Il PD: da partito del popolo a club delle élite

pdelite
20/06/2016
La mutazione antropologica dell’elettorato di centrosinistra sembra essere giunta a maturazione. L’elettore dem è parte integrante del sistema neoliberale…
 
 
E’ interessante analizzare i dati dei ballottaggi per le elezioni comunali, che si sono tenuti nella giornata di ieri in alcune importanti città italiane, tra cui Torino. La mappa interattiva pubblicata da Sky riporta, per il capoluogo piemontese, un dato eloquente: la maggior parte dei voti appannaggio di Fassino, sindaco uscente targato PD, arriva dai quartieri più centrali della città, oltre che da quelli “di collina”, dove il reddito medio è più alto, mentre i voti che hanno trascinato Appendino (M5S) all’inatteso successo arrivano principalmente dai quartieri delle periferie (Lingotto, Barriera di Milano, Borgata Vittoria ecc.). Anche a Roma, almeno al primo turno, si è verificato questo schema: il voto al PD è arrivato sopratutto dai quartieri centrali, mentre nelle vaste periferie capitoline si è votato cinque stelle.
 
Non è un dato insolito: da alcuni anni ormai, appare evidente come il PD abbia nettamente perso terreno nei quartieri popolari, mentre resiste, e talvolta si consolida, nelle zone centrali delle città, perlomeno in quelle più grandi, dove lo stacco tra centro e periferia è tangibile. Appendino ha aumentato esponenzialmente i suoi voti rispetto al primo turno, segno che, specie nelle periferie, anche gli elettori di altri partiti hanno preferito la giovane candidata cinque stelle al navigato sindaco in carica.
 
Caso diverso quello di Milano, dove il voto si è distributo piuttosto equamente tra centro e periferie tra centrodestra e centrosinistra; ma Milano è, assieme a Napoli, la città dove il M5S ha incontrato le maggiori difficoltà, non riuscendo a sfondare rispetto ai partiti tradizionali, anche a cause di proprie contraddizioni e problematiche interne.
 
Lo schema “politico-urbanistico” che si sta creando, almeno nei grandi centri, è significativo abbastanza da non poter essere trascurato. Il voto popolare non è più intercettato dalla sinistra: esso viene intercettato da movimenti “di protesta”, percepiti come “anti-sistema” dalla popolazione, in particolare il M5S e la Lega Nord (nel settentrione), che vengono scelti dall’elettorato in base alla propria sensibilità politica di fondo. Il centrodestra berlusconiano tiene localmente (da notare, restando in ambito Nord-Ovest, la vittoria della destra a Savona dopo diciott’anni di governo piddino), ma nel complesso a livello nazionale perde terreno. E comunque vince, come a Savona, solo quando ottiene l’appoggio delle destre “popolari”, come appunto la Lega, secondo lo schema di alleanze promosso dal governatore della Liguria Giovanni Toti.
 
La mutazione antropologica dell’elettorato di centrosinistra sembra essere giunta a maturazione, dopo un periodo di lungo travaglio interiore. L’elettore dem è parte integrante del sistema neoliberale, ha plasmato la sua coscienza politica, economica e sociale all’università, vive in centro, in genere lavora come dipendente, ma è anche ben presente nelle professioni e nel mondo imprenditoriale. Si comporta spesso con disprezzo nei confronti del sentimento popolare, chiamato con sufficienza “gentista”, che nella sua ampia disorganizzazione ideologica trasuda però di rigurgiti antisistema anche molto decisi.
 
L’elettore dem è invece sostanzialmente conservatore: essendo un ingranaggio della macchina neoliberale dominante, non ha alcun interesse a una trasformazione sostanziale dello status quo, ma al massimo a una sua timida riforma. In questo è perfettamente rappresentato da Matteo Renzi, del quale appoggia in toto le riforme, vuoi per interesse diretto (si pensi ai tanti imprenditori renziani che hanno caldeggiato il Job Act), o per effettiva immedesimazione ideologica. E’ impressionante la spaccatura di pensiero e di ideali che divide l’elettorato dem “moderno” da quello, più anziano, che ancora sostiene il PD dopo aver a suo tempo sostenuto il PCI e i DS: ossia, chi animava le feste dell’Unità, le case del popolo, i piccoli circoli ARCI e faceva attivismo in piazza “per il partito”. Oggi quell’Italia è, in larga misura, scomparsa per sempre: le periferie metropolitane odierne hanno pochi centri di ritrovo, sono “non luoghi” urbanistici pieni di “terre di nessuno” dove imperversa la microcriminalità. Il sottoproletariato urbano, come lo chiamerebbe Marx, popola zone anonime, tutte uguali, palazzoni anni ’60 privi di un’anima, dividendosi tra lavoretti saltuari, precariato (quando va bene), e le slot machines nelle tabaccherie.
 
Si tratta di un contesto pressoché ignorato dai vertici del PD, che puntano, come si è visto, a un’altra categoria sociale, più allettante sul piano del ritorno politico:quella che in America verrebbe chiamata dei “liberal”, la borghesia medio-alta di formazione culturale liberale e progressista, molto attiva sui social e capace di influenzare l’opinione pubblica corrente. Ma è nei contesti urbani di periferia che nasce, e cresce, anche in maniera confusa e incerta, la resistenza al sistema dominante: è nei viali e negli stradoni anonimi e semi-abbandonati che i cittadini più sensibili si attivano per cambiare rotta, talvolta con forme di militanza concreta (si pensi all’ormai lunga esperienza dei MeetUp grillini), e ancora più spesso esprimendosi nel modo più semplice e diretto, attraverso il voto.
 
Gli effetti di questa divisione interna nelle città si vedono oggi, con la profonda spaccatura che si è palesata nell’elettorato “centrale” e “periferico” di due città estremamente importanti per il sistema-Italia, come Roma e Torino.
Il PD: da partito del popolo a club delle éliteultima modifica: 2016-06-26T09:06:56+02:00da davi-luciano
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