La Francia e noi. 5 brevi riflessioni

Clash City Workers | clashcityworkers.org

27/05/2016

Al momento in cui scriviamo quest’articolo, la Francia è bloccata: le manifestazioni e gli scioperi settoriali e generali contro il progetto di riforma del diritto del lavoro si contano a decine e non accennano a finire.

Lo sciopero delle raffinerie ha lasciato a secco la maggior parte dei distributori di carburante, e quello delle centrali nucleari rischia di lasciare senza corrente il paese. Nel frattempo il governo ricorre ad una sorta di fiducia per blindare il provvedimento, mostrando contemporaneamente deboli segni di apertura al solo scopo di smontare una protesta enorme, la cui grandezza però non riesce ad attraversare le Alpi: sui nostri giornali, infatti, nessuna traccia. Sui social, intanto, decine e decine di lavoratori si disperano: perché loro sì e noi no? Per evitare di cadere in spiegazioni di ordine antropologico su una presunta “incapacità” degli italiani a mobilitarsi, proviamo a condividere alcune riflessioni, allo scopo di capire tutti insieme una cosa semplice: solo chi non lotta perde, e solo chi si arrende in partenza è sconfitto.

1. i sindacati francesi e quelli italiani. L’OCSE riporta, per il 2013, una percentuale di lavoratori iscritti al sindacato pari al 7,7% in Francia, a oltre il 37% in Italia. La CGT, principale sindacato francese, paragonabile anche per storia politica alla nostra CGIL, nel lavoro privato conta l’1-2% di iscritti al massimo. Del resto anche i numeri italiani vanno ridimensionati, dal momento che degli oltre cinque milioni di tesserati dichiarati dalla CGIL per il 2015 quasi tre milioni sono pensionati, quindi non fanno parte della popolazione attiva. La copertura sindacale, invece, ovvero la quantità di lavoratori coperti da contrattazione collettiva, si aggira tra l’80% e il 90% in entrambi i paesi; sempre al di qua e al di là delle Alpi vigono norme simili sulla rappresentanza, quantificata sulla base del numero di iscritti e dei risultati elettorali delle diverse sigle. Insomma, la differenza fondamentale risiederebbe nella maggiore debolezza dei sindacati francesi rispetto a quelli italiani, dovuta al minor numero di iscritti. Ma è l’unica differenza?

2. lotta e concertazione. I sindacati francesi, a differenza di quelli italiani, non “cogestiscono” insieme ai padroni il mondo del lavoro. Tra le cause non vi è solo la relativa debolezza, ma anche il fatto che in Francia la legge, storicamente, è più “forte” della contrattazione: i sindacati e le associazioni padronali, nei contratti di categoria, possono “deliberare” su molte meno cose rispetto all’Italia, e hanno quindi meno poteri. Inoltre in Italia i sindacati più grandi gestiscono direttamente fondi pensione, CAF, siedono nei cosiddetti organismi bilaterali, nel CNEL, hanno insomma un ruolo che va ben oltre la rivendicazione e il conflitto, un ruolo anzi che vede questi ultimi due aspetti minoritari. A cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 sia in Italia che in Francia una buona parte del mondo sindacale – in Italia la CGIL, in Francia la CFDT, simile alla CISL – ha abbracciato la linea della “compatibilità” con gli interessi dei padroni; l’Italia, però, è andata molto oltre, e i sindacati più grandi hanno progressivamente rinunciato alla lotta in cambio di un maggior potere di cogestione nel mondo del lavoro. Risultato: benché in linea con tutti i paesi industrializzati, le ore di sciopero sono calate molto più in Italia che in Francia. Nel 2008, secondo l’ILO, in Francia si è scioperato quasi il doppio che in Italia, e anche nel 2010, confrontando diversi studi, in Italia abbiamo fatto circa un milione di ore in meno di sciopero. Perché? Lo abbiamo appena detto: così come dei sindacati coinvolti (complici) nella gestione del lavoro hanno interesse a scioperare il meno possibile, allo stesso modo dei sindacati più deboli, come quelli francesi, hanno interesse, per questione di sopravvivenza e di appeal, ad assumere posizioni più radicali e a portare avanti le rivendicazioni con maggior determinazione. Va aggiunto, inoltre, che proprio per assecondare le esigenze “soporifere” dei nostri sindacati, negli ultimi 25 anni circa le leggi sullo sciopero in Italia sono diventate molto meno permissive e più severe.

3. Non c’è più niente da fare? Per nulla, anzi: dopo aver elencato alcuni degli elementi che rendono oggettivamente più difficile la lotta in Italia, ricordiamoci quanto è stato difficile, per i padroni, portare a casa il risultato. 13 anni ci sono voluti per cancellare l’articolo 18; un quindicennio circa per riformare le pensioni; ancora oggi, in alcune grandi aziende, il Jobs Act è stato disapplicato grazie alla forza dei lavoratori, che hanno pressato i loro rappresentanti sindacali. Ancora oggi si strappano notevoli aumenti salariali e si fanno cancellare licenziamenti, come nella logistica; ancora oggi i lavoratori in lotta ottengono di essere assunti dal pubblico e non essere più precari. Non c’è da disperarsi, quindi, né da pensare che altrove si vince magari perché gli altri “hanno le palle” e noi no: queste sono frasi di merda che abbiamo sentito dire da diversi sindacalisti per giustificare il loro opportunismo o inettitudine. La verità è che molto spesso i lavoratori che vogliono lottare devono scontrarsi prima col sindacalista, poi col padrone: due nemici al posto di uno! Tutto sta, invece, nel rendersi conto di quali sono i nostri punti di forza, da valorizzare, e le nostre debolezze da superare: il resto verrà facile, tanto finché ci saranno schiavi ci saranno rivoltePer capire queste cose, guardiamo di nuovo a quello che succede al di là delle Alpi.

4. Notti in piedi, giorni in sciopero! Ha fatto tanto scalpore, e giustamente, il movimento di occupazione delle piazze che sta coinvolgendo centinaia di migliaia di cittadini francesi, un’ondata di partecipazione democratica che ha rotto il clima di isolamento e paura che era seguito agli attentati di Novembre. Nell’analizzare l’efficacia delle proteste, rendiamoci conto però che la loro principale forza sta nel gioco di sponda che sono riuscite a costruire con le mobilitazioni dei lavoratori. Ne hanno rilanciato e generalizzato i contenuti, sollevando la molteplicità di temi e problemi che si intrecciano a quelli dello sfruttamento nel luogo di lavoro. Sono così riusciti a dare risonanza e legittimazione alle forme di lotta più dure, dai cortei agli scioperi ai blocchi. Lotte spesso difficili da portare avanti, ma in grado di far paura realmente ai padroni e di toccare i gangli del potere. I lavoratori dei trasporti, dell’energia, della logistica, della meccanica, dei servizi pubblici, della grande distribuzione, per citare i principali settori essenziali della società contemporanea, quando decidono di astenersi dal lavoro, e di farlo in modo da creare un danno – quindi senza preavviso, il più a lungo possibile, etc etc – iniziano a fare una danno, crescente di minuto in minuto, alla sola cosa che interessa ai padroni dopo ma forse più della loro stessa vita: le loro tasche. Non solo: quando l’astensione dal lavoro rende un paese ingovernabile, chi governa quel paese è costretto ad intervenire perché il controllo gli può sfuggire rapidamente di mano. La risposta repressiva è sempre possibile, ma certamente non facile come quando una protesta non comporta nessun disagio; inoltre uno sciopero in un settore strategico – ad esempio i trasporti – è in grado di moltiplicare il danno: tutti i settori che sono infatti collegati ai trasporti vedranno i loro guadagni diminuiti a cascata! Il potere dei lavoratori è enorme, ed è necessario ricostruire la consapevolezza della nostra forza.

5. Il punto debole delle lotte in Francia (e in Spagna, Grecia, Portogallo…). Prima o poi questa lotta finirà, portando a casa un risultato proporzionato all’intensità del combattimento che, crediamo, sarà positivo, qui ed ora, per i lavoratori francesi. Possiamo dire però da ora che non risolverà il nodo centrale, quello contro il quale si sono scontrati, negli scorsi anni, anche i lavoratori di altri paesi, e anche noi. È evidente, infatti, guardando il succo delle riforme in atto in Europa, che la direzione dei padroni è unica: farci lavorare più tempo, pagarci di meno, licenziarci quando vogliono. Il Jobs Act andava in questa direzione, la legge El-Khomri va in questa direzione, la riforma in discussione proprio in questi giorni in Belgio va in questa direzione, l’unica possibile per i padroni oggi. L’attacco è lo stesso, ma la risposta è stata sempre separata: oggi, ad esempio, il punto debole dei francesi…siamo noi! Una nuova stagione di lotte in Italia, ad esempio contro il Jobs Act, significherebbe riaprire il conflitto in un paese che, ancora oggi, è uno dei giganti mondiali della produzione di merci, il secondo paese produttore in Europa dopo la Germania. Unire le lotte e le vertenze dei lavoratori in Italia significherebbe alzare enormemente il livello di conflitto in Europa. Il secondo paese produttore è, ovviamente, un sorvegliato speciale: non è un caso che da noi lottare è diventato così difficile, i sindacati così corrotti, la sfiducia così generalizzata. Ma niente, nella società, è incontrovertibile, soprattutto quando si parla di lavoro. Il meglio che possiamo fare, quindi, è generalizzare il conflitto; parlarci tra lavoratori; liberarci dei sindacalisti inutili, codardi e corrotti ricostruendo le nostre organizzazioni e dandoci nuovi rappresentanti; individuare dei temi generali – la cancellazione del jobs act, ad esempio – e concentrare le lotte su obiettivi unitari; guardare a chi lotta fuori dai nostri confini, o a chi lo fa qui da noi senza essere nato in Italia, come ad un fratello, non ad un nemico. La vittoria di un singolo lavoratore in un qualunque paese del mondo è una vittoria per tutti noi!

Date: Sun, 29 May 2016 11:42:57 +0200
Subject: La Francia e noi. 5 brevi riflessioni
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Condivido e diffondo le riflessioni di Clash City Workers. Aggiungo due brevi osservazioni.

a) L’Italia è il secondo Paese industrializzato dell’area UE, dopo la Germania. A differenza di quanto avviene negli altri grandi Paesi capitalistici, la struttura industriale italiana è tradizionalmente fondata su poche grandi imprese e una miriade di piccole e medie imprese, dove regnano paternalismo e lavoro nero. Questa caratteristica è stata esasperata dai processi di ristrutturazione, attraverso l’esternalizzazione (outsourcing), con il boom degli appalti e dei sub appalti … Di conseguenza, la risposta dei lavoratori all’attacco padronale è stata frammentaria. Non solo, è stata anche politicamente confusa, poiché l’esternalizzazione ha avuto la benedizione di alcuni settori della sinistra cialtrona con il famigerato slogan: piccolo è bellodiventa padrone di te stesso.

I risultati si son visti col tracollo delle piccole e medie aziende venete, un tempo fiore all’occhiello del capitalismo italiano (secondo i cialtroni).

b) La riforma del lavoro non riguarda solo l’Europa ma il mondo intero. In questi mesi ci sono forti lotte operaie anche in Brasile. Cosa significa? Significa che anche in un Paese cosiddetto emergente, come il Brasile, i lavoratori stanno subendo un attacco alle loro condizioni di vita e di lavoro, devono lavorare di più e mangiare di meno. Questo significa che domani i lavoratori europei verranno nuovamente costretti ad affrontare un’esasperata concorrenza con i lavoratori brasiliani, o di altri Paesi più o meno emergenti, in un ciclo infernale senza fine. Che deve è può essere spezzato.

Primavere arabe: un’intervista con Fulvio Grimaldi

Sono passati poco più di cinque anni dall’inizio delle “primavere arabe” e tutti i Paesi che le hanno sperimentate hanno subito sconvolgimenti che hanno cambiato drasticamente il loro volto.

La Tunisia è stata la più fortunata perché il cambio di regime, orchestrato abilmente dalle potenze Occidentali, ha portato con se un minimo spargimento di sangue mentre l’Egitto ha rimediato da poco allo sfacelo dei Fratelli Musulmani con una sorta di restaurazione militare ad opera del generale al-Sisi, il cui futuro però è ancora incerto.

Per converso, la Libia è stata interamente distrutta ed il suo leader, Gheddafi, ucciso barbaramente. La Siria è ancora in guerra contro milizie assassine iniettate dall’esterno, salvata solo dalla determinazione del suo popolo migliore e dall’intervento di alleati esterni.

Abbiamo cercato di fare il punto della situazione, ponendo alcune domande a Fulvio Grimaldi, giornalista italiano e corrispondente di guerra che ha trascorso molto tempo in Medio Oriente. In particolare, l’ultima riguarda la nostra Italia che ha partecipato e partecipa a tutte le recenti guerre coloniali americane. Infatti, come già scrisse Dante secoli fa “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero…” c’è da chiedersi cosa il destino riservi al nostro Paese.

1) Signor Grimaldi, vorrei iniziare l’intervista con questa domanda: come era la Libia prima dell’intervento Occidentale?

R) A vederla, a frequentarla era un paese sereno, pacifico, gentile, con una convivenza armoniosa tra tutte le componenti (tribù e settori sociali), con l’eccezione di uno sparuto grumo di irriducibili integralisti islamici, da sempre “curati” dai servizi occidentali nell’estremo oriente del paese. Particolarmente colpiva l’atteggiamento ospitale ed equo nei confronti degli immigrati dai paesi africani, 2,5 milioni di persone che godevano degli stessi diritti dei cittadini libici. Sul piano dei dati, bastano quelli dell’Indice di Sviluppo Umano dell’ONU che ponevano la Libia al primo posto nel Continente per distribuzione della ricchezza, servizi sociali, emancipazione delle donne, sanità, istruzione, lavoro, casa. Era un primo esempio di democrazia diretta. Intollerabile per l’imperialismo.

2) La NATO-democrazia è arrivata in Libia a suon di bombe. Ma che cosa è diventata adesso la ex Jamahiriya, a distanza di 5 anni dalla guerra?

R) E’ sotto gli occhi di tutti il “caos creativo” che l’Uccidente, la Nato, gli Usa, lasciano nei luoghi su cui non riescono ad esercitare un dominio coloniale diretto e assoluto. Resuscitando rivalità tribali secondo la regola del divide et impera, iniettando nel paese il mercenariato jihadista coltivato in Turchia e nel Golfo, hanno disgregato un’unità nazionale che Gheddafi e il gruppo dirigente libico erano riusciti a forgiare dalla macerie sociali ed economiche del colonialismo. Non solo, la formidabile volontà e capacità costruttrice del leader libico aveva anche gettato le basi per un’unità africana anticolonialista, fondata su una moneta comune, telecomunicazioni comuni, cooperazione economica su vasta scala. E’ stato forse questo, per l’Occidente, la sua colpa maggiore.

3) Che ne è stato del popolo libico?

R) E’ una tragedia immensa sul piano della coesione nazionale, della situazione sociale, della frammentazione operata dagli islamisti, usurpatori del potere a Tripoli e dagli jihadisti Isis importati. Personalmente, però, sono convinto che nel cuore del popolo libico, non manipolato e coinvolto negli scontri fratricidi, rimanga, insieme al rimpianto della Jamahiriya, la consapevolezza di essere una nazione.

4) Si parla di un governo di unità nazionale e di stivali (Occidentali) sul terreno, che ancora però non ci sono.  Secondo lei, quanto è lontana la pace in Libia?

R) Temo lontanissima. Gli avvoltoi dell’Occidente, una volta giustificato il proprio intervento diretto con l’alibi del jihadismo, riprenderanno il controllo di tutte le installazioni petrolifere e non le molleranno facilmente. Cercheranno di lasciare il resto del paese, impoverito e privato delle proprie risorse, in mano a predoni e ai Fratelli Musulmani, da sempre forze di complemento del colonialismo.

5) Cambiando Nazione ma non scenario, la Siria ha subito le stesse attenzioni NATO-democratiche della Libia, per il momento con risultati diversi. Per quali motivi?

R) La Siria ha da sempre vantato una fortissima coesione sociale, che abbracciava in un unico progetto nazionale e arabo tutte le componenti etniche, religiose, tribali. Questo le ha permesso di dotarsi di un forte e motivato esercito. In più l’impedimento alla No Fly Zone dovuto al veto di Russia e Cina ha impedito la libizzazione della Siria a suon di bombe. La fantastica resistenza di popolo, milizie e forze armate, ora al 6° anno, ha poi avuto un sostegno decisivo dall’intervento russo, il primo e unico che ha affiancato le truppe di Assad nei confronti dei mercenari Daish e al-Nusra.

6) L’intervento russo ha scompaginato la situazione sul campo portando anche alla liberazione di Palmira. La Russia ha dimostrato una civiltà superiore rispetto alle nazioni Occidentali?

R) Non so se si tratta di parlare di “civiltà”. Sicuramente, se civiltà è anche rispetto del diritto internazionale e difesa della sovranità e autodeterminazione dei popoli, la Russia si è dimostrata civilissima a fronte di autentici barbari che non si fanno scrupolo di utilizzare subumani tagliatori di teste e stupratori per conseguire i loro fini.

7) Sembra che i Russi siano prossimi a tornare. Secondo lei, quale potrebbe essere il futuro più probabile della Siria?

R) Difficile dirlo senza la classica sfera di cristallo. Se i russi si impegnano seriamente e fino in fondo accanto all’Esercito Arabo Siriano e a Hezbollah, non c’è chance per i devastatori della Siria. Ora gli aggressori stanno però giocando un’altra carta. Esaurito il compito dei jihadisti, la manovra di spartizione della Siria viene ora affidata a un’altra quinta colonna, i curdi. Sostenuti da finti patrioti siriani, e dall’aviazione e da forze speciali Usa, i curdi stanno allargando il proprio dominio a terre storicamente arabe e annunciano un’offensiva su Raqqa nel momento in cui le forze lealiste si apprestano alla conquista della capitale di Daish. E’ evidente lo scopo di promuovere la fratturazione dello stato unitario siriano.

8) Parliamo dell’Egitto. Ci sono forze che cercano di destabilizzarlo su vari fronti, ricorrendo ad omicidi mirati o a vili attentati aerei. Cui prodest?

R) L’Egitto e l’Algeria sono gli ultimi stati nazionali arabi non frantumati dall’imperialismo con l’uso dei jihadisti e dei Fratelli Musulmani loro padrini. In più sono Stati demograficamente forti e dotati di grandi ricchezze energetiche in posizioni geostrategiche importanti. Non possono essere tollerati dall’imperialismo e da Israele. L’attacco all’Egitto, che si è liberato dalla tirannia dei Fratelli Musulmani non con un colpo di Stato militare, ma con una insurrezione popolare di 33 milioni di egiziani, che poi ha permesso l’accesso al potere di un generale disponibile a rapporti anche con la Russia e con paesi europei, è iniziato. Si sta svolgendo con l’oscena operazione Regeni, un operativo dell’intelligence angloamericana (Oxford Analytica) da questi sacrificato, con l’abbattimento degli aerei russo ed egiziano, con il terrorismo dei Fratelli Musulmani su vasta scala. Per il cui prodest bisogna guardare agli Usa, ai britannici, all’Ue, a Israele.

9) Chi è il generale al-Sisi? Può essere davvero la risposta ai problemi attuali dell’Egitto?

 R) Il generale Abdel Fatah al-Sisi si è presentato come erede di Gamal Abdel Nasser, il liberatore dell’Egitto e il promotore della liberazione panaraba. Se lo sia lo si vedrà. Intanto ha risposto a un appello popolare vincendo largamente le elezioni e ha liberato il paese dalla morsa integralista della quinta colonna dei Fratelli Musulmani. Si sta adoperando per dare una soluzione nazionale e araba alla crisi libica, contro le interferenze colonialiste della Nato, si muove con indipendenza sullo scacchiere geopolitico, coltivando rapporti con chiunque. Pur di farlo fuori, cercheranno di distruggere l’Egitto, a partire da campagne di feroci diffamazioni, poi sanzioni e interventi. Successivamente toccherebbe all’Algeria.

10) Ho un’ultima domanda per lei. Non crede che la Storia presenterà il conto, prima o poi, anche a questa Italia che agisce con tanta leggerezza in politica estera?

R) Me lo auguro. Ma chi potrebbe presentarlo al posto nostro? E da noi si dorme. La Storia è fatta dagli uomini e qui siamo circondati e rappresentati da omuncoli.

Costantino Ceoldo – Pravda freelance

9 anni di carcere ai giornalisti che diffamano un politico o un magistrato

la società civile che protegge la libertà di stampa non va in piazza come ai tempi degli attacchi dello psiconano alla libertà di espressione??? 
 
mercoledì, 25, maggio, 2016
 
ROMA, 25 MAG – Il giornalista che diffama a mezzo stampa un politico o un magistrato rischia il carcere fino a 9 anni. Potrebbe essere questo il risultato del combinato disposto della legislazione vigente con una norma contenuta nel ddl già approvato in commissione Giustizia del Senato il 3 maggio scorso, che l’Aula del Senato sta ora per esaminare.
Si tratta dell’articolo 339 bis che verrebbe inserito nel codice penale nel caso in cui venisse approvato il disegno di legge contro le intimidazioni agli amministratori locali. ansa

Egitto: folla di 300 musulmani brucia case di cristiani copti

giovedì, 26, maggio, 2016
 
case-copti
IL CAIRO, 26 MAG –
Una folla di circa 300 musulmani ha attaccato, mettendole a fuoco, sette abitazioni di cristiani copti in un villaggio dell’Egitto centrale e ha oltraggiato un’anziana donna cristiana denudandola in pubblico.
L’episodio viene denunciato in un comunicato della Chiesa copta del governatorato di Minya rilanciato da media egiziani come Al Masry Al Youm ed è avvenuto nei pressi di Abu Qurqas venerdì sera. Le abitazioni sono state “attaccate, bruciate, saccheggiate e distrutte” verso le 20, precisa la nota riferendo che la polizia, giunta sul posto solo due ore dopo, ha arrestato sei persone. La folla di aggressori “scandiva slogan” e i “deplorevoli incidenti” sono seguiti a “voci su una relazione amorosa tra un copto e una musulmana”.
Come noto i copti sono i cristiani egiziani che rappresentano circa il 10% della popolazione egiziana. Incendi di decine di loro chiese ed istituzioni si ebbero durante le violenze dell’estate 2013 seguite alla cacciata dei Fratelli musulmani dal potere in Egitto. I componenti della Chiesa copta locale nella nota si dicono “convinti che gli apparati dello stato non resteranno a braccia conserte” e “non risparmieranno alcuno sforzo per arrestare gli assalitori”.
 
I copti costituiscono la più grande comunità cristiana del Medio Oriente. Dopo la bomba di Alessandria del 2012 che uccise almeno 21 persone, e le violenze dell’estate di tre anni fa in cui furono presi di mira almeno una quarantina di edifici, gli episodi di intolleranza religiosa musulmana nei confronti dei copti sono stati molto meno eclatanti. Gesti ufficiali come la presenza a importanti funzioni religiose da parte del presidente del presidente Abdel Fattah Al Sisi vengono spesso citati come segnali di reciproco sostegno tra governo e Chiesa copta che si vede meglio tutelata dall’attuale esecutivo rispetto a quello espressione della Fratellanza musulmana.
Per l’incendio di una chiesa copta nei pressi del Cairo, un anno fa 71 sostenitori dei Fratelli musulmani furono condannati all’ergastolo. ansamed

Austria, la tirannia dell’UE è arrivata a mettere le mani anche nelle urne

purtroppo in Austria e non solo gli euroscettici o si levano di mezzo con brogli e minacce o si assassinano. Con il beneplacito dei benpensanti della società civile. E’ la democrazia che va protetta no?
giovedì, 26, maggio, 2016
 
austria-brogli1
Domenica 22 maggio, al termine dello spoglio delle schede relative ai voti espressi dai cittadini residenti in Austria, il candidato alla Presidenza della Repubblica austriaca Hofer (del partito nazionalista ed euroscettico) aveva vinto con il 51,9% dei voti (con uno scarto sullo sfidante di circa 144.000 voti)! Tuttavia, bisognava attendere il conteggio delle circa 885.000 schede pervenute per posta.
 
Il giorno dopo, terminato il conteggio del “voto postale”, il risultato definitivo generale attribuiva la vittoria allo sfidante Van der Bellen (del partito ecologista ed europeista) con uno scarto di appena 28.000 voti. Ricordo che, per poter battere Hofen, si sono alleati a Van der Bellen tutte le altre forze politiche uscite sconfitte al primo turno; un’accozzaglia formata da popolari e socialisti proni a Bruxelles.
 
Che la situazione fosse quantomeno strana era apparso sin da subito.
 
Trascorsi pochi giorni dalla chiusura delle urne emergono i primi dati che farebbero pensare a veri e propri brogli elettorali con la finalità di evitare ad Hofer di diventare Presidente della Repubblica. Un partito nazionalista ed euroscettico, secondo le intenzioni dell’apparato burocratico dell’UE, non può prendere il potere in nessuno degli Stati dell’Eurozona, altrimenti ciò potrebbe determinare lo sfaldamento dell’intera area-euro e compromettere gli obiettivi criminali di Bruxelles e Francoforte.
 
Ecco alcuni esempi che dimostrerebbero i brogli elettorali nel voto austriaco:
  • Nel collegio “Waidhofen an der Ybbs” si è registrata un’affluenza al voto del 146,9% (in questo collegio ha vinto, guarda caso, proprio Van der Bellen);
  • A Linz, nel voto “per conto terzi” (cioè nel voto espresso per procura), l’affluenza alle urne è stata del 598%, dove Van der Bellen ha vinto su Hofer di ben 8.500 voti;
  • Inoltre, secondo quanto dichiarato dal presidente della Commissione elettorale, sembrerebbe che il numero delle schede giunte dai votanti dall’estero sia “magicamente” aumentato, in una notte, di circa 60.000 unità.
austria-brogli
Ciò detto, limitandomi a riportare solo tre esempi, è chiaro che qualcosa non torni, anche alla luce del fatto che Hofer avrebbe perso per appena 28.000 voti.
 
Un noto politico italiano della prima repubblica diceva che “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina“.
 
Del resto, non mi meraviglio più di nulla: l’UE non poteva sopportare che un partito nazionalista ed euroscettico avesse la maggioranza assoluta in un Paese dell’Eurozona, quindi ogni mezzo era “lecito” perchè tale evenienza fosse evitata.
 
Detto. Fatto.
 
W la “democrazia” dell’Unione Europea!
 
Giuseppe PALMA – AUTORE DI
 

La Strategia di Renzi. Tra TTIP e MES alla Cina

non comprendo né condivido appieno le considerazioni su Renzi, ma è interessante la parte del TTIP e del Mes evidenziata in viola.
 
Di Chris Barlati , il 27 maggio 2016
 
cina ttip
Renzi non smette di stupire. Da chi lo paragona a Berlusconi, a chi lo accosta a Mussolini, nessuno ne ha mai carpito le reali strategie, e tanto meno ha saputo offrire spunti per un’oggettiva analisi delle sue intenzioni e del suo operato. E’ vero, il premier non brilla per simpatia e nemmeno cerca di porre rimedio a questo suo difettucolo. Tuttavia, qualcosa di più grave sembra preoccuparlo, ed ottobre 2016 appare come una tappa fatidica, non solo per il suo non delegato mandato, ma per il futuro di tutta l’Italia.
 
Dalla Cina con furore.
Italia e Cina, nell’attuale contesto di divenire multipolare, ricoprono entrambe un ruolo molto importante. La prima è caratterizzata da un’ambigua e mal sopportata strategia di ”inerzia” internazionale, mentre la seconda da anni è improntata all’assorbimento delle sovrastrutture economiche dei paesi minori; paesi che hanno assoggettato i loro mercati e la loro economia ai grandi cartelli energetici ed armamentari atlantici, ma che per via del decadimento del sistema ultra capitalistico occidentale ricercano nuove opportunità ed interessi.
 
Ma nello specifico, quali sono – e sono state – le strategie Italiane (di Renzi) in politica estera e nazionale?
 
Dal punto di vista economico…
E’ da circa 30 anni che l’Italia gode di ottimi rapporti con la Cina. Nello specifico, dal 1979 al 2003 2136 sono stati i progetti sviluppati da imprese italiane in Cina, per un valore di circa 4 miliardi di dollari, mentre dal 1981 al 2003 2098 sono stati i contratti per l’introduzione di tecnologie innovative.
 
Ma è di recente che il bel Paese ha consolidato la sua amicizia con il Dragone d’oriente. L’intimo rapporto fatto di cessioni e di svendite è iniziato con l’era Berlusconi, ma l’entità degli interscambi tra Italia e Cina è aumentata incredibilmente per quantità e ‘qualità’ con il governo Renzi. L’allora cambio di politica estera dell’ex premier Silvio Berlusconi – cambio motivato dalla necessità di ricercare nuovi alleati e nuovi consensi in un contesto geopolitico non particolarmente favorevole al prosieguo del suo mandato – ha offerto un ottimo spunto a Matteo Renzi che, da buon sindaco fiorentino, per compensare ai tentativi anti-cinesi dei suoi precedessori ultraliberisti, ha ben pensato di avvalorare l’amorevole e preesistente relazione fra i due Paesi.
 
Telecom, Fiat-Chrysler, Eni, Enel, Prysmian, Cdp Reti, Ansaldo Energia, ma anche Gruppo Ferretti, Fiorucci, Miss Sixty, Cerruti e Benelli sono in buona parte possedute dai cinesi, e ciò spaventa non poco i consumatori. Eppure, nonostante l’economia quasi totalmente ”cinesizzata”, l’Italia rientra nella schiera di quei Paesi che rifiutano di riconoscere, almeno apparentemente, all’amica Cina lo status di economia di mercato (MES), dichiarandosi, cosa ancora più strana, a favore del tanto famigerato TTIP.
 
Che controsenso!
 
Perché indirizzare l’economia del proprio Paese al soddisfacimento degli interessi del mercato asiatico per poi dichiararsi a favore di un trattato di liberalizzazione made in USA? Suona molto strano. Troppo, se poi ci aggiungiamo che l’Europa, quasi quasi, pensa addirittura di riconoscere il MES in extremis alla Cina (un po’ per via della scadenza della deroga originaria e un po’ anche per paura di ritrovarsi un TTIP non voluto dalle crescenti classi nazionaliste).
 
Ma cosa più importante, TTIP e MES se approvati a cosa porteranno?
 
Per dirla alla spicciola, il made in Italy, per quel poco di ”made” che ci è rimasto, verrà ”prodotto” in Italia e lavorato all’Italiana, con input cinesi che si trasformano, come per magia, in output di alta qualità italiana. Ma questo vale solo per quei beni che verranno venduti non in Cina, o per la Cina, ma nel mondo(conseguenze MES); mentre per la produzione interna, noi italiani avremo l’ ”opportunità” di poter mangiare pasta proveniente dal Canada, ma confezionata in Italia, con sugo certificato e riconosciuto come italiano, però materialmente proveniente da pomodori messicani italianizzati perché confezionati in Italia(le grandi ”opportunità” del TTIP). Anche se tecnicamente conosciamo più gli effetti del MES che del TTIP, in entrambi i casi avremo disoccupazione da un lato (MES) e svuotamento delle prerogative nazionali dall’altro (TTIP).
Il risultato finale sarà la distruzione dell’industria italiana dell’import ad opera del MES(o meglio un suo totale assorbimento) e la distruzione dei mercati interni ad opera del TTIP. Produzione per consumo interno mandata al diavolo dalle merci a basso costo americane, e imprenditoria estera e di qualità indirizzata ai fabbisogni cinesi, con input venduti dai cinesi, non per cinesi, ma come italiani, al mondo.
 
Cui podest?
Da un lato i produttori, i dirigenti, le classi imprenditoriale trarranno benefici dalla ”cinesizzazione” dello stivale e dal riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina; dall’altro ci saranno i consumatori che, per compensare l’ondata di licenziamenti derivante sia dall’approvazione del TTIP che dal riconoscimento del MES, dovranno ripiegare su beni di consumo più convenienti: i prodotti del TTIP.
In entrambi i casi, sia di TTIP che di MES alla Cina, sarà il cittadino a farne le spese, e l’Italia affosserà sempre di più la propria economia ed il proprio potenziale produttivo.
 
Dal punto di vista politico…
Politicamente, la strategia internazionale dell’Italia, da Berlusconi a Renzi, come in tutti i paesi a limitata sovranità nazionale, non ha variato di molto la sua condotta, mantenendo intatta la sua propria fedeltà nei confronti dell’alleanza atlantica.
Solo con Renzi, a seguito delle varie fasi di stand by e di ritrattazione delle strategie interne ed internazionali, dovute alla presidenza di Monti e Letta, hanno avuto modo di consolidarsi oltre ogni aspettativa i preesistenti rapporti con la Cina.
Merito di Renzi, dunque, è stato quello di non aver dipeso specificamente, come la Merkel, da una scuola prettamente yankee. La sua educazione arrivista, da prima repubblica, nel vuoto di potere che si è venuto a creare con la caduta di Berlusconi, e con la successione di governi non eletti democraticamente, ha turbato non poco la leggendaria apatia degli italiani, permettendo, nello sconquasso generale, di allacciare a livello internazionale nuovi ed impensabili legami ”geoeconomici”.
 
E oggi?
Le classi neocon, che spingono per la realizzazione di un unico blocco monopolare euroamericano, attraverso TTIP e simili, premono incessantemente ed Obama, espressione di questo potere, non lascia molte alternative a Renzi che, nonostante tutto, e bisogna riconoscerlo, con le sue stronzate è riuscito fino ad oggi a gestire, seppur malamente e con tante figuracce, suddette pressioni. Ma la risicata maggioranza dei consensi e la bella presenza della Boschi non gli bastano; e probabile diventa l’ipotesi di una caduta del suo governo. Una prova di quanto affermo la ritroviamo nell’aggressiva ostinazione del premier per i 5 stelle i quali, nonostante gli sforzi inibitori di Renzi, hanno attirato le attenzioni e le malizie delle élite europee; élite che si sono prontamente attivate nel corteggiare i probabili, più che possibili, successori di partito(1).
 
Definiamo la strategia di Renzi?
Una strategia dell’inerzia, un temporeggiamento. Ma Renzi non è Quinto Fabio Massimo. E il tempo gli stringe. L’ultimo sprint per ribadire la propria fedeltà alla lobby europee, Renzi lo compierà ad ottobre con il referendum della riforma costituzionale.
Ma rimane ancora un problema da risolvere: avallare adesso il TTIP è ancora troppo rischioso per l’instaurazione della dittatura di ottobre e prolungarne la data fino a quel mese potrebbe irritare Obama ed i neocon, e  dunque aumentare il rischio di ”sostituzione” con i 5 stelle. Che fare, allora?
 
Una parola a favore di Renzi.
La strategia di Renzi, almeno teoricamente, non è stata poi tanto male. Il buon fiorentino ha tentato di ritagliare un posto per l’Italia tra gli interessi occidentali e quelli orientali, legando l’imprenditoria e le fondamenta economiche italiane, dunque geopolitiche e primarie di destra, alla Cina, in modo da assicurarsi un eventuale appoggio delle classi multipolari (e ci è riuscito, almeno inizialmente); mentre a sinistra, nei riguardi delle classi americanocentriche per eccellenza, Matteo ha saputo regalare ampio respiro a queste ultime con le sue super riforme e con i suoi stupidi patriottismi sinistroidi completamente filostatunitensi (quel cavolo di iphone sempre presente). L’unica pecca di Renzi è stata quella di non aver potuto sfoderare gli attributi di Craxi(non avendoli…), e tanto meno fare sfoggio della lungimiranza e della malizia di Andreotti per sgattaiolare dagli inevitabili ‘conti’ che i diktator euroamericani gli avrebbero di li’ a poco servito.
 
Al posto di ritagliare quel fantomatico spazio tra gli interessi dei due blocchi, Renzi ha intrappolato l’Italia tra opposte aspirazioni. La sua incapacità di anticipare gli incalzanti scenari multipolari e di giocare d’anticipo ha condannato l’Italia. Sanzioni da una parte e vincoli geopolitici dall’altra hanno stritolato i piani di Renzi, che più volte ha dovuto, e sempre con le sue stronzate, tenere a freno prima le classi imprenditoriali multipolari che si era amicato con le privatizzazioni cinesi, e poi le pressioni statunitensi e delle classi unipolari euroatlantiche. Cosi’ facendo, e a carte scoperte, Renzi ha dovuto cedere nei riguardi di entrambi i blocchi, orientali e occidentali, inabissando nella totale sottomissione l’economia e la politica inter-nazionale italiana. A nulla sono serviti i suoi richiami ai valori di ”sinistra”; ”valori” che non fanno altro che polarizzare ulteriormente quei contraddittori fanatismi che hanno degradata culturalmente l’Italia.
 
Conclusioni
 
Attualmente Renzi per salvare faccia e poltrona ha sola un’alternativa: dimettersi, e prima della sostituzione con i 5 stelle. Solo in questo modo, e se davvero vorrà, Renzi potrà favorire un improvviso cambio di politiche economiche internazionali, nonché il passaggio ad un moderato multipolarismo. L’avanzata di Trump in Usa ed i contrasti tra neocon ed élite europee giocano in questo favore. E ciò potrebbe a sua volta favorire un ripensamento del ruolo italiano come portaerei del Mediterraneo e mediatrice tra civiltà occidentale ed orientale. E almeno questo Renzi dovrebbe capirlo. Speriamo solo che Matteo si ricordi del proprio fallimento poiché, in fin dei conti, non è tanto stupido da farsi infinocchiare così allo scoperto dagli yankee e dai 5 stelle; non così stupido come chi l’ha votato. Ma sta a lui comunque decidere se finire come i suoi predecessori o preparare coscientemente il terreno per i suoi successori.

Notte di resistenza no tav in valsusa da Pian delle Rovine e da Giaglione

posttop — 4 giugno 2016 at 12:09

piandellerovine

Ieri sera da Pian delle Rovine (fraz. di Giaglione in valsusa che sovrasta dall’alto la piccola e laterale val clarea e il cantiere tav che vi ha sede) e dal campo sportivo di Giaglione si è sviluppata la seconda serata di lotta no tav. Con il minimo sforzo un centinaio di attivisti hanno ottenuto ottimi risultati. Sorpresa doveva essere e sorpresa è stata. Percorrendo i sentieri della val Clarea si è arrivati alle spalle delle forze di polizia che erano posizionate sulla strada che collega Giaglione al cantiere protetti da delle recinzioni montate su dei new jersey. Il blocco che doveva servire a fermare gli attivisti in arrivo dal paese è stato dunque colto di sorpresa e alle spalle dall’altro corteo che si è calato lungo i sentieri che partono da pian delle Rovine. Costretti a ritirarsi dal bosco i poliziotti sono arretrati per circa una mezz’ora verso il cantiere e il vicino viadotto autostradale. Solo l’arrivo di rinforzi con il classico cambio turno prolungato ha permesso ai difensori della speculazione di ritornare sulle posizioni iniziali. Proseguono e proseguiranno le iniziative, anche oggi sabato 4 giugno partendo ancora da Pian delle Rovine, all’insegna della mobilità e della sorpresa. I boschi si dimostrano amici dei no tav, che li proteggono, li attraversano e li curano. Diverso è il trattamento per chi li invade e li distrugge, per chi li vorrebbe trasformare in una triste colata di cemento, per loro dal bosco arriva solo la paura e la resistenza della valle di Susa. Notizia di questi giorni, il cantiere del tunnel di base partirà da Chiomonte, dal cantiere del tunnel geognostico. Per ora niente piana di Susa, stazione internazionale e autoporto. Una scelta che viene descritta dai media nazionali come “strategica”, economicamente vantaggiosa e soprattutto “sicura”. Ci sono voluti ben 17 professori universitari per capire che l’invasione della media valle e della sua piana tra Bussoleno e Susa era “pericolosa” per l’ordine pubblico. Tutti si congratulano per la scelta ai piani alti della mangiatoia tav Torino Lione ma la domanda che lasciamo con serate come quella di ieri, con un doppio senso neanche troppo velato è: siete proprio “sicuri” delle – nelle vostre scelte?  Si proseguirà a breve anche con l’estate di lotta, che tutti ci auguriamo lunga e proficua per il movimento no tav.