Con la scusa del razzismo nasce PRYSM, progetto contro la libertà di espressione

peccato che come razzismo venga identificata la semplice contrarietà al’immigrazione controllata che con il razzismo non ha niente a che vedere, alias CRITICARE MAFIA CAPITALE è razzismo. Ma non chiamatela dittatura. Chi ha pestato i 4 ragazzi a Rimini che raccoglievano alimenti per gli indigenti italiani, saranno allora encomiati come lottatori contro l’odio?
lunedì, 28, marzo, 2016
Lobby. Presentato il progetto PRYSM, la nuova Stasi contro la libertà di espressione (con la scusa del razzismo e dell’intolleranza).  E così, mentre migliaia di terroristi fanno i porcacci comodi loro sul web, indisturbati da anni, la Camera (Boldrini) vuole mettere il bavaglio ai cittadini esasperati! Siamo sempre piu’ convinti che Isis non sia la mente, ma lo strumento.
 
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E’ stato presentato il progetto PRISM (acronimo che sta per Prevenire, Modificare e Inibire i discorsi d’odio sui nuovi Media, ovvero in inglese Preventing, Redressing and Inhibiting hate Speech in new Media), che si caratterizza per lo slogan Words are Weapons ovvero Clic = Bang!, presentato presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati ieri lunedì 21 marzo.
 
Arci, insieme ad Anci – Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia (attraverso il proprio think tank Cittalia Fondazione Anci Ricerche), all’associazione Carta di Roma (finanziata da Soros, ndr) ed all’Unar – Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (una specie di Stasi contro la libertà di espressione, ndr), e coinvolge anche alcuni altri Paesi europei (Francia, Regno Unito, Romania, Spagna), beneficiando di un sovvenzionamento (la cui entità non è stata svelata) da parte della Commissione Europea (attraverso il “Fundamental Rights and Citizenship Programme” dell’Unione).
Il progetto prevede sia un’attività di ricerca (è stato presentato il volumetto Discorsi d’odio e Social Media. Criticità strategie e pratiche d’intervento, curato da Carla Scaramella, coordinatrice per l’Arci di “Prism”), sia un’attività di comunicazione e promozione (è stato presentato un video di animazione di un minuto, intitolato No all’odio, no all’intolleranza sul web!).
 
Secondo fonte Ocse, le Forze dell’Ordine hanno registrato in Italia 472 casi di “crimini d’odio” (su oltre 60 milioni abitanti), così classificati: 48% discriminazioni religiose, 41% razzismo e xenofobia, 11% insulti contro persone Lgbt (Gay, Bisessuali e Transgender).
Secondo dati Unar, nel 2013, per la prima volta, i casi online hanno superato quelli registrati nella vita pubblica: 354 episodi nei media, la maggior parte sui social, Un fenomeno in crescita: nel 2014, l’Unar ha registrato 347 espressioni razziste sui social network, di cui 185 (oltre il 50 %) su Facebook.
A queste espressioni razziste, vanno aggiunte altre 326 nei link che le rilanciano, per un totale di quasi 700 episodi di “intolleranza”. L’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (Oscad) del Ministero dell’Interno, dal 2011 al 2014 ha ricevuto 150 segnalazioni su siti e profili internet con contenuti discriminatori e di incitamento all’odio (il 23% delle segnalazioni totali).
Nel solo 2013 ci sono state 442 rapine contro gli uffici postali. Ma non risulta che ci siano siti internet o che sei facciano conferenze presso la Camera dei deputati.
 
 
Interessante l’osservazione di questo documento
 
nazismo
 

Petizione al Parlamento inglese: “Il governo apra un’indagine sulla morte di Giulio Regeni”

oh l’Italia lo realizza eccome l’impatto, 5 miliardi di contratti in ballo con l’Egitto che con l’omicidio regeni sono saltati. Chissà chi ci guadagna adesso, 
ma certo la questione è solo sui diritti umani come no
La collega e amica a guida dell’iniziativa: “Stiamo facendo pressioni sugli Stati Uniti dal momento che Giulio studiò anche lì”
 
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La veglia in ricordo di Giulio Regeni venerdì sera a Londra (Lina Victoria)
15/02/2016
francesca paci
 
«Ci è stato detto da autorevoli fonti locali al Cairo che dati i progressi-zero nelle indagini sull’assassinio dei turisti messicani da parte dell’esercito egiziano a settembre scorso, le chance di verità e giustizia nel caso di Giulio sono simili, ossia nulle. Per questo facciamo pressione su Londra e Washington affinché affianchino e rafforzino una inchiesta seria». A parlare è Paz Zàrate, esperta di diritto internazionale a Oxford, amica fraterna di Giulio Regeni nonché sua ex collega al think tank Oxford Analytica, dove lui lavorò tra il 2012 e il 2014. Insieme a una lunga lista di colleghi a residenti nel Regno Unito è l’anima della petizione inviata al parlamento britannico in cui si chiede un’indagine senza esitazioni sul caso Regeni perché, spiega, il suo omicidio riguarda anche il Regno Unito dove il ricercatore friulano ha trascorso dieci anni della sua vita adulta. Con altri studiosi e persone qualsiasi sta cercando di fare pressione anche sugli Stati Uniti dal momento che Giulio studiò anche li, prima di spostarsi in Gran Bretagna fece un fellowship al United World College. La loro richiesta di società civile internazionale si affianca (ma sono due cose differente) alla lettera di 4600 professori di 90 paesi indirizzata nei giorni scorso al presidente eigiziano Sisi.
(Giulio Regeni con l’amica e collega Paz Zàrate)
“Sono costernata che l’Italia non realizzi l’impatto internazionale della situazione, gente legata all’ambiente accademico che non conosceva Giulio ha fatto la fila per ore congelandosi venerdì davanti all’ambasciata italiana per firmare il quaderno delle condoglianze” continua Paz Zàrate citando la pressione che stanno facendo i media inglesi. Ci sono più domande che risposte sulla morte di Regeni, quelle che elude il governo egiziano ma anche altre, come i 5 giorni trascorsi tra la scomparsa e l’annuncio ufficiale arrivato il 31 gennaio. Lei, insiste, come residente nel Regno Unito, sta cercando di fare la sua parte: “Dato che Giulio stava facendo ricerca all’università britannica e ha abitato e lavorato nel Regno Unito praticamente tutta la sua vita adulta, crediamo sia compito del governo inglese di unire le forze con l’Italia”.
Ieri sera a New York e a Washington, come già venerdì scorso a Londra gli amici, i conoscenti i colleghi di Giulio Regeni, compresi tanti che pure non lo avevano mai incontrato, si sono radunati con le candele in mano davanti al consolato italiano per una veglia funebre che è anche una richiesta corale di verità. Tante persone, cappelli e sciarpe contro il freddo pungente, tutte con le foto dello studente torturato e ammazzato al Cairo tra il 25 gennaio e il 3 febbraio scorso e con scritto sul petto l’appello alla giustizia. A Londra c’era anche l’ex premier Enrico Letta che si trovava nella City per un ciclo di incontri alla London School of Economics e ha interrotto la sua agenda per andare alla veglia.
(Jimena Blanco)
“L’omicidio di Giulio è una sfida ai valori della educazione, la stessa educazione che permette i contatti tra paesi diversi, Giulio era uno studioso di alto livello e costruiva ponti tra persone di culture differenti, la sua morte non è solo un affare di Italia e Egitto” spiega uno degli organizzatori del sit in di Washington a cui hanno partecipato numerosi ex compagni di corso di Giulio Regeni come Sela Cowger e Shen Yoong.
L’ex premier Enrico Letta alla veglia in ricordo di Regeni a Londra (Patrick Esson)
Finora il lavoro degli investigatori italiani al Cairo non è stato affatto agevolato dalle autorità locali e quel che ne emerge è un susseguirsi di annunci e smentite. Prima la pista degli articoli del Manifesto (in realtà solo uno e uscito postumo), poi i depistaggi sulla criminalità comune, poi l’allusione ai nemici del governo egiziano e dunque alla potenziale responsabilità di gruppi islamisti (a cominciare dai Fratelli Musulmani), poi i testimoni comparsi dal nulla in un paese dove piuttosto si sparisce nel nulla, infine gli agenti dell’intelligence che in forma anonima sussurrano al New York Times che Giulio Regeni è stato ucciso come una spia, perché sospettato di essere una spia.
Oggi ci sono dubbi anche su quella rivelazione perché appare strana la modalità in un regime che oggi fa quadrato piu che mai (ma che non è mai troppo ricordare non è monolitico ed è invece attraversato da più di una faida intestina). Per il momento ciò che appare evidente è che tutto quanto esce dal Cairo è quanto le autorità egiziane vogliano che esca. Leaks compresi. Che Giulio Regeni sia stato trattato come una spia lo dicono dal primo giorno i suoi amici e tutti i giovani attivisti che hanno subito lo stesso trattamento per essere egiziani ma rei, in quanto oppositori, di flirtare con sedicenti agenti stranieri interessati a destabilizzare l’Egitto. Infatti sin dal 4 febbraio ripetono, “Giulio uno di noi”.

Regeni a Londra lavorò per un’azienda d’intelligence

È stata fondata da un ex funzionario Usa implicato nel Watergate
 
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La manifestazione dell’altro giorno in piazza Santi Apostoli per chiedere giustizia per la morte di Giulio
16/02/2016
alessandra rizzo
Londra
 
La storia di Giulio Regeni porta stranamente alla porta di un vecchio scandalo, quello di Nixon. Mentre viveva in Gran Bretagna, lo studente friulano aveva lavorato per un anno presso un’azienda d’intelligence fondata da un ex funzionario americano implicato nello scandalo Watergate. Oggi, i suoi ex colleghi e amici presso la compagnia, la Oxford Analytica, sono tra i promotori di una petizione che chiede al governo britannico di fare pressione sulle autorità egiziane che indagano sulla vicenda. «Giulio era un collega fantastico, socievole, divertente. Ci manca molto», ricorda Ram Mashru, altro giovane talento che con Giulio divideva la stanza presso la Oxford Analytica. «Era estremamente cauto nel condurre il suo lavoro – aggiunge – Certo, c’è sempre la possibilità che abbia attirato l’attenzione di qualche gruppo pericoloso, ma da quanto sappiamo Giulio non si comportava in maniera avventata o negligente».
Oxford Analytica è un ulteriore tassello nella storia di Giulio, un altro pezzo dei dieci anni trascorsi dal ricercatore di Cambridge nel Regno Unito, e potrebbe, forse, fornire qualche dettaglio per spiegare la sua morte. Il gruppo analizza tendenze politiche ed economiche su scala globale per enti privati, agenzie e ben cinquanta governi, una specie di privatizzazione di altissimo livello della raccolta di intelligence. Ha uffici, oltre che a Oxford, a New York, Washington e Parigi, e vanta una rete di 1,400 collaboratori. Promette “actionable intelligence”, informazioni su cui si possa agire, senza ideologie o inclinazioni politiche.
Dal settembre 2013 al settembre 2014, Giulio ha lavorato alla produzione del “Daily Brief”, una decina di articoli pubblicati ogni giorno sugli eventi principali e mandata a una lista di clienti d’elite. E’ uno dei prodotti di punta del gruppo, modellato sui briefing che Kissinger preparava per Nixon. Già, perché la storia del fondatore di Oxford Analytica, David Young, passa anche per uno dei capitoli più sinistri della storia USA. Young era, nella Casa Bianca di Nixon, tra i dirigenti dei cosiddetti “idraulici”, il gruppo che doveva “tappare” le fughe di notizie e di cui facevano parte anche G. Gordon Liddy e Howard Hunt, entrambi finiti dietro le sbarre per il Watergate. Dopo lo scandalo, Young lasciò l’America per completare un dottorato di ricerca in relazioni internazionali ad Oxford (leggenda vuole che la sua tesi fosse tenuta sotto chiave perché conteneva informazioni riservate), e nel 1975 fondò la Oxford Analytica. Nel cui board figurano anche John Negroponte, ex direttore della United States Intelligence Community e Sir Colin McColl, ex capo dell’MI6, il servizio segreto inglese. Mashru spiega che i rapporti speciali del gruppo, che tipicamente comportano da uno a sei mesi di lavoro, restano confidenziali. Certamente l’azienda sta tenendo un basso profilo. Ha mandato un messaggio in forma privata alla famiglia di Giulio, e per il resto è «no comment».
Da Cambridge si fa vivo il professore Glen Rangwala, con cui Regeni avrebbe dovuto collaborare per un corso non appena rientrato dall’Egitto. Rangwala smentisce l’ipotesi che dall’Università qualcuno possa aver passato i report del ragazzo agli 007: «Per nessun motivo al mondo gli accademici di Cambridge diffondono le ricerche degli studenti ai servizi segreti».
I suoi ex colleghi e amici stanno tentando un’azione pubblica, con la petizione che chiede al governo britannico di assicurare una “credibile” indagine sulla morte di Giulio La petizione ha raccolto finora circa 4,500 firme, ma ce ne vogliono dieci mila per forzare una risposta del governo. Il quale, per ora tace. “L’indagine è nelle mani delle autorità egiziane”, dicono.
 

No Tav a “Scala Mercalli”, polemiche bipartisan

bel colpo Luca!

A parte notare l’ipocrisia delle dichiarazioni, stiamo a vedere se i senatori PD “otterranno” il confronto pubblico che i NOTAV chiedono da sempre!

30 marzo 2016 Repubblica 

Esposito e Napoli polemizzano con il meteorologo, difeso dal M5s

No Tav a "Scala Mercalli", polemiche bipartisan

È polemica bipartisan sulla trasmissione di Raitre condotta da Luca Mercalli “Scala Mercalli” andata in onda sabato scorso. “Ho presentato, assieme ai colleghi Camilla Fabbri e Francesco Verducci – annuncia il senatore Pd Stefano Esposito – un’interrogazione in Commissione di Vigilanza Rai per chiedere chiarimenti sulla trasmissione di Raitre condotta da Luca Mercalli in cui si è parlato della tratta Torino-Lione e che ha dedicato ben 22 minuti di propaganda ai No Tav”.
“Chiediamo al presidente della Commissione di Vigilanza e al Direttore generale della Rai – aggiunge Esposito – se modalità di informazione come quelle viste nel programma televisivo “Scala Mercalli” siano compatibili con quella di una tv pubblica e se questo sia il metodo con il quale nuovo dg intenda improntare la propria direzione delle reti Rai”. 

Nell’interrogazione i senatori pd chiedono inoltre se non si ritenga necessario adottare i provvedimenti opportuni, e di propria competenza, nei confronti del conduttore Luca Mercalli e se sia prevista una puntata “riparatrice” nella quale invitare soggetti a favore della linea Torino-Lione. “Ognuno può avere le opinioni che ritiene – conclude Esposito – ma la Rai con i soldi dei contribuenti non può pagare un conduttore che fa una trasmissione a senso unico su un tema così delicato”.
Anche l’esponente di Forza Italia e vice presidente dell’Osservatorio sulla Tav Osvaldo Napoli critica la conduzione di Luca Mercalli: “La puntata di “Scala Mercalli”, in onda sabato scorso sulla Rai – dice il candidato sindaco di Torino per Forza Italia – è stata un’offesa all’intelligenza degli ascoltatori, un oltraggio agli utenti del servizio pubblico e un insulto alla libertà di informazione. Il conduttore del programma Luca Mercalli è un militante radicale dei No-Tav, e fin qui niente di strano o di sbagliato. Chi gli ha affidato la conduzione del programma doveva conoscere bene tanto le idee quanto i pregiudizi che animano Luca Mercalli. Buon senso avrebbe voluto che il conduttore si astenesse da un palese conflitto di interessi qual è stato il matrimonio fra le sue idee e l’uso di un servizio pubblico per divulgarle, senza contraddittorio, a beneficio di alcuni milioni di italiani”.
“Non conosco le valutazioni dei vertici Rai – conclude Napoli – ma è lecito attendersi, condotta dallo stesso Mercalli, una nuova puntata del programma in cui possano davvero confrontarsi favorevoli e contrari alla Tav. Se un servizio pubblico non sa garantire un’informazione minimamente completa vuol dire che quel servizio non ha ragione d’essere e perde la sua qualifica di “pubblico”. Mi attendo parole di chiarezza dal direttore generale della Rai al quale ricordo che pagano il canone anche gli utenti favorevoli alla Tav”.
Difendono il programma due esponenti del M5s, il senatore Marco Scibona e la consigliera regionale Francesca Frediani: “Contro Mercalli gli esponenti “democratici”, senatore Esposito in testa, hanno usato parole e richieste che ricordano il ventennio fascista”. Per Scibona e Frediani nella trasmissione ci sono stati “appena venti minuti, in seconda serata su Rai3, di informazione libera e corretta sul tema Tav grazie al meteorologo Luca Mercalli. Un programma inizialmente previsto in prima serata e slittato più tardi per motivi ancora non chiari, ma temiamo che dietro vi siano logiche prettamente politiche. Che la televisione di Stato non riporti fedelmente quanto sostiene il Partito Democratico dovrebbe essere un fatto normale in un paese in cui è garantita la pluralità d’informazione e in cui anche i No Tav pagano il canone. Un’ulteriore puntata in cui si riportano entrambe le posizioni, sarebbe una proposta legittima. Infatti – concludono gli esponenti pentastellati – non possiamo dimenticare che fino ad oggi l’informazione nazionale si è sempre limitata a trattare il Tav come un problema di ordine pubblico, senza entrare nel merito della questione. Altrimenti sarebbero state evidenti da tempo al grande pubblico italiano le ragioni del no all’alta velocità in Valsusa”.

COME L’OCCIDENTE ALIMENTA L’ODIO RELIGIOSO E IL TERRORISMO

Genn 16 Pagine marxiste :

Il Califfato dei petrodollari
http://www.paginemarxiste.it/modules.php?name=Archivio&pa=showpage&pid=393 

L’ISIS è una organizzazione politico militare che oggi controlla un’area grande all’incirca come la Giordania a cavallo fra Siria e Iraq, in cui vivono circa 10 milioni di persone e in cui sorgono almeno 9 pozzi di petrolio.

La sua dirigenza nasce dalla convergenza dei vertici dell’esercito di Saddam e del partito Baath con i capi religiosi radicali.

I primi forniscono l’esperienza militare, i legami politici, la capacità organizzativa, i jihadisti forniscono il collante ideologico, gli “ideali”.

Fra questi la rinascita di una nazione panaraba sunnita che cancelli le artificiali frontiere tracciate dai colonialisti.

Isis si forma nel contesto della guerra settaria in Iraq, nel 2006, recependo i rancori degli sconfitti, recluta nelle carceri americane in Iraq, trova consensi nella borghesia sunnita irachena emarginata dal governo sciita intorno a un programma di riscossa anti-americano e anti iraniano.

Quando scoppia la guerra siriana, nel 2011, l’ISIS ha le carte in regola per presentarsi come una delle formazioni anti Assad e anti Iran.

Per questo riceve quindi armi, finanziamenti, rifugi sicuri prima dalla Turchia, poi dalle petromonarchie del Golfo, ma anche da molti paesi occidentali, la Francia stessa, la Gran Bretagna, gli Usa.

Oltre a questi introiti vende sottocosto il petrolio delle aree occupate, vende beni archeologici senza disdegnare rapine, rapimenti e traffici illeciti, dai falsi passaporti alla droga.

L’ISIS o Isil o Daesh, a questo punto funziona come uno stato.

L’ideologia dell’ISIS è reazionaria, ma l’uso mediatico della propaganda è moderno, l’armamento efficiente, il giro d’affari anche.

Esattamente quello che si può dire della classe dirigente dell’Arabia Saudita.

La demonizzazione dell’Isis da parte dei paesi occidentali nasconde la loro “coda di paglia” e fornisce all’Isis stessa la patente di movimento antimperialista, mentre si tratta del frutto avvelenato dei petrodollari e degli interventi imperialistici.

Gli antecedenti in Iraq 
L’invasione e la conquista Usa del paese durano solo 21 giorni (19 marzo – 1 maggio 2003). Nel decennio precedente, a nord, ha prosperato, all’ombra della no fly zone attuata dagli Usa dopo il conflitto del 1991, un’entità curda indipendente che si trova rafforzata dalla caduta di Saddam. Gli Usa smantellano la struttura statale irachena, completamente dominata dal Partito Baath, che aveva la sua base sociale nella borghesia sunnita. Migliaia di impiegati statali e soldati vengono licenziati. Molti non accettano passivamente, si ribellano utilizzando anche il terrorismo. Una parte però collabora con l’occupante. La borghesia sciita, maggioritaria, si spacca in frazioni regionali per la suddivisione della rendita petrolifera. Nel Sud del paese c’è un movimento insurrezionale, sciita, che a Bagdad è guidato da Muktad al Sadr (cfr. Classi e frazioni in Irak, novembre 2004, PM n.5). Alle elezioni del gennaio 2005 gli sciiti conquistano il governo, mentre la borghesia sunnita prosegue nella lotta armata, appoggiata anche da buona parte del suo clero.1
In questo contesto la lotta armata sunnita riceve consistenti aiuti dall’Arabia Saudita, preoccupata per la crescente influenza iraniana; anche la Siria di Assad simpatizza con la resistenza sunnita dati gli antichi legami con gli ufficiali baathisti. Un giordano, Abu Musab al-Zarqawi fonda una branca di al Qaeda in Iraq, che si oppone sia all’occupazione Usa che all’influenza dell’Iran. La guerra settaria conosce un’impennata (attentati, rapimenti, decapitazione di ostaggi dall’una e dall’altra parte), producendo più di 100 mila morti. Ucciso Zarkawi, gli succede Abu Ayyub al-Masri che dà un nuovo nome all’organizzazione terroristica: ISI (Islamic State of Iraq) nell’ottobre 2006.
ISI prima fase 
Dopo aver chiuso l’infame carcere di Abu Graib, gli Usa hanno aperto a Sud, vicino al confine col Kuwait e la Siria, il carcere di Camp Bucca. Fra il 2004-2009 ci passano quasi 100 mila prigionieri sunniti; i civili arrestati per reati comuni sono imprigionati con gli ex ufficiali Baath e con elementi radicali. Qui avviene la saldatura fra baathisti e mussulmani radicali, che uniscono le forze reclutando nel carcere i futuri jihadisti dello Stato Islamico. Nonostante dichiari una capitale, Baqubah, e costituisca nuclei stabili a Mosul, Dyala e Al Anbar, fra 2007 e 2010 l’ISI è sottoposta a un forte ridimensionamento.
Il nuovo comandante in capo Usa in Iraq, Petraeus può contare su un aumento significativo degli effettivi Usa (il “surge”) e si assicura la collaborazione di 20 tribù sunnite della regione di Anbar, stufe del prolungarsi dello stato di guerra. Questi sunniti, ben pagati e armati sgominano l’ISI nella loro area (controinsurrezione), tanto che nel 2009 Camp Bucca viene chiuso nel quadro della politica di disimpegno di Washington, ma anche perché i vertici militari valutano che la situazione si stia normalizzando. In quest’occasione viene rilasciato anche Abu Bakr al Bagdadi, all’epoca semplice imam. Nel 2010 i due capi dell’ISI, al-Masri e Abu Omar al-Baghdadi vengono uccisi da un raid mirato Usa. Nell’agosto dello stesso anno il contingente Usa si ritira lasciando solo 50 mila uomini e decine di migliaia di contractor mercenari.
L’Irak del 2010 è solo apparentemente pacificato, perché i nodi politici e sociali non sono cambiati.
La borghesia sunnita tenta di rientrare nel governo e di reinserirsi nell’esercito, ma il governo sciita di Al Maliki li discrimina a tutti. Nel campo sciita continua il braccio di ferro fra Bagdad, che vuole centralizzare e Bassora che vuole il federalismo per aver mano libera sulle risorse petrolifere del Sud. La dirigenza curda preme per avere l’autonomia politica completa.2 Il proletariato iracheno organizza scioperi di rilievo che sottolineano una situazione drammatica ma non riesce a esprimere una propria organizzazione abbastanza forte da superare le divisioni tribali e religiose. Viene quindi mobilitato su basi etnico confessionali come carne da cannone. Le organizzazioni minoritarie che portano avanti posizioni di classe vengono distrutte.
Molti paesi mediorientali sono ansiosi di riempire il vuoto lasciato dagli Usa. Ad esempio nella campagna elettorale di marzo scorrono fiumi di denaro straniero: dall’Iran all’Arabia saudita, dalla Turchia alla Siria, dall’Egitto alla Giordania tutti sostengono un proprio candidato, accampando motivazioni etniche, religiose, di affinità politica o culturale. Questi paesi a giovane capitalismo giocano in proprio, non sono coordinati con gli Usa o la Russia o i paesi europei. Il governo al Maliki d’altronde indice un’asta per 15 campi petroliferi e qui si scopre che paesi come l’Italia, la Gran Bretagna o gli Usa che hanno profuso impegno militare e risorse nel paese non sono premiati in proporzione nelle assegnazioni. In più chi si è imposto come primo partner commerciale è l’Iran.
La base economico sociale dell’opposizione irachena 
In questo quadro la borghesia sunnita è stata esclusa dai redditizi affari del settore statale (petrolio, infrastrutture), ma anche dal commercio, si è gettata sulla economia sommersa, in particolare gestisce il contrabbando con la Turchia. Le grandi banche di proprietà dei sunniti si sono trasferite ad Amman, in Giordania. Gli ex funzionari, gli ufficiali ecc. si sono trasferiti in Arabia, presso i nuclei con cui hanno legami tribali. Dall’estero finanziano i gruppi di guerriglieri e raccolgono fondi presso imprenditori e finanzieri dei paesi arabi a prevalenza sunnita. Ma ben presto i guerriglieri si finanziano imponendo il pizzo ai commercianti e ai camionisti, in particolare quelli che trasportano petrolio (gli oleodotti sono spesso interrotti da attentati o episodi di guerriglia) o allestendo check point improvvisati sulle strade di grande traffico, che la corrotta polizia irachena lascia incustodite. La disoccupazione, al 34% fra gli uomini in età da lavoro, garantisce alle varie milizia grande facilità di reclutamento.
Il bilancio umano per gli iracheni del periodo 2003-2010 è di 2 milioni di emigrati, 3 milioni di profughi, 1 milione fra morti e mutilati gravi, 1 milione circa di persone che sono state imprigionate per periodi medio lunghi di tempo. Il paese è avvelenato dall’uranio arricchito e dal fosforo, l’elettricità e l’acqua sono forniti in modo irregolare, vi scorrazzano guerriglieri e contractor di ogni risma. Le pensioni sono anch’esse pagate saltuariamente, i servizi sociali non esistono più. La mancata manutenzione ha portato al quasi prosciugamento dello Shatt al Arab, il mare risale fino a Bassora e minaccia le riserve di acqua dolce.
Apparentemente sconfitto l’ISI prosegue in modo coperto la sua propaganda e il reclutamento, trovando appoggi per il suo progetto di riedizione dello Siraq, il Califfato, al di là dei confini artificiali tracciati dai paesi colonialisti dopo la Prima Guerra Mondiale.
Lo scoppio della guerra civile in Siria offre allo Stato Islamico una nuova opportunità.
La primavera araba in Siria nasce dal peggioramento delle condizioni economiche, è una protesta economica ma anche una richiesta di libertà politiche contro il soffocante regime degli Assad, che risponde con una feroce repressione.
La borghesia sunnita siriana, che negli anni precedenti aveva accettato l’emarginazione politica da parte del regime alawita in cambio di prosperità e buoni affari, si schiera contro Assad ma non ha né la capacità di esprimere una opposizione organizzata né la tenacia necessaria, mentre la minoranza alawita che compone l’esercito e l’apparato dello Stato combatte all’ultimo sangue per un potere che è anche garanzia di sopravvivenza. Alla fine del 2011 Assad, consapevole di non riuscire a domare la rivolta, lascia libere le enclave curde in territorio siriano e permette al leader del PYD curdo di rientrare in Siria: lo scopo è creare una zona cuscinetto curda fra sé e la Turchia, paese che protegge e finanzia il primo gruppo di guerriglieri (il “Libero esercito siriano”- Free Syrian Army).
In questa partita si gettano gli imperialismi europei e quello Usa, ma soprattutto le potenze regionali (Turchia, Emirati, Sauditi, Qatar, Kuwait) ansiosi di abbattere Assad, da sempre alleato di Russia e Iran, ma anche fiduciosi di aggiudicarsi una fetta di Siria in caso di spartizione.
Ma naturalmente l’intervento sarà per procura attraverso gruppi di guerriglieri reclutati ad hoc, armati e finanziati. Il primo gruppo islamista a comparire ufficialmente in Siria, nel gennaio 2012, è stato al Nusra, formato dai reduci del gruppo al Zarkawi, che presto si è rivelato il più abile a reclutare e a raccogliere fondi all’estero, ridimensionando il peso dei ribelli finanziati dalla Turchia e il sogno neo-ottomano di Erdogan. Nel 2012 i guerriglieri dell’ISI si confondono fra quelli di al Nusra, da cui si separeranno ufficialmente nel gennaio 2013 (per poi gradualmente riassorbire al Nusra man mano che le loro conquiste si allargano).
Gli Usa si ritirano dall’Iraq
Agli inizi del 2012 vengono ritirati circa 40 mila soldati Usa dall’Iraq (ne rimangono solo 9800). Obama dichiara che il governo al Maliki e l’esercito iracheno sono in grado di garantire la sicurezza e la stabilità del paese. Obama è costretto a questa mossa da ragioni economiche, se vuole aumentare lo sforzo bellico in Afghanistan. Ma è anche convinto che il focolaio siriano impegni le medie potenze regionali e le usuri a suo vantaggio (l’obiettivo Usa è la bilancia di potenza: favorire l’equilibrio fra le potenze dell’area impedendo che una di loro prevalga sulle altre e inizi un processo di unificazione della regione); in quel momento gli Usa ritenevano consolidata l’entità curda in Iraq, dove c’erano sostanziosi investimenti della Exxon, e l’Egitto di Morsi d’altronde si presentava come un partner collaborativo per gli Usa. Appena partiti gli americani, al Maliki arresta i membri sunniti del suo governo accusandoli di terrorismo. La repressione ridà slancio alla guerriglia sunnita e quindi all’ISI, che ricomincia a raccogliere solidarietà e fondi in tutti i paesi sunniti, tanto da poter reclutare professionisti da Cecenia e Afghanistan e bassa manovalanza dal Centro Africa, grazie agli effetti collaterali della invasione della Libia (migliaia di lavoratori, ma anche ex mercenari di Gheddafi, rimandati dalla Libia nei loro paesi senza più prospettive,). Fonti israeliane rivelano la presenza fra loro di agenti dell’intelligence francese e inglese. I guerriglieri filtrano dall’Iraq in Siria grazie ai legami tribali fra sunniti, ma anche grazie al fatto che l’esercito di Assad non controlla più il confine, ma si è arroccato intorno ad Aleppo e Damasco e lungo la costa.
La crisi siriana passaporto per il ritorno della Russia nel Mediterraneo
Oltre che sulla fedeltà dell’esercito, Assad può contare sulle forniture e l’assistenza militare della Russia, sull’aiuto diretto delle milizie Hezbollah e di contingenti dall’Iran. Per la Russia si tratta di confermare una tradizionale alleanza, che le garantisce un porto sicuro nel Mediterraneo, cioè Tartus. Per una curiosa coincidenza, appena prima del ritiro americano dall’Iraq, nel dicembre 2011 i russi hanno posizionato a Latakia sulle coste siriane, presso la loro base navale di Tartus la loro unica portaerei, la Kuznetov.4
È l’inizio di un processo che avrà sviluppi significativi negli anni successivi. Approfittando della caduta del governo Morsi e dei cattivi rapporti Usa con il nuovo premier al Sissi, la Russia firma con l’Egitto un ricco contratto di fornitura di armi ottenendone in cambio una base navale ad Alessandria (che si aggiunge a quelle di Cipro e Tartus). Ancora più clamoroso il riavvicinamento di Israele alla Russia, che incrina un asse con gli Usa che risale al 1948. Persino i sauditi sollecitano collaborazioni da Putin. Viene accantonata invece una possibile installazione di navi russe nel porto greco del Pireo: un accordo privilegiato con Tsipras significherebbe inasprire i contrasti con la UE e né Mosca né Pechino fanno questa scelta. Simbolicamente, tuttavia, mentre Putin si posiziona nel Mediterraneo Orientale, in passato monopolio della Sesta Flotta, nel settembre 2015 nessuna portaerei Usa staziona nel Mediterraneo o nel Golfo Persico. L’Italia è lo sponsor più entusiasta del rientro russo, esiste una sua ambizione trasversale ai partiti (da Prodi a Berlusconi a Renzi) di giocare il ruolo di mediatore fra Usa e Russia. L’Italia ha agevolato i russi nella Libia anteguerra cedendo a Gazprom una quota del giacimento Elephant e utilizza il suoi legami economici in Siria per sostenere a Ginevra II la linea russa.5
ISI seconda fase
La spia del ruolo sempre maggiore dell’ISI in Siria si ha nell’aprile 2013 quando il gruppo cambia nome e diventa ISIL. (Stato Islamico di Iraq e Levante, al Sham in arabo) o ISIS (Stato Islamico di Iraq e Siria). A metà del 2013, l’ISIS controlla già almeno 4-5 pozzi nella Siria Orientale; solo dalla vendita a prezzi scontati del petrolio ricava 1,5-2 milioni di $ al giorno, di fatto funziona “come un’azienda petrolifera di Stato”, assume i migliori ingegneri e tecnici sul mercato, li paga bene. L’assoluta efficienza dell’operazione fa pensare ad una accurata preparazione precedente alle conquiste. Lo sfruttamento diretto del petrolio rende l’ISIS sempre meno dipendente dai donativi esterni (cfr. IS figlio legittimo degli scontri fra grandi e medie potenze PM n. 37, novembre 2014).
Nel corso del 2013 prosegue lo stallo siriano: il governo Hollande è il più accanito nel chiedere un intervento diretto in Siria contro Assad (e indirettamente contro l’Iran), ma resta solo; Obama pur dichiarando che Assad ha usato le armi chimiche poi fa retromarcia, Cameron vorrebbe intervenire ma viene sconfessato dal suo parlamento. Alla fine non se ne fa nulla. I rischi impliciti di un intervento diretto di terra non sembrano compensati dai prevedibili futuri vantaggi.
L’atteggiamento Usa non dipende da ignoranza della situazione o sottovalutazione dell’ISIS. David Cohen, sottosegretario di Stato per il terrorismo cita un Rapporto del 2013 del Dipartimento di Stato Usa che dimostra una perfetta conoscenza dei canali di finanziamento del gruppo. I finanziamenti vengono raccolti da Fondazioni che hanno sede in Kuwait, che ha una legislazione bancaria particolarmente poco trasparente, provengono da Arabia, Qatar, Giordania, Emirati e nelle operazioni sono coinvolti personaggi di spicco del Kuwait, compresi imprenditori edili, magnati del petrolio ecc. Per le petromonarchie del Golfo l’ISIS è positiva, perché logora gli Alawiti ma anche l’Iran ed Hezbollah. Anche la Turchia è complice, nonostante agisca in proprio con il Free Syrian Army: è sul suo territorio che avviene la consegna di denaro e armi provenienti da Doha e Riyad all’ISIS, ne ospita i feriti nei propri ospedali, garantisce santuari sicuri ai guerriglieri. Per gli Usa l’ISIS è un mezzo di pressione contro l’Iran e il governo iracheno. L’avanzata dei gruppi islamici preoccupa sia i curdi siriani che quelli iracheni e li spinge a coordinarsi e a metter fine alle discordie interne per organizzare militarmente la propria difesa.6
ISIS conquista “a sorpresa” il suo Stato e i curdi annettono Kirkuk 
A gennaio 2014 l’ISIS sorprende anche gli esperti conquistando contempora-neamente Raqqa in Siria e Falluja in Iraq, mentre le truppe del governo iracheno, addestrate e armate dagli Usa a suon di dollari si squagliano lasciando all’ISIS montagne di armi, blindati e artiglieria pesante ultimo modello. Poi i jihadisti conquistano i giacimenti petroliferi di Ajil e Allas, nella provincia nordorientale di Kirkuk e infine prendono Mosul, la seconda città irachena per importanza, due milioni di abitanti (luglio 2014) e da ultimo Tikrit, città natale di Saddam Hussein. Solo quando l’ISIS minaccia Erbil e gli ingenti investimenti delle multinazionali occidentali nel Kurdistan iracheno gli Usa intervengono con bombardamenti aerei in Siria e in Iraq (dall’agosto 2014). Nell’ambito di questa operazione anche l’Italia invia circa 750 “istruttori” a Erbil e Bagdad (“Prima Parthica”). Il 70% dei raid non trovano neanche l’obiettivo. La teoria americana del doppio contenimento aveva bisogno dell’ISIS. Il quale tenta di sfondare verso Kobane attorno a cui si attesta la resistenza curda del YPG della Rojava siriana, mentre i turchi lungi dal bombardarlo, colpiscono il PKK curdo. L’avanzata dell’ISIS se chiede un pesante tributo di sangue ai curdi siriani, consente a quelli iracheni di occupare Kirkuk, loro aspirazione storica, resa possibile dal totale indebolimento del governo centrale iracheno. Oltre che dagli Usa i curdi sono aiutati in modo coperto dagli israeliani.7
Gli avvenimenti confermano che nessuna delle rivendicazioni nazionali di autonomia portate avanti dai vari gruppi etnico religiosi (curdi, sunniti, palestinesi) ha forza propria tanto da riuscire ad affermarsi, ma solo la capacità di guadagnare terreno all’ombra di un “protettore” esterno che abbia interesse a cavalcare il loro separatismo.
L’assertività saudita e il sistema di alleanze instabili in Medio Oriente
La situazione si trascina per tutto il 2014 e nel primo semestre 2015, quando il nuovo sovrano saudita interviene nel conflitto yemenita a bombardare gli houthi filosciiti, ponendosi a capo di una coalizione pan araba trasversale fra Africa e Medio Oriente. È l’approdo di una linea di tendenza che ha visto l’Arabia Saudita acquisire peso demografico, armarsi ed esplicitare ambizioni regionali crescenti anche in contrasto con la pax americana. Sono i sauditi a finanziare il colpo di Stato di Al-Sissi in Egitto. Sono loro a intervenire militarmente a schiacciare la rivolta del Bahrein, loro a bloccare l’avanzata degli Houthi in Yemen. In alleanza con gli Emirati e l’Egitto contendono al Qatar il controllo delle fazioni libiche in lotta.8 Questo processo è parallelo all’indebolimento Usa, cui resta comunque l’arma del ricatto militare (senza la loro assistenza tecnica l’Arabia non potrebbe attaccare lo Yemen) ma a cui i sauditi rifiutano di diminuire la loro produzione petrolifera per frenare il crollo del prezzo del greggio. La presidenza Obama ha del resto l’interesse strategico a spostare l’asse di intervento verso l’Asia; le necessità di risanamento del bilancio rendono sempre più onerosa la spesa militare dedicata al Medio Oriente. Per questo, per realizzare nella regione una bilancia di potenza in cui nessun attore regionale prevalga sugli altri, il segretario di stato statunitense Kerry porta avanti per conto di Obama le trattative sul nucleare con l’Iran, che si concludono nel luglio del 2015, grazie alla fattiva opera di mediazione svolta da Putin, nonostante tutti i tentativi delle cancellerie del Golfo e di Israele di farle fallire e nonostante l’accanita opposizione della Francia.
L’ISIS si espande nel Siraq e in Africa
Nel complesso fra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 l’ISIS non solo ha “tenuto”, ma ha aggiunto nuovi territori a quelli che già controlla in Iraq (dove conquista Ramadi, Nassiriya) e Siria (dove assedia Aleppo, conquista Palmira Homs e Hama). Espande la sua influenza sulle coste africane, in Libia, creando nel 2014 una testa di ponte a Derna in un’area che si sente estranea a entrambi i governi in concorrenza cioè quello di Tripoli e quello di Tobruk, poi insediandosi a Sirte nel febbraio 2015, dove facilmente recluta gli sbandati delle varie milizie islameggianti, cui offre stipendio fisso, ma può anche mettere le mani sui pozzi abbandonati. Inizia da un lato a intessere legami con i vari gruppi africani e contemporaneamente recluta futuri terroristi nelle periferie europee degradate, le stesse banlieue da cui è partita la rivolta del 2005 in Francia o il quartiere Molenbeek di Bruxelles.
Nel luglio 2015, firmato l’accordo con l’Iran, gli Usa convincono Erdogan a concedere la base di Incirlik come base di partenza per i raid contro l’ISIS. Il governo turco teme infatti l’isolamento e il collegamento anche territoriale che ormai si è stabilito fra enclave curde in Siria e curdi iracheni. In cambio Usa ed europei tacitamente lasciano mano libera a Erdogan contro i curdi .9
L’intervento russo, gli attentati e la reazione 
Ma la partita militare riceve uno scossone solo con i bombardamenti russi in Siria in ottobre. Certamente Putin ha intravisto la possibilità di cavalcare un “vuoto di leadership” da parte Usa nell’area, ritenendo di aver intessuto sufficienti reti diplomatiche, ma la ragione prevalente è stato il recente significativo indebolimento di Assad, non più in grado di garantire il ricambio dei soldati e che rischiava di perdere l’area di Latakia e la zona di costa dove sorge Tartus.10 Tutti gli altri attori regionali hanno protestato, ma di fatto accettato. L’intervento russo ha in ogni caso permesso il contrattacco dell’esercito regolare siriano, che punta a liberare totalmente Aleppo e la provincia di Latakia. La Russia infatti più che bombardare l’ISIS ha attaccato la Free Syrian Army filoturca e i guerriglieri di Jaysh al-Fatah, foraggiati da Turchia e Arabia. Tuttavia l’attentato all’aereo russo sul Sinai viene rivendicato dall’ISIS e dà il via agli attentati che culminano con quelli di Parigi del 13 novembre, cui seguono quelli di Bamako, in Mali e in Tunisia.
Ma questo e gli altri attentati, più che un messaggio terroristico che mira a colpire il pubblico occidentale sono un messaggio propagandistico ai gruppi jihadisti africani (di qui l’attacco alla Francia che bombarda in Siria, ma ha condotto anche sanguinose guerre in Centro Africa a sostegno dei regimi filofrancesi). L’attentato a Bamako e a Tunisi sono anch’essi simboli di questa volontà di collegare i gruppi islamici africani al nucleo ISIS che si trova in Libia.
Gli attentati permettono ai governi, coinvolti e non, da un lato di bloccare l’opposizione interna in primis quella operaia, imponendo per ragioni di sicurezza stato d’assedio, proibizione di manifestazioni e scioperi, censura sulla stampa ecc.
Dall’altra sono il pretesto per giustificare nuove guerre, in Africa come in Medio Oriente, nuovi investimenti nella Difesa.
La necessità di coordinare gli interventi militari obbliga ancora una volta a rivoltare le alleanze.
Il maestro in quest’arte delle giravolte è proprio Hollande, che riallaccia ottimi rapporti con Putin.
La santa Alleanza Usa-Russia-Germania-Francia contro il “mostro islamico” sta stretta a molte potenze mediorientali, ma inferocisce la Turchia, dato che i russi bombardano aree turcofone ai propri confini. La Turchia denuncia più volte violazioni del proprio spazio aereo da parte dei russi (interessante accusa da parte di un governo che ogni giorno viola il confine iracheno e siriano per bombardare i curdi). Finché il 24 novembre abbattono il jet russo. Una aperta provocazione turca che ha lo scopo di rompere un’eventuale nuova Yalta in Medio Oriente; Obama approva, forse perché l’asse improvvisato con la Russia gli va stretto. La Turchia peraltro raccoglie più o meno la sola solidarietà Usa, mentre Israele chiede addirittura la sua espulsione dalla Nato. Secondo i politologi Erdogan medita di riutilizzare l’arma profughi contro Germania e Francia, come già nella scorsa estate.
In conclusione si viene preparando una stagione di nuove guerre e/o interventi militari. Tutti i governi giocano le loro carte, ognuno per proprio conto pur invocando la grande coalizione, e da alcuni segnali si preparano al riarmo che ha anche un risvolto economico (quando il 17 novembre Hollande ha fatto bombardare Raqqa, le borse europee hanno segnato un rialzo senza precedenti)
I governi cosiddetti “democratici “stanno restringendo gli spazi delle libertà civili, comprimendo le lotte sindacali e di protesta, secretando i loro piani militari e l’entità delle spese per la difesa.
Sono sempre gli stessi governi che stringono accordi economici e militari con le dittature che dominano il Medio Oriente, che forniscono loro armi, con cui condividono gli investimenti e lo sfruttamento dei lavoratori mediorientali. Per l’imperialismo italiano ne sono un esempio l’acquisto del 49% di Alitalia da parte di Etihad (compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti), l’acquisto di un nuovo quartiere milanese da parte del sovrano del Qatar, la visita a Riyad del premier Renzi, la vendita di armi a diversi governi della regione, incluse le bombe all’uranio impoverito da usare contro la popolazione Houthi in Yemen.11 Finché il mondo sarà fondato sul capitalismo, non vi saranno solo sfruttamento e oppressione politica magari mascherata da libertà democratica, ma anche guerre per spartirsi i proventi dello sfruttamento. Per porre fine a questi disastri umanitari è indispensabile l’abbattimento del sistema che li produce.


NOTE

1. . cfr. Costituzione, regioni e petrolio in Irak, «Pagine Marxiste» n. 9, ottobre 2005.

2. . cfr. Il ritiro americano nel vuoto di potere iracheno, «Pagine Marxiste» n. 25, settembre 2010.

3. . cfr. Siria, lo stallo della rivolta PM n. 28 ottobre 2011.

4. . cfr. L’area mediorientale gravida di crescenti conflitti PM n. 9 febbraio 2012.

5. . cfr. Combat – Siria: contro la nuova guerra imperialista “umanitaria” www.combat-coc.org/siria-contro-la-nuova-guerra-imperialista-umanitaria/ 

6. . cfr. www.combat-coc.org/il-risultato-non-voluto-della-crisi-irachena/.

7. . cfr. www.combat-coc.org/le-guerre-dimenticate-siria-e-libano.

8. .cfr. www.combat-coc.org/lybia-bombardata-campo-di-battaglia-per-gli-appetiti-delle-borghesie-arabe/.

9. . cfr. www.combat-coc.org/la-svolta-nella-politica-turca-scombina-le-alleanze-in-medio-oriente/.

10. . cfr. www.combat-coc.org/israele-strizza-locchio-allintervento-russo-in-siria/. 

11. .cfr. www.combat-coc.org/armi-e-petrodollari-non-olent/.

8 Marzo 2016 Clash City Workers: None (TO)nuovo sciopero dei facchini della Safim: il sindacato lo scegliamo noi!

http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o48273:e1

Dopo gli scioperi di fine 2015 riprende la lotta dei facchini della Safim, piattaforma logistica che gestisce prodotti surgelati soprattutto per i supermercati Dimar.
Come avevamo già raccontato, nel polo di None (Torino) operano due cooperative, una a predominanza italiana e rumena, l’altra a predominanza migrante. Come spesso accade nel settore della logistica ad essersi ribellati sono proprio questi ultimi che subiscono le peggiori condizioni di lavoro. 

Grazie alla loro lotta, iniziata col sindacato SiCobas ormai due anni fa, sono riusciti a migliorare molto la loro condizione che prima li vedeva impegnati mediamente 250 ore al mese con lo straordinario erogato sotto forma di un forfettario da 100 €.
Ma già sul finire dell’anno scorso, a causa dei miglioramenti che la cooperativa aveva dovuto concede ai lavoratori in lotta, la Safim ha deciso che non era più conveniente utilizzare la cooperativa ed ha così assunto direttamente i lavoratori, ma obbligandoli a lasciare il sindacato SiCobas in favore della Cisl ed annullando i miglioramenti salariali che i facchini avevano strappato alla cooperativa. Non paghi, hanno firmato un accordo con la solita compiacente Cisl, accordandosi per tombare quanto dovuto per gli straordinari irregolarmente non retribuiti in passato dalla cooperativa in cambio di un misero forfettario.
Compreso l’inganno i lavoratori migranti avevano ripreso la lotta nell’ottobre scorso,

(1 ott 15 Giornata di protesta nella piattaforma logistica Safim – Dimar http://www.clashcityworkers.org/rassegna-stampa/2105-candiolo-protesta-logistica-safim-dimar.html)
ma l’azienda, sempre grazie alla complicità della Cisl, ha tentato di dividere i lavoratori aizzando gli italiani contro gli arabi, paventando il rischio chiusura e quindi la perdita del posto di lavoro. 
Dopo i duri scioperi di ottobre i facchini hanno così deciso di lasciar calmare le acque fino alla scorsa settimana quando hanno deciso di tornare a farsi sentire. 

Così giovedì scorso alle 14 tutti i lavoratori arabi sono usciti dal magazzino in sciopero ed hanno cominciato a bloccare tutti i camion in entrata e uscita dal magazzino di None, senza farsi intimidire né dalle minacce aziendali, né dal rischio sgombero da parte della polizia. 

I lavoratori hanno resistito per tutta la notte (lo sciopero è durato 20 ore e si stima un danno per l’azienda di circa un milione di euro!) fino a che verso le 10 del mattino seguente non è arrivata la notizia che l’assessorato al lavoro della regione Piemonte intendeva incontrare i lavoratori per favorire un incontro tra le parti. Il picchetto decide così di sospendere lo sciopero e accettare l’incontro per il pomeriggio alle 16 con l’assessore Pentenero. 
All’incontro i lavoratori espongono chiaramente le loro rivendicazioni:
-riconoscimento della rappresentanza sindacale SiCobas;
-annullamento dei tombali
 fatti firmare con la complicità della Cisl e col ricatto del posto di lavoro;
-recupero del salario perso con il passaggio alla Safim
Dopo aver ascoltato i lavoratori l’assessore si è impegnata a convocare un tavolo tra le parti per trovare una soluzione entro la prossima settimana

I lavoratori hanno così deciso di attendere l’incontro ma si sono anche detti pronti a riprendere la lotta se non si troverà al più presto una soluzione definitiva.

Il riesame boccia le tesi dei pm. Tutti liberi i No Tav (o quasi)

post — 31 marzo 2016 at 13:54

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Stamane il tribunale del riesame ha di fatto annullato e/o ridotto le misure cautelari nei confronti degli 8 No Tav che il 15 marzo scorso si erano visti piombare in casa i Carabinieri di Susa a seguito di indagine del solerte pm con l’elmetto Padalino (durante l’udienza del riesame in vacanza e quindi sostituito dal compare Rinaudo).

Da oggi Brescia e Mosca usciranno dai domiciliari con  l’obbligo di dimora dentro il comune di residenza, mentre Giulia continuerà a firmare giornalmente perchè accusata di aver detto “fascista” ad un carabiniere che affermava che col Duce tutto sarebbe diverso…Per gli altri 5, invece, annullate tutte le misure e quindi Stefanino, Fulvio, Luca, Paolo e Guido tornano ad essere completamente liberi.

Vale la pena ricordare come, nonostante le accuse inconsistenti,  la richiesta originaria dei pm al giudice fosse stata di ben 5 arresti in carcere, fortunatamente non concessi, ma comunque inizialmente commutati in 4 arresti domiciliari e 4 obblighi di firma quotidiana. Misure cautelari per un episodio del tutto marginale, con reati che vanno dalla minaccia al rifiuto di fornire le proprie generalità…la Procura di Torino, a quanto pare, può anche sostenere questo livello di ridicolo.

Appare lampante però, come a distanza di poco più di due settimane, le misure siano quasi del tutto decadute e l’impianto accusatorio di fatto demolito.

La domanda a questo punto sorge spontanea: ma questi pm, che continuano a pretendere e a costruire fantasiose storielle sui No Tav e sulla loro pericolosità sociale, non si vergognano di tutte le figuracce che stanno facendo? Nessuno ha il coraggio di porre un freno a questa persecuzione o sono tutti d’accordo?

Per quanto ci riguarda, continuiamo per la nostra strada in barba agli inquisitori da 4 soldi e al teatrino politico che li sostiene.

Avanti No Tav!

Tutti e tutte libere!

TRENO TGV GUASTO IN VAL SUSA: 200 PASSEGGERI BLOCCATI A BORDO

Giornale online indipendente – Diretto da Fabio Tanzilli – redazione@valsusaoggi.it

     03/30/2016  

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BUSSOLENO – Linea ferroviaria con disagi in Val Susa, per il guasto ad un Tgv sulla linea Bardonecchia-Torino. All’altezza di Meana di Susa il treno ad alta velocità si è bloccato, ed in soccorso è arrivato un locomotore. Sul posto c’è la Croce Rossa di Susa.

GUARDA LE FOTO

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Il Tgv è arrivato a Bussoleno, e qui i passeggeri sono ancora bloccati a bordo. Presto potranno scendere per utilizzare le navette bus, che li porteranno a Torino.

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Oltre 200 passeggeri sono stati trasportati sul pullman, alla volta di Torino e Milano. I volontari hanno provveduto a dare assistenza alle persone, soprattutto ai passeggeri con ridotta capacità motoria, in collaborazione con il personale delle ferrovie e la polizia ferroviaria.

Il Tgv è stato rimorchiato da un locomotore soccorso che l’ha agganciato fino a monte della stazione ferroviaria di Bussoleno, dove hanno detto alcune prove tecniche e da lì è stato spostato nella stazione.
Sembra che il fatto sia avvenuto alle 11.45 circa di questa mattina, a Meana sul binario di discesa, trattandosi della Parigi-Milano.

Dieci anni dopo le Olimpiadi del 2006, #Torino festeggia la voragine

Pubblicato il 29.03.2016 

Le priorità del 2006. Siamo sicuri che siano cambiate?

Le priorità del 2006. Siamo sicuri che siano cambiate?

di Maurizio Pagliassotti (*)

Per raccontare questa storia è necessario partire dalle parole di un giornalista vero, forse il migliore che Torino abbia avuto, pubblicate sul settimanale “D di Repubblica”, nel lontano 2003.
Troverete Luca Rastello anche nelle prossime righe, perché era un maestro e andare oltre le sue parole definitive è impossibile. Luca scrisse:

«La notte è quasi una novità a Torino, prima non c’era. Una sera di anni fa, l’italianista Stefano Jacomuzzi, ospite di Gianni Agnelli, notò dalla collina le grandi chiazze di buio che si allargavano sotto il suo sguardo: «Sono le nove e la città sembra già addormentata», osservò. “Lascia che riposino”, rispose paterno l’avvocato.
Ora riposa anche lui.
Erano suoi quei grandi viali paralleli alle linee di montaggio, quelle traiettorie rettilinee di vite operaie o impiegatizie, definite una volta per tutte dal primo giorno allo stabilimento e dal regalo dell’orologio che ti qualificava Anziano Fiat, un titolo che tanti ancora si portano sul necrologio su La Stampa.»

C’è stato un tempo in cui il padre della città auspicava che i torinesi tutti non avessero pensiero che potesse distrarli dalla fabbrica, dal ’venta rusché, dal ’venta travajè. Che fossero fedeli impiegati torinesi doc, mansueti tecnici della provincia, o insubordinati operai massa in arrivo con i treni della speranza, non cambiava molto. A Torino si doveva lavorare molto e riposare il giusto, il giusto per non crepare di fatica. Per lo svago c’era il pallone, i trionfi domenicali della Juventus erano l’adeguato strumento per spegnere ogni tipo di ardore, e lo stadio il luogo più opportuno dove stemperare pulsioni di rivalsa. Leggenda vuole che Torino al termine degli anni ’50 avesse il maggior numero di sale da ballo pro capite e poi, dato che una città forgiata nel ferro e sul fuoco necessita di riposare, come da desiderio, ecco la discesa fino al mirabile panorama delle «enormi chiazze di buio», visibile dalle belle e spaziose terrazze delle ville che si affacciano sulla città.

Ma i tempi cambiano si dice, ed è necessaria un’orgia di retorica per spegnere una città facendo credere che la si stia accendendo come un braciere olimpico.

1. Alle origini della trasformazione

I padroni della città, reduci dalla traballante vittoria sugli operai in rivolta del 1980, quando avevano schierato ben quindicimila impiegati in marcia per le vie di Torino, guidati dal caporeparto Luigi Arisio, decisero che la produzione doveva uscire dai muri del loro impero. La Fiat aveva sessantamila dipendenti a Mirafiori. Non era una decisione di chi comandava la città: coglievano l’occasione storica, come innumerevoli altri industriali, per regolare molti conti rimasti in sospeso guadagnandoci. Il mondo lo permetteva. Le praterie della delocalizzazione neo liberale – in termini meno pudichi: il capitalismo – si aprivano su chances fino ad allora impensabili per chiunque desiderasse abbattere il costo del lavoro, il sindacato, la conflittualità, tutto.

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Cominciò così quella che il sociologo Marco Revelli ha definito «la globalizzazione stracciona della Fiat», così descritta sempre da Luca Rastello, profetico:

«Il decentramento della produzione con esperimenti fallimentari a Cordoba in Argentina, e le dismissioni di massa. Oggi [2003, NdR] l’azienda annuncia poco più di ottomila esuberi e molti si stupiscono che la capitale operaia della rivolta novecentesca non insorga, ma se ne stia in coda al Lingotto “per l’ultimo saluto all’avvocato”.
Il fatto è che negli ultimi dodici anni, mentre scopriva la movida, la città ha perso 110.000 posti di lavoro (centodiecimila), un’emorragia silenziosa e fatale, accompagnata dall’onda epidemica dei suicidi fra i cassintegrati del 1980 che non riuscivano a ritrovare lavoro.»

Meno centodiecimila posti di lavoro cinque anni prima dell’inizio della crisi globale. Anime morte.

Questo stato di cose risponde, da subito, a chi sostiene che il crollo mondiale del 2007 sia all’origine delle peripezie torinesi.

Ma gli Agnelli, e quindi tutta la coorte industriale torinese, di fronte a questa catastrofe incontrovertibile trovarono solo consensi, entusiasmo e teste chinate. Perché per tutti a Torino era necessaria una «trasformazione»: basta operai, basta ferro, basta industria. Di più, ci voleva «un cambio di mentalità», addirittura una «mutazione genetica». Leggere la storia di Torino è vedere la più grande manipolazione sociale della storia recente d’Italia. Un esperimento compiuto su centinaia di migliaia di persone. Su un territorio, su una comunità intera.

Certo, mettere in relazione il violento scontro del 1980 e le Olimpiadi di Torino può apparire un volo pindarico, ma alla luce di quanto intercorso nel tempo, il patrimonio genetico trasmesso appare evidente. Si pensi ad alcuni protagonisti di allora, divenuti protagonisti della ventennale “trasformazione” di Torino: il giovane Piero Fassino, in quel tempo responsabile delle fabbriche per il Pci e oggi sindaco, che nel 2011 dichiara «se fossi un operaio Fiat voterei sì al referendum di Marchionne». Al tempo accompagnò il segretario Berlinguer alla porta 5, rinominata “Porta Karl Marx”, per un comizio dove il capo del partito espresse agli scioperanti il pieno appoggio, dichiarando, seppur con molte sfumature, sostegno politico nel caso in cui il consiglio di fabbrica avesse deciso l’occupazione dei luoghi di produzione. Piero Fassino negli anni successivi puntualizzò che il suo partito «cercò di convincere il sindacato ad accettare l’offerta della Fiat» e che quella linea «non passò per via del clima che si era creato». 

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Oggi il sindaco di Torino è uno dei più accaniti sostenitori del cambiamento, della trasformazione post industriale, delle Olimpiadi, delle grandi opere e dei grandi eventi. E di Marchionne.

Ma i cambi sono avvenuti anche in senso contrario. Paolo Cantarella, ex amministratore delegato Fiat, poi consigliere di Iren SpA, Finmeccanica, Teatro Regio di Torino, è stato membro del Toroc, il comitato olimpico che organizzò i giochi. E con lui moltissimi altri ex top manager Fiat hanno nel tempo deciso che era meglio lavorare sotto l’ala dello Stato. Stato – per la verità li si può trovare quasi tutti nelle istituzioni torinesi e piemontesi – che li ha accolti come figlioli prodighi, riservando loro ruoli a retribuzioni apicali. Un’osmosi capillare tra personale politico e industrial finanziario.

Il primo scossone alla dimensione produttiva torinese del 1980 fu seguito da un secondo, nel 1994, quando la Fiat in occasione del celebratissimo «la festa è finita» di Gianni Agnelli, produsse una nuova ondata di licenziamenti, tra cui 3800 impiegati che solo pochi anni prima avevano alzato per le vie di Torino cartelli di questo tenore: «il lavoro si difende lavorando».

La festa, ma soprattutto la storia, era finita, il capitale trionfava e i comunisti diventavano post ideologici, in primis quelli torinesi, quasi tutti “miglioristi”, quindi ontologicamente neo liberali. Veloci nell’ammettere non solo la sconfitta, ma l’assoluta bontà e superiorità di un sistema ufficialmente “nemico” fino alle prime picconate nel muro di Berlino.

2. Un flute, un bocconcino e via, verso Olimpia

Ma ecco, durante una cena alto borghese tipicamente torinese, l’idea brillante. C’è anche l’avvocato, si discute cosa fare della città che andrà incontro alla de industrializzazione a tappe forzate. È il 1998.

Ma come si fa?

Eh già, è un bel problema. Duecentomila operai non sono uno scherzo.

Tutto d’un tratto, tra un flute e l’altro, un generale in pensione la butta lì: «Facciamo le olimpiadi invernali!». Torino è a due passi dalle montagne, le principali stazioni sciistiche sono a cento chilometri e, particolare non secondario, si trovano nel feudo montano degli Agnelli, Sestriere e paesi adiacenti.

Un attimo, e l’idea del generale diventa l’idea di Agnelli nel plauso generale. E’ il grande dono che l’avvocato fa al suo popolo: basta pane, brioches per tutti.

Una tra le più grandi opere di sperpero del dopoguerra viene trasformata con retorica battente in una grande opera di rilancio. Ciechi di fronte alla privatizzazione del sistema bancario, di fronte alla natura squisitamente privata dell’euro, di fronte a leggi di bilancio sovranazionali che hanno trasformato radicalmente i concetti di debito, deficit e spesa pubblica.

Torino e le sue Olimpiadi mettono bene in luce il meccanismo macro economico perverso in cui è piombato il paese: perché l’intervento pubblico, qualunque esso sia, dal tombino al tunnel di 54 km, è diventato un violento meccanismo estrattivo di valore volto ad abbattere lo Stato.

E come scrive lo storico dell’arte Tomaso Montanari, impegnato quotidianamente a denunciare l’esproprio del patrimonio culturale – uno degli strumenti che dovrebbero rendere gli italiani uguali – da parte di privati, «lo Stato da vent’anni è impegnatissimo a distruggere se stesso.»

È scacco matto pieno. Chi ha dettato le regole del gioco, nell’osservare la povera Torino e la povera Italia, probabilmente ha lo stesso pensiero che aveva il grande scacchistaBobby Fischer: «Mi piace vederli dibattersi». Così confessò, a proposito dei suoi avversari.

Torino si dibatte, da dieci anni.

Ci si può quindi indignare di fronte allo sfacelo post olimpico torinese?
Di fronte al trampolino di Pragelato, costato 34,3 milioni di euro e oggi abbandonato?
Alla pista di bob di Cesana Pariol, costata 110,3 milioni di euro e oggi abbandonata?
A parte del villaggio olimpico – 140 milioni di euro – abbandonata?
Alla pista di free style di Sauze d’Oulx, costata 9 milioni, usata sei giorni e poi smantellata?
Alla pista di biathlon a Sansicario prossima alla trasformazione in campi da tennis?

L’Istituto Bruno Leoni, di cui si può dire tutto tranne che sia un centro di ricerca “antagonista”, in uno studio del 2012 quantificò la perdita secca di Torino 2006 in ottocento milioni di euro. Un calcolo che teneva conto di tutti i benefici diretti e indiretti delle Olimpiadi.

Meccanismo estrattivo centrato sull’effetto leva generato dal debito perfettamente funzionante.

Il debito di Torino oggi è sceso a circa 3 miliardi di euro, dopo vendite e tagli draconiani.
È un debito squisitamente privato, contratto con istituti di credito privati, che si ripaga con i beni dei cittadini. Prima quelli pubblici, poi si passa a quelli privati attraverso la tassazione. Compito della politica dovrebbe essere quello di sovvertire queste regole fanatiche – pensare di organizzare le olimpiadi Roma 2024 in presenza del patto di stabilità significa consegnare le chiavi della città al curatore fallimentare nel 2025 – oppure di non fare debito e, nel caso, ridurlo senza vendere posate e lenzuola: troppo complicato. Soprattutto a Torino, dove il debito è passato da 1,8 miliardi del 2001 a 3,3 nel 2011, dove quasi tutte le partecipate sono state messe in vendita, dove è stata privatizzata la gestione di nove asili, dove strutture barocche seicentesche, definite patrimonio dell’umanità dall’Unesco, sono finite nei fondi di cartolarizzazione e messe all’asta.

Cosa è questa, se non la sistematica distruzione dello stato sociale?

Ma d’altronde come stupirsi, se al governo c’è la sinistra che vede come faro Tony Blair, con venti anni di ritardo, il nemico numero uno dell’idea di stato sociale.

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Torino è la capitale nazionale della cassa integrazione e si può tranquillamente dire che oggi il primo datore di lavoro della città è lo stato sociale, e solo grazie alla rendita accumulata da generazione precedenti, in primis quella operaia, il tessuto sociale non si sfilaccia fino a lacerarsi. Le ore richieste di Cig nel 2015 sono state il 222% in più di quelle del 2008, anno di inizio crisi. Perché vulgata vuole che la famosa “crisi” da queste parti arrivi otto anni fa.
E ricordiamo sempre i meno centodiecimila del 2003.

Indignarsi, definire tutto questo “spreco” è fuorviante, cieco di fronte alla sistematicità di tali operazioni. Manca la capacità di vedere il fine, e ci si rifugia nella rassicurante prospettiva di qualche malandrino, qualche incapace, o entrambi. Va bene per strisce pre serali dove vengono date in pasto la magagne del Paese. Le olimpiadi, i grandi eventi, le grandi opere, sono ingranaggi perfettamente funzionanti del meccanismo che trivella la Repubblica e rimodella la società su un modello neo aristocratico.

Perché anche nel caso in cui quegli impianti oggi abbandonati fossero debordanti di folle con scarponi e racchette il risultato finale sarebbe uguale. Oggi, Torino vanta indici macro economici drammatici: il Comitato Rota, nell’annuale rapporto sulla città del 2014, certificava che in alcuni quartieri periferici l’aspettativa media di vita si accorcia. Torino è la città in cui c’è stata la rivolta dei forconi più violenta: tre giorni di insurrezione, le vie spettrali, i tram messi per traverso nei corsi, rotonde ostaggio di ignoti che bloccavano i rifornimenti. Uno squarcio nel ventre profondo che ha fatto vedere cosa si muove nelle viscere del tessuto umano torinese.

Una città polarizzata, perfino nell’estetica. Un centro ricco rifatto in occasione dei giochi del 2006, scintillante, il salotto contrapposto alla periferia ansimante, rancorosa, ripostiglio di cui prima o poi magari ci si occuperà. Forse.

Colpa della “crisi”, rispondono. Quale crisi? La crisi è causata dai processi sopra descritti e quindi è lo stesso termine “crisi” a essere fuorviante. E questa sedicente “crisi” non passerà perché i pozzi di valore da trivellare sono ancora molti. Negli Stati Uniti, dove prende avvio questa globalizzazione capitalista i posti di lavoro persi dall’industria pesante, e non più recuperati in termini né qualitativi né quantitativi, sono 7.231.000.

Ma la trasformazione torinese, grazie alle Olimpiadi, è riuscita perfettamente. La città trabocca di turisti, gli incrementi sono tutti a doppia cifra, grandi eventi, grandi manifestazioni fanno sbraitare al successo ad ogni ponte di pasqua. E non sarà certo chi scrive queste righe a colpevolizzare coloro che hanno colto l’occasione per creare un po’ di lavoro nel settore del turismo e della ristorazione: è rimasto solo quello. I processi di gentrification – descritti magistralmente dal prof. Giovanni Semi nel suo illuminante libro Gentrification. tutte le città come Disneyland (Il Mulino) – sono paradossalmente l’ultima spiaggia di una città alla deriva. Dopo c’è il grande nulla.

Quindi, il paziente è moribondo ma l’operazione è perfettamente riuscita.
Scriveva ancora Rastello, nel 2003:

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«Passata la commozione per la morte di Gianni Agnelli, oggi a Torino c’è la consegna del sorriso e l’appello ad andare avanti assieme, con un’ombra di retorica. Il volano della nuova vita dovrebbero essere le olimpiadi Torino 2006. Resta memorabile il commento della scrittrice 

Arundathi Roy: “Veramente distruggete il vostro ambiente per sciare due settimane?”
Eppure c’è poco da scherzare: qui chiude tutto. La Sai Fondiaria che si trasferisce a Firenze, la Savigliano, gloriosa metallurgica che ha lavorato quasi due secoli, la Utet, prima casa editrice della storia d’Italia.»

Di queste parole profetiche Luca Rastello dovette rispondere a Chiamparino in persona, al tempo sindaco di Torino.

Ma rileggere la storia con gli occhi del tempo è esercizio divertentissimo, e fa capire quanto il giornalista scrittore torinese rischiasse di diventare un granello di sabbia capace di far saltare il meccanismo estrattivo.

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I giornali del periodo olimpico, sono un drammatico spasso riletti oggi. Tutta l’intellighenzia è schierata:
Alessandro Baricco scrive sulla metropolitana finalmente inaugurata una specie di favola dal titolo Dal romanzo alla realtà, niente meno;
Gianni Vattimo, il filosofo, dopo aver criticato fa dietro front e sulle pagine de La stampa si cosparge il capo di cenere, e in prima pagina nazionale (una piccola punizione per il discolo, la contrizione non basta) dichiara: «Io, filosofo pentito»;
Saverio Vertone annuncia che non partirà più per Parigi, come aveva annunciato.Margherita Oggero cita Manzoni;
Luciana Littizzetto si lancia in un profetico: «Olimpiadi Torino, le cassandre avevano torto»…
Lo scrittore Giuseppe Culicchia ogni giorno tesse le lodi dell’evento e della città rinata, ma tre anni dopo scriverà un bel libro ambientato a Torino, Brucia la città (Mondadori): succoso affresco di una città saccheggiata e devastata, in una bella pagina gli assessori Mintasco, Minfischio e un altro dal nome evocativo, tutti facilmente riconoscibili con i personaggi reali, durante una bella festa in collina, circondati dalla borghesia pezzente torinese, affacciati sul povero popolo “che riposa”, tagliano una gustosa fetta di torta su cui è disegnata la città. E se la mangiano.

E buon appetito.

John Elkann sull’house organ ricordava invece che se il nonno fosse ancora vivo sarebbe molto contento, mentre nientemeno che il re Savoia annuncia al popolo: «Torino potrà ammirare i miei gioielli.» La più saggia pare Evelina Christillin, reginetta e organizzatrice dei giochi: «Aspettiamo a festeggiare, nel lungo periodo solo la serietà paga.»

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E visto che l’occasione è propizia, durante le Olimpiadi la propaganda anti Notav diventa particolarmente virulenta. Quella maledetta valle ribelle pare aver capito che il meccanismo estrattivo olimpico è uguale al meccanismo estrattivo Tav. Ci sono quindi conti da regolare.
Pisanu, al tempo ministro degli Interni: «Temo notav e no global ancor più dei terroristi islamici». Pininfarina: «Rischiamo di perdere la Tav. O apriamo i cantieri nel 2006 o Bruxelles potrebbe dirottare i finanziamenti che ci ha concesso. E la penisola Italia diverrebbe un’isola». Quindi, dato che oggi siamo nel 2016 e del tunnel di base non è stato scavato nemmeno un millimetro, l’Italia è di fatto un’isola.

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Ma ciò che sorprende è il pensiero dei torinesi nel 2006. In un sondaggio condotto durante il periodo olimpico e pubblicato da La stampa emerge un quadro molto razionale e serio del contesto, distante mille anni luce dallo sciabordio sfavillante della festa. Il problema principale per i torinesi è il lavoro (23,7%) seguito dalla salute (20, 4%) e dal reddito (16, 4%). Il 21% dichiara di non arrivare a fine mese, e il 26,4% non ha beni essenziali per vivere. Il futuro precario del figli (nel 2006, quando ancora il barbaro retaggio novecentesco dell’art 18 non era stato sostituto dal progressista e di sinistra Jobs Act) preoccupava il 35% dei torinesi. Bei tempi.

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Scriveva a commento Marco Revelli:

«Sembra la posizione di chi, sotto la pioggia, si augura che l’ombrello tenga e che non si metta a grandinare, che non di chi già vede, a occhio nudo, “il sol dell’avvenire..”. E forse il 10 febbraio saranno state anche loro davanti al video a scaldarsi il cuore con la favola della loro città che decolla.»

3. Eppure è stato tutto perfetto

Le Olimpiadi di Torino 2006 sono un esempio di legalità, contesto vergine da ogni corruzione. Il territorio torinese, notoriamente infiltrato dalla criminalità organizzata, oggetto di una pioggia di denaro pubblico senza precedenti, ha saputo resistere senza il minimo cedimento alle forze criminali che inquinano e devastano le grandi e piccole opere della Repubblica. Anzi, c’è solo una piccolissima macchia a sporcare il tessuto lindo. Il 28 febbraio del 2006, un breve articolo di cronaca di Antonio Gaino pubblicato da La Stampa, paventa futuri terremoti giudiziari in arrivo.

Il cronista descrive un piccolo caso di utilizzo improprio di un telepass da parte di un dirigente del Toroc, quindicimila euro di danno. Poi aggiunge:

«Un ruttino rispetto la montagna di sussurri – sport nazionale anche questo – che avevano accompagnato l’escalation delle previsioni, al ribasso, degli incassi, e delle spese, al rialzo, per le XX olimpiadi invernali.»

E cosa pensare delle parole di Rocco Varacalli, uno dei pochissimi pentiti di ‘ndrangheta dalle cui dichiarazioni ha preso avvio il processo Minotauro (45 condanne e 25 assoluzioni). Varacalli, oggi in carcere per omicidio, in una puntata di Presa diretta del 15 gennaio 2012 disse:

«Tutte le opere sono state fatte dalla ‘ndrangheta, dal cassiere della ndrangheta. E dopo le olimpiadi anche l’alta velocità Torino Milano, tutti i lavori del Piemonte, lavori pubblici, li hanno fatti loro.»

Chi avrà voglia di ascoltare l’intera puntata comprenderà che Varacalli parlava di un sistema criminale strutturato e dinamico.

Sparate televisive? Vendette? La figura di Varacalli risulta ambigua perché per molti aspetti è più volte caduto in contraddizione, fino ad essere ritenuto non credibile. Ma la seconda sezione della Corte di Cassazione, sempre relativamente al processo Minotauro, privo di relazioni con le vicende olimpiche, ha così scritto: «Il suo narrato è rimasto coerente e costante, privo di contraddizioni e munito di plurimi riscontri esterni, mai smentito da risultanze processuali di segno contrastante.»

Burp.

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Maurizio Pagliassotti, giornalista, è autore dei libri Chi comanda Torino (Castelvecchi, Roma 2012) e Sistema Torino Sistema Italia (Castelvecchi, Roma 2014). Sta scrivendo un’inchiesta sul potere delle fondazioni bancarie. Compare come personaggio nella seconda puntata di Ovest. 25 anni di lotte No Tav in Val di Susa, miniserie di Wu Ming 1 apparsa in tre puntate su Internazionale.

“La Rai fa propaganda No Tav”

Pubblicato Mercoledì 30 Marzo 2016, ore 13,57

Il senatore Pd Esposito attacca l’azienda pubblica per la trasmissione “a senso unico” condotta sulla terza rete dal metereologo Mercalli. Chiesto l’intervento della Commissione parlamentare di Vigilanza e del direttore generale

“Ho presentato, insieme ai colleghi Camilla Fabbri Francesco Verducci, un’interrogazione in parlamento per chiedere chiarimenti sulla trasmissione di Raitre condotta da Luca Mercalli in cui si è parlato della tratta Torino-Lione e che ha dedicato ben 22 minuti di propaganda ai No Tav”. È quanto rende noto il senatore del Partito democratico Stefano Esposito attraverso un comunicato. «Chiediamo al presidente della Commissione di Vigilanza e al Direttore generale della Rai se modalità di informazione come quelle viste nel programma televisivo “Scala Mercalli” siano compatibili con quella di una tv pubblica e se questo sia il metodo con il quale nuovo dg intenda improntare la propria direzione delle reti Rai». Nell’interrogazione i senatori pd chiedono inoltre se non si ritenga necessario adottare i provvedimenti opportuni, e di propria competenza, nei confronti del conduttore Mercalli e se sia prevista una puntata “riparatrice” nella quale invitare soggetti a favore della linea Torino-Lione.

«La trasmissione di sabato scorso è stata solo propaganda pro No Tav su una rete pubblica – aggiunge Esposito – e questa è una cosa incredibile. Luca Mercalli è noto per essere un esponente No Tav, molti lo conoscono per le sue previsioni meteo, ma da dieci anni fa parte del movimento No Tav. E ha realizzato una trasmissione in cui ha raccontato la sua versione dei fatti, invitando 4 persone che la pensano come lui. Ognuno può avere le opinioni che ritiene, ma la Rai con i soldi dei contribuenti non può pagare un conduttore che fa una trasmissione a senso unico su un tema così delicato. Non può utilizzare una rete pubblica pagato dai contribuenti per fare una propaganda No Tav. Sono curioso di vedere cosa mi risponderà il direttore di rete per questi 22 minuti». «In Rai serve il confronto, altrimenti smettiamola di parlare di televisione pubblica, smettiamola di pagare il canone e ognuno fa quel che vuole. Abbiamo la par condicio per le elezioni, perché non possiamo avere la par condicio su tematiche di questa rilevanza?» conclude Esposito.

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