Lo splendido accordo Ue-Marocco mette in ginocchio la Sicilia

bel modo di aiutare gli agricoltori del nostro meridione. Grazie PD, il protettore dei lavoratori. Ovviamente se perdono il posto di lavoro saranno mantenuti tramite reddito di cittadinanza? No perché il partito dei giusti ne considera l’introduzione un abominio. Se le aziende agricole non avranno fatturato da dichiarare al massimo invieranno una cartella di Equitalia per evasione fiscale, si sà, in Italia le partite iva sono ricchissime, per cui è giusto far lavorare le aziende marocchine altrimenti è razzismo. NO NON LO CHIAMATE DUMPING SOCIALE, guai.
 
10/03/2016 12:18
 
 
Mogherini e dintorni
 
1457608741-0-lo-splendido-accordo-ue-marocco-mette-in-ginocchio-la-sicilia
Sempre più incomprensibile la politica dell’Unione Europea in merito al comparto agricolo. Nonostante la sentenza della Corte di Giustizia Europea, infatti, l’Alto Commissario per gli Affari Esteri, Federica Mogherini (e anche gli altri Commissari in verità), ha dichiarato durante una visita nella capitale marocchina il 4 marzo scorso, che l’UE proseguirà i suoi rapporti con il Marocco, a dispetto della sentenza che ha giudicato l’accordo in violazione della legge internazionale, annullandolo in parte. Queste dichiarazioni sono state accolte con disappunto e stupore soprattutto da Confagricoltura che recentemente aveva scritto una lettera proprio all’Alto Commissario per chiedere una revisione di quell’accordo ma anche di tutte le altre concessioni che l’UE accorda a Paesi che non fanno parte della comunità europea, come ad esempio la Tunisia.
 
L’accordo commerciale con il Marocco, approvato nel 2013, prevede la liberalizzazione dei prodotti agricoli e della pesca di quel paese.
 
In pratica, possono essere importati con tariffe doganali molto basse. L’accordo, infatti, elimina il 55% delle tariffe sui prodotti agricoli e di pesca marocchini (dal 33% originario) e il 70% delle tariffe sui prodotti agricoli e di pesca dell’UE in 10 anni, rispetto all’1% originario.
La ratio alla base dell’accordo è che i Paesi del Maghreb come Marocco e Tunisia, grazie a queste agevolazioni, possono essere aiutati a continuare il processo di democratizzazione iniziato con la primavera araba. Ma l’altro lato della medaglia è, chiaramente, una penalizzazione per i produttori agricoli europei, in primis l’Italia e in particolare il sud che, di agricoltura, sostanzialmente vive. Il Marocco esporta in UE principalmente pomodori e agrumi, mentre la Tunisia (che ha un accordo commerciale simile con l’UE), olio d’oliva. C’è bisogno di aggiungere altro? Confagricoltura non si era limitata a scrivere solo alla Mogherini, ma anche ai Commissari europei per il commercio Malstroem e all’agricoltura Hogan e a tutti gli europarlamentari italiani proprio per chiedere loro di cogliere l’occasione di questa sentenza per operare una revisione dell’accordo. L’UE, invece, ha già annunciato il ricorso contro la sentenza della Corte di Giustizia.
Irene Savasta
 
Ti potrebbero interessare anche:
 
 
 
 
 

Il tribunale del Riesame impone alla polizia municipale di rendere i soldi tolti a cinque tunisini denunciati per spaccio

I vigili devono restituire 10 mila euro ai pusher
11 marzo 2016
 
PADOVA. Avevano controllato, fermato e arrestato cinque spacciatori, sequestrato circa 90 grammi di cocaina e più di 10mila euro in contanti. Un’operazione condotta dagli agenti di polizia locale, a cui però il tribunale del riesame ha imposto l’immediata restituzione dei soldi dopo l’appello presentato dai legali dei cinque tunisini. Per il giudice è possibile che i soldi siano provento di spaccio, ma non essendoci prove certe vanno restituiti.
La polizia locale dovrà quindi riconsegnare il denaro ai fermati, che non sono neanche mai finiti in carcere perché il sostituto procuratore Giorgio Falcone (lo stesso che si sta occupando del giallo di Isabella Noventa) non ne aveva convalidato gli arresti, proposti dal Nucleo Investigativo della polizia locale, lasciandoli a piede libero e con una denuncia per spaccio.
L’operazione risale al 18 febbraio. L’attività di tre distinte squadre degli uomini di Antonio Paolocci (Investigativa, Sis e Nucleo contro i reati predatori) era iniziata un mese prima, quando durante un servizio di routine all’interno della sede dell’ex Configliachi in Arcella, gli agenti avevano trovato 75 grammi di cocaina e alcuni bilancini di precisione. Sequestrata la droga, avevano deciso di piazzare una telecamera per seguire l’attività di spaccio che avvenivano all’interno della struttura abbandonata di via Reni. Dopo una lunga attività d’indagine, fatta di appostamenti e controllo dei filmati, gli agenti avevano scoperto che tra un appartamento di via Malmarana e l’ex Configliachi c’era un continuo via vai tra chi confezionava le dosi e chi poi andava in strada a spacciarla. La mattina di giovedì 18 febbraio hanno deciso d’intervenire, imbattendosi subito in uno di loro, un 21enne tunisino con cui era nata anche una colluttazione.
Addosso aveva sette dosi di cocaina e 3.500 euro in contanti. Subito dopo erano sono stati bloccati altri quattro uomini (uno di loro si era anche infilato quattro dosi in bocca). In tutto erano stati sequestrati 10.300 mila euro in contanti (5.020 nascosti in una caffettiera) e 88 grammi di cocaina, per un valore che si aggira attorno ai 120mila euro. La notizia dell’obbligo della restituzione della somma sequestrata, non è stata presa bene negli uffici di via Liberi, soprattutto dagli uomini che hanno condotto le operazioni sul campo. Intanto, la polizia locale, e quindi il Comune, dovrà anche restituire circa settemila euro di multe incassate in più. Sembra incredibile ma c’è anche chi paga le sanzioni di più del dovuto, e per le somme fino a 24 euro è previsto il rimborso. Dovranno rendere 3.766 euro a cittadini e 3.132 a ditte private.
Luca Preziusi

Disinformazione e ipocrisia per mascherare la nuova impresa coloniale in Libia

L’avventura sanguinosa che la comunità internazionale apparecchia in Libia, viene giustificata da una martellante campagna di disinformazione: Cancellerie, media, sedicenti esperti e politici disinformati quanto interessati, continuano a diffondere la menzogna che laggiù si debba andare per fermare l’Isis, per impedire che s’impadronisca di quel Paese.
 
E per verniciare d’ipocrita legittimità quell’intervento, è stata inventata l’incredibile bufala di un Governo di unità nazionale (trascurando volutamente il fatto che è la Nazione a non esistere) che dovrebbe chiedere d’essere aiutato, ovvero che la Libia venga di fatto occupata e spartita fra i Paesi (e le multinazionali di riferimento) che sbavano per le sue risorse. Insomma, la riedizione della sciagurata avventura di cinque anni fa, solo che da allora la situazione è enormemente peggiorata e si sono aggiunti pretendenti alle ricchezze celate sotto la sabbia di quei deserti.
1682225
Per chiamare le cose col loro nome, strappando la vergognosa trama di bugie che circonda l’operazione, vogliamo far riflettere su alcune cose; primo: l’Isis, eterna scusa per giustificare ogni intervento armato, non è una minaccia seria e non sta affatto impadronendosi della Libia. Come è arcinoto alla comunità degli esperti e delle Intelligence, fra tutte le milizie presenti sul territorio è una delle più deboli e meno equipaggiate; in realtà, attorno a un nocciolo duro venuto dalla Siria e dall’Iraq, si è andato aggregando un miscuglio di bande criminali, fuoriusciti dalla formazione qaedista di Ansar Al-Sharia, elementi della tribù Qadadfa, quella di Gheddafi, tutti in cerca del denaro e della visibilità che deriva da un “marchio” prestigioso; a questi si stanno aggiungendo sbandati, foreign fighters e fuori legge da tutta l’Africa.
 
Stando alle stime più generose ed interessate a dipingere il fenomeno a tinte fosche, si parla in tutto di circa 8mila miliziani (ma realisticamente molti di meno) sparsi a macchia di leopardo sul territorio, quando una sola delle milizie avversarie, per esempio l’Unione dei Rivoluzionari di Misurata, ne concentra almeno 40mila assai meglio armati e organizzati.
 
Secondo: i cosiddetti “governi” di Tripoli e di Tobruk sono due sigle posticce, prive di qualsiasi potere, in mano ad alcune fra le milizie; è semplicemente spudorato ritenerli rappresentativi di qualcosa. Pensare che un qualsiasi accordo fra di esse, ammesso che sia mai raggiunto, possa avere non dico un minimo valore politico, ma assicuri soltanto un qualche consenso, significa mentire sapendo di mentire.
 
Terzo: laggiù da tempo si stanno muovendo tutti secondo la propria convenienza; la Francia, in pieno accordo con l’Egitto, vuole mettere le mani sulla Cirenaica scalzando l’Eni per sostituirla con la sua Total; inoltre, da lì intende rafforzare il controllo sul Sahel da cui dipende per l’uranio e molti altri minerali. Per questo ha schierato le sue Forze Speciali accanto alle scalcinate milizie del generale Haftar, l’uomo di Al-Sisi, permettendogli finalmente alcuni successi; per questo sta muovendo aerei e navi di conserva con l’Egitto.
 
In modo più discreto ma comunque deciso, l’Inghilterra è in azione a sostegno di Bp e Shell soprattutto in Tripolitania; gli Usa, al solito, considerano tutta la Libia proprio territorio di caccia e manovrano con disinvoltura fra boss locali, milizie e attacchi aerei, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze (la tragedia degli ostaggi italiani, e prima dei due diplomatici serbi uccisi dalle bombe degli F-15E a Sabratha, ne sono solo esempi).
 
Quarto: al di là di “governi” posticci che non rappresentano nulla, tutto si muove attorno alla National Oil Corporation (Noc), l’Ente di Stato che può dare fondamento giuridico internazionale ai contratti di sfruttamento delle risorse libiche; alla Central Bank of Libya (Cbl) che ha in pancia ancora riserve per circa 60 Mld di riserve ed alla Libyan Investment Authority (Lia), il fondo sovrano che gestisce circa 67 Mld di asset. In un Paese alla fame, è attorno al loro controllo che si muovono Potenze straniere e milizie.
 
Per essere ancor più chiari, una spartizione del Paese, meglio, delle sue risorse, è stata già tracciata fra Francesi, Americani, Inglesi ed Egiziani (tenendo in conto anche Emiratini e Turchi) da un canto, e le milizie maggiori che sul campo hanno la forza dall’altro. Restano e resteranno fuori una miriade di gruppi e bande minori, che continueranno i loro traffici criminali sulla pelle della gente di cui a nessuno importa.
 
Ovviamente, occorre una motivazione forte per dare il via a una simile operazione, e qui viene messa in scena la commedia dell’Isis: all’improvviso e senza che nessuno si opponga, né i 40mila armati di Misurata ad ovest, né gli oltre 20mila delle Petroleum Defence Guards (Pdg) pagate dalla Noc per vigilare su terminali e i campi petroliferi, un pugno di sedicenti Daesh s’impadronisce di centinaia di chilometri di coste, espandendosi verso l’interno e minacciando di distruzione le installazioni energetiche.
 
Lasciare quelle bande indisturbate, e permettere che attacchino i terminali incendiando depositi, costruisce la scusa perfetta perché la comunità internazionale si attivi, e si realizzino gli accordi già stipulati fra Potenze straniere e milizie.
 
Ma attenzione: il disastro del 2011 pesa ancora, così si è pensato di agire dietro il paravento di una missione guidata dall’Italia a cui addossare tutte le responsabilità: se l’operazione dovesse riuscire segnerà la fine dell’Eni in Libia; se dovesse naufragare, non solo avrà distrutto quanto resta degli interessi italiani in quel Paese, ma addosserà a Roma la responsabilità delle azioni e del fallimento di tutti.
 
Di qui le asfissianti pressioni internazionali perché si parta; Renzi, che in un primo momento s’era rallegrato di quella “considerazione”, ora ha finalmente fiutato la trappola e cerca di frenare in tutti i modi, ma ormai è preso in mezzo, potrà resistere ancora per poco; e poi, alla bisogna, basterà che chi ha interesse organizzi tramite i trafficanti (leggi milizie) una nuova ondata di migranti sulle coste italiane o un attentato per costringerlo.
 
Questo c’è dietro la nuova impresa coloniale in Libia; questo attende un’Italia che ancora una volta reggerà il sacco a chi calpesta i suoi interessi.
di Salvo Ardizzone – 06/03/2016
 
Fonte: Il Faro sul Mondo
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Dal MEK a DAESH, l’Iran bersaglio del terrorismo

In Occidente, quando si parla di Iran e di terrorismo, si è soliti associare i due termini in chiave di complicità. Spesso accusato dai suoi avversari di essere fomentatore di terrorismo internazionale, il Paese persiano ne è una del maggiori vittime. Cio da molto prima che Daesh, con il suo odio anti-sciita e dunque anti-iraniano, comparisse sulla scena.
Ufficialmente la Repubblica Islamica dell’Iran denuncia 17.000 suoi cittadini caduti vittime del terrorismo dal 1979 a oggi. Tra loro anche personalita illustri come il primo ministro Mohammad Javad Bahonar e il presidente della Repubblica Mohammad Javad Rajae, entrambi assassinati nel 1981 dai “Mojahedin del popolo” (Mojahedin e-Khalgh, MEK). Lo stesso anno la medesima mano assassina cercò, senza riuscirvi, di uccidere anche un membro del Parlamento destinato a una fulgida carriera: Ali Khamenei. In precedenza un altro gruppo, Forghan, aveva ucciso Mortada Motahari, membro del Consiglio Supremo Islamico, e cercato di uccidere il futuro presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani.
I gruppi terroristi più famosi e attivi negli ultimi decenni di storia iraniana rispondono ai nomi di “Mojaheddin del popolo” (spregiativamente chiamati Monafeghin, “ipocriti”, dalle autorità iraniane), Ansar al-Forghan (“Partigiani del Criterio”, dal titolo di una sura coranica dedicata al discrimine tra bene e male), Jundullah (“Esercito di Dio”), PJAK (“Partito della Vita Libera del Kurdistan”).
Il MEK nasce negli anni ’60 come gruppo di opposizione armata allo shah e di orientamento comunista, partecipa alla rivoluzione del 1979 e passa nuovamente all’opposizione del nuovo regime islamico. Il suo periodo acmatico è il biennio 1982-1983, con 366 omicidi politici. Forghan, gruppo estremista religioso, ha anch’esso firmato diversi omicidi di dirigenti iraniani. Il Pjak, che lotta per la secessione delle regioni a maggioranza curda dell’Iran, è stato disarticolato dai Pasdaran e costretto a trasferirsi fuori dai confini del Paese. Jundullah, movimento islamista operativo nel Belucistan tra Iran, Pakistan e Afghanistan, ha invece perduto il suo fondatore Abdolmalek Rigi arrestato e impiccato nel 2010.
 
Negli ultimi sei anni la maggiore minaccia terroristica in Iran ha interessato non più i dirigenti politici ma gli scienziati nucleari. L’assasinio di Majid Shahriari e Ali Mohammadi nel 2009 è stata imputata dal governo e da molti osservatori neutrali al Mossad. Nel 2010 un altro scienziato nucleare, Fereydun Abassi, è sopravissuto a un tentativo di omicidio. In questa contesto si può citare anche la vicenda del virus informatico Stuxnet, che nel 2009 infettò i computer delle centrali nucleare iraniane.
Non c’è tutta via ombra di dubbio che oggi l’attore principale del terrorismo sia, anche (o soprattutto) per l’Iran, Daesh. Lo Stato Islamico impiantatosi tra Iraq e Siria considera un nemico l’Iran e tutti gli sciiti, sia per ragioni ideologico-religiose sia per ragioni strettamente politiche e contingenti. Daesh sfrutta l’ostilità verso gli sciiti come un strumento per raggiungere i propri obiettivi mobilitando la popolazione sunnita. La stessa Al-Qaida, da cui Daesh nasce, dopo il rovesciamento dei Taliban in Afghanistan si è votata maggiormente alla lotta settaria contro gli sciiti. Pure paesi come l’Arabia Saudita, in ossequio alla teoria della “Diversionary War” , tentano di deviare il flusso di ribellismo esploso nella regione con la “Primavera Araba” contro un nemico esterno indicato nell’Iran.
Daesh, entrando in Iraq, ha mostrato di non rispettare i confini politici acquisiti, ma in ogni caso Tehran non crede che lo Stato Islamico abbia una potenza militare sufficiente a minacciare direttamente il territorio persiano. Daesh potrebbe però struttare il malcontento socio-economico nella parte occidentale dell’Iran, a maggioranza sunnita, per destabilizzare la Repubblica Islamica: la stessa strategia perseguita senza succeso dal PJAK nei confronti dei curdi iraniani.
Di certo il governo iraniano non è mai stato silenzioso sul problema Daesh, denunciandone piu volte le origini e gli obiettivi ai proprio cittadini. La Guida Suprema Ali Khamenei inquadra la nuova minaccia in un sistema a due livelli: Daesh si situerebbe nel livello piu basso, quello in cui i musulmani sono messi l’una contro l’altro. Al livello piu alto ci sarebbero però i veri nemici, coloro che stanno fomentando il fenomeno Daesh – tra essi gli Stati Uniti d’America. Khamenei è contrario a interventi esterni in Iraq, ritenendo che solo il governo, il popolo e il clero iracheni possano decidere del futuro del Paese. Il Presidente Hassan Rohani ha dal canto suo sottolineato l’esigenza di individuare i finanziatori di Daesh. Il Generale Qasim Soleimani, comandante dei Pasdaran, ha paragonato Daesh a un morbo che, se non curato, penetrerà anche in Iran.
Argomentando il perché della partecipazione iraniana alla lotta contro Daesh, alcuni analisti persiani sottolineano l’importanza politica per l’Iran di preservare i mausolei di Iraq e Siria minacciati di distruzione da Daesh; altri credono che l’Iran debba estendere la sua influenza sull’Iraq e la Siria per rafforzare la propria posizione di potenza regionale contro Israele.
Il terrorismo è dunque un problema profondamente radicato nella giovane storia della Repubblica Islamica d’Iran. Là ha potuto colpire con particolare brutalità sfruttando anche l’appoggio trovato in Paesi limitrofi. Alla luce di ciò si coglie come la lotta a Daesh risulti per Tehran un’ancora maggiore impellenza e necessità strategica.

La guerra petro-islamista saudita allo Yemen

“Quasi 3000 civili sono stati uccisi e un milione sono sfollati sotto il bombardamento dell’Aeronautica reale saudita dello Yemen, sostenuto da Stati Uniti e Gran Bretagna. Oltre 14 milioni di yemeniti affrontano l’insicurezza alimentare, un balzo del 12 per cento dal giugno 2015. Di questi, tre milioni sono bambini malnutriti.”
 
Ma loro sono diversamente vittime, la società civile con le sue milioni di ongs tanto affrante per le vittime delle guerre, PER LORO NON SPENDE UNA PAROLA. Ma non è discriminazione, non è razzismo.
Un cablo segreto e una funzionaria del governo olandese confermano che la guerra dell’Arabia Saudita allo Yemen è anche motivata da un ambizioso fantastico gasdotto sostenuto dagli Stati Uniti
yemen3
Quasi 3000 civili sono stati uccisi e un milione sono sfollati sotto il bombardamento dell’Aeronautica reale saudita dello Yemen, sostenuto da Stati Uniti e Gran Bretagna. Oltre 14 milioni di yemeniti affrontano l’insicurezza alimentare, un balzo del 12 per cento dal giugno 2015. Di questi, tre milioni sono bambini malnutriti. E in tutto il Paese, si stima che 20 milioni di persone non possano accedere ad acqua potabile sicura
 
La forza aerea saudita ha sistematicamente bombardato infrastrutture civili dello Yemen in flagrante violazione del diritto internazionale umanitario. Un rapporto ufficiale delle Nazioni Unite al Consiglio di sicurezza, trapelato a gennaio, rileva che i sauditi “effettuano attacchi aerei contro civili ed obiettivi civili… compresi campi per sfollati e rifugiati; raduni civili, compresi matrimoni; veicoli civili, anche autobus; aree residenziali; strutture mediche; scuole; moschee; mercati, fabbriche e depositi alimentari ed altre infrastrutture civili essenziali, come ad esempio l’aeroporto di Sana, il porto di Hudayda e strade nazionali“. 
 
Le bombe a grappolo di fabbricazione statunitense vengono sganciate nelle zone residenziali, un atto che perfino il segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon tiepidamente ammette “rappresenta un crimine di guerra”. In altre parole, l’Arabia Saudita è uno Stato canaglia. Ma non ci s’inganni. Questo regno è il nostro Stato canaglia. I governi di Stati Uniti e Gran Bretagna che forniscono all’Arabia Saudita le armi che scatena sui civili yemeniti, fanno finta di non essere coinvolti nella guerra, di non essere responsabili dei crimini di guerra del nostro alleato Stato canaglia. Un portavoce del Ministero della Difesa inglese ha insistito che militari inglesi semplicemente consigliano “migliori tecniche di puntamento… il personale militare del Regno Unito non è direttamente coinvolto nelle operazioni della coalizione saudita“. Ma sono parole ambigue, data la recente rivelazione del ministro degli Esteri saudita Adil al-Jubayr secondo cui ufficiali inglesi e statunitensi lavorano “nel centro di comando e controllo per attacchi aerei sauditi sullo Yemen“. Presumibilmente i contribuenti non li pagano per starsene in giro a bere il tè tutto il giorno. No, li paghiamo per supervisionare la guerra aerea. Secondo il ministro degli Esteri saudita: “Abbiamo ufficiali inglesi, statunitensi e di altri Paesi nel nostro centro di comando e controllo. Conoscono l’elenco dei bersagli e sanno cosa facciamo e ciò che non facciamo”. Gli ufficiali di Stati Uniti e Regno Unito “sanno interpretare la campagna aerea, e siamo soddisfatti dalle loro garanzie“. Nell’aprile 2015, gli ufficiali statunitensi erano molto più sinceri su questo accordo. Il vicesegretario di Stato degli USA Anthony J. Blinken aveva detto in conferenza stampa a Riyadh che gli Stati Uniti avevano aumentato la condivisione delle informazioni con i sauditi tramite una “cellula di pianificazione e coordinamento congiunta” sulla selezione dei bersagli. In ogni caso, i capi civili del mondo libero hanno dato un’occhiata ai crimini di guerra sistematici dei militari sauditi nello Yemen, e pare che approvino.
 
Guerra settaria?
Gli obiettivi della coalizione saudita sono oscuri. E’ ampiamente noto che la guerra abbia ampie dinamiche geopolitiche e settarie. I sauditi temono che l’avanzata degli huthi indichi la crescente influenza dell’Iran nello Yemen. Con l’Iran attivo in Siria, Iraq e Libano, l’Arabia Saudita vede la rivolta degli huthi come altra componente dell’accerchiamento strategico da parte delle forze filo-iraniane. Ciò è aggravato dall’accordo nucleare dell’Iran sostenuto dagli USA, aprendo la via all’integrazione dell’Iran nei mercati globali, l’apertura della sua industria del petrolio e del gas e al consolidamento a potenza regionale. Ma questa narrazione non è tutto. 
 
Mentre i contatti dell’Iran con gli huthi sono fuori discussione, prima della campagna aerea saudita gli huthi acquisirono la maggior parte delle armi da due fonti: il mercato nero e l’ex-presidente Ali Abdullah Salah. I funzionari dei servizi segreti degli Stati Uniti confermano che l’Iran aveva avvertito esplicitamente gli huthi di non attaccare la capitale dello Yemen lo scorso anno. “Resta la nostra valutazione che l’Iran non eserciti il controllo sugli huthi nello Yemen“, aveva detto Bernadette Meehan, portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca. Secondo l’ex-inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Jamal Benomar, gli attacchi aerei sauditi fecero fallire un accordo di pace imminente che avrebbe portato alla condivisione del potere tra 12 gruppi politici e tribali rivali. Quando tale campagna iniziò, una cosa significativa passò inosservata, gli yemeniti erano vicini a un accordo che avrebbe istituito la condivisione del potere tra tutte le parti, compresi gli huthi“, aveva detto Benomar al Wall Street Journal. Non era dovuto all’Iran. I sauditi, e a quanto pare Stati Uniti e Regno Unito, non volevano una transizione a una parvenza di Yemen democratico. 
 
In effetti, gli Stati Uniti erano esplicitamente contrari alla democratizzazione della regione del Golfo, decisi a ‘stabilizzare’ il flusso di petrolio dal Golfo ai mercati globali. Nel marzo 2015, il militare degli Stati Uniti e consulente della NATO Anthony Cordesman, del Centro per gli studi strategici e internazionali di Washington, spiegò che: “Lo Yemen è di grande importanza strategica per gli Stati Uniti, così come la stabilità dell’Arabia Saudita e degli Stati arabi del Golfo. Con tutto il parlare dell”indipendenza’ energetica degli Stati Uniti, la realtà rimane molto diversa. L’aumento di petrolio e combustibili alternativi al di fuori del Golfo non ne ha cambiato la vitale importanza strategica per l’economia globale e degli Stati Uniti… lo Yemen non corrisponde all’importanza strategica del Golfo, ma è ancora di grande importanza strategica per la stabilità di Arabia Saudita e penisola arabica“. In altre parole, la guerra nello Yemen è volta a proteggere il principale Stato canaglia del Golfo filo-occidente, per far fluire il petrolio. Cordesman continua osservando: “Il territorio e le isole dello Yemen giocano un ruolo cruciale nella sicurezza di un altro collo di bottiglia globale, nell’estremo sud-est del Mar Rosso chiamato Bab al-Mandab o ‘porta delle lacrime’“. Bab al-Mandab è “lo stretto tra il Corno d’Africa e il Medio Oriente, ed è un collegamento strategico tra Mar Mediterraneo e Oceano Indiano, da cui passa la maggior parte delle esportazioni dal Golfo Persico che transitano dal Canale di Suez e dall’oleodotto Suez-Mediterraneo (SUMED). L’eventuale presenza ostile aeronavale nello Yemen potrebbe minacciare l’intero traffico attraverso il Canale di Suez“, aggiunge Cordesman, “così come il flusso quotidiano di petrolio e prodotti petroliferi che l’USEIA (US Energy Information Administration) stima aumentato da 2,9 MMB/d (milioni di barili al giorno) nel 2009 a 3,8 MMB/d nel 2013“.
 
Il sogno del gasdotto nello Yemen
Ma c’è un parallelo obiettivo qui, riconosciuto in privato dai funzionari occidentali ma non discusso in pubblico: lo Yemen ha un potenziale ancora non sfruttato quale via alternativa per il transito di petrolio e gas per l’esportazione saudita, bypassando Iran e Stretto di Hormuz. La realtà delle ambizioni del regno in questo senso sono messe a nudo in un cablo segreto del 2008 del dipartimento di Stato, ottenuto da Wikileaks, dall’ambasciata degli Stati Uniti nello Yemen al segretario di Stato: Un diplomatico inglese nello Yemen ha detto all’addetto politico (funzionario politico dell’ambasciata degli Stati Uniti) che l’Arabia Saudita aveva interesse a costruire un oleodotto, interamente di proprietà, gestito e protetto da essa, attraverso l’Hadramaut per il porto di Aden, bypassando così il Golfo Arabo/Golfo Persico e lo Stretto di Hormuz. Salah s’è sempre opposto a tale piano. Il diplomatico ha sostenuto che l’Arabia Saudita, attraverso il sostegno alla leadership militare yemenita, si compra la fedeltà di sceicchi e altro supporto. Posizionandosi per garantirsi che, col giusto prezzo, abbia i diritti su questo gasdotto dal successore di Salah“. Infatti, il governatorato orientale dello Yemen dell’Hadramaut curiosamente non viene bombardato dai sauditi. La provincia dello Yemen, la più grande, possiede la maggior parte delle risorse di petrolio e gas dello Yemen. “L’interesse primario del regno nel governatorato è l’eventuale costruzione di un oleodotto. Tale conduttura era da tempo un sogno del governo dell’Arabia Saudita“, osserva Michael Horton, analista dello Yemen presso la Fondazione Jamestown. “Una pipeline attraverso l’Hadramaut darebbe ad Arabia Saudita ed alleati del Golfo accesso diretto al Golfo di Aden e all’Oceano Indiano; permettendogli di bypassare lo stretto di Hormuz, un collo di bottiglia strategico che potrebbe essere, almeno temporaneamente, bloccato dall’Iran in un conflitto futuro. La prospettiva di assicurarsi una rotta per un futuro gasdotto attraverso l’Hadramaut probabilmente traccia l’ampia strategia a lungo termine dell’Arabia Saudita nello Yemen”.
 
Nascondere la questione del gasdotto
atrabia2
I funzionari occidentali sono desiderosi di evitare di far conoscere la geopolitica energetica dietro l’escalation del conflitto. L’anno scorso, l’analisi di tali problemi fu pubblicata su un blog personale, il 2 giugno 2015, da Joke Buringa, alto consigliere per la sicurezza e lo stato di diritto nello Yemen del Ministero degli Esteri dei Paesi Bassi. “La paura di un blocco iraniano dello Stretto Hormuz, e i risultati possibilmente disastrosi per l’economia globale, esiste da anni“, aveva scritto nell’articolo dal titolo “Divide et impera: Arabia Saudita, petrolio e Yemen“. “Gli Stati Uniti fanno pressioni sul Golfo per sviluppare alternative. Nel 2007 Arabia Saudita, Bahrayn, Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen lanciarono congiuntamente il progetto Trans-Arabia Oil Pipeline. Nuovi gasdotti dovevano essere costruiti dai sauditi da Ras Tanurah sul Golfo Persico e dagli Emirati Arabi Uniti, al Golfo di Oman (uno nell’emirato di Fujairah e due ad Oman) e il Golfo di Aden (due linee nello Yemen)“. Nel 2012, il collegamento tra Abu Dhabi e Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti, divenne operativo. Nel frattempo, Iran e Oman firmavano il proprio accordo su una pipeline.La sfiducia sulle intenzioni dell’Oman aumentò l’attrattiva dell’opzione dell’Hadramaut nello Yemen, un vecchio desiderio dell’Arabia Saudita“, scriveva Buringa. 
 
Il presidente Salah, tuttavia, era un grosso ostacolo alle ambizioni saudite
 
Secondo Buringa, “si oppose alla costruzione di un gasdotto sotto controllo saudita sul territorio yemenita. Per molti anni i sauditi investirono nei capi tribali nella speranza di attuare questo progetto col successore di Salah. Le rivolte popolari dei 2011 che chiedevano la democrazia sconvolsero questi piani“. Buringa è l’unico alto funzionario occidentale ad aver riconosciuto la questione pubblicamente. Ma quando l’ho contattata per chiedere un colloquio il 1 febbraio, quattro giorni dopo ricevetti una risposta da Roel van der Meij, portavoce per gli affari aziendali del ministero degli Esteri del governo olandese: “la signora Joke Buringa mi ha chiesto di informarLa che non è disponibile per l’intervista“. Il blog di Buringa, disponibile su http://www.jokeburinga.com, nel frattempo veniva completamente rimosso. Una versione archiviata del suo articolo sulla geopolitica energetica della guerra saudita nello Yemen è disponibile presso Wayback Machine. Chiesi a Buringa e van der Meij perché il blog era stato completamente cancellato e così in fretta, dopo aver inviato la mia richiesta per un’intervista, e se era stata costretta a farlo su pressione del governo per proteggere i rapporti olandesi con l’Arabia Saudita. In una email, Buringa negò che fosse stata costretta dal ministero degli Esteri olandese ad eliminare il blog: “Mi dispiace deluderla, ma non ero sotto pressione del ministero. Il layout del blog mi preoccupava fin dall’inizio e avevo intenzione di cambiarlo da mesi… La sua domanda mi ha ricordato che volevo cambiarlo e ripensavo a ciò che volevo farne. Non si leggerà più“. Tuttavia, il portavoce per gli affari societari del governo olandese, van der Meij, non rispose alle molte richieste via e-mail e telefoniche di commentare la rimozione del blog. Molte aziende olandesi sono attive nel regno con investimenti congiunti, tra cui il gigante petrolifero anglo-olandese Shell. Grazie alla posizione dei Paesi Bassi quale ingresso per l’Europa, due multinazionali saudite, l’impresa petrolifera nazionale Aramco e il gigante petrolchimico SABIC, hanno il loro quartier generale europeo a L’Aia e a Sittard, nei Paesi Bassi. Le esportazioni olandesi verso l’Arabia Saudita sono aumentate notevolmente negli ultimi anni, del 25 per cento tra il 2006 e il 2010. Nel 2013, l’Arabia Saudita esportò quasi 34 miliardi di euro di combustibili minerali nei Paesi Bassi, ed importò poco più di 8 miliardi di euro di macchine e mezzi di trasporto, 4,8 miliardi di euro di prodotti chimici e 3,7 miliardi di euro di prodotti alimentari e animali.
 
L’alleanza saudita con al-Qaida
Tra i primi beneficiari della strategia saudita nello Yemen è al-Qaida nella Penisola Arabica (AQAP), lo stesso gruppo responsabile del massacro del Charlie Hebdo a Parigi. “Il governatorato dell’Hadramaut è una delle poche aree in cui la coalizione saudita non ha effettuato alcun attacco aereo“, osservava Buringa. “Porto e aeroporto internazionale di al-Muqala sono in condizioni ottime e sotto il controllo di al-Qaida. Inoltre, l’Arabia Saudita fornisce armi ad al-Qaida, (che) amplia la sfera d’influenza“. L’alleanza saudita con i terroristi di al-Qaida nello Yemen emerse lo scorso giugno, quando il governo filo-saudita di “transizione” di Abdrabu Manour Hadi inviò un rappresentante a Ginevra quale delegato ufficiale per i colloqui delle Nazioni Unite. Si scoprì che il rappresentante era nientemeno che Abdulwahab Humayqani, identificato come “terrorista specificatamente definito globale” nel 2013 dal Tesoro degli Stati Uniti, per reclutamento e finanziamento dell’AQAP. Humayqani era anche presumibilmente dietro l’attentato di al-Qaida che uccise sette persone in una base della Guardia Repubblicana yemenita nel 2012. Altri analisti concordano. Come Michael Horton commenta sul Terrorism Monitor dellaJamestown Foundation: AQAP può anche beneficiare del fatto che potrebbe essere considerato un agente utile dall’Arabia Saudita nella guerra contro gli huthi. Arabia Saudita ed alleati armano varie milizie nel sud dello Yemen. E’ quasi certo che parte, se non molto, dei finanziamenti e materiali finiranno nell’AQAP e molto probabilmente allo Stato islamico“. Mentre strombazza la guerra allo SIIL in Iraq e Siria, l’occidente spiana la strada alla rinascita di al-Qaida e SIIL nello Yemen. 
 
L’Arabia Saudita non vuole un forte Paese democratico oltre il confine di 1500 km che separa i due Paesi (Arabia Saudita e Yemen)“, aveva osservato la funzionaria del ministero degli Esteri Joke Buringa nell’articolo ormai censurato. Né, a quanto pare, Stati Uniti e Regno Unito, aggiungendo: “Quelle condutture a Muqala probabilmente arriveranno, infine“. Probabilmente non sarà così, ma ci saranno ancora conseguenze.
yemen4
Nafeez Ahmed dottorato e giornalista investigativo, studioso di sicurezza internazionale e autore di successo che segue ciò che chiama ‘crisi di civiltà’. Vincitore del Project Censored Award per il miglior giornalismo investigativo per il suo articolo sul Guardian sull’intersezione globale tra ecologia, energia e crisi economiche con la geopolitica e i conflitti regionali. Ha anche scritto per The Independent, Sydney Morning Herald, The Age, The Scotsman, Foreign Policy, The Atlantic, Quarzo, Prospect, New Statesman, Le Monde diplomatique, New Internationalist. Il suo lavoro su cause e operazioni segrete legate al terrorismo internazionale ufficialmente contribuiscono alla Commissione 9/11 e le indagini del 7/7 Coroner’s Inquest.
di Nafeez Ahmed – 06/03/2016
 
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
 
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Concita, l’ “amerikana”, e le sue sorelle

di Fabrizio Marchi – 06/03/2016
 
Fonte: L’interferenza
 
concita
Scrive Concita De Gregorio sulla Repubblica del 1 marzo:
La donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita”, ha detto Vendola. In America, Paese che continuamente e a buon diritto portiamo ad esempio di libertà e democrazia, esistono delle regole in base alle quali una coppia dello stesso sesso può non solo sposarsi ma avere un figlio. Se sono due uomini, naturalmente da una donna. La quale deve avere alcune caratteristiche che riassumo brutalmente, me ne scuso, così: deve essere benestante e volontaria. Non in condizioni di necessità, non costretta. Una libera scelta. Lo schiavismo, la tratta delle donne, la sopraffazione, lo sfruttamento non hanno casa in questa storia. Siete dunque favorevoli o contrari all’utero in affitto, come lo abbiamo chiamato con orrenda formula? Dipende. Se la donna è prigioniera, indigente, schiava, costretta dalle condizioni di vita o dal sopruso di altri a vendere il tempo della sua gravidanza e poi suo figlio: sicuramente contrari. Se è una sua libera scelta, regolata dalla legge del Paese in cui vive, seguita e controllata da cento e cento occhi che vigilano su di lei sulla sua decisione chi sono io, chi siamo noi per giudicare?
 
Siamo di fronte ad un clamoroso autogol, anche se commesso in assoluta buona fede, perché quanto ha scritto la De Gregorio è la conferma di come e quanto l’attuale “sinistra” sia ormai completamente schiacciata sui “valori” del sistema capitalista assoluto, che ha necessità di mercificare ogni spazio dell’agire umano, perfino la vita stessa.
Ciò che è avvilente è che lei è convinta di stare dicendo “una cosa di sinistra” nel momento in cui sostiene di essere contraria alla pratica dell’utero in affitto nel caso di donne in condizioni di miseria o di indigenza, ma di essere favorevole nel caso di donne benestanti, che lo fanno consapevolmente e liberamente, in base alle leggi del proprio paese. In altre parole, se una donna vende il proprio corpo per necessità, cioè per uscire da una condizione di miseria o quanto meno per cercare di mitigarla, è sbagliato, se invece lo vende per trarne un utile, è giusto. Perchè in questo si traducono nei fatti le sue parole, a meno di non pensare che ora le donne, in condizioni di normalità (economica e sociale), si mettano a “produrre” figli “a gratis” per coppie sterili o per coppie gay o lesbiche. 
 
Certo, potrà esserci e sicuramente ci sarà qualche singolo e più o meno sporadico caso, dove, per amicizia, per amore, per un legame profondissimo, qualche donna potrà donare, nel senso letterale, più alto e nobile del termine, il proprio utero, ad una coppia di amici o di amiche, ma non mi si venga a dire che ciò costituirà la regolarità dei casi, perché sarebbe oggettivamente impossibile, a meno di non trovare centinaia di migliaia, se non milioni di donne disposte a prestarsi volontariamente alla gravidanza, a nove mesi di gestazione, al parto, e poi alla sottrazione del figlio, così, come se nulla fosse, come se si trattasse di vendere delle uova al mercato. E’ evidente che tutto ciò, specie in condizioni non di ricattabilità ma di “normalità” economica e sociale, avrà un prezzo più o meno elevato in base al contesto e alle condizioni che si determineranno sul mercato, cioè sostanzialmente in base all’ antichissima legge della domanda e dell’offerta. Ergo, si sta preparando il terreno a quello che sarà un nuovo grande business, una nuova grande speculazione, un nuovo grande mercato dove diversi soggetti ne ricaveranno utili e profitti e altri saranno sfruttati ed espropriati, anche se “consapevolmente” e “liberamente”. A meno di non pensare che non ci sia nessun genere di relazione emotiva e psicologica, oltre che fisica, fra una donna e la vita che porta in grembo. Ed è per questa ragione che il parallelismo con la donazione degli organi è assolutamente inadeguato e anche ipocrita, a mio parere. Per come la vedo io, come ho già scritto in questo articolo Affittata? No, surrogata…  tutto ciò è il preludio ad una nuova forma di prostituzione e, come sempre in questi casi, ci sarà chi si prostituirà per necessità e chi per scelta, in quest’ultimo caso anche ricavandone notevoli profitti. Ma ricavare un profitto, anche elevato, non cancella la condizione di alienazione. Come può essere altrimenti definito tutto ciò, se non un gigantesco processo di alienazione?
Non so se ne sia consapevole o meno ma le parole della De Gregorio sono la resa incondizionata alla logica capitalista. La “libertà” di comprare e di vendere, anche il proprio corpo, anche il corpo degli altri, viene da lei (e dalle sue “compagne”) considerata appunto come libertà, a tutto tondo. E’ l’adesione totale all’ideologia del mercato.
Con grande coerenza, fa riferimento all’America, “Paese che continuamente e a buon diritto – scrive – portiamo ad esempio di libertà e democrazia”. Niente male per una donna di sinistra, ex direttrice dell’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci. Che dire: si vede che Furio Colombo ha ben seminato…chapeau!
La segue a ruota Angela Azzaro (un’altra maitre a penser del femminismo nostrano) che in un post su face book scrive:
Vi comprate la casa, vi comprate le macchine, vi comprate la villetta al mare, giocate in borsa, chiedete di essere pagati per tutto ma vi indignate se si paga per amore di un figlio: forse una delle poche volte che lo si fa per un buon fine. Mi fate ridere. Se questa non è ipocrisia non so come altro chiamarla!”.
Anche la Azzaro crede di dire una cosa di “sinistra”, trasgressiva e “progressista”, ma in realtà sta semplicemente dicendo:”Viviamo in un mondo dove tutto si compra e tutto si vende, e allora perché dovremmo scandalizzarci se qualcuno/a compra e vende anche i figli? Perché dovremmo porre dei limiti? Sarebbe da ipocriti…”. Infatti, da un certo punto di vista ha ragione.
Se non fosse che lei, donna di “sinistra”, dovrebbe essere contraria alla logica della mercificazione assoluta e non avallarla o considerarla come un dato di fatto dal quale non si può prescindere. E allora dice,
“dal momento che pagate per compravi un’automobile o la villetta al mare, a questo punto pagate pure per un figlio, anzi, almeno un figlio è una ragione valida per pagare…”.
 
Se fosse una provocazione, per quanto mi riguarda, potrebbe essere anche condivisibile. Il problema è che non lo è. Ergo, anche la Azzaro conferma la resa incondizionata al Mercato e al Capitale e alla logica, o meglio, all’ideologia dell’ “illimitato”, cioè dell’accumulazione illimitata di capitale.
Dulcis in fundo, arriva la Boldrini che ci ripensa e rettifica la sua posizione (in fondo è pur sempre Presidente della Camera dei Deputati in quota Sel, cioè per volere di Vendola) e scrive su facebook:
Ho delle riserve nel caso in cui la maternità surrogata coinvolga donne indigenti che portano avanti una gravidanza dietro il pagamento di una somma di denaro. In circostanze differenti, quando si tratta di una scelta libera e consapevole, non dettata dal bisogno, anche le valutazioni sono di natura diversa.”
 
Complimenti anche a lei!
Sia detto fra noi, la mia convinzione è che prima ci liberiamo di questa “sinistra” e prima saremo, forse, in grado di ricostruire una autentica Sinistra, con la S maiuscola e senza virgolette. Io ce la sto mettendo tutta…
P.S. In conclusione, meritano una riflessione a parte le parole di Vendola, riportate dalla stessa De Gregorio: “La donna che lo ha portato in grembo e la sua famiglia sono parte della nostra vita”.
 
Mi riesce francamente difficile capire come e in che modo. Forse solo nel suo immaginario e quello del suo compagno oppure Vendola vuole proprio dire che la mamma naturale del suo figlio adottivo continuerà a restare in contatto con tutti loro, ad avere una relazione con i due papà e con il (suo, loro? Di chi? Boh…) figlio? E se così sarà, che cosa gli si racconterà al bambino? Che lei è la vera mamma ma che una volta che lo ha partorito lo ha donato ai due papà per un atto d’amore? E a quel punto il figlio le chiederà (inevitabilmente):”Ma perché mi hai partorito e poi mi hai donato ai due papà? Tu non mi volevi bene?” E allora lei gli risponderà che fu un atto d’amore, che non c’erano di mezzo altre ragioni, tanto meno venali. E a quel punto il figlio potrebbe chiederle:”Ma allora tu vuoi più bene ai miei papà piuttosto che a me dal momento che mi hai donato a loro appena nato?”. E cosa risponderà la mamma? Forse che c’era un’amicizia talmente forte tra lei e i suoi due papà adottivi che lei si è decisa per questo dono, per questo atto d’amore, che arriva a superare l’amore per il proprio figlio appena partorito (ci risulta che tra i coniugi Vendola e la madre naturale ci fosse un’amicizia pregressa così potente? Boh…non è comunque dirimente…).
Altra ipotesi. La mamma naturale non sarà presentata al figlio come la mamma ma come una sorella (di uno dei papà) oppure un’amica di famiglia che di tanto in tanto li va a trovare e gli porta anche dei bei regali. Ergo, si manterrà il segreto sulla sua reale figura, cioè si continuerà a raccontare delle balle al piccolo. Ma che relazione potrà stabilirsi fra la madre naturale e il figlio, e fra tutti loro? E siamo certi che a quel punto la madre con il tempo non ci ripensi e non le venga il desiderio di riprendersi suo figlio anche a costo di contravvenire al contratto stipulato con i due papà adottivi? E a quel punto cosa succederà? Come la prenderanno i due papà? Scoppierà una guerra fra loro due e la mamma naturale? E il figlio, come reagirà, cosa penserà, quali potrebbero essere le conseguenze su di lui dal punto di vista psicologico? E laddove invece fili tutto liscio come l’olio (si fa per dire…), quali potrebbero essere le conseguenze psicologiche per la madre naturale che, a quel punto, potrebbe vedere il figlio crescere senza potergli dare il suo amore come madre e senza neanche potergli dire che lei in realtà è la sua vera madre?
Gli scenari, come vediamo, potrebbero essere tanti e diversi e ne potrebbero aprire a loro volta degli altri, in linea teorica infiniti. Nel momento in cui si mette in discussione o si ritiene storicamente superata la cosiddetta “famiglia tradizionale” (che personalmente non ho mai celebrato né condannato a priori così come non ho mai celebrato né condannato a priori la famiglia gay o lesbica, perché nevrosi e miasmi di ogni genere si annidano ovunque…) e ci si apre a un orizzonte in linea teorica infinito di possibilità, chi avrebbe diritto a contestare, a quel punto, una famiglia composta da un marito con tre mogli, le quali a loro volta hanno due o tre diversi mariti cadauna i quali a loro volta hanno due o tre mogli, tutti/e con figli a carico, naturali ma anche adottivi, tutti quanti insieme allegramente? Una bella matassa, come vediamo. L’esempio è volutamente iperbolico ma facciamo a capirci. Al momento io non mi pronuncio, in un senso o nell’altro, sospendo il giudizio, ma non in senso cartesiano, cioè con il fine recondito di dimostrare ciò che sarebbe una certezza. Io lo sospendo veramente e apro il dibattito. Purchè senza ipocrisie.

Siria. Chi ha armato lo Stato islamico, presto dovrà rivedere i suoi piani

Partiamo dalle notizie dal fronte. Per la prima volta dalla ritirata del maggio 2015, l’esercito siriano è tornato a soli 2500 metri dalle rovine di Palmyra. Appena affluiti i rinforzi per la 18a divisione corazzata, l’offensiva verso est ripartirà su larga scala con l’appoggio dei Liwa Suqour al-Sahra (i paramilitari dei Falchi del deserto) e delle Forze di Difesa Nazionale (addestrate dall’Iran). Fonti militari confermano che aerei russi continuano a martellare le autocisterne che dall’area, carica di petrolio, fanno la spola con Raqqa.
A nord continua l’offensiva per ripulire Aleppo, dove tra l’altro è tornata l’erogazione dell’acqua dopo quasi tre mesi. Nel giro di un mese sono 50 i villaggi liberati dalle truppe di Damasco, ormai alle porte del Governatorato di Raqqa. I curdi dell’YPG intanto continuano a mettere in sicurezza il confine con la Turchia, di cui ormai solo il 10% sarebbe in mano a gruppi islamisti.
 
Da settembre lo Stato Islamico ha perso il 20% del territorio controllato. Da quando è iniziato l’appoggio aereo russo il bilancio del Califfato sui campi di battaglia è in rosso, con ritirare e fughe da un po’ tutti i fronti.
 
Ciononostante, come segnaliamo da settimane, l’ISIS mostra ancora una buona vitalità sia sul piano “amministrativo” che su quello militare.
 
Le ragioni di questa capacità, nonostante sulla carta tutto il mondo gli faccia la guerra, sono essenzialmente tre:
  1. Innanzitutto, come scriviamo da mesi, il rifornimento di uomini e materiali dall’estero procede indisturbato. Da quando nel 2011 qualcuno decise di distribuire le armi degli ex arsenali di Gheddafi ai cosiddetti ”ribelli moderati” siriani, l’afflusso è continuato senza sosta per due vie: attraverso il confine turco-siriano ancora controllato dai “ribelli” e dal deserto iracheno a ovest di Ramadi, in mano allo Stato Islamico e vicino alla frontiera saudita. Il confine siro-giordano regge, ma è evidente che finché la continuità territoriale del Califfato fra Iraq e Siria e fra Siria e Turchia non sarà interrotta, la guerra non avrà fine. La nostra valutazione è prettamente logistica. È elementare supporre che un semplice ordine politico chiuderebbe la partita con lo Stato Islamico nel giro di un mese.
  1. Un secondo fattore di grande aiuto per i terroristi è l’”aspetto umanitario” della guerra. Le città occupate dall’ISIS diventano automaticamente ostaggio dei miliziani, rallentando i raid aerei e la bonifica dei governativi. Vale soprattutto per i grandi centri urbani, come l’area metropolitana a sud di Damasco e i sobborghi della “Grande Aleppo”. Le organizzazioni umanitarie in Siria, sulla cui buona fede ci sarebbe molto da dire, minimizzano questo dato sbrigandosi viceversa a sottolineare ogni colpo di fionda tirato dalle forze lealiste. Oggi in Siria milioni di persone sono di fatto scudi umani di fondamentalisti islamici. Nessuno ne parla.
  1. Ultimo ma non meno importante dato è la preparazione dei miliziani del Califfato, spesso veterani di grande esperienza. Oltre ai foreign fighters prestati da altre jihad (i ceceni per esempio), ci riferiamo in particolare ai combattenti iracheni, frutto dell’invasione del 2003. Tra i tanti errori commessi nella campagna d’Iraq (oltre alla campagna stessa…) va evidenziata la dissoluzione delle Forze Armate irachene, della polizia e soprattutto del partito Baath, spina dorsale dell’amministrazione di Saddam Hussein. Il potere a Baghdad, in un clima tribal-patriottico-socialista, si era retto per un quarto di secolo sulla supremazia sunnita del clan di Tikrit, in un Paese però a maggioranza sciita. Il conflitto tra il regime baathista e le due altre principali anime del Paese, curdi e arabi sciiti, è stato strisciante per tutta la parabola di Saddam. L’invasione del 2003 ha rotto gli equilibri scatenando un regolamento di conti generale.
Con le dovute differenze, in Siria per anni le cose sono andate in modo speculare. Il cuore del potere baathista è sempre stato sciitaalauita con un delicato gioco di pesi politici fra minoranze etniche e confessionali.
 
iraq1
Il soqquadro iracheno ha generato l’unificazione del conflitto interislamico e interarabo: in soccorso dei fratelli sciiti sono arrivati i libanesi di Hezbollah e gli iraniani; ai sunniti della jihaddel Califfato si sono aggiunti gli ex baathisti iracheni sunniti, senza più bandiera ma con un’ottima preparazione militare. Molti di loro sono ufficiali delle ex forze armate di Baghdad con almeno due guerre alle spalle.
 
In sostanza oggi in Siria si sparano contro le due ali distinte del partito Baath (una siriana e una irachena) con i curdi, nemici storici dei sunniti di Baghdad, dalla parte del governo fino a prova contraria legittimo di Damasco.
 
Il papocchio è frutto di un disegno più o meno deliberato di “riassetto” dell’intero Medio Oriente. Due realtà statuali storiche come Siria e Iraq sono state scardinate e i pezzi dei loro sistemi di potere si trovano oggi in guerra.
 
Sotto questo profilo l’intervento russo non era previsto e consentendo a Damasco di sopravvivere, ha cambiato le carte in tavola: il processo di dissoluzione della Siria, parallelo allo smembramento di fatto dell’Iraq, si è interrotto. O almeno così sarà se l’andamento della guerra continuasse come negli ultimi mesi.
 
In attesa del riversamento di molti fondamentalisti in altri scenari (Libia su tutti), chi ha armato e tollerato lo Stato Islamico fra Iraq e Siria, dovrà rivedere in ogni caso i suoi piani per il Medio Oriente.