Le elites disprezzano le scelte del popolo

Ancora una volta, con la vicenda delle elezioni presidenziali negli USA, si conferma quello che da tempo andiamo riscontrando: il profondo distacco delle elites dal popolo in un processo che vede aumentare sempre di più il solco che segna tale distanza. Il voto dei cittadini, quando contrario alle indicazioni dei grandi “opinion makers”, viene considerato “non in linea” e viene quindi classificato come “populista”, “demagogico e fuorviante”.
 
La democrazia viene acettata dal sistema delle centrali dominanti soltanto quando, grazie al bombardamento mediatico, la gente viene convinta a votare seguendo le indicazioni ricevute. Se questo non accade, allora il voto non vien considerato “legittimato” e si scatena la reazione delle proteste manovrate. Esattamente il panorama di quanto sta accadendo negli States dove, a seguito della vittoria di Donald Trump, candidato sgradito all’establishment,  molta gente, aizzata dalle varie ONG di Soros e di altri miliardari collusi con la famiglia Clinton, scende in strada con i cartelli  del “Trump not my President”.
Possibile anche citare come esempio, in Italia, la spocchia delle dichiarazioni di alcuni personaggi politici del PD ( appresi i risultati delle elezioni negli USA), fra i quali qualcuno ha dichiarato “Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale” e similari giudizi espressi da altri reggicoda del Governo e della classe politica dominante.
Queste dichiarazioni (ed altre similari) dimostrano lo snobismo ed il disprezzo della classe elitaria nei confronti dei ceti popolari ed il rifiuto di accettare il concetto base della democrazia per cui ad ogni uomo corrisponde un voto, che sia un operaio o un borghese, per quanto le aspirazioni dei ceti popolari siano distanti dalle utopie astratte e dalle esigenze della elite che compongono la nuova aristocrazia borghese mondialista.
Jack Dion ha scritto nel suo recente saggio “Le mépris du Peuple” (il disprezzo del popolo) ovvero
“Quando i partiti che si succedono al potere si trasformano in strumenti di difesa dell’ordine stabilito (rappresentato dall’establishment), il popolo diventa un nemico, esso simboleggia un pericolo potenziale», dice Dion.
Questo è tanto più vero se si considera che le elites di potere hanno perduto il senso della realtà, hanno dimenticato che la società si sta impoverendo e hanno emarginato sempre di più dagli organi decisionali la gente comune. In pratica  il processo globalizzatore ha favorito l’ascesa al potere di una oligarchia che  monopolizza il potere in tutte le sfere della società, da quella economica a quella politica e mediatica.
Le classi lavoratrici ed i ceti popolari  sono stati abbandonati e disprezzati dalle élites, formate dai funzionari del grande capitale, dagli opinionisti dei media, dagli esponenti (spesso non eletti) della classe politica dominante, coloro che hanno fatto della carriera e dei loro privilegi il loro principale obiettivo di conservazione nel potere.
I componenti di questa elite, atraverso le loro fondazioni ( think tank), le cattedre e le docenze, oltre ai media controllati, hanno diffuso la convinzione che non esista alcuna alternativa possibile ai dogmi del neoliberismo e all’estremizzazione del capitalismo (ipercapitalismo) caratterizzato dal mito dei “mercati aperti” e della globalizzazione come processo ineluttabile ed irreversibile.
 
Assieme a questi dogmi si insiste con la diffusione sempre maggiore di un linguaggio ” nuovo” (nuovo non significa per forza buono) dove termini come competitività, flessibilità, liberalizzazioni e costo del lavoro sono considerati concetti indiscutibili ma che, di fatto, hanno annientato qualsiasi forma di democrazia, sottomettendo questa all’economia finanziaria ed alle esigenze dei mercati, salvo relegare la persona, la sua dignità, i suoi diritti sociali ad un ruolo subordinato, asservito al grande Capitale.
Da questo deriva l’assoluta distanza dai problemi reali della gente comune che viene mascherata nella omologazione delle idee alla nuova ideologia globalista e mondialista che viene imposta dall’ordine finanziario che esige, come condizione previa, la rinuncia ad ogni forma di sovranità.
In realtà la sovranità che viene dismessa non è soltanto quella della Nazione, che sia dell’Italia o della Spagna o della Grecia ma è anche la perdita della vecchia ed obsoleta (per la elite) sovranità popolare. L’elite deve decidere per conto del popolo, per il suo bene perchè il popolo è incolto, non comprende e si lascia fuorviare dagli agitatori e dai “populisti”.
 
L’elite dominante è collegata agli organismi sovranazionali che sono quelli dove si prendono le decisioni che contano, vincolanti per i Governi , ove si prevede che gli Stati nazionali dovranno essere dismessi e le costituzioni dei paesi del Sud Europa “devono essere riformate perchè troppo socialiste” (lo ha scritto la JP Morgan). Il potere di decidere passa dallo Stato e dai governi agli organismi sovranazionali come la Commissione Europea, il FMI, la Banca Mondiale, il WTO, la Goldman Sachs, ecc. ed alle grandi banche, alle agenzie di rating, agli emissori della moneta. In questo processo non c’è spazio per il popolo, che viene considerato come un insieme di consumatori, individui senza volto, meglio se omologati e multiculturalizzati, non in linea con le esigenze dei mercati e del sistema finanziario.
Questo spiega perchè la possibilità di affidare al voto dei cittadini nelle urne per le scelte importanti è questione che si cerca di evitare o di limitare al massimo. In Italia, ad esempio, si esclude da sempre (per Costituzione) il voto popolare sui  trattati internazionali e le scelte di partecipazione a “missioni internazionali”, naturalmente sempre “umanitarie”. Sono le elite e soltanto loro che possono deciderle e riservarsi la possibilità di stabilire partecipazioni del paese alla guerra  e sanzioni.
Rimangono però alcune funzioni elettive e di rappresentanza per il popolo, secondo Costituzione, che sono ancora troppo estese. Da qui la necessità di una riforma della Costituzione per restringere l’ambito di aplicazione e riservarlo alle segreterie dei partiti, oltre al  monopolio assoluto delle informazioni attraverso il controllo dei media che consentono di “orientare” le masse.
Neppure Orwell, ai suoi tempi,  avrebbe progettato un sistema di controllo  tanto efficiente come quello attuale.
di Luciano Lago – 10/11/2016
Fonte: controinformazione

La vittoria di Trump ha lasciato spiazzato l’Occidente benpensante

Donald-TrumpUno spettro fascista si aggira per l’America. All’intellighenzia di sinistra pare di ascoltare un preoccupante “All’armi, siam fascisti” provenire da Washington, alla quale rispondere “allarme, son fascisti”. Eccolo il fascista del XXI secolo, altro che Casa Pound. È Donald Trump, il re del reality.
Eppure, se andiamo oltre il linguaggio greve del neo presidente, scopriamo delle verità spiazzanti. Si direbbero di “sinistra”.
Trump ha vinto nelle roccaforti democrat della “rust belt”, l’area degli (ex) stati industriali, non solo nel Solid South della borghesia agraria bianca simpatizzante per l’apartheid pre Guerra di Secessione. Rust belt, cioè “cintura di ruggine”, perché qui è possibile osservare il lento disfarsi degli scheletri delle fabbriche fordiste, che un tempo qualificavano questa regione come steel belt, cioè cintura dell’acciaio. Ma l’acciaio si è fuso, dopo le delocalizzazioni prodotte dal trattato di libero scambio col Messico, il Nafta, e la guerra alla deflazione salariale con la Cina, ovviamente vinta da Pechino. Nei giorni in cui, al Parlamento europeo, si discute se concedere o meno lo “status di nazione di libero mercato” a uno dei pochi, superstiti giganti comunisti, Trump “il fascista” è uno dei pochi a dire chiaramente di essere contro il Nafta e a volere dei dazi per Pechino.
Lo stesso Trump “il fascista” è colui che in campagna elettorale ha proposto l’assicurazione universale gratuita, tutela da Stato socialdemocratico che non ha avuto l’ardire di istituire neppure Obama.
Trump “il fascista” ha perfino proposto un nuovo Glass Steagal Act, il provvedimento con il quale l’amministrazione keynesiana e democratica di Franklin Delano Roosevelt intese porre fine alla banca universale, vero monstrum finanziario con i quale i grandi gruppi di potere giocavano con i risparmi delle gente e che era stato uno dei motivi principali della crisi del ’29. La crisi che produsse il fascismo, fra l’altro. Dunque, Trump non deve essere un fascista sveglissimo se lavora contro il fascismo…
Con questo provvedimento, Roosevelt separò le banche d’affari dalle banche di investimento, per porre fine alla speculazione e alla finanziarizzazione dell’economia. Si tratta di uno dei provvedimenti più di sinistra della storia moderna che, guarda caso, è stato abolito da una nostra conoscenza: Bill Clinton.
Siete sempre sicuri che Trump sia il fascista e Hillary Clinton quella buona, democratica e di sinistra?
Oggi destra e sinistra hanno assunto nuove forme. Alain Soral, uno dei pensatori della nuova destra, definisce quest’ultima come “Sinistra del lavoro e destra dei valori”: in questo senso, sì Trump è di destra ma nella misura in cui la sua è stata l’unica proposta di sinistra sul fronte del lavoro. Clinton era e resta favorevole, infatti, a nuove e più profonde liberalizzazioni.
 
Queste elezioni dimostrano, dunque, una cosa. Per quanto illiberali e disdicevoli possano sembrare i valori di Trump alla buona borghesia, in tempo di crisi, i lavoratori votano per la sinistra del lavoro. Una sinistra, come quella clintoniana, che propone liberalizzazioni in campo economico, limitandosi a essere liberal nei diritti civili, su gay, minoranze e donne non interessa alle masse.
Alle masse non interessa la retorica sul multiculturalismo e sul #lovewins, cioè sui matrimoni gay, quando la priorità è mettere il piatto a tavola. Soprattutto se questi contentini liberal servono a far ingoiare il calice amaro della destra del denaro, avvolta dal tegumento rispettabile dei diritti dell’ambiente. Questa sinistra può andare bene alle star di Hollywood, che si commuovono di più per i cerbiatti che per gli operai.
Per questo, gli operai scelgono la sinistra del lavoro, pure se valorialmente rozza e qualunquista.
La sinistra, allora, cercasse di proporre una piattaforma di sinistra del lavoro, la prossima volta, invece di tediare la rust belt con la scomparsa dei cormorani che, oggi come oggi, la classe operaia impatterebbe volentieri a tavola con un filo d’olio… non di ricino.
Nov 10, 2016
Fonte: Katehon