Il provvedimento sui pignoramenti saltato nella notte di Palazzo Chigi

La Ue dei popoli vuole pignoramenti più rapidi, mica per favorire le banche poverine che soffrono tanto. A quando l’esproprio coatto di ogni avere di ogni cittadino per accreditarlo alle banche?
Si vanifica l’effetto della «bad bank»
 
La norma che avrebbe accelerato il recupero dei crediti era stata annunciata più volte da Renzi e da Padoan. Doveva servire a far crescere il valore dei crediti deteriorati in pancia alle banche. Ma è sparita dalle misure prese al Consiglio dei ministri
 
Ne avevano tanto parlato. Lo aveva fatto Matteo Renzi in conferenza stampa da Palazzo Chigi poco dopo la metà del mese scorso: «Il modo migliore per ridurre le sofferenze delle banche — aveva detto il premier — è in primo luogo far ripartire l’economia, secondo accelerare le procedure di recupero dei crediti, che è un tema oggetto della nostra attenzione». Era tornato sull’argomento, poco dopo, anche Pier Carlo Padoan. Da Davos, alla fine di gennaio, il ministro dell’Economia aveva spiegato che il governo mirava ad alleviare i problemi delle banche «accelerando le procedure di recupero dei crediti». Prima che le università anglosassoni sterilizzassero il lessico economico, si chiamavano pignoramenti. E in ogni Paese le loro regole sono sempre il frutto di un arbitraggio puramente politico, al quale l’Italia sembra per ora aver rinunciato. Come funzionino molti pignoramenti, o il recupero dei crediti, non è un segreto.
 
Un debitore non riesce a far fronte ai propri impegni quindi la banca gli sottrae la casa, la terra o l’azienda per vendere tutto all’incanto. Quanto a questo, le regole di contabilità degli istituti oggi fissano equazioni precise: più brevi e certi sono i tempi per poter prendere legalmente possesso delle proprietà poste a copertura di un debito in default, più quel credito avrà valore nel bilancio della banca, o più alto sarà il suo prezzo nel momento in cui la banca stessa lo cede a un nuovo operatore. Succede il contrario quando la presa di possesso di un immobile è lenta e circondata dall’incertezza sull’esito finale delle procedure: il valore del credito nel bilancio della banca si deprezza, le perdite su ciascun prestito inesigibile aumentano, quindi l’erosione di capitale si aggrava e probabilmente in futuro l’istituto sarà in grado di concedere meno credito – e più caro – alla prossima impresa o alla prossima famiglia.
 
Per questo, dietro la tecnica, c’è sempre un dosaggio che spetta alla politica. Quando quasi un euro di prestito bancario ogni cinque è in un qualche grado di insolvenza, come attualmente in Italia, un governo deve scegliere suo malgrado chi privilegiare: i debitori insolventi che vogliono mantenere la loro proprietà il più a lungo possibile, oppure i creditori che cercano di prenderne possesso nei tribunali per poi venderla e recuperare almeno parte del prestito. Nel primo caso vincono gli interessi delle famiglie e delle imprese oggi in difficoltà. Nel secondo prevalgono le banche, ma anche gli interessi delle famiglie e delle imprese che chiederanno credito da domani in poi.
 
A giudicare dalle dichiarazioni del premier e del ministro dell’Economia, il governo sembrava aver scelto: rispetto alla situazione attuale, avrebbe spostato la lancetta un po’ più di prima dal lato dei creditori. Avrebbe accelerato le procedure giudiziarie di recupero, oggi così inefficienti che risultano fra le più incerte e lente d’Europa con una durata media di oltre sette anni.
 
Salvo che poi non è successo. Nel Consiglio dei ministri di una settimana fa che doveva decidere, il provvedimento è sicuramente entrato. Non ne è mai uscito, almeno non per ora. Secondo alcune ricostruzioni, a tarda sera sarebbe caduto senza troppe discussioni dal pacchetto delle misure sulle banche.
 
L’effetto immediato è che per adesso il sistema del credito non potrà contare su questa misura di sostegno che, probabilmente, sarebbe stata più efficace dell’ingranaggio della «bad bank» negoziato per un anno a Bruxelles fra polemiche crescenti. Non è difficile capire perché: gli operatori specializzati sono restii a comprare un credito da una banca italiana, perché sanno che in media occorrono sette o otto anni per recuperare una proprietà posta in garanzia. Si spiega così lo scarto di circa il 20% tra il valore di quei prestiti nei libri degli istituti e il prezzo che gli investitori sono pronti a riconoscere. Vendere un credito con i tempi della giustizia civile più lenti d’Europa (il doppio del secondo Paese più lento, la Slovenia) obbliga le banche a praticare sconti. Erode molto il capitale degli istituti e il loro sostegno ai nuovi investimenti, ora che in Italia i crediti deteriorati lordi sfiorano i 360 miliardi di euro.
 
Più delle stesse garanzie statali sui prestiti, previste dall’accordo con la commissaria Ue Margrethe Vestager, quel provedimento avrebbe mitigato questi problemi. Paolo Carrière, dello studio legale Cba, osserva che il governo ha varato altre riforme utili: un mercato nazionale unico per la vendita dei beni pignorati, procedure più omogenee per diversi tipi di debitori.
 
Ma perché Renzi abbia scelto di non accelerare per ora sui tempi della giustizia, dopo averlo annunciato tante volte, resta poco chiaro. Di certo l’intervento avrebbe sfavorito la vasta platea dei creditori oggi in difficoltà nel Paese. Magari, turbando anche la navigazione (troppo) tranquilla di tanti tribunali d’Italia.
 
17 febbraio 2016 (modifica il 18 febbraio 2016 | 00:05)
Il provvedimento sui pignoramenti saltato nella notte di Palazzo Chigiultima modifica: 2016-02-18T21:19:51+01:00da davi-luciano
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