MANIFESTAZIONI: CHI SFILA, CHI MARCIA, CHI CI MARCIA

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MONDOCANE

MERCOLEDÌ 20 GENNAIO 2016

“Apparentemente una democrazia è il luogo dove si tengono numerose elezioni a elevati costi, senza contenuti programmatici e con candidati interscambiabili”.(Gore Vidal)

“Preferisco i vinti, ma non potrei adattarmi alla condizione di vinto”  (Curzio Malaparte)
 
Il 16 gennaio, 25° anno dall’inizio dell’annientamento della nazione irachena, abbiamo manifestato a Roma e Milano e in qualche altro posto. Parlo di Roma. Qualcuno ha detto tremila. Forse. Comunque pochi e totalmente privi di slogan, cioè di partecipazione politica audio. Ha sopperito un tonante sound system e qualche orchestrina ambulante. L’età media era alta e la dissonanza tra i vari spezzoni pure. Dissonanza vigorosamente manifestatasi già nella fase preparatoria, caratterizzata da dispute, mediazioni su mediazioni, dissociazioni. C’era chi pensava di inserire nella piattaforma un riferimento ai “ribelli” siriani e all’impegno di difendere (quindi portare) “democrazia” dappertutto, dando implicito credito alle valutazioni di coloro che la “democrazia” la esportano radendo al suolo chi ne dovrebbe beneficiare. Peggio, essendo la democrazia che si conosce e di cui si auspica la difesa quella totalmente finta, è implicito che là fuori, in Siria, Iraq e via deprecando, di democrazia non ce n’è.
 
Altri portavano il loro contributo inalberando gli stendardi,  decorati a Washington e Langley, dei diritti umani come esemplificati da Amnesty International e Human Rights Watch. Presenze trasudanti perbenismo moralista e inquinamento ideologico, pretendevano manifestare “contro ogni governo che sceglie la guerra contro il proprio e gli altri popoli”. Qui riecheggia forte e chiara l’eco, mica dell’autoattentato tramite esplosivo dai servizi collocato nelle Torri Gemelle, costato la vita a 3000 concittadini (e di analoghe stragi di Stato precedenti e successive), ma del  consuntissimo stereotipo su Gheddafi, Saddam, Assad, dei cui popoli si è dovuto decidere l’estinzione in virtù del fatto che venivano “bombardati dai propri leader”. Cosa che magari condividevano, ma ne erano turbati meno, i veterobigottoni che, vittime di ossificazioni dogmatiche degenerate in superstizioni, insistevano che non aveva senso impicciarsi di genocidi e resistenze, fino a quando i rispettivi proletariati non avessero sistemato le proprie borghesie.
 
Guerra di classe, o di popolo? O l’una sta nell’altra?
Veri oscurantisti, irretiti dal ragno della pigrizia mentale in una tela tra bare polverose abbandonate nelle segrete. Ancora non si rendono conto che c’è stato un rimescolamento delle classi e che la progressiva uccisione del ceto medio in Occidente rende grottesco parlare di borghesia e proletariato, tanto meno di una classe operaia-avanguardia che da un secolo è abituata ad arrendersi. Abbiamo quei 62 super-ricchi che manovrano mezzo pianeta e ne hanno fatto una piramide anomala, in cui tra una base enorme e un vertice a spillo non c’è più nulla. Saranno ancora lì, a ripetere le loro giaculatorie, quando l’élite antropofaga dell’1%, nuova forma di capitalismo ed estrema forma di imperialismo, si sarà divorata proletariato, borghesia e mondo intero.
 
Non-violenza e non-non-violenza
Per niente dissimili, per quanto, diversamente da questi,  privi di classe ma ornati di piume arcobaleno, i non-violenti. Ho visto un cartello che diceva più o meno “Non bombe, ma diplomazia”. Davvero contundente, per dire. Sa di liberal amerikano, scritto con la k perché, a dispetto delle migliori intenzioni, irrimediabilmente incapsulato in logiche e formule con cui il paese di Lincoln, Jefferson, Roosevelt, nato e cresciuto nella pratica del genocidio, è ritenuto depositario di democrazia, libertà d’espressione, giustizia, liberatore da nazifascismi e totalitarismi vari. Seppure recentemente corrotto, tocca ammetterlo, da energumeni alieni al suo spirito fondativo. Democrazia, dunque, vorrebbe dire diplomazia. E viceversa.
 
 
Ma la democrazia in Occidente non esiste e la diplomazia, praticata da un Occidente privo di democrazia, sarebbe intesa esclusivamente a raggiungere gli stessi scopi delle bombe, ma prendendoti alle spalle con la vasellina (vedi Cuba, o Iran). Insomma, proporre che siano sempre coloro che la saprebbero più lunga sulle questioni del mondo, inevitabilmente i civili occidentali, ONU, UE, o qualche governo, a mettere le mani in pasta, non è che una forma dolce di colonialismo. Non si vuole capire che colonialismo è ogni forma di intervento occidentale fuori campotanto più che si trascina appresso il peso terribile di un millenario passato predatore e assassino. Qualcuno si è mai sognato di invocare l’intervento del Cairo, di Dar es Salam, o di Hanoi, per risolvere una disputa, mettiamo, tra Londra e Dublino? O Washington e Corea del Nord?
 
In ogni caso, prima della diplomazia, ci sono i rapporti di forza e quelli si stabiiscono sul terreno. Come ha fatto la Russia, sparigliando il gioco. Cosa pensa il nostro liberal amerikano, che con la Nato e i suoi ascari Isis pronti a consegnare Siria e Iraq, petrolio incluso, a Wall Street, l’aggressore si faccia da lui convincere alla diplomazia? E, poi, quale diavolo di diplomazia? Cosa c’è da trattare, mediare, concordare?  Con dall’altra parte antropofagi e narcomafiosi che campano di armi, droga e guerre? Un’altra Oslo-capestro tipo palestinesi? Qui c’è un mostro a cui si devono tagliare le zanne affondate nella vittima. Punto. 
 
Qualche strappo nei travestimenti democratici delle perenni oligarchie l’hanno prodotto le lotte operaie, studentesche, le guerre di liberazione. Mai non-violente. Come non guadagna un rigo sui media (s’è visto il 16 gennaio) e nella storia e non incide un graffio sulla protervia del potere, qualsiasi corteo che non rivendichi con la forza il diritto alla piazza e alla contestazione. Provate a immaginare lo scombussolamento degli assetti del potere culturale e politico senza la forza dei movimenti del ’68. O l’epifania di uno Tsipras (per quanto, ahi-Grecia!, infiltrato e traditore) e la stravittoria referendaria da far tremare gli euroboia, senza quattro anni di scontri di popolo contro i gendarmi dei proconsoli di BCE, FMI e UE. O il ritiro dell’esercito britannico dall’Irlanda del Nord senza l’IRA. O un’attenzione del mondo sull’olocausto palestinese senza le Intifade. Hanno portato a poco, a niente? Nell’immediato. Ma ti hanno mantenuto in piedi! Si potrebbe continuare con gli esempi, a partire dalla presa della Bastiglia, o dalla Repubblica Romana, ma non serve a convincere nessun non-violento. Sapete perché? Perché la non-violenza è un’assicurazione dei beni e sulla vita. Tutto lì, al di là delle buone intenzioni.
 
Tutti uguali, coscienza a posto.
C’è chi è arrivato nel corteo proclamando “Tutti i governi sono criminali”. Mosca come Washington. Riyad come Damasco. Altri giuravano “Guerra no, mai – senza se e senza ma, bombardamenti no, mai – senza se e senza ma”. Gente con un acuto senso delle proporzioni e degli eccessi, sentenziava “25 anni di guerra bastano”. Bastano a chi? Pensate che cazzata: con uno, due, dieci anni di guerra si sarebbe potuto convivere? Ed ecco che, col discorso di “nessun bombardamento mai”, dopo lo scontato guerrafondaio Usa, s’è messo nel sacco anche quello russo. L’imperialismo si risente, ma lo conforta l’equiparazione. Ci lascia poi solo la scelta tra ottusità, ignoranza e malafede chi, tra pseudotrotzkisti e pacifinti, fa scempio della realtà oggettiva cianciando di “scontri tra potenze” e di “opposti imperialismi”, mettendo sullo stesso piano la mamma di Haensel e Gretel e i bambini che vuole infornare.Perso nella nebbia del fondamentalismo pacifista, il senso delle cose e la possibilità di uscirne bene, con giustizia. Visto che vengono intrecciati senza più  possibilità di distinguerli, carnefici e vittime. Chi bombarda, correndo in soccorso all’aggredito, per salvare integrità, sovranità, diritto internazionale, autodeterminazione, storia, presente, futuro, vita. E chi dalla scena del mondo vuole eliminare queste cose.
 
Nei proclami pacifisti e non-violenti si obietta alla guerra tout court, compresa quella dei resistenti alle aggressioni e si finisce, che lo si voglia o no, col delegittimare, se non criminalizzare, chi spara per non farsi sparare, lui insieme a madri, padri, figli, patria. Oggi siriani, iracheni, afghani, yemeniti, somali, libici.  O africani sub sahariani, sotto lo scudiscio del neocolonialismo armato francese che, anch’esso, utilizza i jihadisti per lastricare la via allo stivale della Legione Straniera. Ieri le brigate Garibaldi. O Beppe Fenoglio. O i Fratelli Cervi. O Franco Serantini.
 
Un Ponte per…dove?
Chi sfila perché così usava, così fanno i buoni e bravi e così ci si sente a posto. Chi marcia perchè contro il nemico tocca marciare. E chi ci marcia. Ho partecipato a due viaggi organizzati di “Un Ponte per…” in Iraq, al tempo dell’embargo, e a uno in Serbia. Storico presidente Fabio Alberti (consigliere regionale del PRC e manifestante con i ratti contro Assad), oggi lo presiede una Martina Pignatti Morano. Allora non ci si sarebbe sognati di dire una anche vaga parola di critica a Saddam o Milosevic. Anzi, avendo il monopolio dei tour politico-culturali, ci si guadagnava. Al punto da finire in una brutta polemica su come fossero stati adoperati certi fondi. Ai viaggiatori si accompagnavano scatoloni di medicinali e quaderni per le scuole. Niente male. Poi le cose cambiarono e pure il Ponte per. E sui corpi dei vinti si accodò al coro delle contumelie contro i leader caduti e contro chi si ostinava a resistere, mentre prese a far comunella con la “società civile” collaborazionista.  Molto male, anzi  miserevole.
 
Ong di scarsa rilevanza, ma epitome del pacifismo di cui vado parlando, si guadagnò ampia notorietà con la storia delle “due Simone”. Due cooperanti, secondo non verificate fonti giornalistiche stipendiate a 8000 euro mensili da questa Ong che si diceva poverissima, nel settembre 2004 rapite nella zona di Baghdad più controllata dagli occupanti. Rapite da chi non s’è mai voluto capire.Tenute nascoste per tre settimane e poi riapparse. Il deus ex machina finale era degno del più scrauso regista di atellane e fescennini. Con lo staff berlusconiano, il capo berlusconide della Croce Rossa e decine di telecamere schierati come a una passerella di star sulla Croisette, si vedono le due ragazze incappucciate caracollare in pieno deserto, avvicinarsi e solo allora togliersi il capuccio.  Standing ovation. Scena costruita a sfida del più acuto degli imbarazzi. Oggi questo ponticello rotante si presenta al corteo con dichiarazioni tutte mutuate dalla propaganda di chi doveva dotarsi di alibi per la distruzione dell’Iraq.  Notarella: una delle Simona, la Pari, s’era adoperata in Kosovo per “Save the children”, l’organizzazione “umanitaria” che per lubrificare la guerra alla Libia ci aveva raccontato di un Gheddafi fornitore di Viagra ai suoi soldati perché stuprassero bambini e le loro madri, magari davanti ai rispettivi padri e mariti. Notevole curriculum.…
 
Gli americani ‘liberarono’ il Kuweit” (storica provincia sottratta all’Iraq dai britannici e per questo non riconosciuta come Stato se non 40 anni dopo), ma, sprovveduti, “lasciarono al comando Saddam che ne approfittò per far fuori 200mila sciti e curdi”. “Migliaia di soldati iracheni scelsero la diserzione e si rivoltarono contro Saddam” (evidentemente risentiti dal fatto che l’ONU, nel 1990, aveva riconosciuto all’Iraq il più alto indice di sviluppo umano del Medioriente). Ma forse l’analista militare s’è confusa con i 100mila soldati seppeliti dai tank Usa nelle loro trincee. Quanto alla Libia, c’è da lamentarsi che non esista ancora “un’alternativa funzionale e democratica” (implicito: alla dittatura di Gheddafi). Ovvio che “l’Iraq ha innanzitutto bisogno di aiuti umanitari”, adeguatamente sovvenzionando le Ong che se ne fanno carico (altrimenti che ci sta a fare il Ponte?), mica di sostegno alla lotta di liberazione da Isis e predoni curdi. Per carità, pace e coesistenza! Rifornimenti aerei della Coalizione all’Isis, denunciati con mille prove, è roba umanitaria. Ma armi a Baghdad per riunificare il paese mai!. Non sarebbe non-violento.
 
C’è chi non fa i nomi. E chi li fa.
E così quattro amici del giaguaro riescono a convogliare nelle manifestazioni un sacco di utili idioti, o di semplici disinformati, e di farsene scudo per sopperire alla propria inconsistenza numerica e ambiguità politica. E’ la tecnica della pianta saprofita che si attorciglia attorno all’albero per soffocarlo. Non che la scarsità quantitativa significhi sempre fragilità qualitativa. Anzi, di questi tempi è già tanto se bastano le mani a reggere uno striscione giusto. Come nel caso romano dove si diceva “NATO=GUERRA E TERRORISMO – FUORI DALLA NATO FUORI DALLA GUERRA”. Dove si ricordava ai dimentichini che quelli che fanno la guerra sono gli stessi che fanno il terrorismo. O in quello analogo milanese del Comitato contro la guerra. Nessun dubbio, anche, sulla sintonia tra Roma, Sigonella e Vicenza, per  una piattaforma che diceva pane al pane e vino al vino, facendo nomi e cognomi. Come, va detto, li faceva anche lo spezzone degli USB in testa al corteo.
 
Già, perché nomi e cognomi sono quelli la cui assenza è pervicacemente e saggiamente coltivata da pacifisti e non-violenti (e lo dico esonerando alcuni miei amici pacifisti che con me hanno vissuto l’Iraq, la Serbia, la Libia, la Siria e ne hanno tratto introspezioni ed estrospezioni ben più mature dei loro affini rimasti al calduccio. Penso a Marinella, penso a Enzo). Che lo sappiano o no, la non-violenza e certo pacifismo applicati indistintamente a qualsiasi situazione, consciamente o inconsciamente, garantiscono sicurezza personale rispetto al monopolio statale e imperiale della violenza. Monopolio nel cui statuto sta l’eliminazione giuridica e, se necessario, anche fisica, di chi lo contesta. Ben sapendo questo, Bertinotti, da rivoluzionario scassa-sistema, si è addirittura arrampicato fino alla terza carica dello Stato installandosi tra i padri nobili della Repubblica  mafio-massonico-pontificia-atlantica.
 
Anonimizzare, livellare ogni cosa e sistemare tutti sullo stesso banco degli imputati, assimilare vittime a carnefici. E’ il regalo dei né-né all’imperialismo e ai violenti per scelta. E’ la coltellata alla schiena dei violenti per necessità. E’ una tecnica che ti evita fastidi, visto che entrambi le parti in conflitto si consolano del fatto che hai incriminato anche l’altra. Non sei un nemico assoluto. Sei compatibile. Noi siamo potenti, i più potenti, ci possiamo permettere che ci critichi. Basta che non ti schieri. Criticando il nostro nemico ci dai una mano, più di quanto non ci danneggi. Tanto più se non fai nomi.
 
Dire solo “pace”, punto, vuol dire certamente niente bombe e botte. Ma evita di dire anche giustizia, no a sanzioni (chi ha mai dimostrato contro le sanzioni all’Iran?), destabilizzazioni, sabotaggi, rivoluzioni colorate, quinte colonne all’insegna dei “diritti umani”, mestatori come Amnesty e HRW. Evita soprattutto di schierarsi da una parte, quella che ha ragione, quella aggredita. E lo evita reggendo la coda a coloro che ne demonizzano i leader, senza riguardi alla volontà popolare, alle condizioni storiche e culturali, agli stati di necessità. Son cose che decidiamo noi. Dire solo pace e non dire “fuori dalla Nato” è come compiangere i rifugiati senza menzionare chi sta spopolando intenzionalmente la loro terra.
 
AssassiNATO
Dire Nato vuol dire Obama, Renzi, Clinton, Bush, Reagan, Nixon e giù giù fino al 1949, quando agli europei stremati, dopo lo zuccherino del Piano Marshall, si impose il collare del Patto Atlantico. Dire Nato non platonicamente comporta stare con chi di Nato soffre e muore. Compresi noi. Qualcuno dei miei coetanei, oltre a storici “revisionisti”, si ricorderà di quando nelle strade di tutto il mondo risuonava: “Vietcong vince perché spara”, “Giap Giap Giap –Ho Chi Minh”, “Fe fe fe –Fedayin” , “Patria o muerte”. Eravamo contro la Nato e, di conseguenza, con l’Irlanda del Nord, il Vietnam, Cuba, Palestina, l’Algeria. Eravamo schierati. Oggi noi altri che osiamo dirci a fianco della Siria di Assad, della Libia di Gheddafi, della Russia di Putin, del Venezuela di Chavez-Maduro, ci muoviamo in un clima di rampogne e dissociazioni. I non-violenti e diritto-umanisti prendono le distanze. Distanze misurate col metro del menzognificio imperialista. E dunque dalla Nato.
La non-violenza, quando non è la mannaia, avvolta nel velluto, che disarma chi si difende da Golìa, è spesso il riflesso piccolo-borghese, come usava dire, della paura per l’ego. Chi sta col “nemico”, con la parte “sbagliata”, si sa, rischia discredito, vituperio, la libertà d’espressione,  l’ostracismo, a volte la libertà fisica e, se capita, la pelle. Ma nella non-violenza ci può essere anche la paura dell’ego, nella sua componente Mr.Hyde. Se ne ha un’idea quando traspare nella violenza degli anatemi lanciati contro chi non-violento non è. Alla resa dei conti, saranno costoro a doversi chiedere in che modo abbiano aiutato o ostacolato una marcia che ha in fondo la fine dell’umanità.
 
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MANIFESTAZIONI: CHI SFILA, CHI MARCIA, CHI CI MARCIAultima modifica: 2016-01-22T13:17:53+01:00da davi-luciano
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