E’ stato detto che la riforma è necessaria per realizzare “un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali“.
R. Magari lo fosse, e magari fosse stato spiegato chiaramente cosa sarebbe necessario. E’ stato invece raffazzonato un discorso che parla di razionalizzare “alla luce dei provvedimenti già presi in relazione allo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale“. Sono parole testuali della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una “captatio benevolentiae” nei confronti dell’Europa. Un’inutile piaggeria, che non ha più senso visto che l’integrazione europea è più lontana che mai, la governance europea è in crisi grazie anche agli atteggiamenti estemporanei del nostro governo (prima, durante e dopo Bratislava) e che nella cosiddetta riforma non c’è nulla che risponda alle sfide “dell’internazionalizzazione economica”. Oggi in campo internazionale siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in tutto il mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente e in modo pressoché incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare e domani forse scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna parte. Oggi, in Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna: da vent’anni siamo prigionieri di una dicotomia fra destra e sinistra che ancora parla di comunismo e fascismo. Grazie all’arroganza di partiti personalizzati il Paese è spaccato apparentemente in due, ma sostanzialmente in cento pezzi.
D. E’ una questione che riguarda esclusivamente i partiti politici?
R. No, è dovuta anche all’avidità dei poteri economici, industriali e finanziari che sostengono i partiti per i propri interessi, i quali non necessariamente coincidono con l’interesse collettivo, meno che mai con il bene pubblico. Ma i partiti hanno un’aggravante: hanno interpretato l’articolo 49 della Costituzione come l’investitura di ciascuno di essi alla rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente – e di fatto è stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica – come un “organo costituzionale”. In realtà l’articolo 49 stabilisce la libertà dei cittadini di associarsi in partiti, ma non assegna a essi altra funzione se non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La rilevanza costituzionale è dei cittadini, non dei partiti. In realtà i tre partiti maggiori del panorama italiano non assicurano affatto il metodo democratico, ma quello monocratico o al massimo oligarchico, autoritario e personalizzato. Non danno alcuno spazio di dissenso al loro interno e sono da tempo impegnati in una delegittimazione reciproca che ha prodotto la sclerosi delle strutture interne e la completa sfiducia dei cittadini nella politica in generale.
D. Eppure questa riforma è passata con l’avallo del Parlamento.
R. Certo, ma non nella misura necessaria alla sua promulgazione. Tant’è che andiamo al Referendum proprio perché non è stato raggiunto l’accordo richiesto dalla stessa Costituzione. In compenso ci è stato detto che questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e democratici. In realtà, l’iter di questa riforma, come quella bocciata nel 2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo “a colpi di maggioranza”, abbandonando l’equilibrio previsto dalla Costituzione tra leggi “consensuali” e “maggioritarie”.  Si è invece rafforzata la presunta equivalenza fra principio democratico e principio maggioritario. Le modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e della rappresentanza (come nel caso della legge elettorale) scaturiscono dalla convenienza della maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, ben nove (su dieci) leggi di revisione della Costituzione sono state approvate con i soli voti della maggioranza parlamentare, senza cercare larghe intese all’interno delle forze.
D. La nuova legge ha il sostegno di intellettuali, sindacalisti, forze economiche e finanziarie.
R. Non mi sorprende. Molti sono in buona fede perché attratti dal canto delle sirene sui risparmi e sulla limitazione dei politici o soltanto dalla voglia di punire il sistema o i partiti avversari. Alcuni poteri cosiddetti forti sono attratti dalla prospettiva di avere un governo a propria disposizione. Altri pensano alla pancia quotidiana e sostengono chi promette di più o elargisce elemosine elettorali. Qui il governo ha buon gioco perché è l’unico in grado di promettere, anche se sa benissimo di non poter mantenere. Ma è soltanto un escamotageche deve durare un mesetto ed è una sorta di competizione sleale perché gli oppositori, non essendo in campagna elettorale per la legislatura, non possono promettere niente altro che la fine del governo. Aumentando così l’incertezza di chi spera nei bonus e la diffidenza degli stranieri.
D. A detta dei fautori del Sì, non vengono alterate le Istituzioni democratiche. E’ così?
R. Secondo la definizione socio-economica più moderna e coerente, lo scopo di una “Istituzione” (e il Senato è una Istituzione) è quello di garantire la corretta applicazione delle  norme stabilite tra l’individuo e la società o tra l’individuo e lo Stato, sottraendole  all’arbitrio individuale e all’arbitrio del potere in generale (Haidar J.I.-2012). Ebbene, questa riforma nega e offende le Istituzioni democratiche: nei fatti stravolge l’impianto istituzionale dello Stato aumentando l’arbitrio individuale, o di un gruppo, e l’arbitrio del potere in generale. Il mio non è un giudizio teorico o di principio. Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di servizio nell’ambito di una istituzione fondamentale come le Forze Armate, deputate alla difesa della Patria, anche in guerra, non posso condividere una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione.
D. Ma la guerra non è un’evenienza remota?
R. E’ vero che sul piano pratico la cosa può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando ‘guerra’ qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come prima risorsa d’emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva che non previene, ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad evitare con cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, specialmente da parte dei Paesi europei e della Nato, la guerra si fa senza dichiararla o semplicemente cambiandone il nome. E, comunque, neppure l’impegno della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del Trattato) costringe in modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni Paese membro può (e deve) scegliere in che maniera contribuire alla difesa collettiva.
Tuttavia, se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Il Parlamento riformato ha uno squilibrio a favore della Camera e questa, per effetto della legge elettorale maggioritaria e dei premi di maggioranza esagerati, ha uno squilibrio a favore del Governo. Di fatto, il nuovo Parlamento e lo stesso Governo cessano di essere organi legislativi rappresentativi di tutto il Paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo italiano e quindi anche la facoltà di assumere ogni altra decisione che comporti analoghi sacrifici per tutta la popolazione e il trasferimento di risorse, poteri e funzioni da una istituzione all’altra.
D. Sono squilibri pericolosi ?
R. Nella sostanza sì. Se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni del Governo in nome della cosiddetta governabilità, non è detto che favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di provvedimenti ad personam e a favore di gruppi di potere e di avventure che non hanno nulla a che vedere con il bene pubblico. Il Senato riformato  che non è più una Istituzione, perché non ha poteri equilibratori nell’ambito del Parlamento, è una costosa conferenza saltuaria di amministratori locali, la cui legittimazione nell’incarico “complementare” dipende dall’arbitrio di chi li ha  designati. Voto No all’eliminazione dell’equilibrio dei poteri e dei contrappesi istituzionali che di fatto conduce all’arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento. Voto No al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) esercitato da un partito che designa parlamentari e senatori non per esigenze di rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No perché non voglio essere rappresentato in Parlamento e nelle altre istituzioni nazionali ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, immorali e pregiudicati. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei confronti delle nostre Istituzioni  quando a occuparle venivano designati amici, clienti e compagni o compagne d’alcova. Me ne sono vergognato profondamente quando in campo internazionale, politico e militare, si lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché ciò non si ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la mia indifferenza.
D. Riflessioni come le sue hanno avuto la possibilità di raggiungere i cittadini?
R. Se lo hanno fatto non è certo per merito del Governo o della comunicazione pubblica. Ci avevano detto di voler rispettare le regole democratiche anche nella comunicazione. In realtà le voci di coloro che, come me, hanno servito lo Stato e difeso le istituzioni democratiche con disciplina e onore, e quelle di coloro che, come tantissimi,  hanno lavorato per l’Italia rappresentandone l’eccellenza culturale, tecnologica, economica, istituzionale e di solidarietà sono state soffocate dal vocio della propaganda di Stato. Ben prima della decisione di ricorrere al Referendum il Governo intero ha occupato tutti gli spazi di comunicazione, tramutando il legittimo sostegno a una propria proposta in bagarre affaristica e campagna ideologica a dispetto e scapito dell’equilibrio e dell’unità nazionale. Con il ricorso al referendum, la consultazione si è trasformata in una sfida tra sì e no, a prescindere da cosa significassero. C’è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La giusta perorazione della causa riformistica è stata volutamente personalizzata, fino a farla diventare una scommessa sulla stessa sopravvivenza del Governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un azzardo, un bluff, un rischio e un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza precedenti. Ogni canale di discussione moderata e costruttiva è stato occupato da comizi e spettacoli celebranti una grande festa della Dis-Unità. Gli spazi d’informazione pubblica (una risorsa di e per tutti) sono stati spesi (anche in senso economico) solo a favore del marketing governativo, in Italia e all’estero.
D. Come definirebbe la sua posizione, conservatrice o progressista?
R. Direi molto progressista. Esprimo il mio No a questa riforma  con spirito costruttivo, perché  non voglio che il mio Paese rimanga intrappolato in un sistema che assegna i poteri dello Stato a una maggioranza risicata e faziosa, frutto dell’allontanamento dei cittadini dalla politica, senza nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri. Mi è stato fatto osservare che in tutti i Paesi del mondo “va al comando” il partito di maggioranza relativa, e che l’evanescenza delle opposizioni non dipende dalla legge elettorale. E’ vero, e infatti non ho mai apprezzato il concetto di un partito “al comando”. I partiti dovrebbero essere al servizio della comunità, esattamente come le istituzioni, i governi e le amministrazioni pubbliche.
Ma anche dove i partiti godono di ampia maggioranza ci sono differenze sostanziali.  Ho vissuto abbastanza a lungo nei due paesi a sistemi opposti per capirne gli effetti: la democrazia americana e il regime del partito comunista cinese. La democrazia americana non è tale perché votano i cittadini, che fra l’altro non votano per eleggere l’uomo al comando, ma perché esistono istituzioni in grado di limitare gli abusi del potere. Il Congresso, a prescindere dalla maggioranza del momento, è il più feroce censore del potere esecutivo. La magistratura suprema segue a ruota, ma una serie di comitati parlamentari hanno poteri che possono indirizzare e raddrizzare la politica del governo. Inoltre, spesso sono gli stessi partiti, i media, le lobby e i comitati di cittadini a limitare i propri leader.
In Cina c’è un partito che occupa tutto e impone la propria politica a tutti. Si avvale di strutture legislative permanenti per gli affari correnti e di un’assemblea annuale dei rappresentanti del popolo per approvare le grandi leggi: si vota per alzata di mano su ogni proposta e si torna a lavorare. C’è anche una sorta di senato: è la Conferenza Consultiva che raggruppa i rappresentanti dei partiti, varie etnie, associazioni popolari, amministratori locali e personalità indipendenti. Non ha alcun potere effettivo ed è diretta dallo stesso Partito Comunista, che comunque la utilizza come foglia di fico per spacciare una parvenza di democrazia. In Cina il vero equilibrio fra i poteri e la garanzia di una dialettica politica si realizzano all’interno del partito stesso che è tutt’altro che monolitico o cristallizzato. L’ostentata ammirazione per il sistema americano da parte del nostro Governo è smentita proprio dalla riforma: il sistema che vuole instaurare con la riforma è lontanissimo da quello americano e vicinissimo al sistema cinese. Con due  differenze: da noi il partito di regime non assicura alcuna dialettica equilibratrice interna e i rappresentanti alla Camera bivaccano in permanenza a Roma.
D. E l’intervento popolare tramite il Referendum?
R. E’ importante ma non sarà determinante finché la partecipazione non sarà veramente significativa. Non si può ricorrere sempre ai referendum per colmare le incapacità della politica, anche perché gli stessi referendum costituzionali, che dovrebbero essere i più importanti, dimostrano la disaffezione popolare nei confronti della politica e s’indeboliscono nella capacità effettiva di rappresentare la Nazione. Alla prima consultazione referendaria sulla Costituzione della nostra storia, il 7 ottobre 2001,  si recò a votare solo il 34,1 % degli aventi diritto e i voti validamente espressi furono per il 64,2 % favorevoli alla modifica costituzionale: erano appena il 21% degli aventi diritto. Alla seconda, quella del 25-26 giugno 2006, votò il 52,30% degli aventi diritto e la legge voluta da Berlusconi fu respinta dal  61,32% dei votanti: appena il 32% degli aventi diritto.
D. Come riassumerebbe le sue motivazioni?
R. Voto No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura ancora più ampia e pericolosa fatta di disprezzo per le Istituzioni, rigetto delle opposizioni, soppressione delle minoranze  e ghettizzazione delle intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di dittatura e  guerra civile.
Voto No perché il sistema proposto è già in atto e non funziona, anzi mortifica le istituzioni e minaccia la democrazia. Soltanto con il No  si può pensare di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle riforme equilibrate ed efficaci.
Voto No perché il governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a partire dal 5 dicembre si dedichino a risolvere i problemi strutturali  che gravano sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di compattazione sociale e di disaffezione politica e formuli  finalmente un progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche attorno ad una Costituzione rinnovata ma condivisa.
Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di vedere una riforma seria e corretta.
Voto No perché mi si chiede di esprimermi con un monosillabo su un insieme di elementi disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e  dagli effetti indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnico-giuridico. Invece di approfondire e sviscerare tali aspetti, mi si chiede di votare senza considerarli, quasi a voler nascondere il fatto che proprio tra essi  si annidano tutti gli elementi distruttivi e destabilizzanti della riforma. Mi si chiede un voto di fiducia cieca, ideologico, che non lascia a me, e a nessun cittadino libero di ragionare con la propria testa, altra alternativa che il No.
D. Secondo lei, è questa l’ultima occasione per fare le riforme?
R. Il No è l’ultima occasione per  stroncare sul nascere i propositi inaugurali di una stagione di continue ulteriori modifiche alla Costituzione, rese via via più facili e incontrollate da questa stessa riforma, tendenti a stravolgere completamente l’assetto istituzionale del nostro Stato. In questo senso, non mente chi dice che il 4 dicembre non è un traguardo finale, ma uno striscione di partenza. Tuttavia, soltanto con il No parte l’Italia Unita, di tutte le fedi e convinzioni, per riaffermare la Democrazia, la Giustizia e la Libertà volute da tutti gli Italiani che per esse hanno sofferto privazioni, vessazioni, torture e che per esse hanno versato il proprio sangue in guerra e in pace. In caso contrario, con il Sì,  parte la vera corsa al potere assoluto di una maggioranza di palazzo. Anche questa è stata una delle cause storiche delle dittature, delle guerre civili, dei colpi di stato, delle rivoluzioni.
 .
(*) Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata, è stato capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante delle Operazioni di pace a guida Nato, nello scenario di guerra in Kosovo nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force).
di Fabio Mini – 19/11/2016
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=57716