BLOODY SUNDAY FOREVER (UNA DOMENICA DI SANGUE È PER SEMPRE)

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MONDOCANE

VENERDÌ 12 AGOSTO 2016

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (
Eugenio Montale, “Ossi di seppia”)
Jack  Duddy, 16 anni, primo ucciso nella Domenica di Sangue, accompagnato da Padre Daly sotto le pallottole dei parà britannici. Foto Fulvio Grimaldi
 
Tranquilli. E’ lungo quanto un instant book. Ma c’è tutto Ferragosto e io per un po’ non apparirò. Buon Ferragosto.
Ci sono i romanzi di formazione e ci sono le esperienze di formazione. La mia è racchiusa nelle 16 ore che vanno dalle 14 del 30 gennaio 1972 alle 06 del 31 gennaio.Tra quando partì la marcia dei diritti civili a Derry a quando, dopo il massacro, poi iconizzato come  Domenica di Sangue, sfuggendo aille ricerche dell’esercito britannico, raggiunsi Dublino e consegnai ai giornali e alla radio della Repubblica irlandese le pellicole e i nastri di quanto avevo fotografato e registrato. Avevo vissuto la tragedia palestinese, la Guerra dei Sei giorni, la brutalità della guerra tra Stati giocata sul raggiro e il sacrificio dei sudditi, il feroce razzismo contro una popolazione cui usurpare la terra e da togliere di mezzo. Avevo già avuto prove di come si sopprimono voci sconvenienti per il potere del momento: la censura israeliana controllava i miei reportage da trasmettere a Paese Sera e sbianchettava qua e là. E’ vero che, alla fine, mi buttò fuori, quando è troppo è troppo, ma fu più che altro per un alterco con un capitano dell’esercito che abusava dei caduti e prigionieri arabi.
A Derry fu diverso. Fu lo spostamento dell’asse del pianeta come lo conoscevo. Ascoltai la parola – falsa – che mondi pretendeva di aprire, per dirla alla Montale, ed ebbi in sorte la facoltà di dire la parola – vera – che ne aprì davvero. La prima era delle autorità di Londra e dei media embedded (già allora! Più che mai) che vollero far passare una strage di civili inermi, pianificata e compiuta a sangue, mente e governo freddi, per la difesa di un reparto di parà aggredito dai “terroristi” dell’IRA. E avevano falciato 30 persone in fuga, tra i 15 e 60 anni, ragazzini, donne, anziani, che avevano avuto l’ardire di chiedere case, pane, lavoro, pari dignità e nutrivano un sogno: la patria riunita, il crimine storico annullato, la ferita sanata. La mia parola era quella della fotocamera e del registratore, insieme a quella di 20mila cittadini del ghetto repubblicano della Derry Liberata. E perciò punita, insanguinata, mutilata. E aprì mondi, quelli feroci e protervi e quelli innocenti e umani,  e li contrappose facendoli arrivare al mondo, a dispetto di tutti. I mondi dei grandi e potenti, degli infami, dei bugiardi, degli assassini, dello Stato della “Prima Democrazia della storia”. L’esperienza di formazione furono quelle 16 ore, il romanzo di formazione il racconto che quel giorno ci dettò. E imparai, a Genova del G8, Gerusalemme, L’Avana, Damasco, Tripoli, Belgrado, Baghdad, l’11 settembre e affini, ovunque, a chi dare retta e chi tenere sotto il laser della diffidenza. Se abbia funzionata lo possono dire gli altri.
Scrivo da Belfast, Irlanda del Nord. Da qualche tempo è partita una terza inchiesta sulla strage compiuta dai paracadutisti britannici a Derry, il 30 gennaio 1972. Io c’ero. Sono passati 44 anni. Questa inchiesta, imposta dai famigliari delle vittime per l’insoddisfacente esito delle precedenti due, condotte dallo Stato britannico, è affidata alla polizia nordirlandese, Police Service Northern Ireland (PSNI), nuova denominazione di quella che, fino agli accordi di pace del Venerdì Santo 1998, si chiamava Royal Ulster Constabulary (RUC) ed era un a setta di fanatici picchiatori orangisti.
Nel lungo trasferimento, con passaggio a Londra, mi accompagnano riflessioni sugli avvenimenti concomitanti. Ora questo immenso, sempre spettacolare, costantemente metamorfico, cielo nordico e insulare mi sposta in un’altra dimensione, fuori da tutto il resto, in un passato che non passa mai, che ho vissuto, che rivivo.
Su un muro di Belfast leggo: “The bricks they may bleed / and the rain it may weep / and the damp Lagan fog / lulls the city to sleep. / Its to hell with the future / we’ll live in the past, / may the Lord in his mercy / be kind to Belfast”. Azzardo una traduzione: “Possono sanguinare i mattoni / può lacrimare la pioggia / e la nebbia umorosa del Lagan / placare nel sonno la città. / Vada al diavolo il futuro / noi vivremo nel passato, / che il Signore pietoso / sia gentile con Belfast”.
Fatemi dire una cosa: se vi interessa andare subito alla ciccia, cioè sull’ Amarcord nordirlandese, scritto in occasione della mia testimonianza a Belfast per la terza inchiesta sulla strage di Derry, potete saltare le prime pagine e andare subito al titoletto: A Belfast (e Derry) con amore.
Baraonda, putiferio, pandemonio, alle mie spalle. Non ti sei ripreso dalla prima, dalla seconda, dall’ennesima mazzata, terroristica, politica, mediatica, sociale, che te ne arriva una nuova. Non ti lasciano il tempo per pensarci, metabolizzare, reagire. La demenza ossessiva degli Usa, che a noi viene venduta come interventismo umanitario, ora anti-Isis, ha riscatenato la guerra alla Libia. Nel lupanare Italia le ancelle Pinotti, Mogherini, Gentiloni, offrono allo zio d’America intrattenimenti nelle alcove di lusso di Sigonella, Trapani Birgi, Augusta, Aviano. Un magistrato sensibile allo Zeitgeist, tempestivamente dissequestra a Niscemi il centro di comunicazioni belliche MUOS. Cosa non si farebbe per impedire che l’Egitto, nostra grande occasione per far soldi e beccare energia, ma ahinoi inviso allo zio, si occupi lui del suo vicino arabo e magari cacci a calci davvero Fratelli Musulmani e loro braccio armato jihadista, come ha fatto in casa sua. Sia mai! Il titolare del postribolo si/ci distrae con giochi che occultano un’operazione di annientamento dei poveri, di gentrificazione della città e di militarizzazione della società, detta “Olimpiadi”. Copia soft brasiliana dell’annichilimento di siriani, iracheni, libici. Vorranno provarci da noi nel 2024. Se, con UE, BCE, TTIP, ci saremo ancora. Felici i britannici – operai, contadini, studenti, impiegati, pensionati, malati, bifolchi, ignoranti, xenofobi, detriti della “democrazia” UE- che l’hanno scampata con il Brexit.
Il Papa e i suoi santi
Dall’alto del vicariato di un Onnipotente che di guerre e nequizie non gli va di fermarne neanche una come si dice che potrebbe, il papa di una religione che ha guidato e benedetto un millennio e mezzo di stermini, promette che non sono le religioni a fare le guerre. A farle no. A benedirle sì. Chi le fa, Bergoglio non lo dice. Sarebbe imbarazzante: ha appena santificato un papa che, buttando per aria un equilibrio mondiale, ha scatenato la guerra infinita; ha appena trascinato in giro la ripugnante mummia di un santo che si faceva le stigmate con l’acido e facilitava le guerre mussoliniane andando in giro a picchiare socialisti e comunisti; sta per fare santa una megera che nei suoi tuguri negava anestetici ai malati terminali, si curava in cliniche di lusso svizzere e se la faceva con Papa Doc, Somoza, Reagan e altri tagliatori di teste del giro occidentale. Lo dico sottovoce, ché i miei amici quassù sono cattolici…
popoli sono ancora vivi
Baraonda, pandemonio, nubifragi di menzogne. Buttando per aria i millenaristici progetti del Nuovo Ordine Mondiale, popoli in eccesso, da sfoltire e annichilire, si rifanno sotto e minacciano di far saltare i piani. In Iraq e Siria succede l’inverosimile, l’incalcolato: i cattivi avanzano e vincono. Al mercenariato imperiale si prospetta la disfatta. Panico in Occidente. Mobilitate tutte le lingue al guinzaglio, dal “manifesto” ai media veri. Sminuire il ruolo delle forze governative. Far figurare i fidati curdi, seppellire le offensive patriottiche sotto una valanga di accuse di atrocità contro civili e ospedali (a commetterle ci pensano gli ascari jihadisti), specie ad Aleppo che, se cade, parrebbe proprio la fine; far sorgere dalle ceneri di Al Nusra, emuli di Isis quanto ad atrocità, l’araba fenice dei “ribelli moderati”, un ectoplasma. Far arrivare di corsa ad Aleppo rinforzi per migliaia di terroristi (con tanti saluti al presunto distacco di Erdogan dalla Nato). E là dove proprio non si possono negare i successi governativi verso Mosul e Raqqa, trangugiare il fiele e pompare il “decisivo appoggio” Usa e della Coalizione. Oltre a spedire subito altri reparti speciali Usa e Nato, anche italiani  (Iraq, Libia), ovviamente di nascosto dal parlamento, a far finta di combattere il califfo  e a impedire che la di lui sconfitta si traduca nella liberazione di paesi e popoli.
Sullo sfondo di questa apocalisse inflitta, in un modo o nell’altro al mondo islamico, parte anche in Europa, a forza di burattini con ascia, coltello, bomba o carabina, la strategia del “daje al musulmano”. Che poi non è che l’antipasto del ”daje ai sudditi tutti”, Stato di Polizia e di Guerra interna ed esterna necessitato dai quattro gatti al comando, giustificato e accettato dai milioni di topi in virtù di tutti quei coltelli, mitra, asce, camion. E qui, lasciatemelo dire, la cosa più fastidiosa, anzi ripugnante, il cui fetore di ipocrisia mi si è infiltrato fin nel British Airways che volava verso Londra, era questa gigantesca rottura di coglioni inflitta ai musulmani di casa nostra dai buoni e bravi cristiani perché, belando belando, venisserero a pregare con noi in chiesa e a dimostrare, a noi bravi e buoni, che anche loro potevano, con qualche sforzo, diventare bravi e buoni, quasi come noi, una volta denunciati e rigettati tutti i loro rigurgiti infernali. Che pena loro, che schifo nostro, che melassa immonda. Assimilazione, integrazione: trucchi del razzismo eurocentrico.
A farci trangugiare tutta questa merda, e anche di più, tipo la salvezza dal mattocchio Trump affidata all’arpia mentecatta e serialkiller Hillary (candidata prediletta del “manifesto”, del Pentagono, di Wall Street e di tutta la criminalità organizzata dei due emisferi), provvede la riduzione ad unum dell’informazione, come esemplificata da Stampubblica, dal nominato “manifesto” e dall’occupazione militare della tv con vivandiere e prosseneti estratti dall’inesauribile serbatoio italico di militanti della prostituzione, nel caso presstituzione.
Londra contro Darth Vader (e contro gli studenti)
Nel passaggio per Londra ho fatto in tempo ad assistere al commissariamento del paese deciso come primo ed epocale provvedimento da Theresa May, un altro virgulto della tendenza imperante a sbattere dame, allevate a sangue proletario, a capo delle armate che devono convincere i macellati a farsene una ragione. Commissario delle isole britanniche dove i diritti umani vengono ora definiti da robocop, tale Sir Bernard Hogan-Howe, di Scotland Yard e del giusto retroterra dinastico, ha immediatamente adottato i provvedimenti resi urgenti e indispensabili dall’accoltellamento di una turista americana dalle parti del British Museum, ovviamente di stampo Isis (di accoltellamenti ne succedono a Londra in media 109 all’anno). E io e i 64 milioni di abitanti del Regno Unito ci siamo sentiti altamente protetti contro le imperversanti coltellate, nonché contro il  “prossimo attentato di cui non è questione se accadrà, ma solo quando” (lo ha promesso il capo di Scotland Yard e se non lo sa lui), dall’esibizione, ripresa a reti unificate britanniche (e mondiali per dare l’esempio), di un manipolo di guerrieri da incutere terrore a Darth Vader, oltreché al cittadino medio di cui si fantastica che se ne dovrebbe sentire rassicurato. Infatti, a farlo sentire al sicuro dal califfo, queste presenze, al 90% robot e al 10% umani, non lo perderanno più di vista
neanche un secondo. Riguarda in particolare i milioni che fanno la coda alle food bank, mense dei poveri, cioè quelli contro i quali il regime, con il decisivo appoggio di Bruxelles, “adopera la fame per tenere diosperate e deboli queste persone che non riescono ad accedere al lavoro a cauisa di un circolo vizioso creato ad hoc per fare il profitto dei job centre, cioè del regime e delle grandi aziende impegnate a distruggere il welfare” (parole del regista Ken Loach, vincitore a Cannes, sbertucciato dal “manifesto” perchè troppo direttamente politico).
Corazza in kevlar, casco con telecamera, radio e faretto, carabina d’assalto semiautomatica Sauer MCX con visore ottico e flash, in alternativa fucile di precisione Accuracy da franco tiratore, pistola semiautomatica Glock 17, in alternativa fucile a pompa Remington 870, equipaggiamento idraulico per scassinare porte e finestre, scudo in kevlar, piede di porco rinforzato per penetrare edifici, sega circolare per accedere a vetture ed edifici, scala pieghevole, motocicletta enduro BMW F800GS da 200km/h, elicottero, gommone. Tutta roba, come la sceneggiata dei supercontrolli biometrici negli aeroporti, del tutto indifferente al terrorista che deve accoltellarti al bar, o farti saltare per aria al cinema, ma determinante per spegnere ogni velleità di insubordinazione del cittadinio vessato e incazzato. Come contrappunto al dinamismo securitario di Madame May, è bello osservare il relax del predecessore Cameron  che si riprende dalla botta Brexit sguazzando al largo della Corsica in calzoncini da 300 euro per una vacanza familiare da 18mila. Ignaro del fatto che non essendoci pietà per gli sconfitti neanche tra i vampiri, a casa lo attende lo scandalo, tracimato da tutti i tabloid, dell’aver indicato alla regina, per l’elevazione alla Camera dei Lord, una serie di traffichini e malfattori il cui unico merito è di aver finanziato – corrotto – Cameron e il suo partito. Cose che da noi, alla luce dei rapporti carnali tra Renzi e le lobby degli affari, farebbero l’effetto di una cacchetta di mosca sul polsino. .
Dear old Belfast
Nella tappa Londra-Belfast il mio vicino, uno studente di fisica di Middlesbrough, mi ragguaglia sul crollo delle iscrizioni all’istruzione superiore, dal 67% al 61% in un anno, a causa del costo annuale degli studi universitari salito con Cameron (quello del costume da 300 euro) a 9000 sterline, 10.600 euro. Dice che si tratta di selezione per censo. Ma subito si consola a leggere sul Daily Mail che il magistrato di Manchester ha incriminato un predicatore musulmano “per avere espresso opinioni contrari ai valori britannici”. Mi ha fatto riandare ai rastrellamenti di islamici del nostro grande Alfano, ‘ndo cojo cojo, “in difesa del nostro stile di vita”. Sia lui, lo studente di Middlesbrough, sia il vostro cronista, eravamo un po’ perplessi sul significato, vuoi del nostro “stile di vita”, vuoi dei “valori britannici”. Ma di questi ultimi avrei presto avuto esaustiva contezza all’arrivo in Irlanda del Nord. Come se non li avessi frequentati da mezzo secolo a questa parte.
A Belfast (e Derry) con amore
La polizia nordirlandese, un tempo formazione settaria a integrale composizione unionista, fiancheggiatrice delle bande paramilitari protestanti filobritanniche, ferocemente repressiva nei confronti della comunità cattolico-repubblicana-nazionalista, è stata riformata nell’ambito del processo di pace e degli accordi del 1998 ed è ora a composizione pluralista. Su sollecitazione dei congiunti delle vittime della Domenica di Sangue (30 gennaio 1972) ha avviato una terza inchiesta sui fatti e sulle responsabilità della strage di 14 civili a Derry, in occasione di una pacifica marcia per i diritti civili. La prima, diretta da un Lord Widgery, allestita in fretta e furia a un mese dal massacro, si è risolta in una farsa indegna, tesa ad accreditare le menzogne della versione governativa. Fui pesantemente intimidito dal presidente e dai suoi sgherri pseudogiuridici e si tentò in ogni modo di impedirmi di raccontare quello che avevo visto, registrato, fotografato, dall’irruzione dei paracadutisti britannici sulla coda del corteo alla fine della sparatoria: l’intero eccidio.
La seconda durò dal 1998 al 2010 e, diretta da Lord Saville, tentò di rimediare parzialmente allo scandalo di Widgery stabilendo delle responsabilità per singoli ufficiali e militari, ma evitando accuratamente di puntare sul governo di Ted Heath che aveva ordinato l’operazione con lo scopo di stroncare un movimento dei diritti civili che durava da 4 anni e aveva raccolto il sostegno dell’opinione pubblica internazionale. Lì, almeno, tennero conto delle mie registrazioni audio e fotografiche che, insieme a poche altre (alla stampa era stato inibito l’accesso alla zona del corteo), dimostravano la realtà dei fatti e mi permisero di contestare passo per passo la versione ufficiale.
Nessuno dei parà era stato chiamato a pagare per il suo ruolo di assassino di civili inermi, né le autorità per le loro menzogne, né i membri del governo per le loro responsabilità, né una stampa vergognosamente allineata. Da ciò la rabbia e l’insoddisfazione della comunità repubblicana di Derry e le pressioni per una nuova inchiesta, 44 anni dopo l’evento. La gente di Derry non sono tipi che mollano. E fanno bene: quella vicenda è diventata il paradigma della resistenza di popolo ai soprusi e ai crimini del potere, alle frodi dei media, alla passività degli ignavi.
Sbarco in una città bella come sempre, sotto quell’immenso e volubile cielo nordico che ci si ferma a guardare come fosse un film d’avventura. Camminando per viali e vicoletti, mi sento curiosamente sollevato, quasi euforico, a mio agio. Non è solo il caldo bagno nella nostalgia, nei ricordi di quando, dal 1969 in poi, venivo quassù da cronista della lotta, prima civile, poi armata, di una comunità repressa e decimata, non da anni, da secoli. Da quando gli occupanti britannici, nel ‘600, deportarono metà della popolazione per offrire schiavi, manodopera gratis e che si poteva uccidere, ai coloni nelle Indie occidentali, prima ancora della tratta degli schiavi africani. A quando Oliver Cromwell ne decapitò o squartò coloro che non si convertivano al protestantesimo. A quando, metà ‘800, una carestia indotta dagli inglesi con un parassita della patata (tipo il colera trasmesso con panni infetti ai pellerossa) gli distrusse ogni raccolto e di nuovo né fece morire oltre un milione. Fino alla repressione nel sangue della rivolta di Pasqua del 1916, socialista, repubblicana, indipendentista, che però portò all’indipendenza del 1922. Indipendenza mutilata dalla spaccatura del paese in due (vecchia strategia imperialista, vedi Iraq, Libia, Siriia, Jugoslavia…) con le sei contee del Nord, nel frattempo colonizzate pesantemente dall’immigrazione presbiteriana scozzese, trattenute sotto la ferula di Londra. Ecco i valori britannici che quel predicatore non coltivava.Valori per cui gli irlandesi erano semplicemente troppi, figliavano troppo, parlavano la lingua sbagliata, erano della religione sbagliata, stavano nel posto sbagliato.
Belfast è nobile, a volte altezzosa, perlopiù familiare e affettuosa.. Ricca, al centro, di eleganti rimembranze liberty e decò, alternate al neoclassico monumentale con tratti di fortilizio del primo ‘800. I tanti opifici e magazzini in mattoni rossi che inondano di luce rossastra la città, rimandano al glorioso passato operaio, manifatturiero e cantieristico (qui fu costruito il Titanic) e oggi, nella città dei servizi e di un residuo portuale dove si riparano le piattaforme petrolifere, si sono aggiornati in nuove funzioni, culturali e commerciali.
Ci sono i ricordi con le loro vedute e i loro odori ancora vivi, è vero. Ma c’è anche un presente che contribuisce alla sensazione di armonia che avvolge la mia passeggiata. Ne scoprò il motivo nella scomparsa di un tormento iroso che mi scivola addosso in Italia quando sto tra la gente, nella metro, in treno, per strada, nel parco. Qui di gente in coma, neanche tanto vigile, collegata al suo cellulare e ai suoi cavi come un agonizzante alla bombola d’ossigeno, se ne vede punta. Sì, un paio di giovani sulla panchina. Ma sull’autobus, nel pub, per la via, niente. Piuttosto si guarda in giro, si vede, si chiacchiera. Più scemi, più arretrati di noi? Vero il contrario. Eppoi una considerazione frivola, ma mica tanto, sempre a spiegare quella lietezza. L’ossessione degli shorts, del pantaloncino ultracorto, di una massa femminile indistinta che si affanna ad attirare sguardi su uno spicchio di natica, ad allungare la gamba cortina e magari cellulitica, non c’è. Questa dissennata fregola di omologazione che fa tutte copiare tutte e cancella ogni diversità e creatività personale (invise al sistema), che annulla anziché esaltare l’effetto gamba nuda, qui non c’è. Ci sono donne, ragazze, che si vestono in mille maniere, si inventano per l’occasione, l’umore, l’intenzione. Più arretrate di noi?
Io vi canto una canzone che in Irlanda sanno già / che vi parla della libera Belfast
quando in via delle cascate tutti sulle barricate / dichiarammo la repubblica a Belfast. / Con la guardia popolare che va in giro a perlustrare / si è sicuri nella libera Belfast / dalla radio clandestina puoi sentire ogni mattina / le notizie della libera Belfast.
Così noi, di Lotta Continua, presenti in Irlanda del Nord più di chiunque altro e diffusori della sua lotta, cantavamo la esistenza di popolo. Con Ciaran, che è il legale delle famiglie di Derry e mio, giriamo per i quartieri dove vivevo in famiglia, in quelle casette minuscole e poverissime nelle quali veniva chiusa la comunità da emarginare, matchbox houses, case-scatole di cerini, dove la mattina bimbetti mi portavano caramelle e da dove partivo con la Canon e la cinepresa Beaulieu 16, a documentare esclusione, repressione, ribellione, scontri, sparatorie, eroismi, morti e ferite, canti e balli di rivolta e bevute di Guinness. Un po’ a Falls Road, un po’ ad Andersonstown, un po’ ad Ardoyne. E quando a notte fonda i soldati facevano irruzione e scaraventavano per aria tutto, il ricercato se la svignava dal retro e spariva nel reticolo delle back alleys. Gli irlandesi suonano e cantano, qualsiasi cosa accada e, come sempre nei momenti di grandi emozioni rivoluzionarie, di passaggi d’epoca, i canti sgorgavano come ruscelli di montagna ed erano la cronaca parallela che diventava storia.
Libera Comune di Derry
A Derry avevo assistito all’indimenticabile giorno della liberazione, inizio di Free Derry, quando alcune centinaia di ragazzi e ragazze a mani nude, con poche molotov e molti sassi, dalle alture del ghetto repubblicano a Creggan, fecero precipitare a valle a gambe levate armigeri con fucili, rivoltelle, caschi, scudi, mazze, blindati, per finire a rinchiudersi nella cittadella protestante, protetta dalle mura medievali. Durò tre anni Free Derry, una piccola Comune di Parigi. Ci ricapitai quando, nel 1971, Londra introdusse l’internamento e aprì i campi di concentramento, da allora diventati d’uso comune per insubordinati, da Israele agli Usa. Alla deflagrazione di collera popolare contro i rastrellamenti a casaccio e in massa dei “sospetti”, vera pulizia etnica, contro l’occupazione militare dell’ultima colonia d’Europa accompagnata dalla licenza di devastare, bombardare, uccidere data ai paramilitari unionisti dell’UVF e UDA, iniziò ad affiancarsi l’IRA (Irish Republican Army), ramo Provisional (quello Official, pseudomarxista, ma pesantemente infiltrato, è presto scomparso),organizzata in battaglioni di volontari. Internamenti di migliaia, maltrattamenti, tortura, il famigerato campo Long Kesh, i prigionieri irriducibili nella protesta, gli scioperi della fame, il poeta combattente Bobby Sands lasciato morire dalla Thatcher, le bombe nei pub piazzate dai servizi segreti, un intero popolo insorto. Città e quartieri liberati e off-limits. Il più feroce dei padronati imperiali messo alle strette.
Intervistai a Dublino Sean McStiofain, capo di Stato Maggiore dell’IRA e l’anziano Joe Cahill, veterano della campagna degli anni ’50. McStiofain, arrestato e processato dal regime rinnegato di Dublino, resistette per settimane con lo scipero della fame e della sete. Fu allora che i terroristi di Stato presero a dare del terrorista a chi al terrorismo di Stato non si piegava. Morì nel 2001, ancora militante delle cultura irlandese, in una casa su cui era scritto: “Quii si parla gaelico”, la lingua “sbagliata” per gli inglesi. Di marcia in marcia, di baruffa in baruffa con gli sbirri unionisti della polizia RUC che ci vessavano ininterrottamente con perquisizioni, blocchi, divieti, arroganza, offese, anche sputi, fino di nuovo a Derry, inizio gennaio 1972, con le truppe d’occupazione ancora fuori da Bogside e Creggan, il ghetto. Ogni pomeriggio, finito il lavoro, o, più spesso, esaurito il vuoto della disoccupazione (all’80% inflitta ai cattolici), i ragazzi di Free Derry andavano a contestare, alla barriera tra ghetto e cittadella protestante, il divieto –“motivi di sicurezza” –  di accedere al resto della loro città. Ed erano nail bombs, petrol bombs, stones e Fuck you. Ed era vita, contro esclusione. Dal lato opposto, gas tossico CS, idranti di acqua colorata, pallottole d’acciaio rivestite di gomma, mazzate. Un limite alla violenza che sarebbe saltato domenica 30 gennaio.
La marcia
Facciamo che sia quel giorno di 44 anni fa. Per me è ieri, oggi, domani. Sono le 14 del 30 gennaio e il sole dal cielo limpido si riflette sulle facce di 20mila manifestanti. Davanti un camion e lo striscione CIVIL RIGHTS.  Niente sound system, si canta: We shall not be moved…  We shall overcome… tanto per far capire che non si marcia solo per noi, ma anche insieme ai milioni che in quegli anni marciavano in mezzo mondo contro gli stessi signori. Giù dal quartiere Creggan sulla collina, fin dentro Bogside, a valle. Verso la grande piazza dopo gli ecomostri all’ingresso, ove rinchiudere formiche tracimate dalle matchbox houses. L’appuntamento è sul piazzale all’ingresso delle casette di Bogside, parlerà Bernadette Devlin, pasionaria del movimento. Sto in coda alla marcia, la testa è già sotto il palco, 100 metri più in là. Un rombo fortissimo, da dietro alle mie spalle sbucano velocissime due, tre, quattro, tanti Saracen, blindati degli occupanti. Alcuni si fermano all’altezza mia. Altri procedono verso il comizio, ma sono fermati da una barricata. Da quelli vicini a me e a pochi metri dagli ultimi cento, duecento della marcia, sbucano grossi insetti in uniforme, con maschere antigas per proboscide, lunghe carabine, grossi bastoni. Si sentono colpi. Qualcuno dalla folla si volta, distorce il viso atterrito, urla “Its live!”, pallottole vere. Inizia la strage. Uno, con alamari e greche, dall’alto della torretta grida: “Thirty is the limit”, ci fermiamo a trenta abbattuti. Perfetto: alla fine saranno 14 morti e 16 feriti, trenta. Si trattava del Colonello Michael Jackson, poi rincontrato in Kosovo con la Nato, accanto ai narcokiller dell’UCK.
Il sangue
 Mia foto di Jack Duddy morente
 
Non ci credo ancora, ma per fortuna ci credono la fotocamera e il registratore: un ragazzo corre, cade, alza il braccio, un parà si avvicina, gli monta sopra, gli spara in testa, si allontana, il corpo resta, inerte. Un altro ragazzetto sorpassa correndo un parà , si copre il viso, gli grida ”Don’t shoot, don’t shoot”, il parà spara. Una donna, madre di sei figli, crolla, dalla coscia esce e pencola un grosso pezzo di carne sanguinolenta e granulosa, qualcuno cerca invano di rimetterlo a posto. Un giovane, segaligno, balza davanti ai parà. Grida: “Shoot me, shoot me!” . E’ colpito al fianco, cade di schianto. Altri, sotto i colpi, lo sollevano e lo portano in una casa. In mezzo allo spiazzo davanti all’alveare di cemento un ragazzo, quasi un bambino, è steso inerte a terra. Noto il suo maglione strappato, una faccia bianca bianca, le braccia allargate, come in croce. Mi avvicino, la faccia sta diventando gialla, dalla bocca pulsa sangue. Si avvicina un prete. E’ Padre Daily , poi vescovo di Derry. Si inginocchia, vorrebbe aiutare. Troppo tardi, piange, gli somministra i suoi riti. Si avvicinano, sotto gli spari, un infermiere e un uomo anziano. Sollevano il corpo, si muovono, gli spari continuano, il prete li precede con un fazzoletto imbevuto di rosso che agita sopra la testa, piegato in due, per evitare le pallottole che fischiano.
Non reggo, si disfa la tenuta professionale. Urlo “Bastards, stop it, stop it”. Uno mi punta, qualcuno mi dà uno strappo all’indietro, grida “Ma sei matto?” Tre colpi in rapida successione scheggiano il muro alle mie spalle. Ci riproveranno, quella volta con sei fucilate, quando da un primo piano mi affaccio a fotografare altri capitoli del massacro. Molta gente s’è rifugiata oltre l’alveare, resta un gruppetto schiacciato dal terrore contro un muretto, sotto tiro. Ci muoviamo anche noi, carponi, uno davanti a me è colpito, schizza di lato, poi riprende a strisciare. Ce la fa. Ce la facciamo, siamo oltre l’edificio, sul retro. Salvi. IL resto è urla, pianti, bestemmie, imprecazioni, invocazioni. Un uragano.
Mia foto di Barry McGuigan
Salvi? Nel cortile dietro un uomo di mezza età steso a faccia in su, immobile.Temerario, incredibile, un altro gli si avvicina strisciando sulla pancia, lo raggiunge, gli fa la respirazione bocca a bocca, gli pompa il torace. Continuo a scattare foto. Dall’angolo dell’occhio vedo un altro uomo, grande, grosso, mezzo pelato, che prova a venire fuori da sotto la protezione di una tettoia per assistere anche lui i due schiacciati sull’asfalto. Uno schianto, l’uomo fa mezzo giro su se stesso, crolla, viso al cielo. Mi avvicino e fotografo, al posto dell’occhio una voragine. Poi altri corpi girato l’angolo. Una ragazza urla fuori di senno: un amico le si stava avvicinando correndo, le cade ai piedi colpito alla schiena, se l’era tirato addosso, le aveva sussurrato: “Non farmi morire da solo” . Sulla barricata verso Free Derry Corner stanno raggomitolati altre due corpi, non si muoveranno più. Il padre di uno dei due sale su quel monte di ferraglie e legna e vi trova il figlio senza vita. Gli si accovaccia accanto. Viene falciato da un colpo. Sopravvive. Dall’altro lato della strada, Glenfada Park, da dove erano riusciti a spararci anche dietro al palazzo, è una carneficina. Sei corpi, nessuno più di vent’anni.
A Dublino, per gridare al mondo l’infamia e la verità
Rattrappiti in un portone, sentiamo la sparatoria pian piano affievolirsi. Arriva un gruppo di ragazzi, quelli che tenevano in piedi la Libera Comune di Derry, probabilmente dell’IRA. Mi avvertono che la radio militare britannica aveva trasmesso l’ordine di arrestare a tutti i costi il fotografo italiano. Erano alla caccia del mio materiale, più che di me. Eravamo rimasti in due, giornalisti e fotografi stranieri, io e un francese. insieme a qualche abitante con macchinetta fotografica, a documentare la strage di Stato. La stampa internazionale era stata bloccata dietro dalle transenne dell’esercito. Ma noi, cronisti di strada senza i mezzi per i grandi alberghi, stavamo già nel ghetto, ospitati dalle famiglie, dalla parte giusta. Non previsti. I ragazzi mi tirano via, mi portano nel profondo di Bogside, dove i militari non si azzardano: salvare il  materiale! Da una casa, passando sento l’urlo di una donna straziata: “La maledizione di tutte le generazione di irlandesi, passate e future, su voi, maledetti!”. Nella casa dove mi nascondono, tè e zuppa calda. Poi, alle 18, tg della BBC, appare, bolso e tronfio, il comandante in capo, Generale Ford: “Cecchini dell’IRA ci hanno sparato dai tetti degli edifici, abbiamo dovuto rispondere, abbiamo sparato quattro colpi, ci sono dei feriti”. Non s’è trovato un colpo, in mezz’ora di sparatoria, che non fosse venuto dai fucili SLR in dotazione ai parà e che non fosse stato sparato ad altezza d’uomo. L’IRA non c’era. Saggiamente aveva avuto l’ordine di non partecipare, di non subire provocazioni. Sarebbe stato un massacro, altro che 14 morti.  Era quello che Londra avrebbe voluto.
Di notte è Martin McGuinness, comandante della brigata IRA di Derry, 18 anni, a contrabbandarmi, nella benevola nebbia per tratturi e sentieri, oltre frontiera, nella Repubblica. Altri compagni mi aspettano di là e mi portano di corsa a Dublino, in tempo per la ribattuta dei quotidiani e per il giornale radio del mattino. Escono le mie foto, le registrazioni degli spari e delle uccisioni, la mia testimonianza. Parte lo sgretolamento della versione pianificata da Londra: un attacco dell’IRA che avrebbe portato all’auspicata militarizzazione del confronto con la popolazione delle marce, dei sassi e delle barricate. Un confronto che l’esercito di sua maestà avrebbe risolto in quattro e quattrotto riportando l’ordine imperiale in Ulster, la dominazione degli amici unionisti, la sottomissione dei turbolenti in cerca di uguaglianza e di patria unificata.
Non è andata così. Non allora. Ne sono venuti trent’anni di “troubles”, guai, come venivano chiamati, con una lotta armata e popolare che puntava all’ultima decolonizzazione d’Europa. Poi venne il “venerdì santo” del 1998, l’accordo per il disarmo delle formazioni militari, la pacificazione. Il grande tradimento per chi aveva sostenuto l’urto e la speranza per tanti anni, il solliievo e la rassegnazione per chi non ne poteva più di terrorismo di Stato, di bombe, miseria, paura, carcere, morte. E Gerry Adams, che oggi nega il suo ruolo di comandante Ira, e Martin McGuinness, che non lo può proprio negare, sono i leader dello Sinn Fein, il partito già dell’unificazione, considerato il braccio politcio dell’Ira, ministi nel governo di coalizione con unionisti e fascisti, felicemente moderati. Anzi McGuinness s’è detto grande amiico di Ian Paisley, il facinoroso e brutale capo dell’estrema destra unionista, copertura di tutte le bande fasciste che hanno imperversato sotto copertura dello Stato. E che, diversamente dall’IRA, non si sono sognati di consegnare le armi. E continuano a usarle. Di unificazione dell’Irlanda tutta non si parla più, a dispetto delle generazioni di irlandesi di cui gridava quella donna di Derry. Qualcuno nella resistenza non si rassegna. C’è ancora un grumo di IRA, la “Real IRA” e la “Continuity IRA”. Cosa e quanto abbiano dietro non si sa. Mi dicono che la gente è stanca.
 Bobby Sands
Non del tutto. Nel percorso che con Ciaran, avvocato degli oppressi, sfruttati e combattenti, abbiamo fatto per i quartieri contrapposti di Belfast, tuttora divisi dalla muraglia detta grottescamente “linea della pace”, si respira un’atmosfera che a me pare esattamente quella di 50, 40, 30, 20 anni fa. All’occhio, tranne un’aggiustatina data al grattacielo all’inizio di Falls Road e poi a tutte le matchbox houses dei quartieri repubblicani, nulla è cambiato. C’è addirittura una manifestazione che protesta contro il divieto del Comune di far arrivare una marcia contro l’internamento in centro città. Già l’internamento esiste ancora, a tempo indeterminato, senza imputazione, difesa, processo.  Basta esserci stati, esserne usciti, tornare a essere “sospetti”.  Ma soprattutto ci sono ancora tutti i magnifici murales, un arte popolare che ha ispirato i writers di tutto il mondo e si restaurano e ne nascono altri. Quelli a Bobby Sands e agli altri scioperanti della fame, quelli contrro l’internamento, quelli della rivolta di Pasqua e, a Derry,  la mio foto di Jack Duddy e Padre Daly sta ancora sulla facciata e nel museo. E ovunque il tricolore della Repubblica.
Uguale dall’altra parte del muro, a Shankill Road, roccaforte protestante, ogni casa una Union Jack, graffiti e murales che secernono odio virulento, minacciano vendette. Ci sarà pure la pace, l’intesa, la collaborazione tra i paramilitari protestanti e gli ex-Provisional Gerry Adams e Martin McGuinness. E nessuno lassù fiata più  di unità irlandese, Martin avrà giocato a bocce con il fascista bombarolo Paisley (ora defunto), ma qui lo scontro è più vivo che mai. Per quanto i cattorepubblicani abbiano visto dissolversi sotto la croce di Sant’Andrea la prospettiva dell’unità nazionale e gli unionisti protestanti abbiano invece ottenuto quel che volevano: la regina e niente odiosa repubblica. E sostanzialmente lo stesso potere di prima, appena riverniciato di democrazia, in attesa del prossimo set, ogni volta la resa dei conti.
 Murale UVF
Nei tre giorni che sono stato sotto quello smisurato cielo e tra le vibrazioni di quelle passioni, c’è stata la grande marcia contro l’internamento e lo scontro sul passo sbarrato; nella contea di Tyrone uno striscione celebra il militante  dell’UVF Jey Somerville, assassino di un gruppo di musicisti cattolici,  provocando tumulti  e scontri con la polizia che si rifiuta di togliere lo striscione; di conseguenza c’è un alterco tra il capo della polizia e deputati del partito socialdemocratico (cattolico); a Dungannon l’UVF innalza una serie di manifesti commemoranti Billy Wright, altro pluriassassino unionista e anche qui la polizia provoca trambusto in parlamento per non aver rimosso la provocazione. I governi di Londra e quello coloniale di Belfast istituiscono una “Commissione Indipendente che controlli le attività paramilitari repubblicane e lealiste”. Il pretesto: l’uccisione di un secondino torturatore da parte di un’unità di combattenti repubblicani. La comunità repubblicana denuncia l’unilateralità dell’organismo che pare interessato soprattutto all’opposizione repubblicana. Un vasto murale che rappresenta la rivolta di Pasqua a Dublino appare a Falls Road e succede un putiferio nel parlamento provinciale. Per contrappasso in Ormeau  Road gli unionisti inaugurano un monumento costato 11mila sterline che festeggia i 5 civili cattolici ammazzati nel 1992. Una tavola rotonda tra il vice primo ministro McGuinness, ex-IRA di Derry, e Il capo della polizia, George Hamilton (quello che non rimuove i manifesti UVF), centrato sui temi della riconciliazione viene pesantemente contestato sia da destra (unionisti) sia da sinistra (repubblicani).
La mia Derry, il mio Bloody Sunday sono andato a raccontarli, per la terza inchiesta, alla giuliva e gentile funzionaria della PSNI Julie Morrison e al gioviale e amichevole ”detective sergeant” Peter Billingsley. Passando per una serie di porte blindate, sbarramenti, soglie elettriche, corridoi, cancellate dalle ferrose mandate, nella centrale della polizia nordirlandese, mi è venuto come un flash di quando potei visitare, quattro decenni fa, il “Maze”, come i prigionieri chiamavano il campo di internamento più terribile, Long Kesh. Quello in cui, per rifiutarsi di vestire gli abiti dei detenuti comuni, i combattenti e resistenti sono rimasti nudi per anni, spesso al gelo. Ma, rassicurante, era con me Ciaran che ne ha viste tante. E anche i due poliziotti non erano male.
E così che scorre la vita nel Nordirlanda. E qualche volte si ferma. Quella di Padre Daly, che sotto i miei occhi, sfidò le pallottole di Sua Maestà per soccorrere un ragazzino, si è fermata quando ero ancora lì. Me l’ha riferito Ciaran.Tracimavano ricordi, sensazioni, come un’alluvione. Avrei voluto dirle in giro, a un mondo dal rapido oblìo. Sono grato alle redazioni della BBC di Belfast e poi di Derry per avermene dato l’occasione. Alla fine mi è venuto da piangere. Capita ai vecchietti. Ora le ho raccontate a voi.
Il  varco è qui? (Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende…) /  Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta. (Eugenio Montale, Le Occasioni)
 La mia foto sulla prima facciata di Derry  diventa l’icona di Free Derry  e di Bloody Sunday
Pubblicato da alle ore 16:40
BLOODY SUNDAY FOREVER (UNA DOMENICA DI SANGUE È PER SEMPRE)ultima modifica: 2016-08-12T18:27:43+02:00da davi-luciano
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