Una Lettera aperta ai Procuratori di Torino – di Pietro Saitta

post — 17 luglio 2016 at 13:10

lettera-amico-esempioDa Effimera – Gentili Procuratori,

Sono uno degli intellettuali firmatari della petizione per la libertà di ricerca diffusa da Effimera dopo la condanna dell’antropologa Roberta Chiroli, oltre che, non lo nascondo, di un certo numero di articoli dedicati alla medesima questione e ad altre analoghe assurte all’onore delle cronache in questi giorni.

Sono, insomma,  uno dei destinatari della vostra garbata lettera aperta, pubblicata su La Stampa il 14 luglio scorso. Una lettera di cui non vi si può non essere grati per la considerazione che avete mostrato circa le perplessità e le critiche piovute sulla Procura di Torino all’indomani di quella condanna.

Vi scrivo perché certo della vostra buona fede e della possibilità di condurvi lungo una serie di ragionamenti. In particolare trovo la vostra lettera eccessivamente schiacciata sul presente e, in un certo senso, “antistorica”.

Infatti, a partire dalle cifre che elencate, volte a ridimensionare il numero delle persone attualmente denunciate – 183 nel periodo Luglio 2015- Giugno 2016, e non mille come è stato detto – verrebbe da notare che omettete di confrontarvi con il ventennio precedente. La storia del movimento valsusino ha difatti inizio negli anni novanta. E per quanto poco meno della metà di questi anni siano caratterizzati da una recrudescenza delle tecniche di opposizione al progetto infrastrutturale Tav e, di riflesso, dalle attività di repressione, è pur vero che parlare di “appena” 183 denunciati esclude dal novero le persone precedentemente denunciate, condannate, fermate, oggetto di indagine, oltre a quelle assolte o prosciolte. Non so dunque se le persone entrate in contatto con la Procura e le altre agenzie siano mille; ma esse sono certamente ben più quelle che risultano attualmente denunciate.

Analogamente non appare convincente la parte in cui discutete della qualità dei reati e in cui suggerite che nessuno sia attualmente denunciato per terrorismo. I denunciati, i condannati e, per fortuna, gli assolti in secondo grado per il suddetto reato infatti esistono e anche questo entra a far parte della memoria collettiva e della storia.

Con questo intendo dire che qualsiasi analisi del fenomeno – soprattutto se per fini distensivi – dovrebbe fare i conti con l’insieme delle vicende che nel lungo periodo hanno determinato l’incancrenirsi delle relazioni tra comunità locale e Stato.

Peraltro guardare alla storia come a un crescendo speculare e reciproco, permetterebbe di vedere che quella della Val di Susa è sostanzialmente una vicenda di confronti negati, di ragioni neglette e di sostanziale imposizione di decisioni precipitate dall’alto, in barba alla volontà dei territori. Il tutto all’interno di una retorica pubblica, quasi pienamente sviluppatasi già negli anni novanta, che pretendeva di mettere proprio i territori al centro del processo decisionale.

Lo Stato centrale pretendeva di farsi sempre più snello, di assegnare poteri crescenti alle Regioni e alle comunità locali, ma, dall’altro, non rinunciava a imporre progetti e infrastrutture, che, alla luce di evidenze anche processuali, riflettevano spesso interessi circostanziati e particolari anziché quello generale.

La storia del movimento No-Tav è dunque innanzitutto la storia di una contraddizione in seno allo Stato, alle sue retoriche e persino alle sue riforme. E, successivamente, è anche la storia di una aggressione territoriale: espropri, cantierizzazioni, concessioni di appalti (peraltro anche a ditte sospette di connessioni con la criminalità organizzata) e, poi, la militarizzazione del territorio. E, a seguire, la coltre oppressiva di una presenza poliziesca smisurata; le intimazioni e le “intimidazioni”, quasi connaturate al fare polizia politica in scenari di crisi.

Un crescendo di intimazioni, dunque, che ha coinvolto tanto gruppi di persone impegnate in azioni dirette quanto singoli esponenti del movimento; ma anche uomini e donne nel loro quotidiano e, persino, nel loro ruolo di genitori, professionisti o semplici avventori di un bar. Persone, cioè, che si sono viste oggetto di controlli più spesso di quanto non sia lecito attendersi; che hanno sentito parole smorzate pronunciate informalmente e allusioni a figli la cui paternità/maternità sarebbe stata sospesa. Oppure che sarebbero state minacciate di provvedimenti che avrebbero riguardato il loro lavoro.

E che dire della funzione simbolica e comunicativa del diritto e della funzione delle corti? Ossia della valenza pubblica di processi per terrorismo che sì, è vero, coinvolgevano innanzitutto degli individui, ma diventavano anche e soprattutto parte di una narrazione pubblica relativa a popolazioni e persone, oltre che alle ragioni di una lotta?

Modi di raccontare un territorio e le lotte, oltre che di praticare la Giustizia, lecite da un punto di vista formale, ma del tutto parziali. Pratiche penali che, nell’affrontare quei reati di piazza (d’accordo, forse più “campestri” che “di piazza”!), oscuravano le ragioni profonde di quegli uomini e quelle donne. Uomini e donne che non potevano non stupirsi del fatto che, “pur sapendo” alla maniera di Pasolini (“io so, ma non ho le prove”), vedevano la giustizia concentrarsi su di loro, anziché sulla strana determinazione di poteri politici, élite e gruppi economici a volere condurre a termine questa infrastruttura, qualunque fossero i costi e nel più totale disinteresse per la questione sociale che la Tav aveva finito col rappresentare.

Senza contare che i decenni passavano e nuove generazioni di valsusini crescevano in mezzo a riunioni politiche, azioni di sabotaggio, denunce e processi ai danni di genitori e amici più grandi. In questo senso, una delle cose più straordinarie è il totale disinteresse dello Stato nella sua accezione più vasta – inclusa, ahimé, anche la Procura di Torino – per quella che, con qualche esagerazione, andava diventando la “nostra Palestina”: una fetta di territorio italiano, cioè, che vedeva generazioni di ragazzi crescere nel conflitto permanente, con ciò che questo andava significando in termini di relazione tra Autorità e popolazioni, legittimazione dei poteri e sprezzo verso di essi.

Non sono un determinista sociale e non credo affatto che questi giovani cresciuti nel conflitto permanente con lo Stato vedranno necessariamente aumentare il proprio coinvolgimento personale o generazionale, diventando magari terroristi o kamikaze. Mi limito invece a sottolineare che uno Stato come il nostro, già ampiamente fratturato da divisioni storiche, economiche e politiche, avrebbe probabilmente fatto meglio a evitare nuove spaccature. Perché quello della Val di Susa è ormai un conflitto storico e di lunga durata; oltre che una “questione di popolo”, nella misura in cui coinvolge differenti generazioni e vede come protagonisti di azioni eclatanti – dirette o, semplicemente, di disobbedienza – persone adulte, anziani e adolescenti. Conflitti del genere di solito restano a lungo nella memoria e determinano impatti politici di lunga durata.

Val dunque la pena di domandarsi se una infrastruttura, per quanto importante e proceduralmente legittima, valesse un conflitto di queste dimensioni. E anche quale sia la responsabilità quantomeno morale delle differenti articolazioni dello Stato e dell’Autorità pubblica nel non avere preso nozione di questo, anteponendo le questioni formali e di diritto a quelle sociali.

***

Nella vostra lettera, gentili Procuratori, facevate menzione della fretta con cui vari commentatori si sono affrettati a esprimere opinioni sulla condanna di Roberta Chiroli, l’antropologa condannata per avere usato la prima persona nella sua ricerca.

Nello stesso giorno in cui veniva pubblicata la vostra lettera, venivano anche rese pubbliche le motivazioni della condanna. Il quotidiano La Stampa pubblicava il seguente passaggio estratto dalla tesi di Roberta Chiroli:

«Ci siamo diretti verso la stazione per poter prendere il treno… improvvisando un piccolo corteo e bloccando di fatto la viabilità sulla strada… In quel momento arrivavano due camion e gli attivisti si sono disposti davanti alzando lo striscione mentre altri sventolavano le bandiere No Tav e gridavano slogan contro le ditte coinvolte nel cantiere.(…) dopo una decina di minuti…abbiamo interrotto il blocco del traffico permettendo ai camion e ai veicoli in coda di passare dirigendoci alla stazione».

Inoltre nelle motivazioni della sentenza si legge che:

«l’imputata partecipò alla manifestazione in oggetto con la piena consapevolezza del fatto che si sarebbe eseguito il blocco stradale poi effettivamente attuato […] sicché […] appaiono indiscutibili, da un lato, la coscienza e volontà di di aderire in via preventiva alla commissione dei reati […] e, dall’altro, la persistenza di tale atteggiamento soggettivo».

Mi perdonerete se assumerò qui la posizione del docente di sociologia e se vi dico che se il primo dei due brani è davvero il passo-chiave utilizzato per giustificare la condanna, allora i “critici” non si erano affatto sbagliati e si sono rivelati molto meno frettolosi di quanto suggerito dalla vostra missiva pubblica.

Quel brano è, chiaramente, un diario etnografico: uno “spazio confessionale”, direte voi giustamente. Così come, insieme a voi, lo sosterrebbero anche un padre fondatore della pratica etnografica alla stregua di Malinowski, oppure un altro influente esponente della disciplina come Van Maanen.

Ma prima di ogni altra considerazione occorre adesso precisare che il diario etnografico è lo strumento di chi pratica l’osservazione partecipante: una metodologia di ricerca basata sull’immersione profonda dentro gruppi umani. Popolazioni lontane ed esotiche, come nel caso di Malinowski; ma anche gruppi professionali come la polizia, in quello di Van Maanen. Oppure comunità di tossicodipendenti, nell’esempio di Bourgois; per non parlare dei narcotrafficanti, in quelli di Venkatesh, Adler o Taussig. Senza contare gli Hell’s Angels di Thompson; i bagni pubblici per omosessuali frequentati assiduamente da Humphreys. Oppure i jazzisti drogati di Becker; le donne e gli uomini di vita portoricani, dediti a truffe, prostituzione, furti e violenza studiati da Lewis (o, come forse sarebbe più corretto dire, dai suoi assistenti per lo più negletti e dimenticati, reali responsabili della collezione dei dati); o, magari, i locali per scambisti e le ballerine prostitute visitate da Barnao. Oppure i black bloc osservati da Fernandez e i graffitisti di Ferrell. Ma  anche i punkabbestia anarchici ed eroinomani osservati da Ciccozzi varrebbero una menzione; e pure quelli studiati da Amster. E, probabilmente, anche i violentissimi ultrà del Milan studiati da Dal Lago si lamenterebbero se non li citassi. Ma parlando di illegalismi politici – e qui sì che ci muoveremmo in spazi realmente radicali – difficilmente potrei omettere l’etnografia delle bombe umane palestinesi di Abufarha. Sarebbe più pertinente allora che mi limitassi a ricordare i gruppi politici di azione diretta studiati da un nuovo classico delle scienze sociali come Graeber, o quelli di alter-globalizzazione osservati da Williams. Per non parlare di Apoifis e dei movimenti anarchici ad Atene.

L’elenco potrebbe continuare davvero a lungo e i nomi di chi ha studiato, proprio alla maniera di Roberta Chiroli, attraverso la presenza, la partecipazione e resoconti narrativi basati sull’impiego della prima persona potrebbero agevolmente prendere diverse pagine di questa lettera. Ma vale forse la pena di sottolineare che Bourgois, pur frequentando assiduamente crackhouse e avendo consapevolezza dei reati lì consumati non è poi diventato né uno spacciatore né un tossicodipendente, ma un celeberrimo docente. E che lo stesso è vero per Venkatesh, testimone di una varietà di crimini, ma anche autentica nuova stella dell’antropologia mondiale; per non parlare di Becker, Taussig e pressoché chiunque altro citato nell’elenco precedente. Come dire che la partecipazione ai processi sociali non implica la trasformazione del ricercatore nel suo oggetto di studio.

E, dall’altro, per venire a quanto viene affermato nel secondo stralcio di motivazioni riportato sopra, che il ricercatore è istruito dalle scuole a non perturbare l’ambiente che osserva più di quanto non sia fisiologicamente dettato dalla sua semplice presenza nel contesto, né è generalmente tenuto dalla propria etica professionale a prevenire reati; specie se quei reati costituiscono l’oggetto della sua ricerca (e mentre è ammissibile che possano contemplarsi vistose eccezioni, i reati di cui parliamo qui non sembrerebbero affatto essere di quelli che pongono dilemmi etici, morali o professionali al ricercatore sociale).

Eviterò dunque di elencare ulteriori studi e autori, ma non potrò fare a meno di affrontare alcuni aspetti teorici connessi a questa problematicissima sentenza.

In primo luogo, l’osservazione partecipante dei fenomeni urbani devianti è sistematicamente praticata dagli studiosi sociali quantomeno dagli anni venti del secolo scorso. Per quanto ultimamente qualcuno abbia proposto una differente paternità per il metodo, gli studiosi riuniti attorno alla cosiddetta scuola di Chicago sono stati i primi a praticare questa specifica forma di osservazione e non vi è praticamente forma di abiezione umana che non abbia visto almeno un ricercatore di quel gruppo prendervi parte (e con questo non voglio suggerire che i No-Tav siano abietti).

Venendo agli espedienti narrativi, la prima stagione di quella scuola, ma anche gran parte di quelle a venire, era fondamentalmente positivista. Dal punto di vista narrativo, questo approccio si esplicava nell’impiego della terza persona e di forme impersonali. Inoltre, con vistose eccezioni come per esempio quella di Anderson, impegnato nello studio dei vagabondi, dei diari di campo non si faceva mostra né menzione. Ma non vi è dubbio che fosse proprio il diario a costituire lo strumento per l’analisi e che questo fosse scritto in prima persona (ne sono riprova i famosi diari di Malinowski, pubblicati postumi in epoche recenti, che fanno peraltro mostra del suo razzismo e opportunismo).

Non saprei dire esattamente quando il diario prenda a essere sistematicamente esibito nei testi etnografici. Potrei dire che probabilmente abbia giocato un ruolo fondamentale Geertz e, in particolare, il suo resoconto di un combattimento (illegale) di galli a Bali del 1973. Una situazione clandestina, per quanto ad alta partecipazione popolare, che viene disciolta dall’arrivo della polizia e che viene magistralmente descritta nel saggio attraverso un lungo stralcio diaristico, che si fonda magistralmente con l’analisi e che diverrà tra i testi più importanti dell’antropologia contemporanea.

Di certo, però, è la svolta “costruttivista” di Marcus, Clifford e del già citato Van Maanen negli anni ottanta che segna, tra molte altre cose, la più completa teorizzazione dell’impiego della prima persona. Sintetizzando  brutalmente, l’assunto è che il ricercatore non è onnisciente, ma contribuisce con la sua semplice presenza a creare o co-determinare le scene e i contesti che descrive. Incidenti, errori e situazioni devono perciò essere descritti dettagliatamente; la piena trasparenza delle modalità di conduzione tanto della ricerca quanto dell’analisi prendono a essere viste come un dovere del ricercatore e un diritto del lettore. Coerentemente l’uso della prima persona viene caldeggiato perché, per l’appunto, le azioni non esistono al di fuori delle inter-azioni e della compresenza del ricercatore e dei soggetti del suo studio.

A partire da qui iniziano molte nuove tendenze. E anche molti incidenti giudiziari – potremmo forse degli abbagli – del tutto simili a quello consumatosi a Torino il mese scorso. Il libro “Ethnography at the Edge” di Jeff Farrell e Mark S. Hamm è, per esempio, una lettura che mi permetterei sommessamente di consigliare.

Ciò che troverete lì è una sorta di manifesto della “rogue sociology”, della sociologia canaglia e anche un po’ machista. Troverete, cioè, tesi radicali come quella per cui nessuna conoscenza profonda dei fenomeni devianti può davvero avvenire senza confrontarsi in prima persona con gli stessi rischi, morali o fisici, esperiti dai soggetti studiati. Ma rinverrete lì anche una collezione di saggi riguardanti incidenti giudiziari, motociclistici, dilemmi morali offerti dal campo di ricerca, commissioni di crimini del tutto indipendenti dalla volontà del ricercatore e altro ancora.

In quel libro, insomma, reperirete gli elementi fondamentali del conflitto che sta dividendo voi come magistrati e noi come ricercatori nello svolgimento delle nostre rispettive funzioni.

Se i miei colleghi si staranno mettendo le mani ai capelli per la sintesi sin qui prodotta, ciò che mi importa dirvi, gentili Procuratori, è che Roberta Chiroli viene esattamente da questa storia. E che quello stralcio riportato da La Stampa – e gli altri che sono stati impiegati per assumere la vostra decisione – costituiscono niente di meno e niente di più che l’elemento minimo per potere condurre un’antropologia contemporanea e di qualità. La medesima antropologia che si insegna in gran parte delle università del mondo, a Berkeley come a Ca’ Foscari.

Lasciatemi inoltre dire prima di concludere che penso che le divisioni disciplinari abbiano segmentato e specializzato i saperi ben più di quanto fosse opportuno. Se come cittadini noi siamo tenuti a conoscere quantomeno le leggi fondamentali (non vi sarà sfuggito infatti che certi pronunciamenti negano la possibilità che una conoscenza più completa sia possibile), da questa vicenda non sembra affatto che voi vi sentiate ugualmente tenuti a conoscere quello che succede in altri mondi.

Mondi, talvolta, che, come nel caso dell’Università, costituiscono, alla stregua del vostro, un organo dello Stato. Un organo, per la precisione, deputato alla conoscenza dei fenomeni sociali. Quegli stessi fenomeni che, nell’esercizio delle vostre funzioni, siete quotidianamente chiamati a dipanare. Ma anche a comprendere. Possibilmente in un modo più complesso e meno specifico di quanto non possano fare le informative di polizia. E tra coloro che mettono a disposizione gli strumenti perché quella comprensione possa virtualmente avere luogo, ci siamo noi: gli studiosi di fenomeni sociali, gli antropologi e i sociologi.

Ed ecco perché quella sentenza e quelle motivazioni, gentili Procuratori, disturbano e turbano moltissimi tra noi: esse non sono semplicemente decisioni contro una giovane studiosa, Roberta Chiroli, ma una sentenza contro tutti noi nell’adempimento del nostro dovere istituzionale.

Cordiali saluti,

Pietro Saitta
Ricercatore di Sociologia Generale
Università degli Studi di Messina

Una Lettera aperta ai Procuratori di Torino – di Pietro Saittaultima modifica: 2016-07-17T14:49:19+02:00da davi-luciano
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