MAMMA, M’HANNO CACCIATO ANCORA! BREVE STORIA DI ESPULSIONI E CACCIATE D’ONORE

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MONDOCANE

Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti uguaglianza, giustizia o qualsiasi cosa. Se sei un uomo, le prendi” (Malcolm X)

Stai sempre con i tuoi princìpi. Anche se stai da solo” (John Quincy Adams, 6° presidente degli Usa)

<fulvio.grimaldi@gmail.com> tolto dalla lista, cogliendo la sua offerta,
<sergio.falcone@aams.it> sottoposto al monitoraggio, d’intesa con l’interessato,
fino alla riunione di NoWar-Roma, mercoledì prossimo, per decidere il futuro della lista.

Tanto per sorridere un po’, su questo sfondo grigio-nero popolato da utili idioti e amici del giaguaro (con tutto il rispetto e l’ammirazione per i giaguari, non riesco a inventarmi una definizione più felice di questa, per quanto logorata dalla ripetizione e dalla sterminata proliferazione dei soggetti che vi si devono riconoscere). Tanto per sorridere un po’, e non per una pulsione narcisista all’esibizione autobiografica. Quella la lascio agli onanisti atomizzati in facebook, twitter, hashtag e via decerebrando e analfabetizzando. Tanto per sorridere un po’ su cosa capita a chi si avventura tra gli alberi belli nel bosco di Alice e si ritrova afferrato, strangolato e spazzato via dai rami. E’ la storia delle mie cacciate, o uscite volontarie. La racconto perché è ricca di significati e, sebbene non cruenta, è parte di un clima che promette di sublimarsi in un esito alla turca. Dove chi sta fuori, non resta fuori, ma finisce in carcere, o salta per aria, o finisce sotto un camion.

Padre Tentorio, del Collegio Emiliani di Nervi, insegnava e parlava greco antico. Ci impressionava per la sua bravura, era d’età inidentificabile, puzzava di sigaro toscano, era secco e pallido come una lisca di pesce e non tollerava ilarità. Ma le ilarità sono il sale dell’adolescenza, spesso assumono livelli isterici, incontenibili. Così mi accadde durante una sua lezione. Mi arrivò uno dei  ceffoni più roventi mai ricevuti (eppure avevo una mamma dal polso forte e agile). Scattai in piedi e, senza davvero averci pensato, lo ricambiai. Il fraticello esangue non mosse ciglio. Ma a casa, un’ora dopo, arrivò la telefonata della mia sospensione. Finii in collegio per sei mesi (e li mi picchiai con un altro monaco, giovane. Ci avevo preso gusto. Anche se in seguito, con i preti, per le mazzate avrei usato le parole).

E fu la prima volta, se vogliamo saltare l’allontanamento  coatto dal ventre di mia madre. Se ricordo bene, la seconda fu nel 1967, Guerra dei Sei Giorni in Palestina. Segnò sia l’inizio che la fine di quella vicenda. Lavoravo al World Service della BBC, a Londra. Era il primo giorno di guerra e già Dayan e il suo superesercito stavano riducendo in stracci gli egiziani di Nasser (fu più dura con i siriani di Atassi). E il celebrato network britannico, standard aureo dell’informazione, ne celebrava i trionfi, manco fosse Alessandro Magno e ne avesse le ragioni di civiltà. Invece il quotidiano di cui ero corrispondente a Londra, “Paese Sera”, filo-PCI, tergiversava, non sapendo bene che pesci prendere tra i due contendenti. Direttore era un Fausto Coen. Comunque mi chiese di precipitarmi in Palestina/Israele. Così, secondo episodio, lasciai la BBC di sua Maestà per il giornale di Berlinguer.

Nel Sinai, in Galilea, sul Golan, viaggiai sui tank di Dayan, con la Lettera 22 dell’Olivetti sulle ginocchia e la Nikon tra i denti. Vidi villaggi palestinesi bruciati con la gente dentro e lo scrissi. La censura militare cancellò, ma qualcosa passò e raddrizzò la linea di “Paese Sera”, con tanto di cambio di direttore. Furono quelle visioni, penso, a portarmi pocchi anni dopo a militare con i fedayin. E a non rischiare mai più di diventare non-violento: Poi feci a botte a Tel Aviv con un capitano  israeliano che, indicando le carcasse dei soldati israeliani lasciati putrefarsi al sole e tra le cornacchie, aveva sollecitato: “Guardate, l’unico arabo buono è l’arabo morto!” Scritta che avrei ritrovato 32 anni dopo a Gaza, sulle pareti della case in rovina bombardate e occuparte dagli eroi di Tsahal. Che mi confermarono nella mia non-nonviolenza. La mattina dopo fu un compunto e imbarazzato concierge d’albergo  a consegnarmi l’ordine di espulsione entro 24 ore. Terzo episodio.

Poi toccò allo stesso “Paese Sera”. Era il 1970, mi occupavo di Esteri, ma era scoppiato il ’68 e, di nascosto dal quotidiano comunista, ero entrato in Lotta Continua (pace e onore all’anima sua, e disonore agli pseudo-micro-Lenin che l’hanno tradita). A forza di fare il cronista in mezzo alle manifestazioni e agli scontri, ne ero stato infettato e mi era venuto di associarmi convinto, tra le altre cose, ai beeh-beeh-Berlinguer che eccheggiavano nelle strade all’indirizzo di Botteghe Oscure e di chi, lì dentro, stava con lo Stato repressore. Il quarto episodio fu, dunque, una mia dipartita. E per diversi anni feci il Freelance. Condizione dalla quale nessuno mi poteva cacciare e dalla quale non trovavo motivo per dimetteremi. Quarto episodio.

Finii col diventare il direttore del quotidiano “Lotta Continua”, il più bello che abbia frequentato. Accadde che anche lì mi picchiai. Col grande capo, Adriano Sofri, ma “tra compagni” queste cose finivano lì, nonostante che il vile meschinello mi avesse morso sul collo. Come un qualunque Suarez. La separazione stava nelle cose quando, il 5 novembre 1976 a Rimini, contro l’opposizione della componente operaia e studentesca , l’organizzazione fu unilateralmente chiusa da Sofri e dalle femministe. Ma il giornale rimase in vita, metempsicosizzato in qualcosa di molto morbido, compatibilissimo, femminista e dirittumanista, sotto la guida di Enrico De Aglio. Già ci volteggiavano sul capo gli avvoltoi radicali e craxisti. Con grande sollievo di Sofri e De Aglio, lasciai il giornale e me ne andai in Yemen, sospinto anche da un ordine di cattura pendente (poi archiviato) che non ho mai capito se avesse avuto a che fare con i miei 150 processi per reati di stampa, o con la manifestazione del 1 maggio 1977, in cui tirai Molotov e vidi fucilare Giorgiana Masi a Ponte Garibaldi. Episidio, quinto, classificabile come separazione consensuale.

Dallo Yemen presi a lavorare come inviato per una bella rivista arabo-inglese, “The Middle East”, che, mandandomi in un lungo e largo per tutta la regione, mi fece ritrovare e ri-amare i popoli arabi, così diversi e così uniti da costumi, valori, cultura, volontà. Finìi di nuovo a  Londra, come caporedattore della pubblicazione. Ma fu un breve inserto. Me ne andai quando al desk palestinese arrivò una collega di religione ebraica che, se non proprio la rovesciò, sconvolse la linea del giornale sulla questione palestinese: tutto Fatah e bonzi palestinesi e niente Fronte Popolare o Democratico, anzi niente resistenza armata. Episodio 6. E anche 7, visto che dallo Yemen venni espulso come “persona non grata”, avendo appoggiato mediaticamente e in amicizia il presidente nazionalista Ibrahim El Hamdi contro il generale golpista vittorioso, El Ghashmi, fantoccio dei sauditi e dell’Occidente.

L’episodio 8 ebbe una maggiore risonanza perché io, con la mia rubrica “Vivere!”, prima del Tg3 delle 19.00, facevo ascolto. Sul milione, un 6% in media. Accadde nel 1999, quando da molti anni mi ero ormai istituzionalizzato in Rai. Però nel TG3 che, qualcuno ricorderà, avendo alle spalle una robusta opposizione, permetteva al trombone populista Sandro Curzi di fare la fronda al sistema democristo-craxista. Un po’ agli esteri, un po’ all’ambiente, m’era concesso di tirare fuori le unghie. Pensate, si poteva attaccare a spada tratta il governo delle Ferrovie dello Stato, i potentati economici dell’inquinamento universale, i diffusori farmaceutici di patologie e rispettivi micidiali rimedi, i padroni del massonico-mafioso-militare-piccista  traffico locale e nazionale dei rifiuti… Fino a un certo punto si poteva deplorare la Guerra del Golfo, per i suoi eccessi, addirittura celebrare a ogni piè sospinto la lotta partigiana e quella dei Vietcong. Da New York imperversava contro Washington un grandioso Lucio Manisco.

Poi venne il tempo delle Giovanne Bottere, i Balcani, la Croazia, il Kosovo. D’Alema capo del governo. La “normalizzazione”.  Operata da colui che fu il “migliore ministro degli esteri che abbiamo mai avuto” (copyright Haidi Giuliani). C’ero stato, nella Jugoslavia di Tito e poi di Milosevic. Una democrazia che noi ci sogniamo. Erano ossessionati dal voto: si votava alle amministrative, alle politiche, alle presidenziali per ogni repubblica della federazione, alle nazionali, alle provinciali. E nessuno, prima del branco Cia di Otpor e della sua rivoluzione colorata del 2001, aveva mai messo in discussione la correttezza delle elezioni. Ma la mattina del 24 marzo 1999, dopo la prima notte di bombardamenti su Belgrado, alla riunione di redazione si blaterò di ”intervento umanitario contro il dittatore Milosevic che assassina in massa gli oppositori e fa pulizia etnica di kosovari albanesi”. Questa era la verità da raccontare. A prescindere. La Botteri si precipitò e vi guadagnò il posto prestigioso di corrispondente dal cuore dell’Impero. Non era vero niente e tutti lo sapevamo. Alcuni di noi sapevano anche che era vero il contrario: che erano gli interventori umanitari i masskiller e che erano gli albanesi, sotto la guida di George Soros e Madre Teresa di Calcutta, a spazzare via i serbi e a bruciarne i monasteri medievali.

Così  – epsodio 8 – non misi più piede in Rai, presi una telecamerina e, in Serbia, tra ospedali, scuole, case, ponti, ferrovie, televisioni  umanitariamente bombardati e disintegrati, tra missili all’uranio sugli stabilimenti petrolchimici e bombe a grappolo sul mercato di Nis, tra bombardamenti all’arsenico e all’argento sulle nuvole perché provocassero nubifragi che facessero uscire il Danubio dall’alveo e gli facessero spargere i veleni ovunque, in modo che generazioni ne fossero avvelenate per sempre, feci il mio primo docufilm libero e indipendente: “Il popolo invisibile”. Tanto invisibile che, quando stavano sui ponti col cartello “Target” sul petto, gli aerei Nato li centravano benissimo. Ma nessuno ne parlava. E poi, due anni dopo, l’ultima intervista datami da Slobodan Milosevic prima del sequestro e del viaggio verso la morte programmata all’Aja, e l’altro film “Serbi da morire”.

Ero passato a “Liberazione”, organo del PRC, sempre con Curzi direttore e Bertinotti padrone. E qui si arriva all’episodio 9. La cacciata, nel 2003, fu su due piedi, in totale rotta con tutte le previsioni normative relative al mio contratto con la testata. Ordinata da Bertinotti in persona al portaborse Curzi che, non avendone il fegato, me la fece comunicare dall’amministratore. Il pretesto ultimo era che avevo scritto un pezzo in difesa di Cuba che aveva appena condannato quelli che un Bertinotti, ormai definitivamente entrista e lanciato verso lo scanno di presidente della Camera, chiamava in sintonia con tutti gli altri “intellettuali e dissidenti”, ma che furono provati mercenari terroristi  degli Usa e da questi riccamente retribuiti. Ma era solo il punto di ebollizione di una pentola che gorgogliava da tempo: da quando da Serbia bombardata, Palestina dell’Intifada, Iraq di Saddam sotto attacco, avevo scritto cose che con la marcia di avvicinamento di Bertinotti e dei suoi sgherri (Gennarino Migliore in prima fila!) al poltronificio dello Stato-colonia degli Usa, mal si conciliavano. A vedere come sono poi finiti sia il cashmirato, sia i suoi somari di razza, sia tutto il partituccolo, posso farmi uno swisssh sulla fronte e dire che m’è andata bene.

Una vita alla fiera, sui girotondi del “Calcio in culo”. Un’ escalation di successi. Una carriera brillante. Ma tutto questo è fusaglie rispetto all’evento catasclimatico supremo, quello che mi ha colpito tra capo e collo come un maglio giorni fa e che mi ha fatto sprofondare in un abisso di mortificazione. M’hanno cacciato dalla lista email di “No War Roma”, nientemeno mamma! Vi chiedete cos’è, chi sono? Ignari e ignavi! E’ un benemerito gruppo di pacifisti, perlopiù non-violenti, tra i quali alcuni miei cari amici, che da anni si intravvede sulla scena del pacifismo e del contrasto alla guerra in tutti i suoi connotati, con appelli, presidi, flash mob, comunicati, manifestazioni. Vi chiederete cosa mai abbia allora potuto provocare un provvedimento tanto severo e burbero come quello che leggete in cima a questo articolo, dato che non parrebbe che ci distinguiamo su discriminanti fondamentali.

Invece sì. E, passando dal faceto al serio, tanto ci distinguiamo che il portavoce del gruppo, un signore americano che presidia anche un comitato di americani in Italia contro la guerra, si è sentito dal cielo trascinato per i capelli a sradicarmi dalla lista, lui solo e istantaneamente, rinviando ad altra data la discussione collettiva sul provvedimento. Episodietto 10. Sono gli strascichi della “più grande democrazia del mondo”. “Cogliendo la sua offerta”, si giustifica nell’ukase l’astuto giustiziere. Cioè mi sarei io stesso posto a 90 gradi, onde ricevere la spinta all’uscita. Trovandomi in netta contrapposizione con tale hippie stagionato che riversava in lista torrenti di melodie dei suoi tempi d’oro, uniti a esternazioni politiche in cui sputacchiava equamente sia su Davide che su Golia, nel migliore stile cerchiobottista dei classici confusionari e confusionanti, quelli a cui dici “ma chi ti ci ha mandato?”, avevo detto alla lista, che dite, lui o me? La lista non ha risposto. Ha risposto Patrick Boylan, l’americano.

Ora io so che Patrick è uomo di spirito e prenderà questi miei arruffamenti per quel che sono: fraterna dialettica tra viandanti su strade che divergono e s’incrociano. Il fatto è che, seppure un po’ drasticamente, a cacciarmi ci ha preso. M’ero avvicinato alla lista No War pochi mesi fa, invogliato da alcuni suoi attivisti che ho per stimati amici e compagni di ventura. E mi sono ritrovato davanti  la considerevole mole di Patrick, la stessa con la quale avevo battibeccato in un incontro pubblico sulla Siria a Zagarolo, quando gli era venuto  l’uzzolo di dare del dittatore al presidente siriano Assad, per quanto eletto dal suo popolo meglio di quanto non sia stato eletto Renzi da noi. Un concetto ribadito da PB anche l’altro giorno, alla manifestazione di Roma contro le guerre Nato, quando è apparso dietro a un grande cartello “NON BOMBE – MA DIPLOMAZIA”.

Di che bombe parliamo? Ma è ovvio, le praticamente uniche, quelle che ci vengono deprecate da ogni schermo e pagina stampata: le siriane, le russe. E comunque tutte le bombe sono cattive. Che esplodano in difesa o in offesa. E chi vede il cartello non può non pensare: russi cattivi. Sotto le bombe, oltre ai civili, negli scritti di Patrick, chi ci sta? Ma è ovvio, “i ribelli”. Non i terroristi, non i mercenari importati, non, almeno, “quelli che in Occidente sono chiamati ribelli”. “I ribelli” e basta, come dicono, legittimandoli e onorandoli, la Botteri, Il Corriere, Gentiloni, la Mogherini, Furio Colombo. E come nessun siriano, a cui bande di subumani stanno succhiando il sangue, sfasciando il paese e sterminando i concittadini, direbbe. “Dico ribelli – spiega Patrick – perchè così avvicino gli intellettuali liberali”. Che, sennò, si ritirerebbero inorriditi, Guai a perderli, ‘sti intellettuali liberali, e chi li fermerebbe più i violenti? E qui che l’incrocio diventa divergenza, come insegnano tristemente tutti coloro che hanno adottato il linguaggio del padrone. Col linguaggio si insinuano le idee….

E “diplomazia”? Anche il papa ha appena rievocato diplomazia e dialogo. Ci devono pensare gentiluomini come i sauditi, pacifisti come gli statunitensi, francesi, britannici, tagliagole come i jihadisti e, se proprio insiste, anche qualcuno che si riesce a strappargli dalle fauci. Ma guarda se queste invocazioni a negoziatori potenti, supra partes e intra partes, acchè s’impiccino e risolvano, appassionatamente in nome della non-violenza, non si sono fatte diapason nel momento in cui siriani e russi, hezbollah e volontari iraniani, truppe e milizie popolari irachene, stavano rovesciando le sorti della guerra a vantaggio degli aggrediti e offesi! Mentre, dopo 5 anni di indicibili violenze subite e sofferenze provate, si profila un esito di giustizia, sommamente inviso ai becchini volteggianti sulla Siria, Fermi tutti! Tregua! Cessate il fuoco! Diplomazia!

Coincidenza, ti pareva. Ma vogliamo, o no, annientare in noi quel riflesso colonialista che ci fa ritenere in diritto di andare a sistemare, correggere, combinare, scombinare, insomma interferire, a casa altrui e dove nessuno ce l’ha chiesto?  Riflesso che pretende di saperla più lunga di 20 milioni di siriani e spunta in quella signora No War che rampogna un prelato siriano  per essere uscito dai sacri confini della non-violenza, avendo auspicato ogni sostegno all’esercito di Assad nell sua  lotta contro l’Isis C’è chi poi sublima la non-violenza al punto da sbertucciare l’impresa di una brava compagna che da sola, alla Farnesina, ha gridato in faccia a John Kerry “siete i genitori dell’Isis”, o qualcosa di altrettanto giusto. Godono di ospitalità e credibilità nel gruppo anche forme rettilesche di inquinamento ambientale come Human Rights Watch, Amnesty International, o l’agenzia di notizie del Partito Umanista “Pressenza”, che si preoccupa di Aung San Suu Kji, del Dalai Lama, e delle “tante vittime civili che provocano i bombardamenti russi”.

Insomma in NoWar Roma c’è di tutto, compresi quegli amici stimati che dicevo. Ma, a mio avviso, c’è e si personifica nel personaggio più in vista, uno spirito del tempo che sa più di arroganza occidentalista nella forma soft del liberal amerikano, con il suo mostruoso magazzino di presunzioni e pregiudizi “democratici”, con il retropensiero che comunque la civiltà migliore sia la nostra, che di antagonismo radicale. Antagonismo necessariamente estremo, per quanto estremo è l’attacco che l’umanità subisce. Dove la “democrazia” è la pietra di paragone, la cornucopia, lo standard aureo. Quella dei fischi per fiaschi.

Quando vedo in Occidente dita di vario colore e natura, anche quello di molti No War, puntare sulla “dittatura” del cattivo leader, sul totalitarismo, la corruzione, gli arresti e processi arbitrari, le carceri disumane, le torture, gli stupri, i violenti, gli Al Sisi…. mi scatta un riflesso visivo condizionato. Non vedo più niente se non deserti arroventati, coperti dei “miei” cadaveri. Quelli visti disfarsi tra la polvere e il sole di Gaza, quelli, uguali, in Libano fatti imputridire dentro dalle armi proibite di Israele, quelli di bambini Down di Tripoli, rimasti sotto le macerie del loro centro di riabilitazione, quelli fermatisi nelle incubatrici irachene perché l’uranio Usa gli aveva messo il cervello al posto di una spalla, o in quelle di Belgrado, cui le bombe avevano tolto la corrente. Vedo ragazzetti palestinesi e nordirlandesi pagare il loro grido di pietra con un proiettile in testa, o un polmone bloccato dal gas. Vedo vedo vedo. Vedo 2,5 milioni di fantasmi iracheni e 500mila loro orfani e so che se tutti questi avessero un Kalachnikov e un Mig 17 sulla testa, la storia sarebbe presto finita. Finita bene.

E allora chi mi viene a rimbrottare la mia non-non-violenza, chi pretende de mannà affanculo l’uno e l’altro, Davide e Golia, il “dittatore” e chi ne stermina il popolo, io lo prendo a male parole. Così la discussione diventa su come ti vesti, come parli, non su che faccia hai e su cosa dici. Ti riducono a un maleducato. Colpa mia: è il pretesto che offro a chi mi vuole fuori dalle gonadi.

E allora, sono, o no, espulsioni e uscite d’onore? O è solo una pappardella storica che fa uso politico di faccende private

Pubblicato da alle ore 18:33

MAMMA, M’HANNO CACCIATO ANCORA! BREVE STORIA DI ESPULSIONI E CACCIATE D’ONOREultima modifica: 2016-02-09T13:36:35+01:00da davi-luciano
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