Emilio libero da ieri sera

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Arriva con il suo passo sicuro in Clarea e subito l’abbraccio dei compagni di lotta.

di Valsusa Report

L’attivista No   Scalzo, giunge a sorpresa in Clarea, lo attendono il gruppo NPA No che come di consueto oramai da diversi mesi tiene il cantiere sotto stretta sorveglianza segnalando, ad esempio giornate di polvere, che poi si sono tramutate in vere e proprie spinte popolari col successo delle dichiarazioni di Arpa e ASL Spresal sugli sforamenti di polveri sottili, PM2.5 e sulla nuova inchiesta del PM Guariniello.

Emilio giunge all’ora di cena ed è una sorpresa che rende felice tutto il gruppo, tutte le restrizioni sono state tolte dai pendenti dell’attivista, resta da vedere se il giudice accetterà le tesi dei PM Rinaudo e Padalino, accusanti in questo ed altri processi . La serata si è poi conclusa alla Credenza di Bussoleno con il suono di bottiglie stappate, nella gioia di riabbracciare quello che i  definiscono “un uomo giusto”.

Emilio come stai dopo questo periodo di restrizione “sono venuto in Clarea a mangiarmi un panino, intranquillità e con amici”.

V.R. 24.6.15

ESQUISSE DU NEOPANAFRICANISME. L’IDEE PANAFRICAINE EN MARCHE AU XXIe SIECLE …

PANAFRICOM / DEPARTEMENT IDEOLOGIE & PROGRAMMES/

2016 06 23/

https://www.facebook.com/Panafricom2/

http://www.panafricom-tv.com/

LM - COLLOQUE ABIDJAN intervention sur le néopanafricanisme (2016 04 08) VERSION ECRITE (1)

Esquisse du « Néopanafricanisme » au travers des débats fondateurs de trois grands événemets intellectuels : Colloque d’Abidjan (7-8 mai 2016), Conférence de Bujumbura (4 mai 2016), Café Politique de Kinshasa (13 mai 2016) …

 LM - COLLOQUE ABIDJAN intervention sur le néopanafricanisme (2016 04 08) VERSION ECRITE (2)

Colloque « Repenser le Panafricanisme pour une grande génération africaine »

à l’Assemblée Nationale de Côte d’Ivoire

Abidjan, Côte d’Ivoire, 7-8 avril 2016

Luc Michel, Roland Lumumba, Franklin Nyamsi (coordinateur), des universitaires français, ivoiriens, camérounais, congolais …

 Conférence «  Le Burundi au cœur du Panafricanisme »

Bujumbura, Burundi, 4 mai 2016

Luc Michel, Willy Nyamitwe (coordinateur), les représentants de la Politique burundaise – CNDD-FDD (parti présidentiel) et opposition -, société civile, parlementaires, presse nationale …

Café politique du PPRD

Kinshasa, Congo RDC, 13 mai 2016

Henri Mova (SG du PPRD, parti présidentiel de RDC), Luc Michel.

 * Sur PANAFRICOM-TV

de nombreuses autres videos – interviews – interventions

sur ces débats fondateurs du NEOPANAFRICANISME :

sur https://vimeo.com/panafricomtv

# ESQUISSE DU NEOPANAFRICANISME I/

COLLOQUE D’ABIDJAN (1) /

LUC MICHEL : NEOPANAFRICANISME ET GEOPOLITIQUE

* Video de Luc Michel sur PANAFRICOM-TV :

Le Nouveau Panafricanisme. Des idéologies du XXe siècle à la Géopolitique du XXIe siècle

https://vimeo.com/162151604

* Voir aussi sur PANAFRICOM-TV :

Colloque d’Abidjan. Luc Michel dialogue avec le public

https://vimeo.com/163892169

 # ESQUISSE DU NEOPANAFRICANISME II/

COLLOQUE D’ABIDJAN (2) /

LUC MICHEL : REFLEXIONS SUR LE NEOPANAFRICANISME

* Video de Luc Michel (entretien avec GKSTV)

sur PANAFRICOM-TV :

https://vimeo.com/167667647

# ESQUISSE DU NEOPANAFRICANISME III/

COLLOQUE D’ABIDJAN (3) /

ROLAND LUMUMBA : PANAFRICANISME ET HUMANISME

* Video de Roland Lumumba sur PANAFRICOM-TV :

Le Panafricanisme humaniste de Patrice Emery Lumumba

https://vimeo.com/162315859

 # ESQUISSE DU NEOPANAFRICANISME IV/

CONFERENCE DE BUJUMBURA

* Video complète de la Conférence (RTNB)

sur PANAFRICOM-TV :

https://vimeo.com/165748200

# ESQUISSE DU NEOPANAFRICANISME V/

CAFE POLITIQUE DE KINSHASA (1)/

HENRI MOVA : LES RACINES DU PANAFRICANISME

 * Video sur PANAFRICOM-TV :

Ouverture du Café politique du PPRD. Henri Mova retrace l’histoire du Panafricanisme

https://vimeo.com/168729762

# ESQUISSE DU NEOPANAFRICANISME VI/

CAFE POLITIQUE DE KINSHASA (2)/

LUC MICHEL : LE NEOPANAFRICANISME REPONSE AU NEOCOLONIALISME

 * Video sur PANAFRICOM-TV :

Luc Michel esquisse le Néopanafricanisme (géopolitique – idéologie – combats).

https://vimeo.com/168832423

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Page officielle PANAFRICOM II/

IDEOLOGIE DU NEOPANAFRICANISME

https://www.facebook.com/Panafricom2/

http://www.panafricom-tv.com/

Photos : Roland Lumumba et Luc Michel au Colloque d’Abidjan.

AFRICA – L’OTTAVA GUERRA DEL NOBEL PER LA PACE. E LO SCOGLIO ERITREA

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2016/06/africa-lottava-guerra-del-nobel-per-la.htmlMONDOCANE

GIOVEDÌ 23 GIUGNO 2016

 
“La storia della specie e ogni esperienza individuale trasudano prove che non è difficile uccidere una verità e che una bugia ben raccontata è immortale”. (Mark Twain)
 
La libertà è stata perseguitata su tutto il globo; la ragione è stata fatta passare per ribellione; la schiavitù della paura ha reso gli uomini timorosi di pensare. Ma tale è l’irresistibile natura della verità che tutto ciò che chiede, tutto ciò che vuole, è la libertà di apparire” (Thomas Paine, 1791)
 
“E’ mai concepibile che una democrazia che ha rovesciato il sistema feudale e ha sconfitto sovrani possa arretrare davanti a bottegai e capitalisti?” (Alexis de Tocqueville)
 
Cari corrispondenti, questo è l’ultimo pezzo per parecchie settimane. Un po’ sarò fuori, un bel po’ sarò impegnato nella realizzazione del documentario che abbiamo girato in Africa e in Eritrea e che spero porterà in giro per l’Italia, a partire da ottobre, una buona dose di verità su quanto ci deformano e manipolano in vista della riconquista coloniale del continente e della sua avanguardia nel Corno dì’Africa.  Comunque ci continueremo a incontrare nella posta. 
 
 C’è una resistenza, addirittura un’avanguardia? Regime change!
Si parte con una campagna di demonizzazione del leader e del suo regime. Si attivano per la bisogna Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters Sans Frontieres, Medicins Sans Frontieres, Soros, house organs coperti, come “il manifesto”, Ong del posto o, in mancanza, del circondario. Cotti ben bene i neuroni di un’ampia opinione pubblica trasversale, ci si prova con una rivoluzione colorata. Se localmente difettano le basi materiali, umane, come nel caso dell’Eritrea, se ne inventa una esterna, della dissidenza in esilio, possibilmente a Washington e in mancanza di massa critica si fa un fischio alle presstitute e i media sopperiscono. Se poi tutto questo non fa vacillare il reprobo, valutata l’ipotesi di un approccio da dietro col sorriso, alla cubana, vietnamita o iraniana, e trovatola impraticabile di fronte all’ostinazione dell’interlocutore, si passa alle maniere forti: sanzioni per ammorbidire ogni resistenza popolare, suscitare lacerazioni sociali e malumori nei confronti dei vertici  che preparino il terreno all’intervento armato. Diretto, perchè condotto con istruttori, armamenti, finanziamenti e forze speciali proprie, ma occultato dall’impiego visibile e teletrasmesso di sicari surrogati, tipo Isis o nazisti di Kiev. Nel caso in esame, etiopici.
 
 
 
L’ottava guerra di Obama
L’Africa è sotto attacco. Per troppo tempo cinesi e russi hanno dilagato, accaparrandosi forniture, investimenti, infrastrutture, materie prime, amicizie.Tocca ristabilire l’ordine precedente la decolonizzazione. Stavolta, più che europeo, franco-americano. Nella divisione internazionale del lavoro imperialista, alla Francia, comunque sotto tutela Nato, è affidato il recupero del Nord. Da lì gli interventi di regime change e dispotismo proconsolare in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, RCA. Per agevolarli,  si sono fatti comparire i soliti Isis, quelli che, se non contenuti alle origini, poi fanno stragi a Parigi e Bruxelles. Il Centroafrica, eminentemente il Congo, è affidato alle brigate mercenarie di varie multnazionali in competizione. La regione del Lago Vittoria è storicamente quanto si può lasciare ai postimperiali britannici. Il Corno d’Africa, che incombe su Bab el Mandeb, Golfo di Aden, Oceano Indiano e sulle maggiori rotte degli scambi internazionali, è esclusiva Usa. Da qui la guerra, delegata ai sauditi, contro uno Yemen che aveva pensato di prendere in mano il proprio destino, forse animato dall’esempio vincente del dirimpettaio eritreo e che ora è, dichiaratamente e nel silenzio del mondo, destinato al genocidio. Si fosse mai vista qui, dove 20 milioni di esseri umani vengono strangolati dal blocco di terra, aria e mare, una commissione d’inchiesta sui diritti umani dell’ONU!
 
Shabaab, non Isis
Nel caso dellla Somalia in cui una resistenza nazionale islamica, falsamente fatta passare per legata ad Al Qaida e al jihadismo che imperversa altrove e che, diversamente da questi che agiscono per conto di mandanti occidentali o filo-occidentali, si batte contro gli Usa e i suoi clienti, i sicari sono la forza cosiddetta di pace dell’Unione Africana, eminentemente costituita da ascari degli Usa come Uganda e Kenya. Era stata attivata negli anni ’90 anche l’Etiopia che, già aveva fagocitato un pezzo di Somalia e che, per conto degli Usa e della Nato, aveva in un paio di occasioni invaso la Somalia, dopo che la spedizione Nato “Restore Hope” aveva visto americani, italiani e mercenari vari ributtarsi velocemente in mare di fronte all’intrattabilità del popolo somalo.
 
Gli etiopici, baluardo Nato in Africa quanto la Turchia lo è in Medioriente e Asia, a dispetto di una guerra civile endemica tra minoranze e despotismo fascista tigrino e a dispetto di una siccità spaventosa che ha messo alla fame milioni (oltre tutto privati delle loro terre dal landgrabbing cinese e saudita), sono stati attivati nuovamente. Questa volta contro un paese ancora più irriducibile della Somalia e, diversamente da quella, configurato in Stato moderno ed efficiente, unito, compatto, e nella sua strutturale povertà data da elementi oggettivi, orgogliosamente indipendente, in relazione con chiunque, anche con scelte che a volte sorprendono, ma autosufficiente e libero da debiti finanziari e condizionamenti geopolitici.
 
Teste africane dell’Idra
L’Idra a nove teste, del cui scatenamento terroristico e militare ho scritto nell’articolo precedente (“l’IDRA A NOVE TESTE”) con riferimento all’ondata di operazioni sotto falsa bandiera tra Florida, Francia, Belgio, Siria e all’escalation di provocazioni militari, nucleari, lungo i confini della Russia, di teste ora ne sviluppa molte altre, oltre alle mitiche nove del mito, con una frenesia di interventi a 360 gradi che non risparmia nessun potenziale scenario di predazione e distruzione.
 
L’inizio è stato, nel 2008, AFRICOM, il comando Usa e Nato voluto dal Premio Nobel Obama e dalla sua segretaria di Stato Clinton per sistemare il continente nero a completamento delle loro sette guerre condotte tra Asia e Medioriente. AFRICOM che Muhammar Ghedddafi rifiutò di ospitare in Libia riuscendo a convincere tutti gli altri paesi africani a respingerlo. E mal gliene incolse, come sappiamo. Il Comando centrale per l’Africa è tuttora basato a Stoccarda, in Germania, ma intrattiene rapporti (cioè istruisce, addestra, mantiene basi, arma, scorrazza con teste di cuoi e spie, provoca casini interni ed esterni) con ben 53 paesi del Continente su 54 (escluso il Sahara Occidentale, solo parzialmente riconosciuto). Indovinate chi rimane fuori. In Etiopia gestisce una dozzina di basi e presidi, Israele ne ha la metà e, insieme, controllano e fanno funzionare le forze armate del vassallo etiopico.
 
Che, forte di una popolazione sui 90 milioni, tra il 1998 e il 2000 s’è visto dagli Usa mandato alla guerra contro il vicino eritreo, popolazione circa 5 milioni, e se ne è venuto via rotto e ammaccato, pur continuando ad occupare illegalmente una striscia di territorio eritreo, in violazione delle linee di demarcazione dei confini stabilite dall’ONU in un disatteso accordo di Algeri il 12 dicembre del 2000. La guerra costò 70mila morti, in aggiunta alle centinaia di migliaia di vittime eritree cadute nella trentennale lotta di liberazione dall’Etiopia. Da allora l’aggressività etiopica continua a pendere sul piccolo vicino, corroborata dalle continue minacce di guerra fatte pronunciare dai proconsoli imperiali ad Addis Abeba, capitale dove, con Meles Zenawi, prima, e oggi con Hailemariam Desalegn, regna la feroce cricca  del TPLF (Tigray’s People Liberation Front), sentinella dell’imperialismo nel Corno d’Africa.
 
 
Nuovo, ennesimo attacco militare della giunta di Addis Abeba
 
Domenica 12 giugno questo regime, indifferente alla decimazione della sua popolazione, sia per la repressione delle minoranze in lotta (gli Oromo, gli Afar), sia per la spaventosa carestia da siccità, ha lanciato un nuovo attacco contro l’Eritrea nell’area confinaria di Tsorona. Mi ci avevano portato, gli amici eritrei, proprio poche settimane fa, per farmi vedere, dal picco di una catena di monti, l’enorme e verdissimo bassopiano, ricco di nuove colture, che si estendeva ai piedi della nostra posizione fino a una catena contrapposta di azzurre creste addolcite dalla foschia: l’Etiopia. Su questa piana s’era combattuta l’ultima battaglia tra Davide e Golia del 2000, da questa piana gli aggressori, segnati a morte dai mandanti a stelle e strisce, avevano dovuto ritirarsi con perdite inaudite. Ed è qui dove ci hanno ora riprovato. E, nel giro di 48 ore, sono stati ancora una volta battuti e respinti. Succede quando la motivazione da una parte è la patria, la libertà, la solidarietà, la coscienza della propria ragione e, dall’altra, il soldo, il padrone e l’ignoranza. Cose che avevo visto nel Libano degli Hezbollah nell’invasione israeliana del 2006, o in Libia tra patrioti e mercenari qatarioti, prima che rimediassero al disastro i bombardieri Nato.
 
Lo sbattere di sciabole, allestito da chi non sopporta l’esistenza di Stati africani indipendenti e liberi, che si rifiutano al dominio neocolonialista e vanno per la propria strada (ne sono rimasti tre, forse quattro: oltre all’Eritrea, lo Zimbabwe, l’Algeria, l’Egitto) e tanto meno chi ne rappresenta la vera avanguardia, è stato calcolato con attenzione. Doveva riportare un paese ignorato dai mezzi d’informazione, se non per vicende legate alla migrazione, alla ribalta dello scontro tra democrazie e violatori dei diritti umani. Il vecchio e logoro cliché che segna la sceneggiatura di tutte le imprese belliche del più grande violatore dei diritti umani della Storia, l’Occidente “democratico”. Pochi giorni dopo era prevista a Ginevra un’altra deflagrazione, ancora più letale. Quella del rapporto di una Commissione d’inchiesta sull’Eritrea totalmente farlocca, messa in piedi dall’ONU, ancora una volta prestatasi, con il pallido ma fedele maggiordomo Ban Ki Moon, a fare da braccio politico – e domani armato – degli Usa.
 
Commissione ONU per preparare la guerra
I tre membri della Commissione, capeggiati dal fiduciario Mike Smith, il 21 giugno in conferenza stampa, hanno rivelato che in Eritrea, dal 1991 nientemeno, si è praticata ogni più abominevole violazione dei diritti umani: incarcerazioni di massa, schiavismo ai danni di 400mila persone, stupri sistematici, tortura e assassinio su vasta scala, un servizio militare a tempo indeterminato. Per impedire che i cittadini fuggano da questo inferno, il dittatore Isaias Afewerki ordinerebbe ai suoi sgherri di sparare a chi cerca di superare i confini. Sarebbero 5000 gli eritrei che fuggirebbero ogni mese, così rischiando la vita. Ogni singolo attimo della vita di ogni persona sarebbe controllato, ogni opposizione schiacciata da una repressione feroce. Crimini conro l’umanità verrebbero commessi da 25 anni (quest’anno l’Eritrea ha celebrato un quarto di secolo di indipendenza strappata con le armi all’Etiopia e alle grandi potenze Usa e URSS). Sarebbero i massimi dirigenti in persona a commettere questi crimini che non verrebbero a conoscenza della comunità internazionale solo perché l’Eritrea figura all’ultimo posto nella classifica della libertà di stampa, dopo la Corea del Nord. L’elenco continua e configura un Grand Guignol  di orrori al di là di ogni immaginazione. Tanto ci hanno dato dentro, i tre gaglioffi dell’inchiesta, da aver oscurato quanto di più grottesco era stato fantasticato sulla Corea del Nord, su Saddam, Gheddafi….Caligola, Nerone…
 
 
Una carovana di migiliaia di emigrati eritrei, provenienti da tutto il mondo, presunte vittime scampate alla ferocia dell’abbietto dittatore, ha opportunamente manifestato con forza davanti al palazzo ONU di Ginevra, ribadendo una volta di più l’evidente malafede e strumentalità di una commissione che insiste a non voler ascoltare gli eritrei della diaspora. Figuriamoci se gli obiettivi investigatori sia siano dimostrati disposti ad accettare almeno un documento portato dai manifestanti. Tutti evidenti agenti di Isaias.
 
Sanzioni per decimare la popolazione
Come ha olttenuto la Commissione questi dati? Interrogando circa 500 “eritrei” in Etiopia e in campi di rifugiati in Sudan, tutti rigorosamente anonimi, il che già toglie ogni credibilità all’operazione. Si è rifiutata pervicacemente di ascoltare le voci della comunità eritrea all’estero, forte di 47mila cittadini, che, come un solo uomo, ha chiesto di essere ascoltata.  Alle sede ginevrina si sono presentate 800 persone che si erano registrate per testimoniare personalmente. La Commissione si è rifiutata di riceverne anche una sola! Bella prova di serietà e obiettività. Secondo tecnici ONU dei rifugiati almeno il 40% di coloro che all’atto dell’identificazione si dicono eritrei, non lo sono. La stessa ONU, contraddicendo le sue spie al servizio di Washington, ha rilevato che nel 2014 e nel 2015 il flusso dei migranti eritrei si è completamente fermato. Quelli che si dichiarano eritrei sono perlopiù etiopi, a volte somali o sudanesi, popoli dal retroterra etnico e dalla morfologia affini . Nel 2009 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, prendendo a pretesto un presunto aiuto eritreo agli Shabaab somali, mai dimostrato perché del tutto inventato,  decide di infliggere sanzioni all’Eritrea: un embargo di armi, blocco di fondi e impedimento di transazioni, perfino delle rimesse dalla diaspora eritrea, voce importante nel bilancio statale.
 
 Contemporaneamente si assicura ai migranti eritrei lo stesso automatismo della concessione dell’asilo politico prima facie, cioè automatico. Come veniva garantito ai gusanos cubani a Miami. Chi non si dichiarerebbe eritreo venendo da paesi non insicuri, non in guerra, non definiti dittature e, in più, alleati o vassalli dell’Occidente, per cui verrebbe subito rimpatriato o rinchiuso?  E tra le decine di migliaia di esuli eritrei che difendono il proprio paese e la sua leadership, vuoi che non ci possa essere quello senza scrupoli che, per garantirsi la benevolenza del paese ospitante, non ripeta a pappagallo le accuse dei colonialisti?
 
Resilienza !
Chiunque non in malafede e non manovrato abbia visitato l’Eritrea di oggi, comprese perfino delegazioni di parlamentari europei, smentisce totalmente e con conoscenza di causa le assurdità propalate da una commissione di venduti e degna della stessa considerazione di quella Corte Penale Internazionale che, dalla sua nascita, ha incriminato solo africani, o di quel Tribunale per la Jugoslavia, allestito e pagato dagli Usa, servito a satanizzare e ammazzare serbi per esonerare dai loro crimini gli aggressori Nato, D’Alema compreso. Si incontra, in un paese di rara bellezza e varietà ambientale, un popolo gentile, sorridente, che vive, pur tra ristrettezze economiche che, a dispetto delle risorse naturali recentemente scoperte, soprattutto minerarie, sono accentuate dall’embargo e dall’isolamento conseguente, in serenità e armonia. Nessun segno di repressione, di militarizzazione, di controllo capillare. I massimi dirigenti girano ovunque senza scorta, la vita scorre nella più assoluta normalità, la coesione sociale, pur nelle differenze tra le nove etnie e le tre grandi religioni, cattolica, ortodossa, islamica, tutte rispettate e protette, pare forte e convinta. La differenza tra lo stipendio di un ministro e quella di un operaio specializzato è nulla e le sacche di povertà, pur esistenti, vengono affrontate dalle organizazioni di massa interne al FPDG (Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia), delle donne, dei giovani, dei disabili, dei veterani della guerra di liberazione.
 
 
La parola d’ordine che segna tutto il cammino di questo popolo, la cui lotta di liberazione ho avuto il privilegio di accompagnare sul campo, è resilienza. Resistere ed essere autosufficienti, non dovere niente a nessuno, far collaborare tra di loro tutti i settori della società, garantire a chiunque, anche a scapito di altri avanzamenti, sanità, istruzione e abitazione, di elevato standard. Visitare una scuola o un ospedale ad Asmara, o Keren, o Massaua, significa coprirsi il capo di cenere a pensare allo stato delle nostre strutture e dei nostri servizi.
 
Imporre a qualsiasi attività produttiva le più rigorose norme ecologiche. Assicurare la totale emancipazione ed eguaglianza delle donne, lottando con determinazione anche contro usanze arcaiche, come le mutilazioni genitali, sopravvissute in limitate aree remote del paese. Quanto ai presunti 400mila schiavi del servizio militare “infinito”, la realtà è che, negli anni delle aggressioni etiopiche e della continuata condizione di non guerra non pace, c’è stato un prolungamento della leva, normalmente di 18 mesi (succede in Israele, dove si è a disposizione fino a oltre i 50 anni e non per garantire al paese la libertà, ma per opprimere il popolo titolare di quella terra. E nessuno dice niente): di fronte c’è la più grande potenza militare del continente. Per i giovani eritrei, di cui la Commissione d’inchiesta deplora il “lavoro forzato”, il servizio militare significa difesa della patria e collaborazione alla sua vita, allo sviluppo, insieme al volontariato civile che le popolazioni impegnano sul proprio territorio. Ho visto militari, donne, anziani, studenti, lavorare al rimboschimento di montagne minuziosamente terrazzate, scavare canali ed erigere dighe per l’irrigazione. Sono le infrastrutture che hanno consentito agli eritrei di non cadere vittima, come occorso agli etiopi, di una siccità micidiale, implacabile dal 2009. L’acqua non manca né al consumo umano, né alle coltivazioni. Sarrebbe simpatico vedere i nostri militari, quelli con le colubrine agli angoli delle strade e nei metrò, oppure quegli altri che girano da guardioni di armatori mercantili per gli oceani e fucilano pescatori, adoperarsi attorno a frane, contro l’incommensurabile dissesto idrogeologico italiano, su alberi per rimboschire l’Abruzzo.
 
 
 
Questo paese, è vero, ha a capo la stessa persona, Isaias, che l’ha guidata per la massima parte della sua guerra di liberazione, partita nel 1961. Il popolo riconosce in lui il padre della patria, il garante dell’indipendenza e dell’unità. Il retroterra storico, culturale, di lotta, la volontà del popolo, lo legittimano. Il paese viene portato avanti  da una squadra di persone oneste, impegnate, assolutamente umili, più vicini al popolo di quanto qualsiasi governante occidentale si sia mai sognato. Ne ho incontrato diversi e mi sono lasciato alle spalle il peso e il fastidio della prosopopea, della supponenza, della boria guapposa dei nostri notabili, tutti pezzi da novanta, perlopiù farlocchi.
 
Utilizzando il sicario etiopico, i mercenari ONU, le Ong e tutto il cucuzzaro dei diritti umani  – sul “manifesto” e affini ne leggerete delle belle, nella solita unanimità umanitarista con cani e porci mediatici (chiedo scusa a cani e maiali) – gli Usa puntano al regime change. Con le buone non gli riuscirà mai. Dunque con le cattive. C’è solo da vedere se sarà l’ultima, l’ottava, guerra del più sanguinario presidente nella storia degli Stati Uniti, o la prima della testa bionda dell’Idra che gli succederà.
 
Come con la Libia e la Somalia, che, da colonie della monarchia e del fascismo, l’Italia ha stuprato, depredato, massacrandone la popolazione nel nome della civiltà bianca e cristiana, per poi ripetere ed esaltare questi crimini nelle guerre al seguito degli Usa e nel nome dei diritti umani propri della civiltà bianca e cristiana, il nostro paese, la sua classe dirigente e i suoi fiancheggiatori,presunti oppositori, hanno nei confronti dell’Eritrea un debito enorme. Materiale e morale. Un debito iniziato alla fine dell’800 e andato crescendo fino a quando un altro colonizzatore non ce ne ha scacciato. Questo popolo antichissimo, che alberga nel suo seno le origini dell’uomo, ha fatto una fatica mostruosa e ha compiuto un’opera nobilissima per sopravvivere e liberarsi. Associarci ai nuovi cannibali, non usare ogni nostra fibra per denunciarli e fermarli, farebbe di noi degli abbietti complici. Indegni di uscire alla luce del sole. Dall’Eritrea, avanguardia africana, abbiamo solo da imparare.
 Eritrea, 1971, con il vostro cronista.
 
Pubblicato da alle ore 15:06

Incontro a Frosinone sul TTIP, Trattato di Libero Scambio Usa-UE

 15 luglio, Largo Paleario 7
FULVIO GRIMALDI presenta il docufilm “MESSICO, ANGELI E DEMONI NEL LABORATORIO DELL’IMPERO”
che illustra la distruzione di un grande paese per mano del NAFTA, trattato di libero scambio Usa-Messico, modello del TTIP.
messico copertina
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Giappone, in migliaia a manifestazione contro la base militare USA ad Okinawa

come fanno regolarmente i ns “antagonisti”

okinawa
19.06.2016
 
Circa 65mila giapponesi si sono radunati ad Okinawa per partecipare ad una manifestazione di protesta contro gli Stati Uniti, una delle più grandi negli ultimi 20 anni, riporta la “Reuters”.
 
“Le proteste segnano il punto più basso nei rapporti tra Stati Uniti e Giappone relativamente ad Okinawa e mettono a rischio i piani per trasferire la base in un’altra parte dell’isola,” — si legge nel testo dell’agenzia di stampa.
 
Secondo l’agenzia “Kyodo”, i dimostranti mostravano molti cartelli e striscioni con le scritte “Marines go home” (Marines andate via) e “La nostra rabbia ha raggiunto il limite.” Dopo il corteo, i manifestanti hanno firmato una petizione che chiede al governo centrale di scusarsi con gli abitanti dell’isola.
 
Secondo l’agenzia, l’ultima volta che i giapponesi hanno preso parte ad una manifestazione così numerosa risale a 20 anni fa, dopo che 3 soldati americani avevano rapito e stuprato una scolara giapponese di 12 anni.
 
Ad Okinawa risiedono 50mila americani, di cui 30mila nelle basi militari. Gli Stati Uniti hanno occupato l’isola fino al 1972 e al momento sotto il controllo delle forze armate statunitensi resta circa un quinto del territorio.

Il Sindaco di Agliana vieta la piazza al Comitato per il NO al referendum

ECCOLI i difensori del popolo e della democrazia…… Il M5S locale meglio che chiarisca, sarebbe rischioso paragonarlo a Sel e Pd (sulle cui “qualità” non ci sono dubbi)
 
sabato, 18, giugno, 2016
 
mangoni-giacomo
AGLIANA – Ad Agliana non ci saranno banchetti del comitato aglianese per la raccolta delle firme per il no al referendum costituzionale. Il sindaco di Agliana Giacomo Mangoni-  eletto nella lista che riuniva Pd, 5 Stelle e Sel – ha negato l’uso del suolo pubblico richiesto dal Comitato per il no. Motivazioni? Politiche.
 
Mangoni, infatti, ha spiegato che è “inopportuna la concessione di suolo pubblico per una iniziativa politica di parte tendenzialmente divisiva”, in una piazza dove si svolgono le manifestazioni del Giugno aglianese.
Un atto politico, perché il rilascio di questo tipo di autorizzazioni è – di norma – di competenza del comandante di Polizia municipale. La quale, aveva invece rilasciato l’autorizzazione per piazza Bellucci.
 
Il Comitato, ovviamente, non l’ha presa affatto bene. “Il sindaco – spiegano in un comunicato – è rappresentante di tutta la cittadinanza e garante, nei limiti delle sue competenze, dei diritti fondamentali di tutti, sia del significato di una raccolta firme per il referendum costituzionale”.
 

Il PD: da partito del popolo a club delle élite

pdelite
20/06/2016
La mutazione antropologica dell’elettorato di centrosinistra sembra essere giunta a maturazione. L’elettore dem è parte integrante del sistema neoliberale…
 
 
E’ interessante analizzare i dati dei ballottaggi per le elezioni comunali, che si sono tenuti nella giornata di ieri in alcune importanti città italiane, tra cui Torino. La mappa interattiva pubblicata da Sky riporta, per il capoluogo piemontese, un dato eloquente: la maggior parte dei voti appannaggio di Fassino, sindaco uscente targato PD, arriva dai quartieri più centrali della città, oltre che da quelli “di collina”, dove il reddito medio è più alto, mentre i voti che hanno trascinato Appendino (M5S) all’inatteso successo arrivano principalmente dai quartieri delle periferie (Lingotto, Barriera di Milano, Borgata Vittoria ecc.). Anche a Roma, almeno al primo turno, si è verificato questo schema: il voto al PD è arrivato sopratutto dai quartieri centrali, mentre nelle vaste periferie capitoline si è votato cinque stelle.
 
Non è un dato insolito: da alcuni anni ormai, appare evidente come il PD abbia nettamente perso terreno nei quartieri popolari, mentre resiste, e talvolta si consolida, nelle zone centrali delle città, perlomeno in quelle più grandi, dove lo stacco tra centro e periferia è tangibile. Appendino ha aumentato esponenzialmente i suoi voti rispetto al primo turno, segno che, specie nelle periferie, anche gli elettori di altri partiti hanno preferito la giovane candidata cinque stelle al navigato sindaco in carica.
 
Caso diverso quello di Milano, dove il voto si è distributo piuttosto equamente tra centro e periferie tra centrodestra e centrosinistra; ma Milano è, assieme a Napoli, la città dove il M5S ha incontrato le maggiori difficoltà, non riuscendo a sfondare rispetto ai partiti tradizionali, anche a cause di proprie contraddizioni e problematiche interne.
 
Lo schema “politico-urbanistico” che si sta creando, almeno nei grandi centri, è significativo abbastanza da non poter essere trascurato. Il voto popolare non è più intercettato dalla sinistra: esso viene intercettato da movimenti “di protesta”, percepiti come “anti-sistema” dalla popolazione, in particolare il M5S e la Lega Nord (nel settentrione), che vengono scelti dall’elettorato in base alla propria sensibilità politica di fondo. Il centrodestra berlusconiano tiene localmente (da notare, restando in ambito Nord-Ovest, la vittoria della destra a Savona dopo diciott’anni di governo piddino), ma nel complesso a livello nazionale perde terreno. E comunque vince, come a Savona, solo quando ottiene l’appoggio delle destre “popolari”, come appunto la Lega, secondo lo schema di alleanze promosso dal governatore della Liguria Giovanni Toti.
 
La mutazione antropologica dell’elettorato di centrosinistra sembra essere giunta a maturazione, dopo un periodo di lungo travaglio interiore. L’elettore dem è parte integrante del sistema neoliberale, ha plasmato la sua coscienza politica, economica e sociale all’università, vive in centro, in genere lavora come dipendente, ma è anche ben presente nelle professioni e nel mondo imprenditoriale. Si comporta spesso con disprezzo nei confronti del sentimento popolare, chiamato con sufficienza “gentista”, che nella sua ampia disorganizzazione ideologica trasuda però di rigurgiti antisistema anche molto decisi.
 
L’elettore dem è invece sostanzialmente conservatore: essendo un ingranaggio della macchina neoliberale dominante, non ha alcun interesse a una trasformazione sostanziale dello status quo, ma al massimo a una sua timida riforma. In questo è perfettamente rappresentato da Matteo Renzi, del quale appoggia in toto le riforme, vuoi per interesse diretto (si pensi ai tanti imprenditori renziani che hanno caldeggiato il Job Act), o per effettiva immedesimazione ideologica. E’ impressionante la spaccatura di pensiero e di ideali che divide l’elettorato dem “moderno” da quello, più anziano, che ancora sostiene il PD dopo aver a suo tempo sostenuto il PCI e i DS: ossia, chi animava le feste dell’Unità, le case del popolo, i piccoli circoli ARCI e faceva attivismo in piazza “per il partito”. Oggi quell’Italia è, in larga misura, scomparsa per sempre: le periferie metropolitane odierne hanno pochi centri di ritrovo, sono “non luoghi” urbanistici pieni di “terre di nessuno” dove imperversa la microcriminalità. Il sottoproletariato urbano, come lo chiamerebbe Marx, popola zone anonime, tutte uguali, palazzoni anni ’60 privi di un’anima, dividendosi tra lavoretti saltuari, precariato (quando va bene), e le slot machines nelle tabaccherie.
 
Si tratta di un contesto pressoché ignorato dai vertici del PD, che puntano, come si è visto, a un’altra categoria sociale, più allettante sul piano del ritorno politico:quella che in America verrebbe chiamata dei “liberal”, la borghesia medio-alta di formazione culturale liberale e progressista, molto attiva sui social e capace di influenzare l’opinione pubblica corrente. Ma è nei contesti urbani di periferia che nasce, e cresce, anche in maniera confusa e incerta, la resistenza al sistema dominante: è nei viali e negli stradoni anonimi e semi-abbandonati che i cittadini più sensibili si attivano per cambiare rotta, talvolta con forme di militanza concreta (si pensi all’ormai lunga esperienza dei MeetUp grillini), e ancora più spesso esprimendosi nel modo più semplice e diretto, attraverso il voto.
 
Gli effetti di questa divisione interna nelle città si vedono oggi, con la profonda spaccatura che si è palesata nell’elettorato “centrale” e “periferico” di due città estremamente importanti per il sistema-Italia, come Roma e Torino.

“I GOVERNI NON DEVONO ASCOLTARE GLI ELETTORI”: IL DELIRIO DI ONNIPOTENZA DI JUNCKER (MA VA LA!)

è del 6 maggio, ma tanto per ricordare cosa è la UE DEI POPOLI…….(UNA BUGIA PER ALLOCCHI O COLLUSI)
 
junker1
06/05/2016
 
I capi di governo degli Stati dell’Unione Europea non dovrebbero “ascoltare così tanto gli elettori“. Parola di Jean-Claude Juncker. Le improvvide dichiarazioni del presidente della Commissione Europea sono arrivate ieri da Roma, dove il numero uno dell’esecutivo dell’Unione si è recato per presenziare al conferimento del Premio Carlomagno a Papa Francesco. Nella splendida cornice dei Musei Capitolini Juncker ha voluto strigliare quei politici definiti “europei a tempo determinato”, pronti a rivolgersi a Bruxelles solo nel momento di incassare, e mai quando è l’ora di dare.
 
Troppo spesso i governanti del Vecchio Continente, ha spiegato l’ex primo ministro del Lussemburgo, guardano solamente ai sondaggi e promuovono misure destinate perlopiù a soddisfare le richieste immediate dell’opinione pubblica interna. “Chi ascolta l’opinione pubblica interna – ha spiegato Juncker – non può promuovere la costruzione di un sentimento comune europeo, può non sentire la necessità di mettere in comune gli sforzi. Abbiamo troppi europei part-time.”
 
Il Presidente della Commissione ha poi ricordato gli anni felici in cui veniva approvato il trattato di Maastricht: “Era un periodo stimolante, stavamo lavorando passo passo per convergere verso una moneta unica: c’era un sentimento condiviso da ministri degli Esteri e primi ministri, ci sentivamo addosso la responsabilità di fare la storia. Ecco, ora tutto questo è finito.” Se c’è però anche una minima possibilità di riportare in auge quel sentimento, non è di certo trascurando di monitorare con costanza il polso dell’opinione pubblica. Gli elettori cercano a gran voce di farsi sentire: spiace che Juncker sembra volerli ascoltare solo nei momenti di consenso.